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  • N.3 - Luglio-Settembre
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  • Legislazione e Giurisprudenza
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Corte Costituzionale

Massime e sentenze tratte dal sito www.cortecostituzionale.it

Impiego pubblico - Procedimento disciplinare a carico di agente di P.S. - Obbligo dell’incolpato di avvalersi esclusivamente di un difensore appartenente all’amministrazione della P.S. - Ingiustificato deteriore trattamento degli agenti di P.S. rispetto ai magistrati, a seguito della sentenza della corte n. 497/2000 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma di analogo contenuto riguardante i magistrati stessi.

Corte Costituzionale, sentenza 19 maggio 2008, n. 182 (c.c. 16 aprile 2008), Pres. Bile, Rel. Cassese.

La decisione del legislatore di consentire che l’accusato ricorra ad un difensore, limitando, in considerazione della funzione svolta, la sua scelta ai dipendenti della stessa amministrazione, non può considerarsi manifestamente irragionevole, poiché il diritto di difesa non ha una applicazione piena nell’ambito dei procedimenti amministrativi. Si deve ritenere sufficientemente garantita la posizione dell’inquisito al quale è consentita la partecipazione al procedimento e la possibilità di difendere le proprie ragioni (1).

(1)Si legge quanto appresso in sentenza:
««Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), promosso con ordinanza del 2 aprile 2007 dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia - sezione staccata di Catania sul ricorso proposto da R.N. nei confronti del Ministero dell’Interno ed altro, iscritta al n. 756 del registro ordinanze del 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2007.
1. - Nel corso di un giudizio introdotto da un dipendente dell’amministrazione di pubblica sicurezza per l’annullamento del decreto n. 333-D/0166145 del 15 dicembre 2000, con cui il capo della polizia - direttore generale del Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno - ha disposto la sua destituzione, a decorrere dal 28 settembre 2000, il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia - sezione staccata di Catania, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 2, del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti).
La norma impugnata prevede che, nel corso del procedimento dinanzi al Consiglio di disciplina, «Il segretario, appena terminata la prima riunione, notifica per iscritto all’inquisito che dovrà presentarsi al consiglio di disciplina nel giorno e nell’ora fissati, avvertendolo che ha facoltà di prendere visione degli atti dell’inchiesta o di chiederne copia entro dieci giorni e di farsi assistere da un difensore appartenente all’Amministrazione della pubblica sicurezza, comunicandone il nominativo entro tre giorni; lo avverte inoltre che, se non si presenterà, né darà notizia di essere legittimamente impedito, si procederà in sua assenza».
Il Tribunale rimettente denuncia la norma nella parte in cui consente al dipendente dell’amministrazione di pubblica sicurezza, sottoposto a procedimento disciplinare, di essere assistito esclusivamente da un difensore appartenente all’amministrazione medesima.
Il Tribunale dà conto che il procedimento disciplinare a carico del ricorrente è stato promosso a seguito della sentenza di condanna del Tribunale di Agrigento che lo ha riconosciuto responsabile del reato di falso, previsto dall’art. 479 del codice penale, per aver redatto una falsa relazione di servizio, che, successivamente, la condanna è stata confermata dalla Corte d’appello di Palermo e che il ricorso per cassazione avverso quest’ultima decisione è stato dichiarato inammissibile.
Il Tribunale rimettente riporta le numerose censure mosse dal ricorrente nel giudizio principale avverso il decreto disciplinare impugnato e riferisce che l’amministrazione si è costituita in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso.
In punto di non manifesta infondatezza della questione, il Tribunale ritiene che la norma impugnata, oltre a violare l’art. 3 Cost., «sarebbe incompatibile con il pieno esercizio del diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24 Cost. che lo estende alla garanzia dell’assistenza tecnica che può, tipicamente e professionalmente, essere assicurata da un avvocato del libero Foro oltre che da un dipendente della P.A.».
Al riguardo, il Tribunale rammenta che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 497 del 2000, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 34 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura) che, al pari della norma oggetto di censura, imponeva all’incolpato di farsi assistere soltanto da un difensore appartenente alla propria amministrazione e che, pertanto, le motivazioni addotte allora dalla Corte costituzionale possono essere «sovrapponibili» per la decisione del caso in esame. Richiama, in proposito, quanto dalla Corte costituzionale precisato nella citata pronuncia in ordine alla «pienezza della tutela paragiurisdizionale» che - secondo il Tribunale rimettente - sarebbe funzionale al corretto e regolare svolgimento delle funzioni dell’amministrazione di pubblica sicurezza e al suo prestigio.
Il Tribunale ritiene, inoltre, la norma impugnata illegittima tenuto conto che, da un lato, l’art. 16 del decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 449 (Determinazione delle sanzioni disciplinari per il personale del Corpo di polizia penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi procedimenti, a norma dell’art. 21, comma 1, della legge 15 dicembre 1990, n. 395), prevede, per il personale appartenente al Corpo della polizia penitenziaria, sottoposto a procedimento disciplinare, la possibilità che lo stesso si possa fare assistere anche da un avvocato e che, dall’altro, l’art. 55, comma 5, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), con riguardo al personale del settore del pubblico impiego contrattualizzato, non pone limiti alla nomina di un difensore.
Infine, il Tribunale rimettente, in punto di rilevanza, osserva che la questione di costituzionalità «va ritenuta rilevante per la definizione del presente giudizio […] nei termini di cui in motivazione».
2. - è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.
In via preliminare, la difesa erariale eccepisce l’insufficienza della motivazione dell’ordinanza di remissione in ordine alla rilevanza della questione e, nel merito, sostiene l’infondatezza della questione proposta, con riferimento al principio di eguaglianza, quanto al termine di paragone costituito dal procedimento disciplinare dei magistrati (art. 34 del regio decreto legislativo n. 511 del 1946), attesa la diversità tra i due procedimenti disciplinari posti in comparazione e considerato il peculiare carattere giurisdizionale di quello relativo ai magistrati (sentenza n. 497 del 2000).
La difesa erariale sostiene peraltro l’infondatezza della questione, con riferimento all’asserita violazione dell’art. 3 Cost., anche quanto alle altre due categorie indicate dal rimettente, stante la diversità delle discipline dei procedimenti poste a confronto.
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 24 Cost., la difesa erariale esclude che la mancanza nella norma denunciata di una previsione esplicita della possibilità di avvalersi dell’assistenza di un avvocato possa costituire di per sé motivo di illegittimità costituzionale per violazione del principio di difesa, considerato che la garanzia sancita dall’art. 24 Cost. si riferisce «al procedimento giurisdizionale» (sentenze nn. 122 e 32 del 1974). Richiama in proposito il costante orientamento della Corte costituzionale secondo cui «l’esercizio della funzione disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni, si esprime con modalità diverse, in conseguenza dell’ampia discrezionalità legislativa in materia» (sentenze n. 351 del 1989 e nn. 202 e 119 del 1995).
Conclude l’Avvocatura sostenendo che, nel caso in esame, il diritto di difesa è comunque assicurato in quanto al dipendente dell’amministrazione di pubblica sicurezza, sottoposto a procedimento disciplinare, la norma non impedisce una piena ed efficace possibilità di contraddittorio, essendo consentito l’accesso agli atti ed essendo prevista la facoltà di depositare, nel giorno fissato per la trattazione orale, una memoria scritta, con la possibilità di produrre anche nuovi elementi di prova. Del resto, ribadisce l’Avvocatura generale dello Stato, l’interessato può esperire i mezzi di tutela giurisdizionale previsti dalla legge avverso il provvedimento disciplinare adottato dall’amministrazione.

