Media, violenza e socializzazione familiare

1. Premessa

La realtà che oggigiorno si presenta ad un giovane è sicuramente quella di un mondo racchiuso entro una rete globale di scambi comunicativi, in cui risulta impossibile ed impensabile vivere in una sorta di isolamento mass-mediatico. Le scuole a tutti i livelli prevedono corsi di informatica, si “naviga” in internet per lavoro e per piacere nel tempo libero, ogni attività, sia essa pubblica o privata, ha un suo sito web. Siamo tutti “immersi nella rete”.
Soprattutto loro, i giovani e giovanissimi, sono affascinati da questi moderni mezzi che hanno rivoluzionato gli stili di vita e che, in pochi “clic”, ti mettono in contatto con il mondo intero. Ma qual è l’altra faccia della medaglia, il lato oscuro, lo scotto da pagare per tutto questo?
Da una parte il rapporto con i mezzi di comunicazione può trasformarsi in dipendenza, dall’altra mette in contatto i giovani con la triste realtà delle violenze o con “amici di chat” dall’identità ignota.
Internet quale mercato globale perché è esteso a tutto il mondo (o quasi) e globale perché si compra e vende di tutto.
Di fronte a questa mercificazione del mondo non possiamo rimanere fermi e guardare; come diceva Kant, non bisogna arrivare mai ad “usare l’uomo come oggetto”.
C’è quindi la necessità di un uso corretto dei media che possono essere tanto indispensabili quanto pericolosi.

2. Media: messaggi da decodificare

L’immagine è un messaggio, cioè una sequenza di segni, suoni, forme, parole, con la quale si intende comunicare qualcosa e, perciò, si delinea come un certo modo di considerare la realtà, non disegnandone una copia, ma elaborandone una rap-presentazione.
L’immagine è un messaggio affidato a una pluralità di segni non riconducibili ad un solo codice: ad esempio, l’immagine filmica o televisiva è, nel contempo, parola, immagine, suono. Per rendere comprensibile l’immagine e quindi assumerla come propria, si deve così essere in grado di decodificare i codici utilizzati e di interpretarne il contesto comunicativo.
L’educazione all’immagine si delinea, quindi, come attività diretta al conseguimento della competenza espressiva e comunicativa, rendendo capaci di tradurre in un messaggio la propria esperienza e di conoscere i vari sistemi di segni propri dell’ambiente culturale in cui si vive.
La competenza comunicativa è acquisita sia quando si è guidati a leggere le immagini, sia quando si è stimolati a produrle. Seppure anche il fanciullo scopre abbastanza presto che le immagini hanno un significato e che egli, progettando e realizzando sequenze di immagini, con l’utilizzazione di tecniche e media diversi, promuove la sua conoscenza di linguaggi figurati, tuttavia la pluralità dei modelli di comportamento e degli orientamenti di valore, la presenza di nuove ed incidenti forme di informazione e la proliferazione dei luoghi di produzione e di consumo rendono difficili il controllo, la gestione e l’equa distribuzione delle immagini informative nel tessuto sociale, soprattutto quando ridotta diventa l’attenzione responsabile di chi è deputato al controllo e particolarmente delle famiglie.
Per questa via, l’espandersi delle reti e dei linguaggi mass mediali, pur rappresentando una importante fonte di informazione e di stimolo culturale, rischiano di produrre effetti di conformismo e di indurre abitudini di ricettività puramente passiva, così come l’irruzione e la diffusione dei mezzi telematici ed informatici che seppur, senza dubbio, introducono opportunità cognitive di grande rilevanza, altret-tanto certamente possono dar luogo a condizioni di isolamento connesse alla loro fruizione e alla prevalenza dei linguaggi formalizzati e digitali sulle altre forme di relazione e di espressività.

