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  • N.2 - Aprile-Giugno
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  • Legislazione e Giurisprudenza
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Giustizia Amministrativa

Sentenze
Doveri dei militari - Rapporti con gli organi d’informazione - Argomenti non di carattere riservato d’interesse militare o di servizio - Necessità preventiva autorizzazione - Non sussiste.

Accesso agli atti amministrativi - Istanze tese ad un controllo generalizzato dell’operato della pubblica amministrazione - Inammissibilità.
 
Disciplina militare - Configurazione mancanza disciplinare - Discrezionale valutazione della pubblica amministrazione - Sussiste.

Procedimento disciplinare - Esame del giudicato penale - Sentenza penale di condanna - Decorrenza dei termini - Data di deposito - Legittimità.

Patrocinio legale - Rimborso spese - Fatti ed atti connessi con il servizio - Occasionalità della connessione - Non sussiste.

Accesso agli atti amministrativi - Istanza di singolo delegato di organismo di rappresentanza militare - Istanza presentata in adempimento del mandato - Interesse diretto, concreto ed attuale dell’istante - Non sussiste.

Avanzamento degli ufficiali - Avanzamento a scelta - Valutazione in senso assoluto - Espressione di ampia discrezionalità tecnica - Legittimità.

Avanzamento degli ufficiali - Avanzamento a scelta - Eccesso di potere in senso relativo - Rilevanza - Differente valutazione di posizione identiche - Sussiste.

Disciplina militare - Illecito disciplinare - Concorso di più militari nella mancanza - Diverso trattamento sanzionatorio - Diverso ruolo assunto da ciascuno - Disparità di trattamento - Non sussiste.

Documenti caratteristici - Attività di valutazione dei superiori gerarchici - Espressione di ampia discrezionalità tecnica - Legittimità.

Disciplina militare - Sanzioni di corpo - Richiamo orale - Comunicazione al punito mediante verbale di notifica - Violazione di legge per utilizzazione della forma scritta - Non sussiste.

Trattamento economico eventuale - Indennità per servizi esterni - Militari in servizio presso le sezioni di polizia giudiziaria - Non compete.

Disciplina militare - Mancanza disciplinare - Gravità - Apprezzamento ampiamente discrezionale da parte dell’autorità amministrativa - Sussiste.

Disciplina militare - Procedimento disciplinare di stato - Termini - 270 giorni dalla notizia della sentenza penale di condanna - Legittimità.




Sentenze tratte dal sito www.giustizia-amministrativa.it (Massime a cura della Redazione)

Doveri dei militari - Rapporti con gli organi d’informazione - Argomenti non di carattere riservato d’interesse militare o di servizio - Necessità preventiva autorizzazione - Non sussiste.

T.A.R. Calabria - Catanzaro, sez. I, sent. n. 2128/2007 (c.c. 22 novembre 2007), Pres. Mastrocola, Est. Morgantini, D. A. c. Ministero Difesa

La necessità di essere preventivamente autorizzati dal comando di appartenenza, in relazione alla libertà di manifestazione del pensiero, non sussiste per il militare che tratti pubblicamente di argomenti non riservati di interesse militare o di servizio. (1)

(1) Si legge quanto appreso in sentenza:

FATTO

Il Comandante della Compagnia Carabinieri di […], in data 22 marzo 2007, ha sanzionato il ricorrente con il provvedimento disciplinare del rimprovero con la seguente motivazione: “comunicando con una testata giornalistica a tiratura nazionale relativamente ad argomenti riconducibili al servizio e firmando con il gruppo di firma istituzionale “Il Comandante della Stazione di […]”, ometteva di inoltrare la prescritta autorizzazione.
Il Comandante Provinciale di […] della Regione Carabinieri […] ha rigettato il ricorso gerarchico, rilevando che la norma violata e contestata è stata quella dell’art. 33 del regolamento di disciplina militare, cioè aver trattato argomenti collegati al servizio senza avere chiesto ed ottenuto l’autorizzazione.
Egli ha ritenuto che i fatti trattati nell’articolo giornalistico (aumento dello stipendio, indennità per i servizi di ordine pubblico, intitolazione di una sala del Senato a Carlo Giuliani, approvazione dell’indulto e presenza in Parlamento di onorevoli condannati) siano materie collegate al servizio che necessitavano comunque di preventiva autorizzazione.

DIRITTO

Il ricorso è fondato.
La sanzione disciplinare è stata applicata in relazione alla violazione dell’art. 33 del D.P.R. n. 545 del 1986 che prescrive l’autorizzazione rispetto alla pubblicazione di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio.
Gli argomenti trattati nell’articolo di giornale pubblicato dal ricorrente non sono a carattere riservato di interesse militare o di servizio.
Si tratta infatti, così come accertato dall’Autorità che si è pronunciata sul ricorso gerarchico, delle seguenti materie: aumento dello stipendio, indennità per i servizi di ordine pubblico, intitolazione di una sala del Senato a Carlo Giuliani, approvazione dell’indulto e presenza in Parlamento di onorevoli condannati.
Si tratta di argomenti di dominio pubblico che non riguardano l’attività oggetto del servizio.
In relazione a quanto sopra il ricorso deve essere accolto.”


Rapporti con gli organi di informazione e responsabilità disciplinari del militare

1. Premessa.

La sentenza del Tar Calabria in commento pone in evidenza la problematica dei rapporti con gli organi di informazione da parte dei militari. Stante la delicatezza della materia è opportuno effettuare preliminarmente un importante distinguo. Dobbiamo, infatti, tenere separate le questioni attinenti alla libertà di manifestazione del pensiero da parte del militare uti singuli, da quella che attengono alle relazioni con gli organi di stampa, per le quali il militare interviene qualificandosi per il suo ruolo istituzionale. Sappiamo che la legge recante norme di principio sulla disciplina militare, legge 11 luglio 1978, n. 382, ha sancito che ai militari spettano i diritti che la Costituzione riconosce a tutti i cittadini, imponendo - però - ai primi limitazioni all’esercizio di alcuni di essi per garantire l’assolvimento dei compiti propri delle Forze armate. La norma(1) - in fondo - non introduce nulla di nuovo, ma, nel dirimere precedenti dubbi interpretativi, afferma tassativamente che sarà soltanto la legge, e non un regolamento come nel passato, a stabilire eventuali limiti all’esercizio dei diritti costituzionali per il cittadino militare, tenendo presente come parametro di ragionevolezza la funzionalità istituzionale connessa con la necessità di difesa della Patria. Altro aspetto è quello riguardante - appunto - i rapporti istituzionali con gli organi di stampa, per i quali il militare non chiarisce unicamente il proprio pensiero, ma in qualche modo impegna la posizione dell’organizzazione di appartenenza. In generale, parlare a nome proprio o in quanto titolari di un ruolo istituzionale sono cose ben diverse. Nel primo caso si è soggetti ai limiti - validi per tutti i cittadini - previsti dall’ordinamento giuridico; limiti che derivano soprattutto da una lettura sistematica del testo costituzionale e per il militare da una specifica disposizione della l. n. 382/1978. Nell’altro caso, bisogna tener presenti i doveri di correttezza, di lealtà e di fedeltà che impegnano il singolo nell’ambito dell’organizzazione di appartenenza, sia essa una istituzione pubblica, sia anche un’impresa privata. A titolo di esempio, è significativa la norma contenuta nell’art. 11, comma 2, d.m. 28 novembre 2000, recante il Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nel punto in cui afferma che “il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell’immagine dell’amministrazione”, imponendo - altresì - un obbligo di informazione, da parte del dipendente nei confronti del dirigente, in relazione ai rapporti con gli organi di stampa. Si tenga presente che la predetta disposizione, non è direttamente applicabile al personale militare, in virtù dell’espressa esclusione operata dall’at. 1, d.m. 28 novembre 2000, ma rappresenta comunque l’estrinsecazione di un principio generale in tema di doveri inerenti ad un rapporto di lavoro dipendente. Premessa, quindi, la necessità di distinguere nell’ambito dei rapporti con gli organi di informazione, queste diverse situazioni, vediamo di seguito quale sia la peculiare posizione del militare a questo riguardo(2).