Considerato in diritto


1. - Il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia - sezione staccata di Catania, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 2, del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), per violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui consente al dipendente dell’amministrazione di pubblica sicurezza, sottoposto a procedimento disciplinare, di essere assistito esclusivamente da un difensore appartenente all’amministrazione medesima.
2. - In via preliminare, va disattesa l’eccezione di inammissibilità prospettata dalla difesa erariale atteso che il Tribunale rimettente ha indicato in modo sufficiente le ragioni per le quali ritiene di dover fare applicazione della norma censurata nella fattispecie oggetto del giudizio principale.
3. - La questione non è fondata in relazione agli artt. 24 e 3 della Costituzione.
La Corte ha affermato che la garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 24 Cost.) è limitata al procedimento giurisdizionale e non può, quindi, essere invocata in materia di procedimento disciplinare che, viceversa, ha natura amministrativa e sfocia in un provvedimento non giurisdizionale (sentenze n. 289 del 1992 e nn. 122 e 32 del 1974).
Ha, tuttavia, sottolineato che l’art. 24 Cost. se indubbiamente si dispiega nella pienezza del suo valore prescrittivo solo con riferimento ai procedimenti giurisdizionali, non manca tuttavia di riflettersi in maniera più attenuata sui procedimenti amministrativi, in relazione ai quali, in compenso, si impongono al più alto grado le garanzie di imparzialità e di trasparenza che circondano l’agire amministrativo (sentenze n. 460 del 2000 e n. 505 del 1995).
Un procedimento disciplinare che, come quello in esame, può concludersi con la destituzione, tocca le condizioni di vita della persona, incidendo sulla sua sfera lavorativa, e richiede perciò il rispetto di garanzie procedurali per la contestazione degli addebiti e per la partecipazione dell’interessato al procedimento.
In tale ambito, secondo i principi che ispirano la disciplina del «patrimonio costituzionale comune» relativo al procedimento amministrativo (sentenza n. 104 del 2006), desumibili dagli obblighi internazionali, dall’ordinamento comunitario e dalla legislazione nazionale (art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, recante «Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952», art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, nonché la legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente «Nuove norme sul procedimento amministrativo»), vanno garantiti all’interessato alcuni essenziali strumenti di difesa, quali la conoscenza degli atti che lo riguardano, la partecipazione alla formazione dei medesimi e la facoltà di contestarne il fondamento e di difendersi dagli addebiti (sentenze n. 460 del 2000 e nn. 505 e 126 del 1995). Nello stesso senso, secondo l’interpretazione della Corte di giustizia delle Comunità europee, il diritto di difesa «impone che i destinatari di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro interessi siano messi in condizione di far conoscere utilmente il loro punto di vista» (Corte di giustizia, sentenza 24 ottobre 1996, C-32/95 P., Commissione Comunità europea c. Lisrestal).
Con particolare riferimento al procedimento disciplinare relativo ai dipendenti delle forze armate, questa Corte ha ribadito che «deve essere salvaguardata una possibilità di contraddittorio che garantisca il nucleo essenziale di valori inerenti ai diritti inviolabili della persona […] quando possono derivare per essa sanzioni che incidono su beni, quale il mantenimento del rapporto di servizio o di lavoro, che hanno rilievo costituzionale» (sentenza n. 356 del 1995).
Da quanto osservato si evince che il diritto di difesa non ha una applicazione piena, nell’ambito dei procedimenti amministrativi. Donde consegue che non possa considerarsi manifestamente irragionevole la decisione del legislatore di consentire che l’accusato ricorra ad un difensore, ma di limitare, in considerazione della funzione svolta (tutela dell’ordine pubblico), la sua scelta ai dipendenti della stessa amministrazione.
Pertanto, la mancata previsione, nella norma censurata, della possibilità di nominare quale difensore un avvocato, «anche se il legislatore potrebbe nella sua discrezionalità prevederla seguendo un modello di più elevata garanzia» (sentenza n. 356 del 1995), non viola né il diritto di difesa, né il principio di ragionevolezza, considerato che la stessa norma consente all’inquisito di partecipare al procedimento e di difendere le proprie ragioni.
3.2. - Neppure risulta violato l’art. 3 Cost. sotto il profilo della disparità di trattamento della categoria dei dipendenti dell’amministrazione di pubblica sicurezza rispetto alle tre categorie evocate in comparazione.
In premessa va ricordato che «l’esercizio della funzione disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni si esprime con modalità diverse che caratterizzano i relativi procedimenti a volte come amministrativi, altre volte come giurisdizionali, […] in rispondenza a scelte del legislatore, la cui discrezionalità in materia di responsabilità disciplinare spazia entro un ambito molto ampio» (sentenza n. 145 del 1976).
In primo luogo, a differenza di quanto sostiene il giudice rimettente, le argomentazioni della Corte costituzionale formulate nella sentenza n. 497 del 2000 in relazione alla disciplina del procedimento a carico dei magistrati incolpati, prevista dall’art. 34 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), non sono affatto «sovrapponibili» alla decisione della questione in esame. Secondo quanto più volte affermato da questa Corte, tale procedimento «si svolge secondo moduli giurisdizionali» (sentenza n. 145 del 1976) in base al principio costituzionale di garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura sancito dall’art. 101 della Costituzione. Quindi, esso non è comparabile con il procedimento disciplinare degli altri settori della pubblica amministrazione (sentenza n. 289 del 1992).
In secondo luogo, la norma censurata non è comparabile né con la disciplina del procedimento a carico degli impiegati civili dello Stato prevista dall’art. 55, comma 5, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), né con quella prevista per il personale del Corpo di polizia penitenziaria dall’art. 16 del decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 449 (Determinazione delle sanzioni disciplinari per il personale del Corpo di polizia penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi procedimenti, a norma dell’art. 21, comma 1, della legge 15 dicembre 1990, n. 395), attesa la disomogeneità delle categorie poste a confronto, caratterizzate da assetti ordinamentali molto diversi.