3. Violenza: definizione e variabili del fenomeno

Sentiamo sempre parlare di violenza ma che cos’è in realtà, che cosa si può intendere per violenza, quali e quanti fenomeni sono racchiusi entro un’unica parola?
Risulta difficile dare un’unica risposta; prima di tutto vorrei fare una premessa. Molti rilevano che il mondo in cui viviamo oggi sia diventato un mondo più violento. Ritengo che la violenza, di qualunque tipo essa sia, faccia parte integrante dell’uomo. Oggi abbiamo strumenti di violenza più potenti e soprattutto abbiamo i media che ci informano di ciò che avviene in ogni angolo del mondo. è importante non confondere la minor percezione della violenza con la mancanza di informazioni, perché non sapere una cosa non significa che essa non esista.
Una definizione molto generale di violenza potrebbe essere quella del Ponti (1995): “ogni azione o comportamento coercitivo che limita la libertà di una persona”. Si possono fare poi delle differenziazioni tra violenze di tipo fisico e psichico ove le prime pongono l’accento sulla costrizione a fare materialmente qualche cosa o ad un comportamento subito, mentre nel secondo caso ci si riferisce più a delle minacce, ricatti, delle scelte obbligate la cui non attuazione potrebbe comportare conseguenze spiacevoli.
Per quel che riguarda la relazione media-violenza, sono stati condotti numerosi studi per cercare di meglio comprendere il fenomeno. Esiste realmente un nesso causale che lega mezzi di comunicazione e condotte violente/aggressive?
Gran parte della ricerca sull’aggressività si è sviluppata nell’ambito di un modello, quello dell’aggressione impulsiva, quasi che il ricorso alla violenza fosse un qualche cosa che esula dal controllo volontario, dalla sfera del cosciente. Oggi, tranne per alcuni casi di patologia, questo tipo di modello deterministico e unicausale ha perso credibilità. Non si può ignorare il ruolo delle norme, dei valori e delle relazioni interpersonali, oltre che delle caratteristiche individuali, nella attuazione di determinate condotte. Gran parte dell’aggressione della nostra società non è caratterizzata da reazioni impulsive, ma è scelta come strategia comportamentale e giustificata in nome di un fine che li giustifichi, attribuendo ad altri la responsabilità di tale atto, deumanizzando la vittima o ad essa attribuendo la colpa, in quel che si può chiamare una manovra di disimpegno morale. Risulta quindi evidente il ruolo di genitori, educatori, gruppo dei pari ed anche dei media, nella trasmissione dei valori e delle credenze. I sistemi di comunicazione, a differenza degli altri enti di socializzazione, si propongono sempre uguali a milioni di persone e in questo modo plasmano le idee, le pratiche sociali e i valori, contribuendo ad una omologazione della conoscenza e delle preferenze. Nel bene e nel male, i media uniscono culture che prima erano separate. Ovviamente la televisione, ad esempio, non è più potente di altri fattori quale agente di socializzazione, ma desta preoccupazione per l’estensione del pubblico cui si rivolge. Resta comunque importante sottolineare che, benché la programmazione televisiva possa influire su pensieri e compor-tamenti, le persone hanno un ruolo decisivo nella scelta dei programmi da guardare.