2. La libertà di manifestare pubblicamente il proprio pensiero da parte del militare.

Nel campo della libertà di manifestazione del pensiero molto è cambiato per il cittadino militare rispetto al sistema previgente alla legge n. 382/1978; sistema basato su una articolata serie di divieti di carattere disciplinare(3) e penale(4). L’art. 9, l. n. 382/1978, afferma esplicitamente che i militari possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, con l’unico limite costituito dagli argomenti a carattere riservato, di interesse militare o comunque di servizio(5), per la trattazione dei quali deve essere chiesta espressa autorizzazione.
Non a caso, la legge n. 382 del 1978 ha specificato due particolari forme di manifestazione del pensiero, in precedenza soggette ad una peculiare e restrittiva disciplina: la pubblicazione di propri scritti e la pubblica conferenza. Il mutato clima culturale, il diverso approccio normativo al problema e le chiare indicazioni giurisprudenziali della Corte costituzionale devono indurre ad un’interpretazione che tenga conto di una vera e propria inversione dei termini del problema. Non si tratta più di restringere i margini di libertà di manifestazione del pensiero per il militare, al fine della massima tutela dell’ordine, della coesione e della disciplina militare, ma, tenendo fermo il nucleo essenziale dei precedenti valori, la cui valenza costituzionale è sottesa al sacro dovere di difesa della Patria, di consentire la massima espansione delle libertà costituzionali nella prospettiva della democraticità dell’ordinamento militare(6). Poiché l’unico limite generale consiste ormai nella riservatezza di particolari argomenti militari e di servizio, il problema sarà non tanto di saggiare in astratto la legittimità costituzionale dell’interesse dell’Amministrazione militare ad una divulgazione controllata (o alla non divulgazione) di determinati argomenti, ma di verificare in concreto il contenuto di questa potestà discrezionale in termini di legittimità, anche e soprattutto costituzionale. La questione delle notizie e degli argomenti costituenti segreto di Stato neppure si pone in astratto, così come la tematica non potrebbe interferire con quella delle notizie di cui l’autorità competente vieti la divulgazione, attraverso una classificazione ufficiale, normativamente prevista. Basti pensare che anche per queste notizie, così come - a fortiori - per quelle segrete, esiste una specifica tutela penale contenuta nel codice penale(7) e nei codici penali militari(8).
La tutela penale, d’altronde, riguarda anche specifiche ipotesi colpose in tema di rivelazione di segreti di Stato e di notizie di cui è stata vietata la divulgazione, nonché il reato di agevolazione colposa(9).
Il problema concerne - invece - quell’ampia fascia di argomenti, non coperti da alcuna qualifica di segretezza o di riservatezza, di cui però non esiste un’elencazione, anche solo meramente indicativa. È indispensabile, quindi, un’ampia ricognizione delle varie disposizioni, direttive e circolari nel settore che riguardano sia la materia militare sia quella di servizio, ricomprese in quel concetto di riservatezza, non predeterminato in astratto, ma lasciato al libero apprezzamento dell’autorità militare che, nell’ambito delle sue facoltà discrezionali e nella tutela di specifici interessi pubblici, può (e deve) controllare la divulgazione di particolari argomenti(10).
In questo ambito, si è affermata la necessità che la valutazione dell’autorità militare debba essere in qualche modo resa conoscibile al militare, il quale deve sapere, in anticipo, quali siano gli argomenti per cui deve chiedere preventiva autorizzazione. A tale riguardo non sarebbero legittime valutazioni post factum che vorrebbero sindacare disciplinarmente manifestazioni del pensiero su argomenti che solo successivamente alla loro divulgazione l’autorità militare valuta come riservati(11).
In giurisprudenza, d’altra parte, è stato affermato che il concetto di riservatezza non è oggettivamente definibile nel suo contenuto e nella sua portata, pertanto, i limiti della sua estensione possono presentarsi più o meno ampi in relazione a valutazioni che vengono effettuate dall’Amministrazione militare nell’esercizio della sua discrezionalità. Le predette valutazioni, d’altronde, devono essere svolte sulla base di criteri conformi a logica e a razionalità, non essendo il concetto di riservatezza nell’ambito dell’interesse di servizio esattamente perimetrabile in modo obiettivo(12).
Per precisare ulteriormente la questione, possiamo - inoltre - rilevare come nel campo disciplinare esista una norma significativa, l’art. 19 R.D.M., che delimita in un certo qual modo e dà sostanza a quel concetto di “argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio”, espresso dagli artt. 9, l. n. 382/1978, e 33 R.D.M. In particolare, l’art. 19 R.D.M. prescrive che il militare deve acquisire e mantenere l’abitudine al riserbo su argomenti o notizie la cui divulgazione possa recare pregiudizio alla sicurezza dello Stato ed evitare la divulgazione di notizie attinenti al servizio che, anche se insignificanti, possano costituire materiale informativo(13).
Il dovere di riserbo contenuto nell’art. 19 R.D.M., dovere peraltro che il militare deve sempre osservare anche al di là delle ipotesi di applicabilità del Regolamento di disciplina militare(14), esprime un generale obbligo di prudenza e cautela che il militare deve osservare ogni qual volta - a qualsiasi titolo - intenda esprimere il suo pensiero attraverso gli organi di informazione. In quest’ottica, la giurisprudenza ha interpretato la normativa sulla necessità della preventiva autorizzazione a trattare pubblicamente argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio come un divieto, normativamente previsto per il personale militare, posto non solo a tutela della segretezza o della riservatezza di atti o notizie. Infatti, viene affermato che con tali limiti si sia inteso costituire “un freno alla libera divulgazione attraverso la stampa o mezzi similari di fatti non necessariamente classificati riservati, ma comunque attinenti ad interessi militari o collegati al servizio di istituto” che, per fini di tutela dell’immagine e della credibilità delle Forze Armate, occorre siano trattati con doverosa cautela e col necessario riserbo(15).