per questi motivi
La Corte Costituzionale


dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 2, del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), sollevata, con riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia - sezione staccata di Catania, con l’ordinanza indicata in epigrafe»».


Impiego pubblico - Trasferimento d’autorità del personale delle Forze armate e delle forze di polizia presso una nuova sede di servizio - Previsione legislativa del diritto del coniuge, che conviva con il soggetto trasferito e che sia altresì dipendente di una delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d. lgs. n. 165 del 2001, ad essere impiegato presso l’amministrazione di appartenenza o, per comando o distacco, presso altre amministrazioni nella sede di servizio del coniuge o, in mancanza, nella sede più vicina.

Corte Costituzionale, sentenza 183 del 19-30 maggio 2008 (c.c. 7 maggio 2008). Pres. Bile, Rel. Cassese.

La finalità dell’istituto del ricongiungimento del coniuge di militare trasferito è di tener conto contemporaneamente di due diverse esigenze: da un lato, quella del buon andamento (art. 97 Cost.) dell’amministrazione militare, la quale richiede un regime di più accentuata mobilità del rispettivo personale; dall’altro lato, l’esigenza di tutela dell’unità familiare (art. 29, secondo comma, Cost.), che, in mancanza di tale istituto, per il militare e la sua famiglia risulterebbe compromessa, proprio a causa del particolare regime di mobilità che ne connota lo status. Il ricongiungimento è, dunque, diretto a rendere effettivo il diritto all’unità della famiglia, che, come questa Corte ha riconosciuto, si esprime nella garanzia della convivenza del nucleo familiare e costituisce espressione di un diritto fondamentale della persona umana (sentenze n. 113 del 1998 e n. 28 del 1995). Tale valore costituzionale può giustificare una parziale compressione delle esigenze di alcune amministrazioni (nella specie, quelle di volta in volta tenute a concedere il comando o distacco di propri dipendenti per consentirne il ricongiungimento con il coniuge), purché nell’ambito di un ragionevole bilanciamento dei diversi valori contrapposti, operato dal legislatore (1).

