L’ordine di trasferimento dei militari

Antonino Lo Torto



Antonino Lo Torto

Colonnello del Corpo di Commissariato
dell'Aeronautica Militare
Capo Ufficio Condizione Militare dello Stato Maggiore Difesa



1. Premessa

La determinazione della natura giuridica del trasferimento d’autorità del personale militare costituisce, oggi, un problema ancora dibattuto, poiché manca una norma che formuli la nozione specificandone estensione e limiti.
L’ordinamento militare, in funzione della peculiarità dei compiti istituzionali delle Forze Armate, sancisce la specificità dello status dei militari rispetto agli altri dipendenti pubblici, che caratterizza anche la disciplina dell’impiego in funzione delle esigenze addestrative ed operative, tipiche dell’organizzazione militare.
In tale quadro, mentre risulta unanimemente acquisito il principio che il trasferimento d’autorità rientri tra gli atti di tipo ordinatorio, con i quali autoritativamente si provvede al governo ed alla gestione della compagine militare, rimangono, tuttavia, perplessità riguardo alla natura di provvedimento amministrativo dell’ordine di trasferimento d’autorità. Infatti, accogliendo tale indirizzo conseguirebbe, necessariamente, l’essenzialità della motivazione quale elemento strutturale del provvedimento, nel rispetto dell’art. 3 della legge n. 241/90 che sancisce l’obbligo della motivazione nei provvedimenti amministrativi.
Peraltro, considerata la struttura ordinativa ed organizzativa delle FF.AA., la qualificazione del trasferimento d’autorità come provvedimento motivato risulterebbe non in linea con la funzionalità dello strumento militare che, naturalmente, deve essere realizzata attraverso meri atti ordinatori che non richiedono una specifica motivazione in quanto destinati alla esecuzione della pianificazione apprezzata dalle autorità militari ed approvata dall’autorità politica. Ciò non implica che in materia d’impiego l’Amministrazione della Difesa abbia una discrezionalità molto ampia, estesa fino all’arbitrio, poiché il trasferimento d’autorità di ogni militare deve trovare logica congruenza con la policy d’impiego approntata in armonia con la pianificazione operativa, a sua volta allineata con gli obiettivi fissati dal Governo e con i principi generali stabiliti dalla legge.
Orbene, al fine di chiarire la fondatezza di questa premessa, il presente studio analizza le norme vigenti in materia e l’evoluzione degli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza che consentono di delineare un quadro sistematico in cui il trasferimento d’autorità si colloca tra gli ordini militari aventi natura giuridica di meri atti amministrativi per i quali, secondo le norme sul procedimento amministrativo, non è necessaria una specifica motivazione.


2. L’ordine nell’ordinamento militare

a. Generalità

La legge sulla disciplina militare (l. 382/78) sancisce, nell’art. 4, comma 2, che il militare “osserva con senso di responsabilità e consapevole partecipazione tutte le norme attinenti alla disciplina ed ai rapporti gerarchici”. Il successivo comma 4 statuisce che gli ordini devono: essere conformi alle leggi ed attinenti alla disciplina; riguardare il servizio e non eccedere i compiti d’istituto.
In tale contesto, il comma 5 sancisce: il dovere del militare di non eseguire l’ordine la cui esecuzione costituisca manifestamente reato.
Queste norme sono in linea con i compiti istituzionali delle FF.AA., definiti dalla legge n. 331/00 ove è previsto che, conformemente agli artt. 11 e 52 della Costituzione, le FF.AA. devono:
- assicurare la difesa dello Stato;
- operare al fine di realizzare la pace e la sicurezza;
- concorrere alla salvaguardia delle libere istituzioni;
- svolgere compiti specifici in circostanze di pubblica calamità ed in casi di necessità ed urgenza.
L’assoluta singolarità dei compiti istituzionali delinea la natura essenzialmente operativa dell’attività militare, affidata alla responsabilità del Capo dello Stato Maggiore della Difesa che, sulla base delle direttive del Ministro, provvede alla pianificazione, predisposizione ed impiego delle FF.AA. (art. 3, comma 3, della legge n. 25/97).
L’operatività impone che l’efficienza e l’efficacia dell’attività militare dipendano da una organizzazione produttiva articolata in modo gerarchico, ossia secondo una catena che distribuisca le competenze in materia di pianificazione, predisposizione ed impiego delle forze in diversi livelli di responsabilità, tutti razionalmente collegati con l’indirizzo unitario determinato dal Capo di SMD.
L’elemento fondamentale per il funzionamento dell’organizzazione gerarchica, oltre la professionalità dei singoli, è la piena consapevolezza della irrinunciabile necessità di operare nel rispetto delle regole, quale strumento di efficienza e di sicurezza. Infatti, la regolamentazione dell’organizzazione gerarchica è indirizzata sia a chi assolve attività di comando, anche senza essere titolare di funzioni dirigenziali, sia a chi assolve compiti meramente esecutivi.
Il fattore unificante che qualifica l’organizzazione produttiva della compagine militare è la disciplina, ossia il complesso di norme richiamate dall’art. 4, comma 2, della l. 382/78, definite dall’art. 2 del Regolamento di Disciplina Militare (D.P.R. n. 545/86) come “il principale fattore di coesione e di efficienza”.
Questa norma chiarisce che lo scopo della disciplina militare è quello di determinare “le posizioni reciproche del superiore e dell’inferiore, le loro funzioni, i loro compiti e le loro responsabilità”, evidenziando come il principio della gerarchia implichi per l’inferiore il dovere di obbedire che, ai sensi del successivo art. 5, consiste nell’esecuzione pronta, rispettosa e leale degli ordini.
In sostanza, conformemente ai principi vigenti in seno allo stato di diritto, che fonda l’ordinamento dello stato democratico sull’osservanza della legge quale strumento appropriato per garantire l’esatto e corretto conseguimento degli obiettivi della comunità nazionale, anche le norme di disciplina hanno natura strumentale perchè garantiscono la puntuale e tempestiva esecuzione degli ordini che, nelle strutture produttive - ed in particolare in quelle operative - costituiscono veicolo di efficienza e garanzia di sicurezza.

b. L’ordine militare

L’ordine militare è un atto amministrativo, di contenuto precettivo, che impone al destinatario un obbligo di fare ovvero di non fare.
In mancanza di una norma giuridica che definisca la nozione dell’ordine, la dottrina, esaminate le diverse fattispecie, ha elaborato una classificazione degli ordini, distinguendo quelli aventi natura di provvedimento, ossia di atto avente efficacia fuori dall’Amministrazione ed incidenti nella sfera giuridica dei destinatari, e quelli aventi natura di atto con efficacia limitata nell’ambito della stessa Amministrazione. Come atti interni, operano nell’ambito del rapporto gerarchico, nel quale l’autorità sovraordinata, attraverso ordini, regola l’attività dei dipendenti attribuendo compiti individuali e determinando le procedure.
L’ordine militare è l’atto amministrativo attraverso il quale si realizza la funzionalità delle FF.AA. che, nelle attività logistiche, addestrative ed operative, nelle fasi di pianificazione, programmazione ed esecuzione, deve essere conforme ad un progetto unitario, teleologicamente razionalizzato per il raggiungimento degli obiettivi istituzionali di cui è responsabile il Capo di SMD nei confronti dell’autorità politica.
La gestione di questa responsabilità politica richiede, nelle fasi di pianificazione e di programmazione, il supporto di un’attività di staff mirata allo studio dell’impiego delle risorse - finanziarie, materiali ed umane - assegnate in ragione degli obiettivi fissati dal Governo e perseguibili nel breve, medio e lungo termine, in linea con le leggi vigenti.
L’attività di staff, in sostanza, determina la struttura, ed i relativi compiti, delle unità operative che, a livello centrale, intermedio e periferico, devono assicurare il perseguimento dei compiti istituzionali. In concreto, determina le condizioni essenziali affinchè l’autorità di vertice possa adottare gli atti d’indirizzo necessari a consentire agli organi operativi, con autonomia rapportata alla rispettiva sfera di attribuzioni, di assolvere i propri compiti: in modo efficace; nel rispetto della legge; con l’efficienza adeguata a garantire il proficuo impiego delle risorse. Consente, altresì, all’autorità di vertice di vigilare sull’esatto conseguimento degli obiettivi stabiliti. L’attività operativa ha natura sostanzialmente esecutiva, che non significa assolutamente priva di ogni elemento valutativo, destinata a dare attuazione alla pianificazione approvata. L’attività esecutiva, quindi, non attribuisce autonomia discrezionale nella scelta degli obiettivi, né autonomia valutativa circa la congruità delle disposizioni e direttive pervenute. Infatti, a parte la doverosa collaborazione propositiva volta ad evidenziare nelle disposizioni ricevute possibili incongruenze, causa di stemperamento dell’efficacia, di improduttività o di violazione di legge, l’attività esecutiva non può che essere caratterizzata da prontezza, lealtà e rispettosità.
La prontezza è pertinente all’efficienza, per cui l’attività esecutiva deve essere tempestiva ed appropriata; la sicura operatività, in vero, dipende dal rispetto dei tempi previsti e dalla corretta applicazione delle procedure.
La lealtà presuppone la consapevolezza del proprio ruolo nella catena produttiva e la convinzione di dover utilizzare la propria professionalità con la prudenza necessaria per gestire i rischi. Implica, altresì, il coraggio di affrontare situazioni di pericolo, senza riserve per la propria integrità, animati dallo spirito di servizio, nascente dalla profonda e consolidata sensibilità istituzionale, fonte di motivazione per una condotta affidabile.
Il rispetto per la gerarchia è essenziale per il funzionamento della catena produttiva in quanto manifesta la piena consapevolezza del fatto che l’esercizio dell’azione di comando - anche a livello non dirigenziale - ha natura strumentale per l’efficienza operativa. Il rispetto per il superiore, in sostanza, costituisce non una formale deferenza per una persona di rango più elevato bensì un concreto riconoscimento delle maggiori responsabilità da assolvere attraverso atti di comando: ordini.
è indubbio, infatti, che nelle catene produttive organizzate gerarchicamente i livelli di responsabilità sono caratterizzati dalle attribuzioni di comando, ossia dalla potestà di regolare, attraverso ordini, le condizioni, le modalità e le procedure per assicurare con l’attività dei dipendenti il conseguimento degli obiettivi assegnati. A tale scopo, l’ordine è un atto recettizio con il quale il superiore impone all’inferiore un obbligo di fare (comando) ovvero di non fare (divieto). L’ordine, quindi, costituisce il cardine fondamentale che assicura il funzionamento dell’organizzazione produttiva gerarchica.