3. I rapporti istituzionali con gli organi di informazione.

La considerazioni precedentemente esposte e il chiaro orientamento della giurisprudenza prevalente fanno emergere la posizione minoritaria della sentenza in commento.
È importante, altresì, svolgere ulteriori annotazioni sia con riguardo al tipo di sindacato effettuato dal giudice amministrativo nel caso in esame, sia in relazione alla fattispecie concretamente ritenuta applicabile nella circostanza. In base a quanto emerge dalla motivazione del provvedimento disciplinare, la cui esattezza e congruenza non è stata messa in discussione, ci troviamo di fronte non ad una semplice libera manifestazione del pensiero di un militare uti singuli, ma ad un’esternazione pubblica da parte di un soggetto che ricopre un ruolo istituzionale ben preciso, attraverso il quale si qualifica espressamente. A questo punto, oltre alla disciplina generale in materia, tratta dall’interpretazione sistematica degli artt. 9, l. n. 382/1978, 19 e 33 R.D.M., comunque sempre applicabile, è necessario accertare l’esistenza di una normativa di dettaglio in proposito. Nello specifico, dobbiamo registrare la circostanza per la quale, nell’ambito dell’Arma dei carabinieri, la materia dei rapporti con gli organi di informazione è disciplinata da apposti atti interni(16). In particolare, la normativa in argomento non regola i contatti con gli organi di informazione per ragioni di carattere privato, come espressamente indicato, ma le relazioni istituzionali e di servizio con la stampa che, comunque, coinvolgono l’immagine dell’Arma o la sua attività operativa. A tal proposito, le competenze sono fissate ad un livello ordinativo elevato, rimanendo esclusi i minori reparti che devono svolgere questa particolare attività relazionale solo nell’ambito delle direttive superiori e non autonomamente.
È prescritto, altresì, che una serie di attività devono essere preventivamente autorizzate, tra le quali spiccano le interviste, definite “colloqui ufficiali, con uno o più giornalisti, che assumono particolare rilievo in quanto l’intervistato parla quale rappresentante dell’Arma e non a titolo personale”. Inoltre, tra le varie prescrizioni particolari è doveroso citare quella la quale stabilisce che “le dichiarazioni pubbliche o interviste su ordine pubblico e sicurezza pubblica, devono limitarsi ad esporre i fatti come realmente avvenuti, con esclusione di ogni valutazione o commento personale o di natura politica”. Insomma, risulta in maniera evidente che i rapporti istituzionali con gli organi di informazione sono soggetti ad un’attività di controllo e supervisione che ribadisce la tradizionale linea di riservatezza e discrezione dell’Arma, riconosciuta anche dalla giurisprudenza(17).
Tornando alla sentenza in commento dobbiamo evidenziare come il Tar Calabria abbia ritenuto fondate le doglianze del ricorrente sul presupposto che gli argomenti trattati nell’articolo di stampa in questione non possono considerarsi a carattere riservato di interesse militare o di servizio, in quanto “si tratta di argomenti di dominio pubblico che non riguardano l’attività oggetto del servizio”.
È evidente che il Tar Calabria ha sostituito proprie valutazioni di merito a quelle effettuate dalla competente autorità amministrativa, sindacando scelte discrezionali rimesse all’esclusivo apprezzamento di quest’ultima. Ciò in quanto, come risulta dalla stessa sentenza, né l’autorità che ha esercitato la potestà sanzionatoria né quella che ha deciso il ricorso gerarchico hanno fatto riferimento ad argomenti di carattere riservato, ma unicamente a questioni comunque riconducibili al servizio.
È stato giustamente osservato come debba escludersi che, in linea di principio, esista una stretta ed univoca correlazione fra il divieto di comunicazione con la stampa in carenza della prescritta autorizzazione - come imposto al personale militare - ed il carattere “riservato” delle informazioni con tale mezzo diffuse. In effetti, risulta suscettibile di rilevanza ai fini disciplinari la condotta tenuta dal militare il quale, favorendo la divulgazione di informazioni comunque attinenti ad interessi militari (ovvero al servizio di istituto), ponga in essere un comportamento per ciò stesso “sintomaticamente” in contrasto con il dovere “dell’abitudine al riserbo”, che caratterizza invece la complessiva condotta richiesta dalla normativa disciplinare(18).
Non c’è dubbio che la sanzione disciplinare, come esternata nella stessa motivazione, risulti perfettamente coerente con il dettato normativo e i principi giurisprudenziali prevalenti in materia. D’altronde, la formulazione utilizzata dal comandante di reparto dà conto e ragione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la stessa ad adottare il provvedimento sanzionatorio impugnato.

4. Argomenti di competenza degli organi di rappresentanza militare e rapporti con la stampa.

Un ulteriore punto problematico è connesso con il particolare contenuto dell’articolo in oggetto. In particolare, è opportuno soffermarsi su alcune materie trattate, come risulta dalla stessa sentenza, cioè: “aumento dello stipendio” e “indennità per i servizi di ordine pubblico”. Si tratta, indubbiamente, di argomenti riguardanti il servizio e comunque rientranti nella sfera di competenza degli organismi di rappresentanza militare. L’art. 19, comma 5°, l. n. 382/1978, prevede che le competenze dell’organo centrale di rappresentanza (Cocer) riguardano la formulazione di pareri, di proposte e di richieste su tutte le materie che formano oggetto di norme legislative e regolamentari circa la condizione, il trattamento, la tutela - di natura giuridica, economica, previdenziale, sanitaria, culturale e morale - dei militari. È interessante sottolineare come tra i comportamenti punibili con la consegna di rigore (la massima sanzione disciplinare di corpo), previsti all’allegato C del Regolamento di disciplina militare, approvato con d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545, sia contemplata l’ipotesi di invio o rilascio alla stampa o ad organi di informazione, di comunicazioni o dichiarazioni a nome di un organo di rappresentanza. Il divieto non riguarda i componenti del Cocer in relazione alle materie di competenza di tale organo di rappresentanza(19).
In sostanza, la normativa disciplinare ha voluto riservare esclusivamente ai delegati del Cocer la possibilità di interloquire con gli organi di informazione sulle materia di competenza, tra le quali indubbiamente quelle attinenti al trattamento economico. Per gli altri militari, delegati negli organi di rappresentanza di livello intermedio e di base, ferma restando la possibilità di trattare questi argomenti attraverso le particolari procedure previste dal d.P.R. 4 novembre 1979, n. 691, è fatto divieto di relazionarsi con gli organi di informazione circa le materie in questione. Appare a questo punto illogica l’esistenza di un divieto di tal genere per chi istituzionalmente è chiamato anche a formulare pareri e proposte nel campo del trattamento stipendiale e del trattamento economico eventuale, a fronte della ritenuta piena legittimità di tale trattazione con gli organi di informazione da parte di un qualsiasi militare che si qualifica - peraltro - come responsabile di un’unità organizzativa a carattere operativo. Non avrebbe senso invocare l’argumentum a contrario per le evidenti aberrazioni che condurrebbe una simile interpretazione. Stante la specifica disciplina normativa, non rimane che prendere atto del divieto per tutti i militari, ai quali è applicabile il Regolamento di disciplina militare, ai sensi dell’art. 5, l. n. 382/1978, di inviare o rilasciare alla stampa o ad organi di informazione, comunicazioni o dichiarazioni attinenti alle materie di competenza degli organi di rappresentanza, qualificandosi per il proprio ruolo istituzionale(20). È evidente che quest’ultima circostanza fa venire meno il carattere privato con il quale può svolgersi pubblicamente la libera manifestazione del pensiero, ai sensi dell’art. 9, l. n. 382/1978.