4. Le manifestazioni violente nei Media

Il forte sviluppo tecnologico che ha interessato la comunicazione a partire dal secolo scorso e la grande influenza che questa esercita sulla vita sociale ed individuale sono dati indiscutibili. La radiocronaca delle grandi guerre, la massiccia diffusione della televisione nelle case, lo sviluppo dei computer, internet, tutti fenomeni che hanno portato ad una rivoluzione della società, del modo di relazionarsi, di vivere, di pensare. De Kerckhove D.  (1993) parla a tal proposito di brainframe. A suo parere le strutture mentali si sviluppano a seconda delle tecnologie in uso in un dato periodo storico, quasi che l’evoluzione cognitiva dell’uomo sia influenzata dai mezzi utilizzati per veicolare le informazioni più che dalle stesse informazioni. Ma che cosa sono i mass-media? Si tratta di mezzi di comunicazione di massa che, nel linguaggio comune, identificano “il complesso di informazioni e di mezzi che le producono e le diffondono rivolgendosi a un ampio pubblico fortemente eterogeneo”. Il processo di comunicazione di massa prevede perciò una simultaneità del contatto tra un’emittente e una moltitudine di riceventi; caratteristica che permette al messaggio veicolato di esercitare sui fruitori un impatto molto uniforme e diffuso, caratteristica che non è riscontrabile in nessun altra forma di comunicazione. Se vogliamo, anche questa potrebbe essere considerata una forma di violenza contro la persona: fornire una cultura preconfezionata e omologante che porti ad una uniformità del pensiero. Queste sono le accuse che si levano nei confronti della onnipresenza dei media. Debord G. (1990) parla di “schiacciamento degli individui verso l’uniformità e verso la de-differenziazione delle identità personali” e una “massificazione dei comportamenti” come prodotti tipici della moderna società occidentale.
Cresce così l’allarme linguaggio. Ma perché il linguaggio è cambiato? Perché è cambiato il pensiero.
In pochi anni siamo passati dall’astrazione all’azione, abolendo i periodi lunghi, ricchi di subordinate a favore di poche parole concise. Siamo dinanzi ad un progressivo impove-rimento del linguaggio, favorito forse anche dalle nuove tecnologie e dai nuovi stili di vita sempre più frenetici, dove l’importante è farsi capire e non la forma delle nostre comunicazioni. Questo lo ritroviamo nell’uso massiccio di SMS da parte dei giovani o delle e-mail, dove abbondano gli errori grammaticali e non esiste più la punteggiatura; potremmo definirla la generazione Biperio così come è stato “tradotto” il nome Bixio, in un elaborato concorsuale.
Quelle sopracitate sono tutte questioni che hanno portato a dibattiti, studi, ricerche, ma forse l’ambito maggiormente studiato nella relazione tra media e violenza, soprattutto per le sue possibili ripercussioni, è quello che riguarda la possibilità dei media di influenzare le condotte aggressive se non addirittura di diffondere l’uso di pratiche violente tra gli spettatori di certi tipi di programmi. Secondo i sostenitori della teoria comportamentista che lungamente ha “imperato” nel secolo passato, l’apprendimento avverrebbe tramite esperienza diretta in base a rinforzi e/o punizioni che seguono la messa in atto di una determinata risposta comportamentale ad uno stimolo dato.
Bandura A. (1999) però propose un’altra spiegazione dell’apprendimento. Secondo questo autore si apprende un certo comportamento non soltanto da una esperienza diretta ma anche in modo indiretto tramite osservazione e modellamento (apprendimento vicario). Si può facilmente immaginare quale sconvolgimento seguì ad una tale affermazione in un periodo storico, quello degli anni ’60, di grande diffusione del cinema e della televisione.
Se fosse vero, come sostiene Bandura, che, affinché si verifichi l’apprendimento di un certo comportamento, è sufficiente vedere altre persone coinvolte in tale esperienza, quali effetti possono derivare dalla visione di film dai contenuti violenti? Può la semplice esposizione a questo tipo di contenuti avere delle ripercussioni sulle azioni intraprese dagli spettatori?
L’apprendimento di comportamenti violenti si riferisce esclusivamente all’azione vista, o si può estendere ad una gamma di comportamenti violenti? (Bandura A. - Walters R., 1963).