c. L’ordine militare come atto amministrativo

L’ordine militare non è un atto discrezionale perchè, quando sussistono determinate condizioni nell’ambito del processo produttivo o dell’assolvimento di un servizio, l’organo competente deve adottare l’atto precettivo il cui contenuto, in linea con le norme vigenti, può essere determinato con maggiore o minore autonomia discrezionale in relazione all’estensione della competenza e, imprescindibilmente, deve risultare coerente con la logica, i tempi ed il tenore qualitativo dell’operatività pianificata.
Come atto tipico per l’assolvimento delle responsabilità di comando, l’ordine, pur essendo finalizzato a condizionare l’operato dei dipendenti, non incide nella sfera giuridica del destinatario che, anche qualora abbia un margine di autonomia decisionale nell’assolvimento del proprio ruolo, è sempre vincolato dall’osservanza della pianificazione operativa, che ha una propria configurazione istituzionale indirizzata a garantire il rapporto costo-efficacia tra gli obiettivi fissati conformemente alla legge e le risorse assegnate.
Tale logica non incide nella sfera d’interesse dei singoli operatori, se non nel senso di rendere singolare il rapporto d’impiego in quanto richiede convinta disponibilità e dedizione nella gestione del rischio. Inoltre, rende evidente la ratio delle norme di disciplina che qualificano l’obbedienza agli ordini: pronta, leale e rispettosa.
L’esclusione della valutazione di merito degli ordini ricevuti non limita l’autonomia del singolo operatore perchè nell’organizzazione gerarchica, ai vari livelli di responsabilità, ciascun operatore è dotato degli elementi informativi sufficienti per comprendere come la propria funzione produttiva si colleghi con il processo operativo pianificato. Considerato, quindi, che i singoli ordini trovano la propria giustificazione nella concatenazione logica dell’intera pianificazione, non risulta necessario uno specifico sindacato di merito per verificarne la legittimità e la congruità, salvo la doverosa collaborazione propositiva qualora si rilevi la necessità di appropriati correttivi.
La conferma della natura di mero atto amministrativo emerge dall’art. 4, comma 5, della legge n. 382/78 che sancisce l’obbligo per il militare di non eseguire l’ordine la cui esecuzione costituisce manifestamente reato. Infatti, come è vero che l’ordine gerarchico, imponendo un obbligo di fare/non fare, non incide nella sfera degli interessi giuridicamente protetti del destinatario, è vero altresì che l’assolvimento di tale obbligo implica la responsabilità personale di quanto fatto/non fatto in esecuzione dell’ordine.
Tenuto conto, poi, che la qualificazione dell’obbedienza: pronta, leale e rispettosa, presuppone una condotta consapevole della essenzialità del proprio ruolo professionale per l’esatto funzionamento della produttività gerarchica, risulta naturale che la responsabilità dell’esecuzione, per quanto risalente a chi abbia emanato l’ordine, coinvolge in modo diretto ed immediato l’esecutore, sul quale grava il dovere di verificare se l’ordine sia contra legem. è questo un effetto della corretta applicazione dei principi vigenti in seno allo stato di diritto che impongono a tutti i cittadini il dovere di rispettare le leggi. In particolare, l’osservanza dei precetti penali è finalizzata a garantire a tutti il sicuro esercizio dei diritti. Di conseguenza, nessuno, salvo qualora sussista una causa di giustificazione tassativamente prevista, può invocare come scriminante della responsabilità penale aver agito per eseguire un ordine.
Nell’organizzazione gerarchica l’ordine è lo strumento per attuare un’attività pianificata per il raggiungimento di obiettivi istituzionali. Di conseguenza, gli ordini devono essere conformi alla legge e sono vincolanti nei confronti dei destinatari ma non fino al punto da incidere sulla loro sfera d’interessi e da giustificare la commissione di reati.
L’ordine gerarchico, quindi, sembra profilarsi - naturalmente - come un mero atto amministrativo, distinto dai provvedimenti per i quali è prevista una disciplina sostanziale e procedurale.
d. Approfondimenti della dottrina

La qualificazione dell’ordine gerarchico come mero atto amministrativo, privo di natura provvedimentale, non riscuote ancora il consenso unanime della dottrina amministrativistica, originariamente indirizzata a chiarire estensione e limiti della potestà autoritativa attribuita dalla legge alla P.A. sulla base di quanto sancito dalla Costituzione che all’art. 97 statuisce che l’attività pubblica deve assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione ed all’art. 103 riconosce la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi nei confronti della P.A.
In particolare, l’autoritatività degli atti pubblici è finalizzata alla esecutività degli stessi che, essendo destinati a provvedere al soddisfacimento degli interessi della collettività, incidono direttamente nella sfera giuridica dei destinatari attraverso la limitazione e l’affievolimento dell’esercizio dei diritti ovvero mediante l’estensione di posizioni compresse per consentire l’esercizio dei diritti.
A fronte di una regolamentazione disorganica, e non sempre esaustiva, sui singoli provvedimenti, ed in mancanza di una normativa generale - sostanziale e procedurale - sull’attività amministrativa, la dottrina ha individuato gli elementi caratterizzanti dei provvedimenti al fine di determinare riferimenti certi per il corretto svolgimento dei rapporti giuridici tra Amministrazione ed amministrati.
In tale contesto, un’autorevole dottrina(1) ha inquadrato l’ordine tra i provvedimenti amministrativi, definendolo come “una dichiarazione di volontà, emessa da un soggetto della P.A. nell’esercizio della potestà ordinatoria, diretta a imporre ad un soggetto passivo obblighi immediati e diretti, previa la comminatoria di misura giuridica in caso di disobbedienza”.
L’Autore svolge un’articolata analisi delle diverse configurazioni dell’ordine in relazione agli effetti che esso è destinato a produrre nell’esercizio della potestà ordinatoria che attribuisce all’Amministrazione la facoltà di intervenire nella sfera giuridica del destinatario attraverso l’imposizione di precetti assolutamente vincolanti, pena l’applicazione di una sanzione. In particolare, classifica gli ordini militari nella categoria degli ordini speciali in quanto destinati ai soggetti collocati rispetto all’Amministrazione in rapporto di sudditanza speciale.
Altra dottrina(2) definisce gli ordini come atti di supremazia generale o speciale; i primi operano nei confronti di qualsiasi soggetto nell’esercizio di una potestà ordinatoria generale che, come precisato dalla Corte Costituzionale (sent. del 27 maggio 11961 n. 26), deve essere esercitata con l’osservanza dei principi dell’ordinamento giuridico. Gli ordini emanati nell’esercizio di un potere di supremazia speciale comprendono quelli emanati nei confronti dei militari, titolari di un rapporto giuridico particolare con la P.A. Tale dottrina chiarisce, poi, che gli ordini fondati su un potere di supremazia speciale sono atti interni, che esauriscono i propri effetti nell’ambito della stessa Amministrazione. Chiarisce, altresì, che gli atti interni comprendono quelli emanati nell’ambito del rapporto di gerarchia, nel quale gli ordini regolamentano l’azione degli organi dipendenti. L’inosservanza degli ordini gerarchici, oltre ad incidere sul buon funzionamento dell’organismo, può influire sulla validità degli atti amministrativi esterni e determinare una responsabilità dei destinatari verso la stessa P.A. o verso i terzi.
Un altro Autore(3) inquadra gli ordini tra i provvedimenti amministrativi, definiti come manifestazioni ampiamente discrezionali, destinate ad incidere sulle posizioni giuridiche dei destinatari in maniera autoritativa e costitutiva. In particolare, distingue gli ordini impartiti in forza di un potere di supremazia generale o speciale, comprendendo tra questi ultimi quelli impartiti nell’ambito del rapporto gerarchico (es.: gli ordini militari). Inoltre, classifica tra i provvedimenti emanati nell’esercizio della potestà ordinatoria gli atti ablativi (espropriazione), gli atti sanzionatori (confisca), gli atti limitativi della proprietà privata (vincoli paesistici, storici, idrogeologici), gli atti di disciplina di settore (calmieri, strumenti urbanistici).
Gli elementi richiamati evidenziano come l’attenzione della dottrina sia stata orientata a determinare un quadro sistematico delle norme vigenti per chiarire le modalità secondo le quali l’esercizio della potestà ordinativa potesse avvenire nel rispetto appropriato dei principi di buona amministrazione ed imparzialità e senza pregiudizio degli interessi legittimi dei destinatari, in linea, peraltro, con la citata sentenza della Corte Costituzionale (n. 26/61) con la quale è stato chiarito che l’emanazione delle ordinanze di necessità e di urgenza, quando prevista, deve avvenire entro i limiti generali sanciti dall’ordinamento giuridico.
e. L’ordine gerarchico: atto interno