Ten. Col. CC Fausto Bassetta





Approfondimenti
(1) - Art. 3, l. n. 382/1978.
(2) - Sulla problematica in generale: A. Simoncelli, Disciplina, in V. Poli - V. Tenore (a cura di), L’ordinamento militare, II, Milano, Giuffrè, 2006, 626 ss.
(3) - Il Regolamento del 1964, vigente sino al 1978, stabiliva il dovere dei militari di astenersi dall’esprimere considerazioni, apprezzamenti o giudizi che potevano essere interpretati come contrari alla disciplina ed all’onore militare (art. 23, comma 5), disciplinava minutamente la materia dei reclami e il modo di presentarli (capo IV, articoli 41 e 42), regolamentava tassativamente la pubblica manifestazione del pensiero, da una parte, consentendo ai militari di esercitare la stessa, senza preventiva autorizzazione, per qualsiasi argomento di carattere non riservato, dall’altra, fissando una serie di norme deontologiche che in sostanza limitavano questa libertà astrattamente accordata (“... devono, però, riflettere sulla responsabilità che assumono e quindi, attenendosi alle norme e allo spirito della disciplina, devono contenere i propri giudizi in un riserbo tanto più prudente quanto maggiori sono l’importanza e la delicatezza della materia trattata.”).
(4) - Il codice penale militare di pace, nella formulazione originaria, prevedeva (e per certi aspetti ancora prevede) una serie di articoli che di fatto contribuivano (e parzialmente ancora contribuiscono) a limitare la libertà di manifestazione del pensiero e le altre libertà a questa strumentali, in un quadro di massima tutela dell’ordine pubblico militare: art. 180 c.p.m.p. (domanda, esposto o reclamo collettivo, previo accordo); art. 183 c.p.m.p. (manifestazioni e grida sediziose); art. 184 c.p.m.p. (raccolta di sottoscrizioni per rimostranza o protesta. Adunanza di militari); art. 185 c.p.m.p. (rilascio arbitrario di attestazioni o di dichiarazioni).
(5) - A parte deve essere considerato il divieto di propaganda politica ed elettorale, di cui all’art. 6, l. n. 382/1978.
(6) - Vedi la sentenza della Corte costituzionale n. 126 del 1985: “... è da ritenere che la pacifica manifestazione del dissenso dei militari nei confronti dell’autorità militare - anche e soprattutto in forma collettiva per l’espressione di esigenze collettive attinenti alla disciplina o al servizio - non soltanto concorra alla garanzia di pretese fondate o astrattamente formulabili sulla base della normativa vigente e quindi all’attuazione di questa, ma promuova lo sviluppo in senso democratico dell’ordinamento delle Forze armate e quindi concorra ad attuare i comandamenti della Costituzione.
Ciò non importa obliterare quelle particolari esigenze di coesione dei corpi militari che si esprimono nei valori della disciplina e della gerarchia; ma importa negare che tali valori si avvantaggino di un eccesso di tutela in danno delle libertà fondamentali e della stessa democraticità dell’ordinamento delle Forze armate”.
(7) - L’art. 262 c.p. punisce la rilevazione di notizie di cui è stata vietata la divulgazione. è interessante notare come la dottrina qualifichi questo reato come norma penale in bianco, il cui concreto disvalore del fatto cioè viene in sostanza stabilito dall’Amministrazione pubblica che discrezionalmente decide quali debbano essere le notizie di cui vietare la divulgazione. Parte della dottrina ha addirittura suggerito che l’entrata in vigore della legge n. 801 del 1977, che ha riordinato la materia del segreto di Stato, abbia comportato implicitamente l’abrogazione tacita della normativa sulle notizie riservate. Ma anche chi, così come la giurisprudenza, ritiene che i profili riguardanti le notizie riservate siano autonomi (e quindi tuttora vigenti), rispetto a quelli riguardanti le notizie segrete, non si esime dal considerare la sussistenza della violazione della riserva di legge in materia, non esistendo alcuna precisazione normativa circa i presupposti, il contenuto e i limiti ai quali dovrebbe essere vincolata l’autorità amministrativa nella scelta delle notizie da tutelare con il divieto di divulgazione. In questo ambito la tassatività e la determinatezza della fattispecie criminosa sarebbero vulnerate dal potere eccessivamente discrezionale, tanto da costituire una mera questione di merito amministrativo, delle autorità amministrative competenti a fissare i divieti di divulgazione, da poter apparire quest’ultimo addirittura arbitrario. Per tutti: A. M. Fabbro, Art. 262 c.p., in T. Padovani (a cura di), Codice Penale, Milano, Giuffrè, 20002, 1132 ss.
(8) - Cfr.: artt. 86, 89-bis e 90, 91, 94, 97 c.p.m.p.
(9)   - Sui limiti esterni all’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero da parte dei militari: M. T. Poli, I diritti dei militari, in V. Poli - V. Tenore (a cura di), L’ordinamento militare, cit., 984 ss.
(10) - Per un’impostazione interpretativa del concetto di riservatezza, attraverso un’analisi dei vari argomenti che vi potrebbero rientrare: E. Boursier Niutta, I diritti costituzionali dei militari e le loro limitazioni, in Elementi di diritto militare. Aspetti costituzionali, serie Quaderni, n. 1, Rass. Arma CC., 1999, 101 ss.
(11) - Così: E. Boursier Niutta, I diritti costituzionali, cit., 101 s.; cfr., anche: E. Boursier Niutta - A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare. La disciplina di corpo, Roma, Laurus Robuffo, 20043, 87 ss.
(12) - Così: T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. n. 10956/2003 (c.c. 23 giugno 2003), Pres. Mastrocola, Est. Stanizzi, V. M. c. Ministero Difesa.
(13) - Per un’interpretazione sistematica che tiene conto anche dell’art. 19 R.D.M.: T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. 6094/2002 (c.c. 17 giugno 2002), Pres. Mastrocola, Est. Politi, S. D. c. Ministero Difesa. Inoltre: A. Simoncelli, Disciplina, cit., 626 ss.
(14) - Cfr.: art. 5, l. n. 382/1978.
(15) - Così: T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. n. 10956/2003 (c.c. 23 giugno 2003), cit. Inoltre: T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. 11430/2003 (c.c. 12 maggio 2003), Pres. Mastrocola, Est. Scala, V. M. c. Ministero Difesa; T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. 6094/2002 (c.c. 17 giugno 2002), cit.; T.A.R. Puglia - Lecce, sez. III, sent. 1° giugno 2006, n. 3149 (c.c. 20 aprile 2006), Pres. Costantini, Est. Viola, M. S. c. Ministero Finanze.
(16) - Cfr.: circolare n. 453/2-36 di prot. dell’11 settembre 1992 del Comando Generale dell’Arma dei carabinieri - SM - Ufficio Pubbliche Relazioni, avente ad oggetto “Rapporti con gli organi di informazione”. Per un’ampia disamina giurisprudenziale della circolare in argomento: Cons. Stato, sez. III, parere del 27 maggio 2003, n. 1741/03, Pres. Cortese, Est. Roxas.
(17) - Cfr.: T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. n. 10956/2003 (c.c. 23 giugno 2003), cit.
(18) - Così: T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. 6094/2002 (c.c. 17 giugno 2002), cit.; T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. 11430/2003 (c.c. 12 maggio 2003), cit.; T.A.R. Puglia - Lecce, sez. III, sent. 1° giugno 2006, n. 3149 (c.c. 20 aprile 2006), cit.
(19) - L’eccezione è stata espressamente introdotta dall’art. 3, d.P.R. 27 novembre 1992, n. 520.
(20) - Cfr.: Cons. Stato, sez. II, parere 6 maggio 2003, n. 1402, Pres. Catallozzi, Est. Nocilla.



Accesso agli atti amministrativi - Istanze tese ad un controllo generalizzato dell’operato della pubblica amministrazione - Inammissibilità.

Cons. Stato, sez. IV, sent. 29 gennaio 2008, n. 266 (c.c. 11 dicembre 2007), Pres. Vacirca, Est. Aureli, Ministero Difesa c. M. G. (rif. T.A.R. Campania - Napoli, sez. V, 24 luglio 2007, n. 6926)

Le istanze di accesso agli atti amministrativi non possono avere il fine di esercitare un controllo generalizzato sull’operato della pubblica amministrazione, per cui non sono ammissibili istanze non collegate con un interesse concreto ed attuale dell’istante. Se è vero che l’analisi dell’interesse all’esibizione degli atti amministrativi deve essere effettuata con riferimento alle finalità che il soggetto che richiede l’accesso dichiara di perseguire, è - altresì - vero che deve comunque sussistere un legame tra finalità dichiarata e documenti richiesti, al fine di valutare la coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui realizzazione l’accesso è preordinato. (1)