Questi ed altri interrogativi hanno dato il via ad una serie di ricerche (ne citerò solamente una piccola parte). Uno dei primi esperimenti fu condotto da Bandura e Ross D. (1963). Si voleva valutare la relazione tra osservazione e apprendimento di comportamenti violenti nei bambini in età prescolare. Nella loro ricerca, tre gruppi di bambini venivano posti in situazioni differenti: il primo gruppo osservava un adulto che, con un martello, picchiava un pupazzo; il secondo gruppo osservava un adulto che giocava con delle costruzioni mentre il terzo era il gruppo di controllo. Dopo una prima fase di interazione con l’adulto, i bambini vanivano riuniti in una sala e lasciati in una situazione di gioco libero. I bambini del primo gruppo mostrarono comportamenti più violenti, sia di tipo imitativo delle condotte osservate poco prima, sia di tipo nuovo.
A questo punto è importante capire, nella relazione visione programmi violenti - comportamenti violenti, quale fattore sia la causa e quale l’effetto; in altre parole occorre passare da una visione del problema di tipo correlazionale ad una causale, per chiarire la direzionalità dei nessi che legano le due variabili.
A questo proposito Eron L. D. e collaboratori (1972) condussero uno studio longitudinale, durato ventidue anni, per valutare le relazioni tra abitudini al consumo televisivo e condotte aggressive. I risultati più significativi furono una correlazione positiva trovata tra esposizione a programmi violenti e condotte aggressive (che suffragava l’ipotesi di ricerca secondo cui l’esposizione a messaggi violenti favorisce l’insorgenza di comportamenti violenti) che a sua volta correla positivamente con il livello di criminalità degli stessi individui a diciotto anni. Si riscontrava anche, però, che i bambini che guardavano programmi più violenti erano già più aggressivi degli altri bambini, suggerendo un processo circolare: bambini aggressivi preferiscono i programmi violenti che a loro volta incrementano la loro aggressività. Sembra allora che il problema della violenza in TV sia rilevante, ma non giochi il ruolo cruciale che le era stato attribuito. Nonostante l’importanza di questi e altri risultati è necessario fare delle considerazioni.
Siamo sicuri che i risultati che dimostrano una relazione causale che va nella direzione visione-condotta violenta sia corretta e non si tratti piuttosto di una relazione spuria le cui cause vanno ricercate a monte? Anche ammettendo che suddetta relazione esista, qual è la percentuale di varianza spiegata?
Molte teorie si sono riproposte di rispondere a questi interrogativi, giun-gendo in certi casi a visioni totalmente discordanti “Teoria dell’Apprendimento sociale” di Bandura A. (1977), “Teoria della disinibizione” di Berkowits e Rawlings (1963), “Modello cognitivo della associazione semantica” di Anderson e Bower (1973), “Teoria della catarsi” di Feshback e Singer (1971).
A prescindere dall’interesse di ognuna delle teorie proposte e dalle innumerevoli ricerche ed esperimenti condotti, resta il fatto che la porzione di varianza spiegata risulta essere molto bassa.
Questo sta a significare soltanto una cosa: numerosi e diversi fattori concorrono a determinare le condotte violente e risulta pertanto necessario adoperarsi per approfondire lo studio in tale direzione. Il problema dell’in-fluenza dei media sulle condotte violente è particolarmente rilevante per quel che riguarda i bambini e gli adolescenti. Molti studi condotti in diversi paesi concordano sul fatto che i bambini siano grandi fruitori del mezzo televisivo fin dai primi anni di vita raggiungendo un picco nell’adolescenza. Ma come sono vissute e valutate le immagini che scorrono sullo schermo? Vi è la consapevolezza che si tratta di finzione o sono considerate appartenenti al mondo reale? Il bambino è succube e recepisce in modo passivo ciò che vede o si comporta da agente attivo selezionando e fissando la sua attenzione solo su alcune cose per lui di interesse?
La valutazione di che cosa sia la televisione, varia a seconda della fascia di età considerata. Verso i 2-3 anni i bambini ritengono che le immagini che vedono si riferiscano a eventi che si verificano realmente all’interno del televisore; verso i quattro anni inizia poi a svilupparsi la capacità di discriminazione tra realtà e finzione, capacità che progredisce poi con la crescita del bambino e dei suoi processi cognitivi complessi anche se solo verso i 9-10 anni si stabilizza la capacità di riconoscere personaggi televisivi reali da quelli non reali. Ciò significa che si deve comunque fare molta attenzione ai programmi visti, considerando per esempio che nei cartoni animati il tasso di violenza è spesso superiore rispetto a quello di altri programmi televisivi, anche se sembra che ciò che spaventa maggiormente i bambini non siano tanto le scene con immagini crude e violente, quanto i suoni molto forti (Bjorkqvist K. - Lagerspetz, K. 1985). Risulta pertanto necessario tener conto che capacità sociali, emozionali e cognitive sono a livelli diversi e in continuo mutamento, a seconda della fase di sviluppo in cui il bambino si trova.