L’approfondimento della dottrina ha portato a distinguere gli ordini in atti amministrativi esterni (incidenti nella sfera giuridica dei destinatari) ed interni (di natura sostanzialmente organizzatoria ed operanti soltanto nell’ambito del rapporto gerarchico) proprio allo scopo di chiarire i casi in cui anche agli ordini debbano essere applicate le norme sui provvedimenti amministrativi, finalizzate a garantire l’esatto perseguimento dei fini istituzionali e la tutela degli interessi legittimi dei destinatari. Questo approfondimento consente di rilevare la differenza sostanziale tra gli ordini esterni ed interni. I primi sono emanati nell’esercizio di una potestà di supremazia generale, attribuita in funzione dei fini istituzionali da perseguire nell’interesse delle collettività, quindi prevalente rispetto a quello dei destinatari, che comunque deve essere garantito.
Di conseguenza, gli ordini esterni hanno natura giuridica di provvedimento che, ancorché discrezionale, devono assicurare il rispetto delle regole poste a garanzia dell’imparzialità e dell’obiettività. Gli ordini interni, invece, sono emanati nell’esercizio di una potestà di supremazia speciale nei confronti dei dipendenti che, in virtù dello specifico status, sono tenuti ad assolvere i propri compiti nell’ambito delle rispettive competenze. Esauriscono, quindi, la propria funzione nell’ambito della struttura organizzativa, specialmente quando questa abbia una articolazione gerarchica che distribuisce le competenze operative dei singoli secondo diversi livelli di responsabilità esecutiva. Gli ordini interni, pertanto, attraverso comandi e divieti, regolano modalità e tempi dell’attività esecutiva, senza incidere nella sfera giuridica dei singoli, di cui coinvolgono le responsabilità in quanto le rispettive competenze fanno parte di un progetto produttivo unitario.
Queste responsabilità, di natura amministrativa, risarcitoria e penale, evidenziano come il rapporto di dipendenza gerarchica non riduce il subordinato a mero esecutore inanimato di ordini bensì ne valorizza la professionalità e la capacità di assicurare una obbedienza ragionata, essenziale per una produttività esecutiva, rispondente ai criteri di buona amministrazione e di imparzialità. In tale quadro, l’ordine interno avrebbe natura giuridica non di provvedimento bensì di atto amministrativo che, come il provvedimento, è autoritativo ma, diversamente dal provvedimento, non è caratterizzato da quella discrezionalità che attribuisce all’autorità competente la facoltà di scegliere contenuto, modalità e tempi del provvedimento con il solo fondamentale obbligo di esternare la motivazione della scelta.
L’approfondimento della dottrina sulla natura giuridica dell’ordine non si è soffermato su questo aspetto perchè in passato, fino all’entrata in vigore della legge n. 241/90, non era previsto un obbligo generale di motivazione dei provvedimenti amministrativi. Norme specifiche, che regolamentavano singoli provvedimenti, prevedevano i casi in cui era necessaria la motivazione dell’atto. Sulla base di tali previsioni specifiche, e tenuto conto dei principi generali richiamati dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, la dottrina ha tentato di individuare un criterio generale che giustificasse la necessità della motivazione come strumento per rendere trasparente il corretto esercizio della discrezionalità nel rispetto delle posizioni soggettive dei destinatari. Di conseguenza, riguardo agli atti emanati nell’esercizio della potestà ordinatoria risultava prioritario chiarire quali di essi avessero natura di provvedimento al fine di accertare la sussistenza di norme riguardanti l’obbligo di motivazione ovvero delle condizioni che, in base ai principi generali, rendessero la motivazione necessaria.
La legge n. 241/90 ha determinato le regole generali del procedimento amministrativo, prevedendo, tra l’altro, l’obbligatorietà della motivazione nei provvedimenti amministrativi, compresi gli ordini (art. 3). Questa norma, oggi, rende necessario rimarcare la differenza sostanziale tra ordini esterni ed interni poiché, stante la generalità della formulazione normativa, senza la puntualizzazione che gli ordini interni non sono provvedimenti bensì meri atti amministrativi, inevitabilmente anch’essi dovrebbero essere motivati. Tale soluzione risulta inaccoglibile poiché la motivazione di un atto interno, di natura organizzativa, appare assolutamente non necessaria per la sua validità. L’organizzazione di una struttura pubblica è funzionale agli obiettivi istituzionali da perseguire secondo un progetto. Di conseguenza, gli atti organizzativi devono rispondere a criteri di efficienza, funzionali all’efficacia dell’attività pubblica, ma non devono trovare ostacoli o subire restrizioni di natura formale o procedurale che non abbiano incidenza sostanziale sui contenuti. Pertanto, l’ordine interno, esaurendo la propria funzione nell’ambito del rapporto gerarchico, è un mero atto amministrativo per il quale non trova applicazione l’obbligo di motivazione sancito per i provvedimenti allo scopo di evidenziarne la conformità ai principi di buona amministrazione e di imparzialità.