(1) Si legge quanto appresso nella sentenza:
««Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge 28 luglio 1999, n. 266 (Delega al Governo per il riordino delle carriere diplomatica e prefettizia, nonché disposizioni per il restante personale del Ministero degli affari esteri, per il personale militare del Ministero della difesa, per il personale dell’Amministrazione penitenziaria e per il personale del Consiglio superiore della magistratura), promosso con ordinanza del 26 aprile 2007 dal Tribunale di Treviso nel procedimento civile vertente tra Ferrara Michelina e l’Istituto “Cesana Melanotti” di Vittorio Veneto, iscritta al n. 824 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2008.
1. - Il Tribunale di Treviso in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 26 aprile 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge 28 luglio 1999, n. 266 (Delega al Governo per il riordino delle carriere diplomatica e prefettizia, nonché disposizioni per il restante personale del Ministero degli affari esteri, per il personale militare del Ministero della difesa, per il personale dell’Amministrazione penitenziaria e per il personale del Consiglio superiore della magistratura), per violazione dell’art. 97 della Costituzione.
La norma impugnata stabilisce che «Il coniuge convivente del personale in servizio permanente delle forze armate, compresa l’Arma dei carabinieri, del Corpo della Guardia di finanza e delle Forze di polizia ad ordinamento civile e degli ufficiali e sottufficiali piloti di complemento in ferma dodecennale di cui alla legge 19 maggio 1986, n. 224, nonché del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, trasferiti d’autorità da una ad altra sede di servizio, che sia impiegato in una delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, ha diritto, all’atto del trasferimento o dell’elezione di domicilio nel territorio nazionale, ad essere impiegato presso l’amministrazione di appartenenza o, per comando o distacco, presso altre amministrazioni nella sede di servizio del coniuge o, in mancanza, nella sede più vicina».
1.1. - Il rimettente riferisce che il giudizio principale ha tratto origine dal ricorso di una dipendente di un Istituto pubblico di assistenza e beneficienza (IPAB), coniugata e convivente con un militare di carriera trasferito d’autorità ad altra sede di servizio. La ricorrente del giudizio a quo, a fronte del rifiuto dell’amministrazione di appartenenza di accogliere la sua domanda di essere comandata presso la Unità sanitaria locale di Civitavecchia, luogo in cui si trova la nuova sede di servizio del coniuge, ha dapprima ottenuto dal giudice un provvedimento cautelare di condanna dell’Istituto a disporre il comando e, con successivo ricorso, ha chiesto la conferma della misura cautelare nonché il risarcimento dei danni, per avere l’Istituto, prima dell’ordinanza del giudice, immotivatamente negato il diritto previsto dalla disposizione impugnata.
1.2. - Ad avviso del giudice rimettente la disposizione impugnata attribuisce al dipendente pubblico, coniuge di militare trasferito di autorità, un vero e proprio diritto soggettivo al ricongiungimento, per realizzare il quale il legislatore ha individuato diverse modalità possibili: il trasferimento, che «può avvenire d’ufficio, se attuato nell’interesse dell’amministrazione, o su domanda, se nell’interesse del dipendente, ed ha carattere di definitività»; il comando, il quale, «al pari del distacco che nasce da prassi amministrativa», «ha natura eccezionale e temporanea», «è attuato nell’interesse dell’amministrazione» e prevede che il dipendente resti nella pianta organica dell’amministrazione di provenienza. Secondo il Tribunale di Treviso, gli istituti del comando e del distacco vengono, in base alla norma impugnata, eccezionalmente utilizzati nell’interesse del dipendente, anziché, come di regola avviene, in quello dell’amministrazione. Tale utilizzo «anomalo», e «senza alcun limite», secondo il rimettente, comprimerebbe irragionevolmente gli interessi dell’amministrazione di provenienza, che sarebbe costretta, per sostituire la persona comandata, ad assumere personale temporaneo per far fronte ad esigenze permanenti, dovendo altresì retribuire la persona comandata in aggiunta a quella che la sostituisce e sopportare un «divario permanente» fra la propria dotazione organica e il personale effettivamente in servizio. Il giudice rimettente ritiene, in punto di non manifesta infondatezza, che un «equo contemperamento degli interessi in gioco» si realizzerebbe solo utilizzando esclusivamente l’istituto del trasferimento ai fini del ricongiungimento, oppure prevedendo la trasformazione del comando in trasferimento definitivo dopo un ragionevole lasso di tempo. Pertanto, il Tribunale di Treviso chiede la dichiarazione di illegittimità costituzionale, per contrasto con il principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., della norma impugnata, «nella parte in cui prevede il diritto, senza limite alcuno, del coniuge convivente del personale delle forze armate e di polizia, trasferiti d’autorità da una ad altra sede di servizio, che sia impiegato in una amministrazione pubblica ad essere impiegato per comando o distacco, presso altre amministrazioni nella sede di servizio del coniuge o, in mancanza, nella sede più vicina».
Ad avviso del giudice rimettente la questione è, infine, rilevante, alla luce delle «circostanze di fatto e [del]le argomentazioni in diritto suesposte».
2. - è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, osservando che la questione di legittimità è inammissibile e, comunque, non fondata.
L’Avvocatura generale dello Stato ritiene la questione inammissibile eccependo, in primo luogo, il difetto di motivazione sulla rilevanza, atteso che il giudice rimettente non avrebbe sviluppato alcuna argomentazione per dimostrare che le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza, tra cui l’ente da cui dipende la ricorrente del giudizio principale, rientrino nell’elenco tassativo di amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego), sostituito dall’art. 1 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), e, quindi, nell’ambito di applicazione della disposizione censurata. Né il rimettente avrebbe spiegato, secondo la difesa erariale, in quale modo il comando della dipendente arrechi un effettivo danno al datore di lavoro.