(1) Si legge quanto appreso in sentenza:
“Con l’istanza del 22 marzo 2007, che il primo giudice ha ritenuto meritevole di accoglimento, il brigadiere G[.] M[.] ha chiesto all’Arma dei Carabinieri Comando Generale Campania la seguente documentazione:
a) copia delle circolari e delle pubblicazioni emesse dall’Arma dei Carabinieri in materia di sicurezza delle immersioni a partire dalla data di costituzione dei Nuclei Subacquei a tutt’oggi;
b) copia degli “attergati”, delle missive e delle corrispondenze tra i vari Comandi, per come intercorsi relativamente alla materia della sicurezza delle immersioni e delle modalità operative a partire dalla data di costituzione dei Nuclei Subacquei a tutt’oggi;
c) copia dei verbali di “istruzione settimanale”, per come previsti da parte del Comandante del Nucleo Subacquei a partire dalla data di costituzione dei Nuclei Subacquei a tutt’oggi;
d) copia delle circolari e delle pubblicazioni, emesse dalla Marina Militare, in materia di sicurezza delle immersioni e, come tali, trasmesse ed adottate dall’Arma dei Carabinieri a partire dalla data di costituzione dei Nuclei Subacquei a tutt’oggi;
e) copia della documentazione matricolare integrale, compresa la scheda sanitaria e il fascicolo medico personale, di tutti i militari impiegati nei reparti subacquei dell’Arma dei Carabinieri (compresi coloro che sono stati dichiarati non idonei e/o siano non brevettati) a partire dalla data di costituzione dei Nuclei Subacquei a tutt’oggi;
f) copia della scheda sanitaria e del fascicolo medico personale del Brig. CC. G[.] M[.] dalla data di incorporazione a tutt’oggi;
g) copia dei memoriali di servizio dell’Arma dei Carabinieri - Nucleo Subacquei - per l’attività svolta dal Brig. CC. G[.] M[.] nella sua attività di subacqueo dalla data di incorporazione a tutt’oggi;
h) copia del resoconto mensile dell’attività di immersione e schede di immersione (per come previste dalla legge) compilate per l’attività svolta dal Brig. CC. G[.] M[.] nella sua attività di subacqueo dalla data di incorporazione a tutt’oggi;
i) copia dei fogli di viaggio e di marcia relativi all’attività svolta dal Brig. CC. G[.] M[.] nella sua attività di subacqueo dalla data di incorporazione a tutt’oggi.
Nella detta istanza il Brigadiere M[.] ha poi precisato nei termini che seguono le motivazioni della richiesta:
1) “tenuto conto del contenzioso in atto tra il prefato e l’Amm.ne di appartenenza in relazione al suo esonero per deficit di G6PDH, cui si è pervenuto dopo circa venticinque/ventisei anni di servizio nelle FF.AA. come subacqueo, vi è la necessità, al fine di correttamente valutare l’operato dei Comandi di appartenenza, preventivamente all’eventuale instauranda azione giudiziaria per responsabilità in ordine alle verificate discrepanze ed omissioni nella tenuta della documentazione per come prevista per legge; per eventuale risarcimento dovuto a situazioni di mobbing a verificarsi, di valutare se vi sia stata anzitutto la concreta applicazione delle normative previste in tema di “sorveglianza sanitaria del lavoratore”;
2) per le medesime ragioni sopra esposte e qui per integralmente riportate, oltre che per valutare eventuali sperequazioni nel trattamento (tra il richiedente Brigadiere CC G[.] M[.] ed altri militari) per come si è verificato successivamente alla dichiarata sua inidoneità all’impiego come subacqueo (e relativamente all’impiego in reparto differente da quello originario) si rende necessario l’accesso alla documentazione sanitaria relativa a tutti i militari dell’Arma dei Carabinieri (con brevetto di sommozzatore o meno) appartenenti ai Nuclei/Reparti Sommozzatori dell’Arma dei Carabinieri ed attualmente impiegati nei medesimi Nuclei e/o Reparti (anche in servizi non operativi di immersione a causa della loro inidoneità);
3) per le ragioni già evidenziate e qui integralmente riportate, ancora, è necessario conoscere i nominativi dei responsabili della sicurezza per come individuati dalla Legge 626/1994 e ss. modif. di volta in volta, nel corso degli anni, nominati dall’Amm.ne in indirizzo;
4) vi è infine la necessità di conoscere (come previsto dalla vigente normativa) i nominativi dei vari responsabili dei procedimenti avviatisi in relazione alle richieste sin qui avviate compresa la presente (e tutte elencate ed indicate in riferimento) che, a tutt’oggi, non sono stati indicati”.
Ciò premesso, la Sezione osserva che secondo un orientamento assolutamente fermo nella giurisprudenza amministrativa formatasi in materia d’accesso agli atti, le relative istanze non possono avere il fine di esercitare un controllo generalizzato sull’operato della pubblica amministrazione e dunque non sono ammissibili istanze non collegate con un interesse concreto ed attuale dell’istante (CdS. sez. IV n. 555/2006).
Inoltre, poiché l’istanza in esame non s’inserisce in una competizione concorsuale, la documentazione sanitaria richiesta e riguardante i terzi, il cui diritto alla riservatezza va tutelato secondo quanto previsto dall’art. 24 comma 2 l.7 agosto 1990 n. 241, non è ostensibile se non quando l’interesse all’accesso ad essa, abbia una consistenza almeno pari a quello assai elevato del terzo a tenere riservate le informazioni sanitarie che lo riguardano.
Da quanto precede discende che non può essere positivamente riscontrata una richiesta d’accesso nella quale la documentazione che ne è l’oggetto non viene indicata con la precisione necessaria a consentire all’amministrazione di adempiere, evitando, da un lato, di ledere il diritto del terzo alla riservatezza e, dall’altro, d’essere considerata, strumentalmente, inadempiente.
E discende anche da quanto precede che, se è vero che l’analisi dell’interesse all’esibizione degli atti amministrativi deve essere effettuata con riferimento alle finalità che il soggetto che richiede l’accesso dichiara di perseguire (art.22 l. n. 241/1990), è vero però anche che deve comunque sussistere un legame tra finalità dichiarata e documento o documenti richiesto/i, al fine di valutare la coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui realizzazione l’accesso è preordinato.
Alla luce di quanto fin ora chiarito, l’istanza d’accesso in esame non può trovare accoglimento, a nulla rilevando a suo supporto quanto argomentato dal giudice di prime cure.
Più in dettaglio, va rilevato che nell’istanza;
a. non viene indicata quale sia la documentazione prevista per legge in ordine alla cui tenuta si sarebbero verificate “discrepanze ed omissioni” (punto 1);
b. non vengono indicati in modo specifico quali siano i militari dell’Arma dei Carabinieri dei quali occorre la documentazione sanitaria (punto 2);
c. non vengono indicati gli anni in cui sono stati nominati i responsabili della sicurezza i cui nominativi s’intendono conoscere (punto 3);
d. non vengono indicati gli anni in cui sono stati nominati i responsabili dei procedimenti che s’intendono conoscere, l’oggetto dei procedimenti a cui si riferiscono tali nomine e i dati identificativi delle richieste presentate dallo stesso istante per l’avvio di quest’ultimi (punto 4).
L’appello dell’Amministrazione deve in sostanza essere accolto, e di conseguenza deve essere riformata la sentenza impugnata.”


Disciplina militare - Configurazione mancanza disciplinare - Discrezionale valutazione della pubblica amministrazione - Sussiste.

Cons. Stato, sez. IV, sent. 14 febbraio 2008, n. 512 (11 dicembre 2007), Pres. Vacirca, Est. Saltelli, D. F. c. Ministero Finanze (rif. T.A.R. Trentino - Alto Adige, Bolzano, 25 maggio 2000, n. 152)

Nel procedimento disciplinare nei confronti dei militari, l’amministrazione è titolare di un’ampia discrezionalità in ordine alla valutazione dei fatti addebitati al dipendente, circa il convincimento sulla gravità delle infrazioni addebitate e sulla conseguente sanzione da infliggere. A ciò consegue che il provvedimento disciplinare sfugge al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, non potendo in nessun caso quest’ultimo sostituire le proprie valutazione a quelle operate dall’amministrazione, salvo che le valutazioni siano inficiate da travisamento dei fatti ovvero il convincimento non risulti formato sulla base di un processo logico e coerente. (1)

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:


FATTO

Con decreto n. 238292 del 18 settembre 1997 al M.M.A. c.s. in congedo F[.] D[.] veniva inflitta la sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione, con conseguente messa a disposizione del Distretto Militare competente come semplice soldato, all’esito del procedimento disciplinare avviato a seguito dell’archiviazione disposta (per infondatezza della notizia di reato) in data 17 dicembre 1996 dal Giudice per le Indagini preliminare del Tribunale di Bolzano del procedimento penale a suo carico per il reato previsto dall’articolo 335 C.P., per presunte condotte illecite nell’espletamento dell’attività d’istituto e, in particolare, per aver avuto nel periodo 1985 - 1994 la disponibilità di una consistente somma di danaro di provenienza sconosciuta.
L’interessato con ricorso giurisdizionale notificato il 4 dicembre 1997 chiedeva al Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino - Alto Adige, sezione autonoma per la Provincia di Bolzano, l’annullamento di tale provvedimento (in uno con gli atti precedenti, presupposti, infraprocedimentali e conseguenti, tra cui in particolare il verdetto di non meritevolezza a conservare il grado espresso dalla Commissione di disciplina in data 20 giugno 2007, l’ordine di deferimento, di nomina e convocazione della commissione di disciplina e l’atto di contestazione degli addebiti in data 19 marzo 2007 e notificato il 20 marzo 2007), alla stregua di quattro motivi di censura, sostanzialmente incentrati sulla violazione e falsa applicazione della legge 31 luglio 1954, n. 599 (in special modo articoli 63, 64, 66, 67), dell’art. 64 del c.c.p., dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché sull’eccesso di potere nelle sue figure sintomatiche del travisamento dei fatti, della contraddittorietà (anche in ragione della assoluta mancanza di corrispondenza tra gli addebiti contestati e l’addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare in oggetto), della carente e contraddittoria motivazione (per la omessa o insufficiente considerazione delle giustificazioni rese anche nel corso del procedimento penale dal ricorrente e per non aver tenuto in considerazione lo stato matricolare dello stesso e le dichiarazioni rese nel corso del procedimento penale); con memoria notificata il 20 settembre 1999 veniva poi formulato anche un ulteriore motivo aggiunto di censura, con cui, oltre alla violazione e falsa applicazione dell’art. 66 della legge 31.7.1954 n. 599, dell’art. 7.11 e 9.4 della circolare 1/1993 del Comando Generale della Guardia di Finanza (istruzione di procedimenti disciplinari di stato), si deduceva ancora la violazione nonché dell’art. 3 della legge 7.8.90 n. 241 ed eccesso di potere per carenza e contraddittorietà della motivazione, nonché eccesso di potere per sviamento e palese inversione dell’onere della prova.
In sintesi, il ricorrente rilevava che dagli atti del procedimento penale non era emerso a suo carico alcun profilo di responsabilità, autonomamente valutabile ai fini disciplinari, non potendo a tal fine assumere alcun rilievo la contestata disponibilità finanziaria (riconducibile esclusivamente ad operazioni lecite di compravendita di beni immobili della sua famiglia ovvero all’attività lavorativa del proprio coniuge), di cui gli investigatori avevano ingiustamente e comunque inutilmente dubitato; ciò senza contare che, sia in sede penale che in sede disciplinare, egli aveva fornito ampia e convincente giustificazione della disponibilità delle predette somme, asseritamente di ingiustificata provenienza.
Il ricorrente lamentava, inoltre, che la gravissima sanzione disciplinare inflittagli, per un verso, non trovava la necessaria corrispondenza con gli addebiti contestatigli, non potendo essere oggetto di contestazione disciplinare il mero comportamento processuale che aveva assunto nel corso del procedimento penale, mentre, per altro verso, essa era del tutto priva della adeguata motivazione, non potendo essa consistere nelle mere clausole di stile in cui si articolava il provvedimento impugnato; d’altra parte, sempre secondo la tesi del ricorrente, l’Amministrazione non aveva evidentemente tenuto conto ai fini della sanzione, né di tutte le risultanze del procedimento penale, univocamente convergenti nell’escludere una sua qualsiasi responsabilità penale, né dei suoi precedenti di carriera.
Sotto altro profilo, il ricorrente sosteneva infine l’avvenuta estinzione del procedimento disciplinare per il superamento del termine perentorio di 90 giorni, fissato dall’articolo 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, tra la data di contestazione degli addebiti (12 marzo 1997) e quella di conclusione del procedimento (18 settembre 1997).
L’adito tribunale, nella resistenza dell’intimata amministrazione statale, con la sentenza segnata in epigrafe, respingeva il ricorso, ritenendo infondate tutti motivi di censura sollevati avverso gli atti impugnati.
Con atto di appello notificato il 21 settembre 2000 l’interessato, riproposti espressamente tutti i motivi di primo grado, a suo avviso frettolosamente esaminati e superficialmente respinti, ha chiesto la riforma della impugnata sentenza, articolando tre motivi di gravame, con i quali ha denunciato:
1) “violazione e falsa applicazione dell’art. 360 punto 5 c.p.c. - motivazione errata e perplessa in merito al primo motivo di ricorso di primo grado per non avere la sentenza qui impugnata tenuto in considerazione la circostanza che l’illiceità della provenienza di danaro era stata definitivamente esclusa giusto decreto di archiviazione dd. 17.12.1996 per infondatezza della notizia di reato in sede penale, che nessun ulteriore elemento a carico del ricorrente era stato individuato nel corso dell’inchiesta disciplinare che giustificasse il proseguimento del procedimento mediante il deferimento alla commissione di disciplina e per non aver assolutamente preso in considerazione le contestazioni relative al punto sub a) secondo capoverso delle contestazioni disciplinari afferenti alla scelte del ricorrente di valersi della facoltà di non rispondere in corso di indagini penali”;
2) “violazione e falsa applicazione dell’art. 360 punto 5 c.p.c. - motivazione errata perplessa e contraddittoria in merito al secondo motivo di ricorso di primo grado per non avere la sentenza qui impugnata preso in considerazione la circostanza che l’addebito sanzionato non corrisponde agli addebiti contestati”;
3) “Contraddittorietà manifesta della sentenza di primo grado avendo essa nel respingere il terzo motivo di ricorso ritenuto espressamente richiamato e quindi “facente parte integrante” della motivazione del provvedimento il rapporto finale relativo alla inchiesta formale disciplinare dd. 13.5.1997 pur non essendo esso assolutamente richiamato nei provvedimenti impugnati ed essendo sottoposto a segreto e per aver considerato lo stesso rapporto non vincolante ai fini del provvedimento finale sanzionatorio “e come tale non esplica efficacia lesiva esterna”, nel respingere il motivo aggiunto svolto in primo grado in seguito al deposito da parte dell’amministrazione resistente del rapporto stesso, e per non aver tenuto in considerazione che la lesività e conseguente censurabilità del rapporto discende dalla circostanza che trattasi di atto infraprocedimentale che ha determinato il deferimento alla commissione di disciplina del ricorrente”.
Si sono costituiti nel giudizio di appello sia il Ministero delle finanze (ora Ministero dell’economia e delle finanze), sia il Comando generale della Guardia di Finanza, che hanno resistito al gravame chiedendone il rigetto.