3. L’ordine di trasferimento del personale militare

a. Generalità

Nel rapporto d’impiego del personale militare assume particolare rilevanza il trasferimento, come atto finalizzato allo spostamento dalla sede di servizio. L’operatività delle FF.AA. impone la necessità di impiegare il personale secondo le esigenze funzionali. In tale logica, il reclutamento, la formazione e l’addestramento sono razionalizzati in modo da garantire che, a tutti i livelli, il personale possa essere impiegato, secondo il rispettivo profilo professionale e senza pregiudizio per gli sviluppi di carriera, esclusivamente in funzione delle esigenze operative. Di conseguenza, uno degli elementi caratterizzanti della specificità dello status dei militari rispetto ai dipendenti pubblici è la mobilità. Infatti, per gli impiegati civili vige il principio sancito dalla legge secondo cui il trasferimento debba avvenire con il consenso dell’interessato, salvo i casi tassativamente previsti nei quali può essere decretato il trasferimento d’autorità.
Per i militari non è sancita un’analoga disposizione di carattere generale; sono previsti, invece, casi tassativi in cui sussista un diritto a chiedere il trasferimento secondo apposite modalità.
La mobilità, in sostanza, è connaturata alla funzionalità delle FF.AA. poiché l’operatività non può essere subordinata all’accettazione della destinazione d’impiego né condizionata da una pianificazione concordata con gli interessati.
In base al D.P.R. n. 556/99 (regolamento attuativo della legge n. 25/97 sui Vertici della Difesa) il governo della mobilità risale al Capo di SMD, responsabile dell’impiego delle risorse umane, materiali e finanziarie assegnate per il conseguimento degli obiettivi (art. 2, comma 1, lett. c) che, in materia d’impiego (art. 2, comma 1, lett. s), emana direttive per l’impiego in ambito interforze ed internazionale e stabilisce i criteri generali per l’impiego in ambito FF.AA.
Lo stesso D.P.R. statuisce, poi, che in seno alle singole FF.AA. i rispettivi Capi di SM emanano le direttive per l’impiego (art. 12, comma 1, lett. h, punto 2) ed inoltre provvedono alla trattazione delle materie relative all’impiego emanando i relativi atti amministrativi anche riguardo all’eventuale contenzioso (art. 12, comma 1, lett. i, punto 1).
Questa attribuzione di competenza tecnico-amministrativa agli organi dell’area tecnico-operativa della Difesa deriva dalla stretta correlazione tra il governo della mobilità ed il governo delle FF.AA. che impone l’inscindibile unitarietà nella gestione - operativa ed amministrativa - dell’impiego del personale militare. Ciò implica che, secondo l’ordinamento vigente, rientra nei compiti istituzionali delle FF.AA. garantire un equo bilanciamento tra le esigenze di funzionalità operativa e le esigenze del personale assoggettato alla gravosità della mobilità, che si riflettono anche sull’equilibrio familiare. Infatti, non essendo previsto a favore del personale alcun diritto ad intervenire nelle procedure di governo/gestione della mobilità, compete all’Amministrazione della Difesa assicurare che la movimentazione non risulti pregiudizievole delle aspirazioni professionali né penalizzante dell’esigenza di garantire a sé ed alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
In tale contesto il trasferimento non può che configurarsi come ordine, in quanto atto destinato ad imporre al destinatario un obbligo di fare nel quadro di una pianificazione operativa, comprensiva dell’impiego del personale, risalente al Capo di SMD. Considerato, poi, che l’ordine di trasferimento, in concreto, incide nella sfera d’interesse del destinatario perchè condiziona la organizzazione della vita privata del militare e della propria famiglia, in mancanza di una esplicita definizione normativa, è necessario chiarire se quest’ordine abbia natura giuridica di provvedimento ovvero di mero atto amministrativo. Infatti, nel primo caso, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 241/90, ogni singolo ordine dovrebbe essere motivato, nel secondo caso non sarebbe necessaria alcuna motivazione.

b. Orientamenti giurisprudenziali

La questione della necessità della motivazione del trasferimento d’autorità del personale militare è stata oggetto di contenzioso giurisdizionale, sul quale il Consiglio di Stato costantemente ha espresso giudizio contrario. In particolare, già prima dell’entrata in vigore della legge n. 241/90, l’alto consesso ha chiarito(4) che le disposizioni sullo stato giuridico dei dipendenti civili dello Stato non sono applicabili ai militari in servizio.
Di conseguenza, al trasferimento del personale delle FF.AA. non si estende l’onere della motivazione previsto dall’art. 32, del T.U. 10 gennaio 1957, n. 3.
Con successiva decisione(5) il Consiglio di Stato ha precisato che l’Amministrazione militare non è tenuta a dare contezza delle ragioni che presiedono al trasferimento di un militare, atteso che tali provvedimenti sono qualificabili come ordini che attengono ad una semplice modalità di svolgimento del servizio e, come tali, sono ampiamente discrezionali, per cui ad essi non può riconoscersi una posizione soggettiva giuridicamente tutelata del militare alla sede di servizio, a fronte della quale sussista un onere di motivazione delle esigenze che giustificano il trasferimento. Un’altra decisione del Consiglio di Stato ha, poi, puntualizzato(6) che l’ordine di trasferimento d’ufficio, precetto imperativo tipico dell’ordinamento militare gerarchico, è sottratto alla disciplina generale della legge n. 241/90. Pertanto non richiede alcuna indicazione, perchè intrinseco a materia in cui l’interesse pubblico del rispetto della disciplina e dello svolgimento del servizio prevale in modo immediato e diretto su qualsiasi altro.
Parimenti è ad esso inapplicabile la disciplina della partecipazione, poiché l’intero sistema della disciplina militare è improntato ai principi dell’immediato rispetto dell’ordine e della pronta esecuzione. Di conseguenza, risultano integrate quelle speciali ragioni di celerità procedimentale che giustificano, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241/90, la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento.
Un’ulteriore decisione(7) ha precisato che il trasferimento d’ufficio dei pubblici dipendenti persegue l’interesse specifico dell’Amministrazione alla funzionalità del servizio, che prevale su quello dell’interessato, e resta così qualificato anche quando quest’ultimo abbia espresso il suo gradimento, che si configura come un mero assenso alle determinazioni dell’Amministrazione. Di conseguenza, nella circostanza l’alto consesso ha deciso che il personale dei ruoli della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, assegnati con esplicito gradimento a Centri operativi della Direzione Investigativa Antimafia, hanno diritto a percepire l’indennità prevista dall’art. 1 della legge n. 10 marzo 87, n. 100.
Risulta, inoltre, particolarmente significativa la decisione che fornisce l’inquadramento dogmatico della problematica attraverso l’individuazione dell’esatta natura giuridica del trasferimento d’autorità del personale militare e dei connessi limiti del sindacato giurisdizionale di legittimità esercitato dal giudice amministrativo. La sentenza(8) puntualizza che nella giurisprudenza del Consiglio di Stato è pacifico che i trasferimenti d’autorità disposti dall’Amministrazione militare rientrino nel genus degli ordini. Ciò sulla base dell’ esegesi storica, letterale e sistematica delle norme sancite dalla legge di principi sulla disciplina militare (legge n. 382/78), in particolare gli artt. 4, comma 4, e 12,comma 1, nonché dal discendente regolamento attuativo (D.P.R. n. 545/86) con particolare riguardo all’art. 1, comma 2, art. 2, comma 1, 24 e 25. Infatti, dall’esame di tali disposizioni emerge con chiarezza che ineludibili esigenze di organizzazione, coesione interna e massima operatività delle FF.AA. impongono di sussumere nella categoria dell’ordine del superiore gerarchico questi provvedimenti che attengono, in buona sostanza, ad una semplice modalità di svolgimento del servizio sul territorio, in relazione alla speciale considerazione delle esigenze operative delle FF.AA.
La decisione chiarisce, altresì, che anche i provvedimenti di trasferimento per incompatibilità ambientale sono stati esattamente ricondotti nell’ambito del trasferimento per esigenze di servizio, poiché non denotano una fattispecie autonoma di trasferimento. Infatti, sotto tale angolazione si è affermato, coerentemente, che le esigenze di servizio indicate in un provvedimento di trasferimento di un militare non possono essere ricondotte esclusivamente a necessità organiche o ad impegni tecnico-operativi, bensì a tutti quei motivi di opportunità che possono oggettivamente compromettere, in modo grave, l’immagine delle FF.AA. e l’ordinato svolgimento dei compiti istituzionali affidati ai militari.
Chiarisce, inoltre, che neppure possono profilarsi obiezioni inerenti alla mancanza di tutela dei diritti fondamentali della persona. Il nucleo essenziale di tali diritti, in un’ottica di necessario bilanciamento con valori costituzionali parimenti importanti, è stato salvaguardato dall’ordinamento militare che ha previsto l’illiceità del trasferimento discriminatorio (art. 17, l. 382/78) fondato su ragioni ideologiche e politiche o, comunque, vessatorie.
Coerentemente il legislatore ha circondato di particolari cautele il trasferimento di appartenenti alle rappresentanze militari (art. 20 l. 382/78 in combinato disposto con l’art. 13 del D.P.R. n. 691/79) imponendo l’acquisizione del parere non vincolante dell’organo di rappresentanza ogni qual volta dal trasferimento derivi la decadenza dal mandato. In tali casi il sindacato di legittimità del giudice amministrativo si estenderà alla individuazione delle ragioni delle scelta espressa dall’Amministrazione nell’atto impugnato, al fine di valutare la proporzionalità in comparazione con la cura completa dell’interesse pubblico perseguito ed il sacrificio imposto alla sfera del privato.
In esito all’analisi della natura giuridica dell’ordine di trasferimento il Consiglio di Stato afferma che tale ordine è sottratto alla disciplina generale dettata dalla legge n. 241/90. “L’ordine è un precetto imperativo tipico della disciplina militare e del relativo ordinamento gerarchico. Diversamente da altri atti appartenenti concettualmente alla medesima categoria, l’ordine adottato dai responsabili militari... non richiede alcuna motivazione, perchè intrinseco a materia in cui l’interesse pubblico specifico del rispetto della disciplina e dello svolgimento del servizio prevalgono in modo immediato e diretto su qualsiasi altro”. Le differenze concettuali e normative tra impiego civile e militare sono tanto profonde da rendere problematica l’assimilazione analogica e la ricerca di principi generali comuni.
Richiamando la sentenza n. 449/99 della Corte Costituzionale, la decisione in esame conclude affermando che l’ordinamento militare, ai sensi dell’art. 52, comma 3, della Costituzione, trova collocazione nell’ambito dell’ordinamento giuridico generale, ferma restando la sua assoluta peculiarità, quale corpus omogeneo e completo di regole “non di rado più dettagliate e garantiste di quelle relative all’impiego civile”. Di conseguenza, in materia di impiego militare “non possono fondarsi aspettative di jus in officio non essendo configurabile una posizione soggettiva giuridicamente tutelata del militare alla sede di servizio, a fronte della quale sussiste un onere di motivazione delle esigenze giustificative del provvedimento”.
Questo indirizzo giurisprudenziale si è successivamente consolidato con ulteriori decisioni nelle quali è stato confermato che il trasferimento dei militari costituisce un ordine connesso a necessità organiche ed operative, ovvero a motivi di opportunità che possono pregiudicare/penalizzare l’assolvimento dei compiti istituzionali. Rispetto a tali ordini, che non richiedono una specifica motivazione, l’interesse del militare ad una ovvero altra sede ha rilevanza di mero fatto(9).