In secondo luogo, la difesa erariale eccepisce il difetto di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza, in ragione della mancata ricostruzione del quadro normativo da parte del giudice rimettente.
Infine, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la questione è inammissibile perché il giudice rimettente chiederebbe in realtà una pronuncia additiva, o comunque una modifica del regime del rapporto, che non è costituzionalmente «obbligata».
 Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene la questione non fondata, dovendo ritenersi che la norma impugnata realizzi un contemperamento non irragionevole fra diversi interessi legittimamente perseguiti dal legislatore. Secondo la difesa erariale la disposizione censurata, in particolare, per un verso, assicurerebbe una accentuata mobilità del personale militare, contribuendo al buon andamento di un settore fondamentale della pubblica amministrazione, come quello delle forze armate, e, per un altro verso, favorirebbe la ricongiunzione familiare, tutelando un altro fondamentale bene costituzionalmente garantito, come il diritto all’unità familiare.

Considerato in diritto


1. - Il Tribunale di Treviso, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge 28 luglio 1999, n. 266 (Delega al Governo per il riordino delle carriere diplomatica e prefettizia, nonché disposizioni per il restante personale del Ministero degli affari esteri, per il personale militare del Ministero della difesa, per il personale dell’Amministrazione penitenziaria e per il personale del Consiglio superiore della magistratura), con riferimento all’art. 97 della Costituzione, nella parte in cui prevede il diritto, senza limite alcuno, del coniuge convivente del personale delle forze armate e di polizia, trasferiti d’autorità da una ad altra sede di servizio, che sia impiegato in una amministrazione pubblica, ad essere impiegato, per comando o distacco, presso altre amministrazioni nella sede di servizio del coniuge o, in mancanza, nella sede più vicina.
2. - Vanno preliminarmente disattese le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa erariale.
Sotto il profilo della rilevanza, il giudice rimettente ha accertato la natura giuridica pubblica dell’istituzione da cui dipende la ricorrente del giudizio principale e ha adeguatamente descritto la fattispecie al suo esame, motivando sufficientemente in ordine alla rilevanza della questione sollevata, sia ai fini del giudizio relativo alla conferma del provvedimento cautelare di condanna dell’amministrazione a disporre il comando, sia ai fini del risarcimento del danno lamentato dalla ricorrente nel giudizio principale.
Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, malgrado l’incompleta ricostruzione del quadro normativo e convenzionale eccepita dalla difesa erariale, gli elementi indicati dal rimettente costituiscono una motivazione sufficiente a giustificare il dubbio di legittimità costituzionale prospettato.
Quanto, infine, alla formulazione del petitum, il rimettente, seppure con alcune ambiguità, non chiede alla Corte una pronuncia additiva non costituzionalmente obbligata, bensì domanda, anche in considerazione dell’assenza di un limite al diritto al ricongiungimento, previsto dalla disposizione legislativa censurata, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione stessa.
3. - La questione non è fondata.
La finalità dell’istituto del ricongiungimento del coniuge di militare trasferito, previsto dalla disposizione impugnata, è di tener conto contemporaneamente di due diverse esigenze: da un lato, quella del buon andamento (art. 97 Cost.) dell’amministrazione militare, la quale richiede un regime di più accentuata mobilità del rispettivo personale, per cui è previsto un «trasferimento d’autorità»; dall’altro lato, l’esigenza di tutela dell’unità familiare (art. 29, secondo comma, Cost.), che, in mancanza di tale istituto, per il militare e la sua famiglia risulterebbe compromessa, proprio a causa del particolare regime di mobilità che ne connota lo status.
Il ricongiungimento è, dunque, diretto a rendere effettivo il diritto all’unità della famiglia, che, come questa Corte ha riconosciuto, si esprime nella garanzia della convivenza del nucleo familiare e costituisce espressione di un diritto fondamentale della persona umana (sentenze n. 113 del 1998 e n. 28 del 1995). Tale valore costituzionale può giustificare una parziale compressione delle esigenze di alcune amministrazioni (nella specie, quelle di volta in volta tenute a concedere il comando o distacco di propri dipendenti per consentirne il ricongiungimento con il coniuge), purché nell’ambito di un ragionevole bilanciamento dei diversi valori contrapposti, operato dal legislatore.
Inoltre, la legittimità di una disposizione legislativa, rispetto al parametro dell’art. 97 della Costituzione, deve essere valutata tenendo conto dei suoi effetti sul buon andamento della pubblica amministrazione complessivamente intesa, non già di singole sue componenti, isolatamente considerate. Nel caso in esame, se è vero che l’istituto del ricongiungimento sottrae un dipendente ad un’amministrazione, è vero altresì che esso attenua i disagi provocati dalla mobilità del dipendente di un’altra amministrazione.
Infine, non può dirsi che il comando o distacco sia a tempo indeterminato. Esso, infatti, è collegato al trasferimento d’autorità del coniuge e dura finché questo permane.
In conclusione, ove si assuma una prospettiva più ampia di quella da cui il rimettente ha preso le mosse, che tenga conto sia del complesso dei valori costituzionali in considerazione, sia degli effetti che la norma produce sul buon andamento dell’amministrazione pubblica in generale, deve ritenersi che la scelta del legislatore, costituendo un bilanciamento non irragionevole delle esigenze e degli interessi che vengono in rilievo, non si ponga in contrasto con l’art. 97 della Costituzione sotto il profilo del buon andamento.