Oggigiorno, con una esperienza quarantennale di ricerche alle spalle, la maggior parte degli esperti del settore ritiene infondata la connessione fra violenza dei mass media e aggressività. L’idea che assistere a molti spettacoli violenti spinga gli adolescenti a uscire di casa e fare lo stesso, presuppone che essi agiscano senza pensare. Il fatto che uno spettatore recepisca un programma televisivo o un film come violento, non significa che lo copi. Quanti milioni di persone hanno visto film quali “Natural born killer”, “Kalifornia”, o lo storico e tanto contestato “Arancia meccanica”, per non parlare delle innumerevoli pellicole horror di cui gli adolescenti, soprattutto, fanno “indigestione” o le storie sui serial killer che tanto vanno di moda. Il fatto poi di considerare la condotta violenta come un’azione possibile, non necessariamente ingenera il desiderio di porla in atto. Perché mai gli adolescenti dovrebbero cedere in maniera meccanica alle suggestioni mediatiche? Anche in questo caso il legame presupposto tra mass media e violenza si fonda sull’assunto sbagliato che gli adolescenti in generale, e quelli devianti in particolare, siano privi della capacità di pensare autonomamente. La supposta prova dell’esistenza di tale legame confonde causa ed effetto. Ai devianti può piacere assistere a film violenti o meglio, che gli altri li vedano mentre lo fanno, dal momento che così dimostrano quanto sono duri anche se ciò non implica che siano i film violenti a trasformarli in delinquenti.
è altrettanto scorretto affermare che non ci sia nessun tipo di effetto negativo riconducibile ad una fruizione multimediale smodata e scorretta da parte soprattutto dei minori. Gli effetti della violenza sugli schermi si possono comprendere solo se all’interno di un sistema dinamico di variabili che interagiscono tra loro. Oltre alla quantità e qualità della fruizione televisiva, entrano in gioco le caratteristiche e le dinamiche della famiglia, l’interazione con il gruppo dei pari, il contesto socio culturale più esteso, caratteristiche legate al sesso, età, personalità. Ad esempio, ove le figure parentali offrono un modello caratterizzato dall’uso di condotte aggressive, vi è un terreno favorevole all’apprendimento dei messaggi violenti prodotti dai mass-media.
La famiglia, la scuola e le istituzioni sono chiamate ad operare in prima linea nella individuazione e nella predisposizione dei necessari strumenti normativi, sociali ed educativi, che si pongano quale difesa rispetto ad un mondo dell’infanzia/adolescenza. Bambini e adolescenti per la loro minor capacità di discriminare tra fantasia e realtà, possono subire in forma ac-centuata la suggestione derivante dalla visione di programmi dai contenuti antisociali. Questo giustificherebbe l’attenzione rivolta al contenuto di certe pellicole, non dannose per l’adulto, ma che possono invece esserlo per individui meno maturi. Ma allora perché nella produzione cinematografica corrente il sesso e la violenza sono così ampiamente rappresentati? Anche se non sempre il pubblico è disposto a riconoscerlo, proprio esso vuole sesso e violenza. In ottica psicoanalitica, l’inconscio di ognuno di noi è popolato di aspirazioni, desideri aggressivi e sessuali che sono censurati dalla società. Assistere ad un film in cui sono rappresentate tali fantasie permetterebbe, tramite i meccanismi di identificazione e proiezione, di “scaricare” gli istinti inconsci indesiderati (Imbasciati A., De Polo R., Sicurtà R., 1998).
Pur tuttavia, il continuo bombardamento di immagini violente ci può rendere insensibili, distaccati, indifferenti ma soprattutto fornisce un modello di sviluppo sbagliato ai giovani, così come da altri sostenuto “la violenza audiovisiva non fa male perché esalta l’aggressività o spinge all’emulazione fa male perché toglie verità alla violenza reale” (Arcuri L. , Castelli L. 1996). Si è a ragione preoccupati dei possibili effetti della visione di programmi violenti soprattutto sulle giovani generazioni che non hanno mai vissuto la violenza come un’esperienza diretta, ma solo attraverso i mass-media. Forse proprio per questo le nuove generazioni sono meno impressionabili dalla violenza, perché le rappresentazioni a cui assistono non rievocano dolori personali.
è difficile riconquistare il senso tridimensionale della realtà dopo averla conosciuta nelle immagini a due dimensioni.