c. Orientamenti della dottrina

Alla fine degli anni ’90, in dottrina è stata sostenuta la tesi dell’obbligatorietà della motivazione degli ordini di trasferimento(10). Quest’Autore, evidenziato che gli ordini rivestono significativa rilevanza per i militari soggetti - in virtù del particolare status - a determinate limitazioni nell’esercizio dei diritti che la Costituzione riconosce a tutti i cittadini, rileva che taluni ordini, pur basati su un potere di supremazia speciale, “sono veri e propri atti esterni che, in quanto tali, possono incidere su diritti o interessi della persona obbligata ad eseguirli”.
Evidenzia, inoltre, che l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa, secondo il quale in materia di trasferimento dei militari l’Amministrazione della Difesa non è tenuta a rendere nota la motivazione, è basato sui seguenti tre elementi: ampia discrezionalità in materia; assenza dell’obbligo di motivazione; assenza di una posizione soggettiva giuridicamente tutelata per il militare.
A tale riguardo rileva che questo indirizzo non è in linea con l’orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa e contabile che ha chiarito l’assenza di ogni relazione tra latitudine decisionale ed obbligo di motivazione, anche negli atti di alta amministrazione. A sostegno di tale assunto richiama un’ulteriore giurisprudenza amministrativa che affermava come l’ampia discrezionalità attinente al merito non è sindacabile riguardo al contenuto del provvedimento ma non esclude la sindacabilità della motivazione che attiene non al contenuto “ma al modo con cui la scelta stessa è stata effettuata”. Richiama, altresì, la giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha chiarito come rispetto ad una norma che non delimiti gli elementi cui la P.A. debba attenersi nell’esercizio delle potestà discrezionali, una motivazione rigorosa ed esauriente risulta necessaria per assicurare un penetrante sindacato di legittimità.
Osserva, poi, come, associando al potere ampiamente discrezionale l’assenza di ogni motivazione e la mancanza di una reale tutela del militare, si giungerebbe ad una situazione inconciliabile con i più elementari principi di garanzia sanciti dall’ordinamento vigente. Ciò senza tenere in debita considerazione il fatto che anche la più ampia discrezionalità non risulta affatto mortificata dalla presenza di un obbligo di motivazione, tenuto conto che “l’enunciazione del complesso dei motivi che conducono all’emanazione del provvedimento è, quindi, a ben vedere, una spia indiscutibilmente valida al fine di rendere trasparente l’attività amministrativa”.
Critica, inoltre, le pronunce giurisdizionali ove si afferma che il legislatore con l’art. 3 della legge 241/90 non avrebbe inteso riferirsi agli ordini di trasferimento. In particolare, evidenziato che la citata norma riferisce l’obbligo di motivazione a tutti i provvedimenti amministrativi, escludendo espressamente “gli atti normativi e gli atti a contenuto generale”, sottolinea che sussiste un orientamento giurisprudenziale che “considera tanto più necessario l’obbligo della motivazione quanto maggiore è l’incidenza del provvedimento nella sfera giuridica del destinatario”.
L’autore, in sostanza, ritiene inaccettabile che al personale militare venga preclusa - o limitata a particolari mezzi d’impugnazione ovvero a determinate categorie di atti - la tutela giurisdizionale nei confronti della P.A. prevista dagli artt. 24 e 113 della Costituzione. Di conseguenza, in materia di trasferimento dei militari l’indiscusso potere dell’Amministrazione militare di disporre del personale con prontezza per sopperire alle esigenze operative non risulterebbe svilito dall’esercizio di tale potere in modo trasparente, “dando prova che si sia operata la giusta comparazione di tutti gli interessi introdotti nel procedimento”. L’Amministrazione, pertanto, deve rendere note le ragioni specifiche che hanno determinato l’adozione del trasferimento, considerato che l’obbligo di motivazione sussiste in misura più marcata in presenza di atti che incidono in modo sfavorevole sugli interessi del privato e che l’ordine di trasferimento “spesso comprime diritti costituzionalmente garantiti... ed al militare deve essere consentita, conseguentemente, la possibilità della tutela mediante ricorso al sindacato di legittimità sulle circostanze presupposte al provvedimento stesso ed ivi indicate”.
Nella dottrina più recente, un Autore(11) ha elaborato una costruzione sistematica dell’istituto del trasferimento del militare disposto d’autorità.
Quest’autore, preliminarmente, chiarisce che il trasferimento d’autorità è finalizzato esclusivamente a realizzare l’interesse dell’Amministrazione; di conseguenza, risulta totalmente subordinata la posizione del dipendente, le cui esigenze possono essere tenute in considerazione soltanto nei limiti delle preferenze espresse riguardo alla sede di servizio. Nel trasferimento a domanda risulta prevalente il soddisfacimento delle esigenze personali e familiari del richiedente; in tal caso l’interesse pubblico costituisce un limite esterno di compatibilità poiché deve sempre essere assicurato il rispetto dei principi sanciti dall’art. 97 della Costituzione. Pertanto, nei trasferimenti d’autorità la dichiarazione di assenso o di disponibilità, nonché le indicazioni di preferenze di sede, non modificano il provvedimento in trasferimento a domanda.
Passando alla ricognizione delle norme dell’ordinamento militare che costituiscono principi generali sulle modalità secondo le quali l’Amministrazione può incidere sull’autonomia di movimento del personale, evidenzia in particolare che l’art. 32 del T.U. sullo stato giuridico degli impiegati civili dello Stato (D.P.R. n. 3/57), concernente i trasferimenti dei pubblici impiegati a domanda, d’ufficio per motivate esigenze di servizio e per incompatibilità ambientale è stato abrogato dall’art. 72 del D.lgs., n. 165/01 che ha recepito l’abrogazione già sancita dall’art. 43, comma 5, del D.lgs. n. 80/98.
Evidenzia, altresì, che l’art. 6 del D.lgs. n. 195/95, disciplinante le procedure per regolare i contenuti del rapporto d’impiego del personale delle FF.AA. e delle Forze di Polizia, conferma che le modalità d’impiego del personale militare sono materie coperte da riserva di legge, ovvero atti normativi o amministrativi emanati su base legale, ed esclude ogni interferenza della concertazione collettiva.
Sulla base di tale esame normativo e tenuto conto dell’indirizzo consolidato del Consiglio di Stato e delle riflessioni della dottrina sulla natura giuridica dell’ordine militare, esprime l’avviso che sussista unanime concordanza sul fatto che il trasferimento d’autorità rientri nel genus degli ordini.
Specificamente, afferma che le esigenze di organizzazione, coesione interna e massima operatività delle FF.AA. impongono di inquadrare nella categoria dell’ordine gerarchico i trasferimenti d’autorità che, sostanzialmente, “attengono ad una semplice modalità di svolgimento del servizio sul territorio”.
Le differenze concettuali e di regolamentazione tra impiego civile e militare sono profonde ed estese, tali da rendere difficoltoso ogni tentativo di assimilazione analogica o di determinazione di principi comuni. Infatti, l’ordinamento militare, nell’ambito dell’ordinamento giuridico generale, è connotato da assoluta peculiarità nonché composto da un corpus omogeneo e completo di regole, ed è teleologicamente indirizzato ad assicurare l’efficace funzionamento delle FF.AA. per attendere ai compiti di difesa indicati dall’art. 52, comma 1, della Costituzione. Tale assunto risulta confermato dalla legge n. 331/00 (concernente l’istituzione del servizio militare professionale) che all’art. 1 precisa come l’ordinamento e l’attività delle FF.AA., conformemente agli artt. 11 e 52 della Costituzione, siano strumentali al compito primario della difesa dello Stato e di realizzazione della pace e della sicurezza.
L’autore fornisce, inoltre, un quadro sistematico per chiarire come dall’assodata natura giuridica di ordine discenda l’inapplicabilità ai trasferimenti d’autorità della disciplina generale sul procedimento amministrativo sancita dalla legge n. 241/90, con particolare riguardo alle norme in tema di partecipazione del privato al procedimento amministrativo e di obbligatorietà della motivazione dei provvedimenti. Chiarisce, altresì, la collocazione sistematica del trasferimento d’autorità per incompatibilità ambientale e le modalità secondo cui è garantita la tutela dei diritti fondamentali dei militari trasferiti d’autorità.