per questi motivi
La Corte Costituzionale


dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge 28 luglio 1999, n. 266 (Delega al Governo per il riordino delle carriere diplomatica e prefettizia, nonché disposizioni per il restante personale del Ministero degli affari esteri, per il personale militare del Ministero della difesa, per il personale dell’Amministrazione penitenziaria e per il personale del Consiglio superiore della magistratura), sollevata, con riferimento all’art. 97 della Costituzione, dal Tribunale di Treviso, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe»».


Reati e pene - Possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli - Configurazione quale reato di pericolo in rapporto alle condizioni soggettive del soggetto attivo.

Corte Costituzionale, sentenza 225 del 11 giugno 2008 (c.c. 21 maggio 2008). Pres. Bile, Rel. Flick.

L’ampia discrezionalità che va riconosciuta al legislatore nella configurazione delle fattispecie criminose, si estende anche alla scelta delle modalità di protezione penale dei singoli beni o interessi. Rientra, segnatamente, in detta sfera di discrezionalità l’opzione per forme di tutela avanzata, che colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo; nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva.
Tali soluzioni debbono misurarsi, nondimeno, con l’esigenza di rispetto del principio di necessaria offensività del reato (1).

(1) Si legge quanto appresso nella sentenza:
“nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale, promosso con ordinanza del 7 gennaio 2004 dalla Corte d’appello di Genova, nel procedimento penale a carico di A. M., iscritta al n. 277 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2007.
1. - Con l’ordinanza indicata in epigrafe, pervenuta alla Corte il 28 marzo 2007, la Corte d’appello di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale, che contempla la contravvenzione di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli.
La Corte rimettente premette di essere investita del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato previsto dalla norma denunciata, in quanto - essendo stata condannata per delitti determinati da motivi di lucro - veniva colta in possesso di un cacciavite con punta piatta della lunghezza di 14 centimetri, costituente strumento atto ad aprire e a sforzare serrature, senza giustificarne l’attuale destinazione.
Facendo propri gli argomenti svolti dalla difesa a sostegno dell’eccezione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice a quo muove dalla premessa che il reato in esame - definito come «di sospetto» - incrimini «fatti in sé stessi non lesivi del bene protetto ma tali da far presumere la commissione di reati». Il rimettente ricorda, altresì, come questa Corte abbia dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 707 e 708 cod. pen., nella parte in cui rendevano rilevanti, ai fini della configurabilità delle contravvenzioni da essi previste, condizioni personali quali la condanna per mendicità, l’ammonizione, la sottoposizione a misura di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta. Il giudice a quo rimarca, ancora, come la sentenza n. 370 del 1996 abbia dichiarato successivamente incostituzionale l’art. 708 cod. pen., per violazione dei principi di ragionevolezza e di tassatività, anche nel residuo riferimento ai soggetti precedentemente condannati per determinati reati; ritenendo invece conforme al principio di tassatività l’art. 707 cod. pen.: ciò, peraltro - ad avviso della Corte rimettente - senza considerare adeguatamente il principio di offensività. In ogni caso - soggiunge il giudice a quo - la sentenza n. 354 del 2002 avrebbe escluso, in relazione alla fattispecie contemplata dall’art. 688, secondo comma, cod. pen., che «lo status personale di condannato» possa «legittimare la sanzione penale».
Tanto premesso, la Corte d’appello di Genova ritiene che l’art. 707 cod. pen. si ponga in contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), incriminando «non […] il fatto in sé, ma […] elementi ad esso estranei attinenti alla persona», sulla base di una «presunzione di pericolosità» riguardante «il passato» e, al tempo stesso, «troppo generica».
La norma censurata farebbe discendere, per giunta, da una condanna «effetti da essa non previsti», individuando nel pregiudicato un potenziale autore di nuovi reati: e ciò in contrasto con la valenza rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), alla luce della quale il condannato andrebbe considerato, viceversa, socialmente recuperato e insuscettibile di «soffrire condizioni di iniquo sfavore».
La disposizione de qua delineerebbe, quindi, una responsabilità «per il modo di essere dell’autore», lesiva anche degli artt. 25 e 27, primo comma, Cost., che sanciscono i principi di offensività e della responsabilità per fatto proprio colpevole.
Un ulteriore profilo di violazione dell’art. 3 Cost. si connetterebbe alla disparità di trattamento riscontrabile tra coloro che hanno riportato una condanna definitiva per i reati indicati dalla norma incriminatrice e coloro che - pur avendo commesso identici fatti - non siano stati invece condannati, a causa dell’estinzione del reato per «amnistia, prescrizione, remissione di querela, oblazione, risarcimento del danno»; ovvero in ragione dell’improcedibilità dell’azione penale per mancanza di querela.
Risulterebbe violato anche il principio di tassatività (art. 25, secondo comma, Cost.), giacché i comportamenti incriminati - diversamente che per i reati in materia di armi - non sarebbero descritti in termini che delineino «un disvalore sottostante alla fattispecie legale».
La norma impugnata comprometterebbe, inoltre, il diritto di difesa (art. 24 Cost.), giacché - invertendo l’onere della prova - imporrebbe all’imputato di giustificare la destinazione o l’origine dei beni detenuti e, dunque, di dimostrare la propria innocenza: precludendo, così, anche l’esercizio della facoltà di «tacere nel processo».
Rimarrebbe lesa, di conseguenza, la «presunzione di innocenza» (recte, di non colpevolezza: art. 27, secondo comma, Cost.), in quanto la prova della destinazione criminosa degli oggetti verrebbe desunta, in via meramente presuntiva, da altri elementi (la condizione soggettiva e il possesso delle cose): ottica nella quale il fatto punito «non verrebbe più accertato in un regolare processo», con correlato vulnus anche del «principio di legalità».
Alla luce di tale complesso di rilievi - addotti dalla difesa e che la Corte rimettente condivide - sarebbe dunque necessario, ad avviso della Corte stessa, che il confine tra le ipotesi di reato e le misure volte ad affrontare la pericolosità sociale venga «meglio definito». In particolare, mentre misure di polizia e di sicurezza potrebbero risultare «compatibili con il sistema», di dubbia costituzionalità apparirebbe la previsione - rispetto a chi si trovi in determinate condizioni soggettive, sia pure derivanti da un precedente accertamento giudiziale - di un reato di pericolo come quello in esame, che punisce atti leciti per la generalità dei cittadini, senza neppure richiedere una esclusiva o almeno «strutturale» attitudine degli oggetti posseduti ad aprire o a sforzare serrature.
2. - Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
La difesa erariale rileva come i dubbi di costituzionalità prospettati dal giudice a quo siano già stati dichiarati infondati, o manifestamente infondati, tanto da questa Corte che dalla Corte di cassazione.
Alla luce delle affermazioni di questa Corte, andrebbe esclusa, in particolare, ogni violazione dell’art. 3 Cost., essendo ben diversa la situazione di chi - definitivamente condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro il patrimonio - abbia il possesso ingiustificato di arnesi atti ad aprire o a sforzare serrature, rispetto a quella di chi abbia quel possesso, ma non sia stato mai condannato per gli anzidetti reati.
Né potrebbe ipotizzarsi una violazione del principio di colpevolezza. Quest’ultimo esclude che un soggetto possa essere chiamato a rispondere di fatti che non può impedire, o in relazione ai quali non è in grado, senza la minima colpa, di ravvisare il dovere di evitarli; mentre, nella specie, il soggetto - che versa in una situazione di peculiare rilievo - potrebbe bene evitare la commissione del fatto incriminato (il possesso ingiustificato di grimaldelli od oggetti similari).
Ancor più evidente risulterebbe, poi, l’insussistenza della violazione del principio di tassatività, in quanto l’art. 707 cod. pen. punisce una condotta chiaramente delineata.
Non sarebbe violato nemmeno il principio di offensività, giacché il possesso ingiustificato degli arnesi di cui all’art. 707 cod. pen., da parte di chi versi nelle condizioni indicate nella norma incriminatrice, è comunemente avvertito come una situazione pericolosa per la società, meritevole di pena criminale: tanto che analogo reato non solo è stato sempre previsto dalle legislazioni unitarie e preunitarie, ma è stato ed è tuttora previsto anche dalle legislazioni penali degli altri Paesi europei.
Come puntualizzato dalla sentenza n. 265 del 2005 di questa Corte, la norma deve ritenersi volta a tutelare, di fronte a forme di esposizione a pericolo, un interesse penalmente rilevante, nel rispetto del principio dell’offensività in astratto: salva l’esigenza di una verifica particolarmente attenta dell’attualità e della concretezza di detto pericolo da parte del giudice chiamato a fare applicazione della norma, avuto riguardo, in specie, all’attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o a sforzare serrature e alle modalità di tempo e di luogo della condotta.
Egualmente insussistente risulterebbe - secondo l’Avvocatura generale dello Stato - la denunciata violazione del principio della finalità rieducativa della pena. A prescindere dal rilievo che tale finalità non potrebbe essere invocata per escludere la legittimità costituzionale di fattispecie contravvenzionali, l’art. 707 cod. pen. non punisce comunque i fatti per i quali vi è già stata condanna, ma uno specifico fatto nuovo, commesso da soggetto che - in base a particolari precedenti - apparirebbe potenzialmente pericoloso e che non potrebbe essere ritenuto recuperato solo per effetto della condanna o dell’espiazione della pena.
L’art. 707 cod. pen., d’altro canto, non richiederebbe affatto che l’imputato provi la liceità della destinazione della cosa posseduta, invertendo l’onere della prova: ma si limiterebbe a pretendere un’attendibile e circostanziata giustificazione, da valutare in concreto, secondo i principi della libertà delle prove e del libero convincimento. Non sarebbe ravvisabile, dunque, alcuna violazione né della presunzione di non colpevolezza, né del diritto di difesa, riguardato anche nel particolare aspetto della facoltà di non rispondere: giacché - come già affermato da questa Corte - se è pur vero che la giustificazione delle cose indicate nell’art. 707 cod. pen. implica che una risposta sia data, è altrettanto vero che la giustificazione è essa stessa un mezzo di difesa, alla quale l’interessato può liberamente rinunciare qualora ritenga che a fini difensivi sia preferibile il silenzio.