5. La famiglia e la scuola quali fonti di socializzazione e mediazione

L’apprendimento delle norme avviene nell’interazione attraverso diversi meccanismi quali l’educazione, l’imitazione, l’insegnamento esplicito o per mezzo di meccanismi psicologici complessi quali l’identificazione e la interiorizzazione. Va considerato poi il diverso grado di apprendimento a seconda delle caratteristiche specifiche del soggetto. Giovani, instabili emotivamente, soggetti con disturbi della personalità, soggetti che vivono in situazioni di frustrazione sociale, in altre parole i soggetti per qualche motivo più fragili possono ovviamente subire maggiormente l’impatto di norme sbagliate, diventando concause dei tanto temuti comportamenti devianti.
Si è resa pertanto necessaria una collaborazione tra istituzioni, scuole, famiglie e mass media al fine di definire una corretta politica dell’informazione che punti alla qualità ed a un sevizio costruttivo e non distruttivo.
I bambini vedono il futuro attraverso i media e questo responsabilizza il mondo adulto in quanto enti di formazione ad una attenta valutazione e conoscenza delle implicazioni e reazioni che la visione di determinati messaggi può determinare. Visto tutto ciò risulta evidente la necessità di formare buoni formatori, siano essi insegnanti, genitori, educatori. Tutti devono assumersi tale responsabilità, media compresi. Il valore dell’infanzia è troppo importante per rimanere inerti.
Ed in particolare non bisogna dimenticare che l’uso da parte dei bambini dei media è determinato in larga misura dalle consuetudini famigliari acquisite. I media come babysitter, come surrogato dell’adulto che manca o che è troppo occupato o stanco; spetta al genitore, o formatore in genere, limitarne l’uso per permettere ai propri figli di vivere altri tipi di esperienze che favoriscano lo sviluppo della fantasia, del vocabolario, del ragionamento.

6. Conclusioni

Per utilizzare una metafora, si potrebbe dire che i media sono un cibo dei nostri tempi, che può far bene, ma di cui non si deve abusare per non fare indigestione, scegliendo bene cosa mangiare e con quale frequenza. Non si può vivere digiunando ed i media non sono in sé un male da espellere dalla nostra vita. è un pezzo del nostro essere moderni, una parte della nostra essenza di persone attive e informate, una fonte preziosa di immagini e di esperienze e non soltanto di volgarità e di spazzatura. In questa ottica si può così assimilare una giusta fruizione ad una dieta corretta ed equilibrata: bisogna imparare a mangiare, senza per questo diventare anoressici o obesi, scegliendo, valutando, magari facendosi consigliare da genitori e insegnanti, e prendendosi delle pause per la digestione.
Questa idea della dieta televisiva è diventata un vero e proprio esperimento che ha interessato qualche anno fa diverse città italiane, coinvolgendo scuole e famiglie (Damele D., 2001). La dieta consisteva nell’impegno a non superare un determinato punteggio quotidiano: 100 punti. Ogni settimana sono stati distribuiti ai ragazzi, tramite i loro insegnanti, i palinsesti delle otto emittenti nazionali maggiori in cui, ad ogni programma, è stato abbinato un punteggio: ciascuno poteva vedere quello che voleva, purché non superasse la dose massima giornaliera di 100 punti. Il punteggio è stato dato in modo che difficilmente si potessero vedere più di tre ore di TV al giorno e assegnato in modo da favorire programmi culturali o per ragazzi e, al contempo, penalizzare la scelta di programmi per adulti.
è stata data poi la possibilità di ottenere uno sconto per ogni programma visto e discusso con i familiari adulti, a segnalare l’importanza del rapporto genitori-figli, ma anche il fatto che i danni (o i vantaggi) della televisione dipendono molto da come la si guarda. L’intento di questo esperimento è stato quello di far comprendere ai ragazzi che la televisione va valutata dallo spettatore, sottoposta ad un giudizio e non accesa comunque e “consumata” a prescindere da ciò che passa sullo schermo.
Aumentare la consapevolezza critica dei giovani nei confronti dei media con il supporto degli adulti, ecco un tipo di intervento possibile per sfruttare al meglio tutte le qualità positive degli attuali mezzi di comunicazione.

Cap. CC Filippo Melchiorre