d. Partecipazione del privato al procedimento amministrativo

La partecipazione dell’interessato al procedimento di trasferimento risulta impedita da valutazioni di natura logico-giuridica ancor prima degli elementi di diritto positivo. In particolare, il dovere di pronta esecuzione dell’ordine, sancito dall’art. 25 del Reg. Disc. Mil. (D.P.R. n. 545/86), ed il correlato dovere di chiara formulazione dell’ordine a carico del superiore che lo impartisce, sancito dall’art. 23 dello stesso regolamento, escludono che il destinatario possa essere tempestivamente informato dell’avvio del procedimento per l’emanazione dell’ordine di trasferimento. Peraltro, tale ordine è un atto amministrativo a forma libera, per cui risulterebbe difficile ipotizzare che la sua emanazione debba essere preceduta dall’avviso di procedimento, ovvero che presupponga sempre un’attività istruttoria all’interno della quale acquisire le osservazioni del destinatario dell’ordine stesso. In merito va ricordato l’art. 7, comma 1, della legge n. 241/90 ove è sancito che l’avvio del procedimento è comunicato all’interessato soltanto qualora non sussistano motivi di impedimento connessi con particolari esigenze di celerità. A fronte della precisazione del Consiglio di Stato (Ad. Plen. 15/8/99 n. 14) circa la necessità che tali motivi di celerità debbano sussistere in concreto, non si può non tenere presente che l’intero sistema della disciplina militare esige l’immediato rispetto dell’ordine e la sua pronta esecuzione. Di conseguenza, come peraltro confermato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, risultano sussistere le speciali ragioni di celerità procedimentale, prevista dalla l. 241/90.

e. Motivazione

L’ordine, come precetto imperativo tipico della disciplina militare e del relativo ordinamento gerarchico, si distingue da altri atti appartenenti alla stessa categoria. Inoltre, essendo intrinseco a materia in cui lo specifico interesse del rispetto della disciplina e dello svolgimento del servizio sono prevalenti in modo immediato e diretto su qualsiasi altro interesse, non risulta necessaria alcuna motivazione. Come ampiamente chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, in materia d’impiego dei militari non sono configurabili ipotesi di ius in officio; non sussiste quindi alcuna posizione soggettiva giuridicamente tutelata del militare alla sede di servizio, a fronte del quale possa essere configurato un dovere di motivare le esigenze che giustificano il trasferimento(12).
In concreto, l’insussistenza di un obbligo di motivazione dell’ordine di trasferimento si riconnetterebbe alla naturale differenza con i provvedimenti ordinativi (per es.: provvedimenti ablativi) che incidono in modo diretto ed immediato nella sfera giuridica del destinatario.
Quest’indirizzo sembra trovare appropriato ancoraggio anche nelle norme (che saranno esaminate più avanti) poste a tutela dell’unitarietà della famiglia per i disagi conseguenti dalla mobilità dei militari, nonché in quelle finalizzate a garantire l’assistenza degli handicappati.

f. Trasferimento per incompatibilità ambientale

Per questo tipo di trasferimento è differente la disciplina applicabile rispettivamente per i dipendenti civili dello Stato e per i militari.
Il trasferimento d’ufficio dei dipendenti pubblici per incompatibilità ambientale avviene per effetto dell’esercizio del potere organizzatorio, ampiamente discrezionale e finalizzato a tutelare il prestigio, l’autorevolezza e l’immagine dell’ufficio, ripristinandone il corretto e sereno funzionamento. Risulta, quindi, escluso, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, che tale trasferimento abbia carattere disciplinare o sanzionatorio, non essendo condizionato dall’accertamento della responsabilità dell’interessato in ordine alla violazione dei doveri d’ufficio. Inoltre, per l’adozione del trasferimento per incompatibilità ambientale, pur non essendo essenziale un formale contraddittorio, è tuttavia necessario esaminare le controdeduzioni dell’interessato ed esplicitare nella motivazione l’indicazione delle ragioni specifiche che ostacolano la permanenza del dipendente nella sede di servizio.
I trasferimenti per incompatibilità ambientale dei militari, secondo la giurisprudenza consolidata in materia, non configurano una fattispecie autonoma di trasferimento specificamente regolamentato perché le esigenze di servizio possono essere ricondotte non soltanto a necessità organiche ovvero ad impegni tecnico-operativi, ma anche a motivi di opportunità destinati a garantire l’ordinato svolgimento dei compiti istituzionali ovvero l’immagine delle FF.AA. Di conseguenza, il trasferimento per incompatibilità ambientale dei militari può essere adottato secondo le stesse modalità previste per gli ordinari trasferimenti d’autorità(13).
g. Tutela dei diritti fondamentali della persona

Preliminarmente va evidenziato che la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha chiarito i termini essenziali che contraddistinguono l’esercizio dei diritti fondamentali da parte dei militari. In particolare, la sentenza n. 332 del 24 luglio 2000 ha dichiarato l’incostituzionalità delle norme che limitano l’accesso ai Corpi di Polizia e militari a coloro che hanno prole. Con tale sentenza la Corte, pur riconoscendo come tendenzialmente esclusivo il rapporto che lega il militare in fase di istruzione al Corpo di appartenenza, nella comparazione tra il valore della massima operatività ed efficienza delle FF.AA. e la tutela della famiglia e del diritto di ciascun individuo alla procreazione, ha ritenuto incomprimibile il diritto fondamentale della persona alla procreazione quale espressione della più grande libertà di autodeterminazione nella vita privata.
La stessa Corte Costituzionale (con ordinanza n. 410 del 3 luglio 2000) ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità delle norme che non prevedono la querela per diffamazione di un militare contro altro militare perchè la diversità di trattamento dei militari rispetto agli appartenenti ai Corpi di Polizia ad ordinamento civile è giustificata dalla peculiarità della posizione tipica del cittadino inserito nell’ordinamento militate rispetto alla generalità degli altri cittadini. Con specifico riferimento al trasferimento d’autorità, la tutela dei diritti fondamentali della persona risulta garantita dalle norme che vietano il trasferimento discriminatorio e disciplinano il trasferimento del delegato della Rappresentanza Militare.

h. Trasferimento discriminatorio

L’art. 17, comma 1, della legge di principi sulla disciplina militare (l. 382/78) sancisce l’illiceità del trasferimento discriminatorio fondato su ragioni ideologiche o, comunque, vessatorie. Questa norma risulta in linea con l’art. 1 della legge n. 331/00 che impone la conformazione dell’ordinamento militare alla Costituzione ed alle leggi che impongono a tutti gli apparati pubblici il divieto di ogni forma di aggressione ai diritti fondamentali della persona. La prova del carattere discriminatorio del trasferimento, secondo il principio generale sancito dall’art. 2697 c.c., deve essere fornita dall’interessato, salvo i casi in cui sia espressamente prevista l’inversione dell’onere della prova.
In materia, a seguito della professionalizzazione del servizio militare (l. 331/00) e del reclutamento su base volontaria del personale militare femminile (D.Lgs. n. 24/01) assumono rilevanza per l’ordinamento militare anche le norme che tutelano la parità di trattamento tra uomini e donne nei rapporti di lavoro.