Considerato in diritto


1. - La Corte d’appello di Genova dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dell’art. 707 del codice penale, che delinea la contravvenzione di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli.
Ad avviso del giudice a quo, la norma denunciata risulterebbe lesiva, anzitutto, dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto sottoporrebbe a pena non il fatto in sé, ma una condizione personale - quella di condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio - sulla base di una presunzione di pericolosità riguardante il passato e, al tempo stesso, «troppo generica».
Individuando nel condannato un potenziale autore di nuovi reati, l’art. 707 cod. pen. si porrebbe in contrasto anche con la funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), alla luce della quale il condannato andrebbe considerato socialmente recuperato e insuscettibile di «soffrire condizioni di iniquo sfavore». Verrebbe così delineata una responsabilità «per il modo di essere dell’autore», lesiva dei principi di offensività e della responsabilità penale per fatto proprio colpevole, sanciti dagli artt. 25 e 27, primo comma, Cost.
L’art. 3 Cost. sarebbe compromesso anche in rapporto alla disparità di trattamento riscontrabile tra chi, per il precedente reato, ha riportato condanna definitiva e chi, a fronte della commissione di un identico fatto, non è stato invece condannato a causa dell’estinzione del reato o dell’improcedibilità dell’azione penale per mancanza di querela.
Risulterebbe violato, ancora, il principio di tassatività (art. 25, secondo comma, Cost.), giacché i comportamenti incriminati non verrebbero descritti in termini che delineino «un disvalore sottostante alla fattispecie legale».
La norma impugnata vulnererebbe, infine, il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), giacché - invertendo l’onere della prova - imporrebbe all’imputato di giustificare la destinazione dei beni detenuti, precludendogli, così, anche l’esercizio del diritto al silenzio.
2. - La questione non è fondata.
3. - L’ampia discrezionalità che - per costante giurisprudenza di questa Corte - va riconosciuta al legislatore nella configurazione delle fattispecie criminose, si estende anche alla scelta delle modalità di protezione penale dei singoli beni o interessi. Rientra, segnatamente, in detta sfera di discrezionalità l’opzione per forme di tutela avanzata, che colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo; nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva.
Tali soluzioni debbono misurarsi, nondimeno, con l’esigenza di rispetto del principio di necessaria offensività del reato: principio desumibile, in specie, dall’art. 25, secondo comma, Cost., in una lettura sistematica cui fa da sfondo «l’insieme dei valori connessi alla dignità umana» (sentenza n. 263 del 2000).
La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito in qual modo si atteggi, a tale riguardo, la ripartizione di competenze tra giudice costituzionale e giudice ordinario (sentenze n. 265 del 2005, n. 263 e n. 519 del 2000, n. 360 del 1995). Spetta, in specie, alla Corte - tramite lo strumento del sindacato di costituzionalità - procedere alla verifica dell’offensività «in astratto», acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo; esigenza che, nell’ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit (tra le altre, sentenza n. 333 del 1991).
Ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell’esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività «in concreto»). Esso - rimanendo impegnato ad una lettura “teleologicamente orientata” degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense - dovrà segnatamente evitare che l’area di operatività dell’incriminazione si espanda a condotte prive di un’apprezzabile potenzialità lesiva.
4. - Ciò premesso, questa Corte ha già avuto modo di chiarire come la previsione punitiva di cui all’art. 707 cod. pen. - nel testo risultante dopo la parziale declaratoria di illegittimità costituzionale operata dalla sentenza n. 14 del 1971 - non possa ritenersi contrastante con il principio di offensività «in astratto» (sentenza n. 265 del 2005).
Contrariamente a quanto assume il rimettente, la disposizione non prefigura una responsabilità «per il modo di essere dell’autore», in assenza di offesa per il bene protetto; ma mira a salvaguardare il patrimonio rispetto a situazioni di pericolo normativamente tipizzate: richiedendo, a tal fine, il concorso di tre distinti elementi. In primo luogo, una particolare qualità del soggetto attivo, che deve identificarsi in persona già condannata - in via definitiva - per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio. In secondo luogo, il possesso - nel quale detto soggetto deve essere «colto» - di oggetti idonei a vincere congegni posti a difesa della proprietà (chiavi alterate o contraffatte, chiavi genuine, strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature): possesso che - come reiteratamente rilevato da questa Corte - è esso stesso una condotta, o fa comunque seguito ad una condotta, con conseguente insussistenza di un vulnus al principio di materialità del reato (sentenze n. 265 del 2005, n. 236 del 1975 e n. 14 del 1971). In terzo luogo e da ultimo, l’incapacità del soggetto di giustificare - e, amplius, per quanto si dirà, l’impossibilità di desumere aliunde - l’attuale destinazione (lecita) dei predetti strumenti. In presenza di tali elementi, non può reputarsi, in termini generali, irrazionale e arbitraria la previsione - nella quale la fattispecie in esame rinviene pacificamente la propria ratio - che l’agente si accinga a commettere reati contro il patrimonio mediante violenza sulle cose (quali furti in abitazione o su autovetture).
Sarà, per il resto, compito del giudice ordinario evitare che - a fronte della descrizione, per certi versi, non particolarmente perspicua del fatto represso - la norma incriminatrice venga a colpire anche fatti concretamente privi di ogni connotato di pericolosità. A tal fine, il giudice dovrà procedere ad un vaglio accurato sia dell’attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o a sforzare serrature, sia delle modalità e delle circostanze di tempo e di luogo con cui gli stessi sono detenuti. In particolare, quanto meno univoca ed esclusiva risulti la destinazione dello strumento allo scasso - come nel caso in cui si discuta di oggetti di uso comune, suscettibili di impieghi diversi e leciti - tanto più significative dovranno risultare le modalità e le circostanze spazio-temporali della detenzione, nella direzione dell’esistenza di un attuale e concreto pericolo di commissione di delitti contro il patrimonio (sentenza n. 265 del 2005).
Al riguardo, non va del resto dimenticato che la norma incriminatrice non punisce chi «possiede», ma chi «è colto in possesso» degli strumenti in questione: formula, questa, opportunamente valorizzabile al fine di escludere la rilevanza penale di situazioni di generica disponibilità, a fronte delle quali la possibilità di un impiego dell’oggetto per finalità criminose appaia remota e meramente congetturale.