i. Trasferimento dei delegati della rappresentanza militare

L’ordinamento militare ha sancito particolari cautele nella disciplina degli appartenenti alla Rappresentanza Militare (art. 20 della l. 382/78 ed art. 13 del D.P.R. n. 691/79) imponendo l’acquisizione del parere non vincolante del Consiglio di Rappresentanza qualora dal trasferimento d’autorità derivi la decadenza dal mandato.
Una recente decisione del Consiglio di Stato, sulla base della giurisprudenza consolidata, ha fornito un utile chiarimento circa la ratio delle norme richiamate. Tale sentenza(14) annulla una sentenza del T.A.R. Liguria che dichiarava l’illegittimità dell’art. 13, comma 5, ultimo periodo del D.P.R. n. 691/79 “i trasferimenti dei delegati... devono essere concordati con l’organo di rappresentanza... In caso di discordanza prevarranno le motivate necessità d’impiego dell’Amministrazione militare perchè il delegato possa essere sostituito nell’organo di rappresentanza secondo le norme stabilite negli ultimi due commi del presente articolo” perché in contrasto con l’art. 20, ultimo comma, della l. 382/78 “I trasferimenti..., qualora pregiudichino l’esercizio del mandato, devono essere concordati con l’organo di rappresentanza a cui il militare, di cui si chiede il trasferimento, appartiene”. Lo stesso art. 20, ultimo comma, prevede l’emanazione, con apposito D.P.R., delle “norme di attuazione delle disposizioni contenute negli articoli 18 e 19” della stessa legge. Inoltre, ha annullato, per invalidità derivata e per vizi propri, un trasferimento d’autorità.
Il Ministero della Difesa ha impugnato tale decisione esclusivamente nella parte riguardante l’illegittimità della citata norma regolamentare.
Il Consiglio di Stato, nella decisione in esame, evidenzia che il primo Giudice, nella sentenza impugnata, ha ritenuto che l’art. 13, comma 5, del D.P.R. n. 691/79 avrebbe esorbitato dai limiti posti dall’art. 20, ultimo comma, della l. 382/78, concernente la previsione del regolamento d’attuazione esclusivamente riguardo agli artt. 18 e 19 della medesima legge, regolamentando anche il trasferimento dei delegati disciplinato, invece, dall’art. 20, comma 2, che “avrebbe escluso intenzionalmente l’intervento della fonte subordinata, in considerazione della delicatezza della funzione svolta dai delegati”. Secondo l’alto consesso tale tesi non può essere accolta considerato che, sotto il profilo sistematico, le norme fondamentali in materia di Rappresentanza Militare sono gli artt. 18,19 e 20 della legge n. 383/78.
La disciplina primaria di tali norme è unitaria e non preclude l’esercizio del potere regolamentare in via ordinaria, peraltro, “espressamente contemplato nell’art. 20, sia al comma 3 (relativamente alla competenza del Ministro per l’emanazione del regolamento interno sull’organizzazione ed funzionamento della Rappresentanza), sia dal comma 4...”. Inoltre, l’art. 18 istituisce gli organi della Rappresentanza e traccia la cornice dei requisiti di eleggibilità; l’art. 19 stabilisce i compiti dei Consigli ai vari livelli ed indica le materie escluse dalle competenze della Rappresentanza. In tale contesto l’art. 13 del regolamento impugnato “non poteva non dettare le regole di funzionamento degli organismi di rappresentanza nel caso di trasferimento del delegato per ragioni di servizio, trattandosi di evento strettamente connesso con il funzionamento dell’organo rappresentativo”.
Pertanto, anche l’ultima parte dell’art. 13, comma 5, “si limita essenzialmente ad attuare i precetti sanciti dalle norme primarie divisate dagli artt. 18 e 19, coordinandoli con la norma sancita dal secondo comma dell’art. 20”. Sulla base di tale premessa neanche può essere accolta la tesi del T.A.R. Liguria che ravvisa la violazione dell’art. 20, comma 2 (l. 382/78) che introdurrebbe “il divieto assoluto di trasferimento del delegato senza il preventivo assenso degli organismi di Rappresentanza”. In sostanza, per la Rappresentanza Militare vige un sistema di interventi procedimentali che si traduce, sul piano organizzativo, nella considerazione delle Rappresentanze come “parti del plesso amministrativo della Difesa nei cui confronti assumono veste collaborativa e non antagonista”. In tale ottica trovano giustificazione i limiti all’esercizio di talune libertà costituzionali non previste dai modelli del sindacalismo tradizionale e da quello previsto per le Forze di Polizia ad ordinamento civile.
Secondo l’orientamento consolidato del Consiglio di Stato - in linea con le puntualizzazioni in materia della Corte Costituzionale(15) - tali limiti “originano dalla specificità dell’ordinamento militare che impedisce di considerare il servizio reso dai militari alla stregua di una mera attività”.
Pertanto (secondo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato) essendo imposta l’acquisizione del parere non vincolante dell’organo di Rappresentanza qualora dal trasferimento derivi la decadenza dal mandato, il sindacato di legittimità del Giudice amministrativo si estende all’individuazione delle ragioni della scelta contenuta nell’ordine di trasferimento al fine di apprezzarne “la proporzionalità in comparazione con la cura concreta dell’interesse pubblico e del sacrificio imposto alla sfera giuridica del privato”.
Sulla base delle “coordinate costituzionali, sistematiche e storiche” individuate, il Consiglio di Stato ritiene che “la portata letterale della norma sancita dall’art. 20, comma 2, non consente la conclusione cui è giunto il T.A.R. nell’impugnata sentenza”.
Infatti, la formula “trasferimenti concordati” non attribuisce un inammissibile potere di veto(16) alle Rappresentanze Militari. L’ultimo periodo dell’art. 13, comma 5 (D.P.R. n. 691/79), si colloca appropriatamente in questo contesto specialmente con l’individuazione di un limite insuperabile al trasferimento qualora sia impedito il funzionamento dell’organo perchè il delegato non può essere sostituito.
Tale norma realizza, in definitiva, il migliore equilibrio perseguibile nel vigente assetto costituzionale, in materia di trasferimento dei delegati della Rappresentanza ove “si fronteggiano interessi dialetticamente giustapposti e giammai antagonisti”, ricondotti ad unità dal sistema complessivo delle fonti primarie e secondarie.
Di conseguenza, “l’attività lato sensu sindacale dei militari deve sempre adeguarsi alle esigenze proprie della funzione di Forza armata e la compressione delle libertà costituzionali non incide sullo sviluppo democratico delle medesime Forze Armate”.


4. Ulteriori norme che incidono sul trasferimento del militare

a. Generalità

L’assoluta tipicità del trasferimento d’autorità, finalizzato a garantire la mobilità del personale militare in funzione delle esigenze addestrative ed operative, trova conferma nell’esistenza di norme speciali che:
- per assicurare la necessaria tutela della famiglia del militare, introducono eccezioni che incidono sull’autonomia delle altre Amministrazioni pubbliche nella gestione dell’impiego dei propri dipendenti;
- per garantire la tutela degli handicappati assistiti da personale militare, sanciscono in via eccezionale l’obbligo della Difesa di tenere in giusta considerazione le richieste d’impiego presentate dai militari che assistono in modo continuativo familiari handicappati.

b. Garanzia della famiglia dai disagi della mobilità

L’art. 17 della legge n. 266/99 (come modificato dall’art. 7 della legge n. 3/03) attribuisce al coniuge del militare - o appartenente alle Forze di Polizia ad ordinamento civile - trasferito d’autorità il diritto ad essere trasferito, ovvero comandato o distaccato anche presso un’altra Amministrazione, nella stessa sede di destinazione del militare.
Questa norma conferma che nell’ordinamento vigente la mobilità configura una peculiarità essenziale dell’impiego del militare che, come tale, deve essere garantita con una norma speciale idonea a sterilizzare gli effetti pregiudizievoli che essa possa produrre sugli interessi del singolo tutelati dalla Costituzione. è finalizzata, infatti, a garantire l’unitarietà della famiglia del militare trasferito d’autorità attraverso un equilibrato bilanciamento tra interessi dialetticamente concorrenti, in armonia con i principi di buona amministrazione sanciti dall’art. 97 della Costituzione.
Tali principi, in vero, impongono di gestire gli interessi pubblici con obiettività e senza incidere in misura particolarmente gravosa sui destinatari degli atti amministrativi.
Di conseguenza, quando il conseguimento di un interesse istituzionale, caratterizzato da assoluta singolarità, rischia di risultare eccessivamente gravoso, è chiaro che ogni stemperamento di questa gravosità è compatibile con i principi di buona amministrazione e giustifica eventuali ulteriori aggravi organizzativi e possibili oneri che debbano essere sostenuti da altra Amministrazione pubblica.
Dopo l’entrata in vigore della legge che prevede l’accesso del personale femminile volontario nelle FF.AA., questa norma trova applicazione anche nell’ambito della compagine militare. Infatti, qualora entrambi i coniugi siano militari il trasferimento d’autorità di uno di essi origina il diritto al trasferimento dell’altro coniuge che potrebbe - a sua volta - essere destinatario, successivamente, di altro trasferimento d’autorità.
è chiara, a questo punto, la necessità di prevenire il rischio che la garanzia dell’unitarietà della famiglia pregiudichi la ratio della mobilità, rendendola funzionale alla tutela della famiglia attraverso un artificioso capovolgimento del rapporto istituzionale - sancito dalla legge - che, riconosciuta l’assoluta priorità della mobilità, prevede gli strumenti per temperare i disagi che si riflettono sulla famiglia.
A fronte di tale necessità è indispensabile da parte delle competenti autorità della Difesa una appropriata sensibilità istituzionale per considerare nei trasferimenti d’autorità anche le condizioni familiari dei singoli militari, specialmente quando pure l’altro coniuge sia militare.
In tali casi, fermo restando che l’obiettivo primario dell’impiego rimane il soddisfacimento delle esigenze addestrative ed operative nel rispetto del profilo d’impiego degli interessati che impone l’assolvimento di specifiche attribuzioni ai fini dell’avanzamento, la policy d’impiego dei trasferimenti d’autorità deve garantire una congrua compatibilità con le possibili analoghe situazioni dell’altro coniuge anch’egli militare, in una prospettiva generale che tenga conto della essenzialità dell’equilibrio familiare che non solo non deve essere pregiudicato in modo irreversibile dal susseguirsi scoordinato dei trasferimenti dei coniugi, ma deve essere tutelato da iniziative teleologicamente mirate a garantire continuità alla convivenza dei coniugi, quale strumento indispensabile per l’unitarietà della famiglia.
c. Tutela degli handicappati assistiti da militari

L’art. 33, comma 5, della legge n. 104/92 (legge quadro per l’assistenza delle persone handicappate) attribuisce ai dipendenti (pubblici e privati), che assistano con continuità un parente o affine entro il terzo grado, il diritto a scegliere ove possibile la sede di lavoro e di esprimere il proprio consenso al trasferimento.
Questa norma, applicabile anche al personale militare, incide sull’autonomia dell’Amministrazione della Difesa che deve valutare la possibilità di accogliere le richieste di trasferimento giustificate dalle prescritte condizioni e, nei trasferimenti d’autorità, deve verificare l’accoglibilità del dissenso dell’interessato. L’inciso “ove possibile” affievolisce il diritto ad interesse legittimo, configurando in concreto una pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa. In tal senso si è espresso il Consiglio di Stato(17), richiamando la giurisprudenza della Corte Costituzionale(18) ove è puntualizzato che la legge n. 104/92 è finalizzata a garantire diritti umani fondamentali ma l’istituto previsto dall’art. 33, comma 5, della stessa legge non è l’unico idoneo a tutelare la condizione di bisogno dell’handicappato e, comunque, la posizione giuridica di vantaggio ivi prevista “non è illimitata, potendo essere fatta valere soltanto ove possibile”.
Di conseguenza, secondo l’alto consesso, la pretesa alla scelta della sede di servizio del dipendente, che assista con continuità un parente handicappato, può essere accolta soltanto qualora risulti compatibile con le specifiche esigenze funzionali dell’Amministrazione di appartenenza. Ciò con particolare riguardo per le FF.AA. che devono provvedere alle situazioni di carenza di organico in particolari unità ovvero alle necessità operative che impongono l’impiego di personale dotato di appropriate specializzazioni. In tali circostanze l’Amministrazione della Difesa può tenere in debita considerazione i bisogni personali e familiari dei suoi dipendenti, ma non può subordinare ad essi la realizzazione dei compiti istituzionali che, invece, nel bilanciamento degli interessi devono avere priorità assoluta, “in quanto preordinati a quella cura di interessi pubblici che non tollera soluzioni di continuità”.


5. Riflessioni conclusive

In mancanza di uno specifico riferimento positivo che dia assoluta certezza, la determinazione della natura giuridica del trasferimento trova comunque congruo fondamento nella interpretazione sistematica delle norme che garantiscono la tutela dei destinatari degli atti amministrativi, assicurando l’appropriato bilanciamento tra due esigenze fondamentali, parimenti garantite dalla Costituzione, quali il raggiungimento degli obiettivi istituzionali e la tutela dei diritti dei cittadini.
Considerata la specificità dell’ordinamento militare nel contesto dell’ordinamento giuridico generale, appare ragionevole che il trasferimento d’autorità dei militari, coerentemente con la tipicità dello status, debba essere incastonato nella logica che governa l’attività militare, finalizzata all’operatività delle FF.AA., organizzata secondo una catena produttiva gerarchica che assicura la qualità del prodotto difesa fondamentalmente attraverso l’esatto e corretto assolvimento delle attribuzioni distribuite in diversi livelli, anche non dirigenziali, di responsabilità di comando.
è significativo, al riguardo, che la responsabilità dell’impiego del personale risalga al Capo di Stato Maggiore della Difesa, unico referente del funzionamento dello strumento militare nei confronti dell’autorità politica. La policy d’impiego deve, quindi, essere allineata con le esigenze operative, logistiche ed addestrative con l’unico limite di assicurare che il personale venga impiegato secondo il rispettivo profilo professionale. Pertanto, risulta evidente come i singoli trasferimenti d’autorità lascino margini di discrezionalità chiaramente individuabili nelle pianificazioni e nelle norme di status; di conseguenza la mancanza di motivazione non limita la trasparenza delle scelte effettuate. La conferma di quest’assunto si deduce dal fatto che in alcuni casi, tassativamente previsti, l’Amministrazione militare è tenuta a considerare la particolare condizione del dipendente ed a motivare i trasferimenti che non possono accogliere le istanze rappresentate.
Tali norme specifiche, in concreto, confermano la validità del principio secondo cui per i singoli trasferimenti d’autorità non sia necessaria la motivazione non per attribuire alla Difesa discrezionalità illimitata in materia, ma perché le procedure necessarie per l’emanazione dell’atto sono sufficienti a lasciar trasparire la logica che sostiene le scelte adottate in funzione dell’obiettivo prioritario di assicurare, attraverso l’impiego del personale, la più elevata qualità del prodotto difesa.

Approfondimenti


__________________


(1) - L. Galateria, in NSS. Digest. It. XII, 107.
(2) - Landi e Potenza, Manuale di dir. Amministrativo, Mi. 1971.
(3) - P. Virga, Dir. Amministrativo, Vol. II, Atti e Ricorsi, pag. 87, Mi. 1987.
(4) - Consiglio di Stato, sez. IV, 17 ottobre 84, n. 763.
(5) - Consiglio di Stato, sez. IV, 21 gennaio 97, n. 33.
(6) - Consiglio di Stato, sez. IV, 8 maggio 2000, n. 2641.
(7) - Consiglio di Stato, sez. IV, 30 gennaio 2001, n. 332.
(8)- Consiglio di Stato, sez. IV, 20 marzo 2001, n. 1677.
(9)   - Consiglio di Stato, sez. IV, 26 novembre 2001, n. 5950; sez. IV, 8 aprile 2004, n. 1990; sez. IV, 20 gennaio 2006, n. 143; sez. IV, 6 marzo 2006, n. 1112.
(10) - R. Tallarico, L’obbligo di motivazione con particolare riferimento agli ordini militari, Rass. Consiglio di Stato, Parte II, pag. 515, 1997 e giurisprudenza ivi citata.
(11) - V. Poli in V. Poli e V. Tenore, I procedimenti Amministrativi tipici e il diritto di accesso nelle F.A., cap. VII, “trasferimenti”, Mi. 2002.
(12) - In tal senso Consiglio di Stato, sez. IV, 14 maggio 2007, n. 2377.
(13) - In tal senso si è espresso il Consiglio di Stato (vds. nota 12) dopo una precedente sent. 7 maggio 2007, n. 1975, con la quale aveva affermato che il trasferimento debba evidenziare quando sia giustificato da incompatibilità ambientale.
(14) - Consiglio di Stato, sez. IV, 18 dicembre 2006, n. 7626.
(15) - Corte Costituzionale, sent. n. 449/99.
(16) - In tal senso: F. Bassetta, in Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, n. 2, 2007, pag. 147 e ss.
(17) - Consiglio di Stato, sez. IV, 21 febbraio 2005, n. 565.
(18) - Corte Costituzionale, sent. 22 luglio 2002, n. 372.