5. - In simile prospettiva, non è quindi riscontrabile la violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), denunciata dal giudice a quo sotto il profilo che la norma incriminatrice risulterebbe basata su una presunzione di pericolosità riguardante «il passato» e «troppo generica».
A fronte di una condotta che deve già presentare, nei termini dianzi evidenziati, una potenziale proiezione verso l’offesa al patrimonio, non può considerarsi irragionevole che il legislatore tenga conto delle precedenti condanne riportate dal soggetto attivo per reati aggressivi del medesimo bene, o comunque connotati da finalità di lucro, elevandole ad elemento di selezione dei fatti punibili, in quanto idonee a rendere maggiormente concreta detta proiezione offensiva (sentenza n. 236 del 1975 e ordinanza n. 146 del 1977; nonché sentenza n. 370 del 1996).
6. - Né, d’altra parte, tale soluzione legislativa si pone in contrasto con la finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.): finalità che imporrebbe - secondo il giudice a quo - di considerare il condannato «socialmente recuperato».
Al legislatore non è inibito, infatti, prevedere che alla condanna, anche se seguita dall’espiazione della pena, residuino «effetti penali», al cui novero va ascritto quello in esame. Né si può ritenere che, in tale ottica, la condanna per determinati reati si trasformi in un “marchio indelebile”, che pone il condannato in una posizione di perenne sfavore rispetto alla generalità dei cittadini, senza alcuna possibilità di emenda. Per communis opinio, difatti, il condannato cessa di rientrare tra i possibili autori della contravvenzione di cui all’art. 707 cod. pen. ove abbia ottenuto la riabilitazione, che estingue gli effetti penali della condanna (art. 178 cod. pen.).
7. - Priva di consistenza appare l’ulteriore censura di violazione del principio di eguaglianza, formulata dal giudice rimettente in rapporto alla disparità di trattamento che si verificherebbe tra coloro i quali hanno riportato una condanna definitiva per i reati indicati dalla norma incriminatrice censurata, e coloro che - pur avendo commesso un identico fatto - non sono stati invece condannati, a causa dell’estinzione del reato o della improcedibilità dell’azione penale per mancanza di querela.
Le situazioni poste a confronto risultano, all’evidenza, non comparabili: giacché nel caso del prosciolto (anche se non nel merito) è comunque mancato un accertamento definitivo della responsabilità per il fatto anteriore.
8. - Quanto alla lamentata violazione del principio di determinatezza dell’illecito penale (art. 25, secondo comma, Cost.), questa Corte ha già escluso che detto principio resti vulnerato dalla locuzione descrittiva dell’oggetto materiale del reato, la quale fa perno sull’attitudine funzionale degli strumenti posseduti ad aprire o a sforzare serrature: attitudine la cui verifica non eccede il normale compito ermeneutico istituzionalmente demandato al giudice (ordinanza n. 36 del 1990).
Ma analoga conclusione si impone anche con riguardo alle modalità e alle circostanze spazio-temporali della detenzione, la cui analisi - alla luce di quanto dianzi evidenziato - si rende necessaria ai fini della verifica della concretezza e dell’attualità del pericolo per il patrimonio, specie quando si tratti di oggetti di uso comune e a destinazione “aspecifica” (si veda, in rapporto alla similare problematica postasi con riferimento alla contravvenzione di possesso ingiustificato di strumenti atti ad offendere, di cui all’art. 4, secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, la sentenza n. 79 del 1982).
9. - Tanto meno, poi, può ritenersi compromesso il principio della responsabilità per fatto proprio colpevole (art. 27, primo comma, Cost.), il quale esige che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente, nella forma del dolo o della colpa, e al medesimo «rimproverabili» (sentenze n. 322 del 2007 e n. 1085 del 1988).
Nella specie, il presupposto soggettivo da cui dipende l’applicazione della norma incriminatrice è costituito da un dato certo e pienamente conoscibile dal soggetto attivo (la precedente condanna irrevocabile). Detto soggetto è posto quindi in condizione di evitare la realizzazione dell’elemento oggettivo del reato, in quanto l’acquisizione del possesso degli strumenti atti allo scasso avviene in un momento in cui la legge - a fronte della precedente condanna irrevocabile - impone all’agente di adottare particolari cautele (al riguardo, si veda la sentenza n. 48 del 1994). Mentre, per il resto, è pacifico che, ai fini dell’insorgenza della responsabilità penale, l’acquisto della disponibilità materiale del bene debba essere cosciente e volontario: se il possesso è inconsapevole, la contravvenzione non si configura.
10. - Questa Corte ha in più occasioni escluso, ancora, i dedotti vulnera alla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.) e al diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), nel particolare aspetto del diritto al silenzio, legati alla circostanza che la norma impugnata stabilirebbe una inversione dell’onere della prova in danno dell’imputato (sentenza n. 236 del 1975; ordinanze n. 36 del 1990 e n. 146 del 1977).
In effetti, al di là della formulazione letterale della previsione punitiva («dei quali non giustifichi l’attuale destinazione»), ciò che la medesima prefigura è solo un onere di allegazione, da parte dell’imputato, delle circostanze da cui possa desumersi la destinazione lecita degli oggetti, che non risultino conosciute o conoscibili dal giudicante. Quest’ultimo - alla stregua di una interpretazione ormai generalmente recepita - potrà trarre comunque aliunde il convincimento in ordine alla liceità degli obiettivi di impiego degli strumenti, ove l’imputato abbia scelto la via del silenzio.
Si tratta di una situazione non dissimile, nella sostanza, da quella originata dalle numerose norme incriminatrici, presenti nell’ordinamento, che puniscono il compimento di determinate azioni od omissioni «senza giustificato motivo» (quale, ad esempio, la già ricordata disposizione incriminatrice del porto di strumenti atti a recare offesa alla persona: disposizione che prefigura una tutela in forma preventiva della vita e dell’incolumità fisica delle persone strutturalmente analoga, mutatis mutandis, a quella apprestata dall’art. 707 cod. pen. in rapporto al patrimonio; salvo a non richiedere - in correlazione al più elevato rango dell’interesse protetto - una specifica caratterizzazione del soggetto attivo).
Nell’anzidetta clausola - quella dell’assenza di giustificato motivo - non può infatti scorgersi una inversione dell’onere della prova, lesiva dei parametri costituzionali evocati (sentenza n. 5 del 2004).
11. - Priva di specifica motivazione risulta, da ultimo, l’allegata violazione dell’art. 13 Cost.

per questi motivi
La Corte Costituzionale



dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Genova con l’ordinanza indicata in epigrafe»».