DIRITTO



1. L’appello è fondato e deve essere accolto.
1.1. Ad avviso della Sezione, così ricostruita la doglianza, essa è fondata.
1.2.1. In punto di fatto deve rilevarsi che con l’atto in data 13 maggio 1997 l’Amministrazione contestava formalmente al maresciallo maggiore “a” c.s., in congedo, F[.] D[.]: a) di aver accumulato nel periodo 1984-1995, allorquando era in forza ad un reparto operativo nel cospicuo patrimonio familiare immobiliare e non (benché la sua famiglia fosse monoreddito), di cui si era venuti a conoscenza solo a seguito di accertamenti disposta dall’Autorità giudiziaria e per il quale non era stato fornito alcun chiarimento circa la provenienza, ponendo così in essere un comportamento contrario al giuramento di fedeltà prestato; b) di aver compiuto, durante la permanenza nel Corpo, operazioni di compravendita di immobili, omettendo di dichiararne il valore reale (tant’è che erano stati sollevati processi verbali di constatazione per le relative violazioni di carattere fiscale); c) di avere con tali comportamenti arrecato grave nocumento all’immagine ed al prestigio del Corpo.
è sicuramente vero che l’interessato ammetteva, tra l’altro, di avere acquistato tre immobili nel periodo 1984 - 1995 (due garage in Bolzano, un appartamento di 70 mq in Cavareno), precisando di averli pagati con risparmi personali accumulati nel tempo, con l’accensione di un mutuo quinquennale (dal 1981 al 1985) e con il ricavato della vendita dell’abitazione principale della famiglia in Bolzano, di proprietà della moglie; quanto ad un certificato di deposito di valore di £ 75.000.000, l’interessato evidenziava tra l’altro che esso era riconducibile alla somma percepita dalla moglie a titolo di liquidazione e buonuscita percepite per la fine di un rapporto di lavoro; inoltre egli osservava che il plus valore che si era generato nelle transazioni commerciali non poteva considerarsi illecito, mentre avverso le presunte violazioni di carattere fiscale (per occultamento di valore relativo ad imposta di registro) pendeva ricorso alla competente commissione tributaria di primo grado di Bolzano.
1.2.2. L’esame del provvedimento impugnato evidenzia che l’Amministrazione non ha formulato alcuna osservazione volta a confutare le ricordate prospettazioni difensive e a farne constare la loro irrilevanza in riferimento agli addebiti formulati (e con particolare riguardo al bene giuridico asseritamente tutelato, cioè il prestigio ed il decoro del Corpo della Guardia di Finanza ovvero il contenuto del giuramento di fedeltà prestato); infatti, l’Amministrazione si è limitata ad affermare che “…l’inquisito, con comportamento analogo a quello tenuto in sede penale, non ha inteso fornire alcun chiarimento in relazione alle ingenti movimentazioni bancarie contestategli”.
In realtà il convincimento dell’Amministrazione sulla “colpevolezza” dell’inquisito, ancorché non direttamente collegato all’esercizio della facoltà processuale utilizzata dall’interessato di non rispondere alle domande del magistrato inquirente, risulta ragionevolmente fondato (ovvero adagiato) sulle motivazioni dell’ordinanza del G.i.p. del Tribunale di Bolzano in data 17 dicembre 1996 che, pur ordinando l’archiviazione degli atti per infondatezza della notizia di reato, aveva rilevato che vi era la prova che sui conti correnti erano transitati contanti per circa £ 300 milioni di cui non era stata fornita alcuna giustificazione e che, tuttavia, non avendo il cittadino alcun obbligo giuridico di dimostrare la provenienza di (tali) somme di danaro, non vi era alcuna accusa sostenibile in sede dibattimentale.
Sennonché, pur potendo astrattamente ammettersi che gli stessi fatti oggetto di procedimento penale possano essere autonomamente valutati in sede disciplinare, nel caso di specie, ad avviso della sezione, proprio dalla motivazione del provvedimento impugnato e dall’esame degli atti del relativo procedimento disciplinare non si evince l’esistenza di tale necessaria autonoma valutazione, neppure ai fini di supportare la asserita violazione degli obblighi derivanti dal giuramento di fedeltà ovvero il nocumento all’immagine e al prestigio del Corpo.
è sufficiente rilevare, al riguardo, che il fatto che l’interessato abbia acquistato e che abbia avuto anche la disponibilità di ingenti somme di denaro, di cui peraltro ha in qualche modo fornito non implausibili giustificazioni, non costituisce di per sé alcun reato, né un elemento disciplinarmente rilevante, non essendo stato provato (onere che incombeva esclusivamente all’Amministrazione) né la illiceità della sua provenienza e neppure un ragionevole dubbio di illiceità; né a tanto possono supplire le circostanze che la famiglia del sottufficiale fosse monoreddito (presunzione semplice, per un verso, smentita in punto di fatto da alcune controdeduzioni circa l’esistenza di un precedente rapporto di lavoro della moglie, circostanza su cui l’Amministrazione avrebbe potuto/dovuto svolgere eventualmente opportune indagini), né il fatto che l’interessato abbia ritenuto di non collaborare (prima con l’A.G. e poi con l’Amministrazione), rifiutandosi di fornire notizie sulla provenienza del danaro (utilizzando, peraltro, una facoltà lecita, espressamente riconosciutagli dal codice di procedura penale).
In effetti, anche a voler prescindere dal fatto che alcuni indizi sulla provenienza del danaro forniti in sede di controdeduzioni alle contestazioni di addebiti, indizi sui quali l’Amministrazione non ha svolto alcuna osservazione, il dubbio sulla eticità del comportamento tenuto dal sottufficiale non è da solo sufficiente ed idoneo a farlo ritenere socialmente riprovevole e comunque tale da far ritenere fondati e rilevanti i fatti addebitati, né è sufficiente da solo a far ritenere violato il giuramento di fedeltà.
In sostanza, pur non potendo ragionevolmente contestarsi la sussistenza di fatti che astrattamente hanno giustificato l’inizio dell’azione disciplinare, in concreto l’Amministrazione non ha fornito alcuna prova della loro effettiva rilevanza disciplinare e soprattutto della loro ragionevole idoneità a violare gli obblighi nascenti dal giuramento di fedeltà ovvero a produrre nocumento al prestigio e al decoro dell’Amministrazione stessa.
Ciò comporta la sostanziale fondatezza del primo motivo di gravame e il suo carattere assorbente esime la Sezione dall’esame degli altri mezzi di gravame.
2. In conclusione alla stregua delle osservazioni svolte l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata deve essere accolto il ricorso proposto in primo grado dal sig. F[.] D[.], con conseguente annullamento del provvedimento disciplinare impugnato.”


Procedimento disciplinare - Esame del giudicato penale - Sentenza penale di condanna - Decorrenza dei termini - Data di deposito - Legittimità.>

Cons. Stato, sez. IV, sent. 18 marzo 2008, n. 1143 (c.c. 26 febbraio 2008), Pres. f.f. Salvatore, Est. Lodi, Ministero Finanze c. R. L. (rif. T.A.R. Lazio - Roma, sez. II, 11 luglio 2005, n. 5573)

In caso di sentenza penale di condanna nei confronti di un militare, la decorrenza del termine per l’attivazione del procedura di esame del giudicato penale ai fini disciplinari non potrebbe essere anteriore alla data del deposito in cancelleria della sentenza stessa nella sua interezza, cioè completa di motivazione. (1)

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:


FATTO


1. - Con atto notificato il 28 ottobre 2005, depositato il successivo 15 novembre, l’Amministrazione delle finanze ha proposto appello avverso la sentenza del T.A.R. Lazio n. 5573/2005, che aveva accolto il ricorso proposto dal militare della Guardia di finanza L[.] R[.] per l’annullamento del provvedimento del Comandante, datato 11 agosto 2003, relativo alla sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione a decorrere dal 24 maggio 1991.
2. - Dalla sentenza appellata emerge che nella predetta data del 24 maggio 1991 era stato già adottato il provvedimento di rimozione (a seguito di procedimento disciplinare instaurato in conseguenza della definitiva condanna del militare per i reati di cui agli artt. 110 e 317 c.p.) che era stato impugnato dall’interessato con ricorso dapprima respinto dal T.A.R. Piemonte (sentenza n. 448/1994) e poi accolto dal Consiglio di Stato in sede di appello, per difetto di autonoma motivazione della determinazione impugnata (decisione n. 1669/2003).
Successivamente, tuttavia, l’Amministrazione comunicava al ricorrente di aver avviato, per i medesimi fatti, ai sensi dell’art. 5 della legge 27 gennaio 1968, n. 37, una ulteriore inchiesta formale disciplinare che si concludeva con la irrogazione della sanzione disciplinare datata 11 agosto 2003, oggetto dell’impugnativa in esame.
Il primo giudice aveva accolto l’appello dell’interessato ritenendo che non potesse trovare applicazione, nel caso di specie, l’anzidetta norma dell’art. 5 della legge n. 37/1968 (la quale presuppone che la decisione di annullamento “non escluda la facoltà dell’Amministrazione di rinnovare in tutto o in parte il procedimento”), poiché tra i motivi di appello assorbiti vi era anche quello relativo al mancato rispetto dei termini perentori previsti per il procedimento disciplinare, di carattere preclusivo per la reiterazione del procedimento.
3. - L’Amministrazione appellante sostiene, invece, che la pronuncia del Consiglio di Stato imponeva soltanto di esplicitare le ragioni poste a fondamento della misura sanzionatoria, giustificata dalla vicenda penale in cui era stato coinvolto il militare, riavviando ora per allora, nei termini di legge, il procedimento disciplinare.
4. - Si è costituto il signor R[.] il quale deduce l’infondatezza del gravame in fatto e diritto, osservando in particolare che la rinnovazione del procedimento disciplinare non potrebbe valere a rimettere in termini l’Amministrazione procedente allorquando siano stati superati i termini posti a tutela della correttezza del procedimento disciplinare.
5. - Con ordinanza n. 6009, in data 13 dicembre 2005, l’istanza cautelare dell’Amministrazione è stata accolta per la riscontrata insussistenza di un pregiudizio immediato per l’appellato, in congedo assoluto dall’anno 1995.
6. - La causa è passata in decisione all’udienza pubblica del 26 febbraio 2008.
DIRITTO
1. - Come esposto in premessa, il giudice di primo grado ha ritenuto che la precedente decisione di questo Consiglio n. 1669/2003 non consentisse la rinnovazione del procedimento disciplinare annullato, ai sensi dell’art 5 della legge 27 gennaio 1968, n. 37, atteso che con detta pronuncia era stato accolto il solo motivo di difetto di motivazione, mentre erano state assorbite le rimanenti doglianze relative, in particolare, all’asserito mancato rispetto dei termini previsti per il procedimento disciplinare ed alle dedotte questioni di possibile incostituzionalità.
Ciò avrebbe precluso, ad avviso del primo giudice, la facoltà per l’Amministrazione della Guardia di finanza di rinnovare il procedimento, poiché l’omessa pronuncia su tali doglianze (ancorché la fondatezza delle stesse non sia stata valutata dal predetto giudice) avrebbe di per sé impedito una nuova attivazione in sede disciplinare.
2. - L’assunto non appare persuasivo, dovendosi anzitutto condividere le obiezioni formulate in proposito dall’Amministrazione appellante, la quale sottolinea che la pronuncia di questo Consiglio n. 1669/2003 è intervenuta per un vizio meramente formale quale è il difetto di motivazione che non elimina, né sostanzialmente riduce, il potere di provvedere anche negativamente in ordine all’oggetto del precedente atto annullato, con l’unico limite della necessità di esplicitare compiutamente le ragioni poste a fondamento della misura sanzionatoria di nuova adozione.
2.1. - Nel caso in esame doveva anche rispettarsi il termine di sessanta giorni previsto dal citato art. 5 della legge n. 37 del 1268 per la nuova attivazione della procedura sanzionatoria: ma su tale ultimo punto non sono state sollevate specifiche contestazioni.
3. - La Sezione osserva, inoltre, che appaiono destituite di giuridico fondamento le doglianze riproposte in questa sede dal militare resistente, già sollevate nel giudizio di primo grado e non esaminate in sede di appello (ma corrispondenti nella sostanza a quelle proposte nel giudizio a suo tempo rivolto contro il primo provvedimento di perdita del grado per rimozione e respinte dal T.A.R. Piemonte con sentenza 26 maggio 1994, n. 448).
3.1. - In primo luogo il predetto militare ha nuovamente prospettato la violazione dell’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, sostenendo che l’Amministrazione non avrebbe rispettato il termine perentorio di 180 giorni per l’inizio del procedimento disciplinare, decorrente dal momento della conoscenza della sentenza irrevocabile di condanna, pronunciata il 16 gennaio 1990, mentre il procedimento era stato avviato soltanto il 18 settembre 1990; inoltre il resistente assume che sarebbe stato giustificato il superamento del termine di 90 giorni per la conclusione della procedura sanzionatoria.
Tali censure vanno disattese dovendosi confermare le statuizioni su tali punti contenute nella citata sentenza del T.A.R. Piemonte n. 448 del 94, con cui si è sottolineato che la decorrenza del termine per l’attivazione della procedura non potrebbe essere anteriore alla data del deposito in cancelleria della sentenza penale nella sua interezza, e cioè completa di motivazione, che nel caso di specie era avvenuta il 30 maggio 1990, con conseguente tempestività dell’inizio del procedimento disciplinare (su tale principio cfr. da ultimo: Cons. Stato, Sez. VI, 6 agosto 2002, n. 4099).
Per quanto riguarda, poi, la conclusione del procedimento sanzionatorio, avvenuta con la comunicazione del provvedimento di rimozione in data 24 maggio 1991, non appaiono condivisibili i rilievi dell’interessato in quanto, da un lato, occorre fare riferimento alla pronuncia “di non meritevolezza a conservare il grado” emessa dalla Commissione di disciplina fin dal 6 marzo 1991; dall’altro lato, deve convenirsi con quanto già rilevato in prime cure sul fatto che la complessità degli adempimenti procedurali necessari nel caso di specie, per la rilevanza dei fatti ed il numero dei soggetti coinvolti, giustificava comunque il tempo impiegato dall’Amministrazione, come ritenuto in situazioni analoghe dalla giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 4 luglio 1994, n. 1117).
3.2. - Irrilevante si palesa, inoltre, l’ulteriore tesi dell’odierno resistente secondo cui egli, non avendo commesso nei cinque anni successivi alla condanna altro reato della medesima indole e considerandosi ormai riabilitato, non poteva essere nuovamente sottoposto a procedimento disciplinare: l’interessato non tiene conto, infatti che trattasi di provvedimento adottato ora per allora sulla base della situazione all’epoca esistente.
3.3. - Infine il menzionato resistente ha avanzato il sospetto che la riapertura del procedimento disciplinare avrebbe finalità meramente strumentali alle esigenze di risparmio economico dell’Amministrazione, la quale non sarebbe in questo modo tenuta a corrispondergli gli emolumenti precedentemente maturati. Osserva il Collegio che trattasi di mere illazioni dell’interessato e che, al contrario, la gravità dei fatti penalmente rilevanti addebitati al militare in questione appare, in effetti, idonea a giustificare la reiterazione della iniziativa sanzionatoria da parte dell’Amministrazione.
4. - In conclusione l’appello deve essere accolto.”


Patrocinio legale - Rimborso spese - Fatti ed atti connessi con il servizio - Occasionalità della connessione - Non sussiste.

T.A.R. Lazio - Roma, sez. II, sent. n. 230/2008 (c.c. 19 dicembre 2007), Pres. ed Est. Capuzzi, S. S. c. Ministero Finanze

Il rimborso spese per il patrocinio legale non spetta qualora i fatti per i quali il dipendente venga inquisito e poi assolto siano ricollegabili alla sua vita di relazione, ancorché in ambiente di lavoro, o comunque al suo status e cioè siano occasionalmente collegabili ad un incarico e non pure al diretto svolgimento delle funzioni istituzionali, i cui effetti siano direttamente imputabili all’Amministrazione (fattispecie per la quale il militare era stato imputato di disobbedienza aggravata e poi assolto in sede processuale militare) (1).

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:


FATTO


Il ricorrente, militare appartenente al Corpo della G.d.F., veniva tratto in giudizio davanti al Tribunale Militare di Roma per rispondere dell’accusa di disobbedienza aggravata.
Tale Tribunale assolveva il ricorrente con sentenza n.10 del 25 febbraio 2003 con la formula “perché il fatto non costituisce reato”.
Il ricorrente chiedeva al Comando Generale il rimborso delle spese legali sostenute.
Il Comando rigettava la richiesta. Da qui il ricorso affidato a:
Eccesso di potere per violazione di circolare n.88000 del 19.3.2001; dell’art. 18 D.L. 25.3.1997 n.67 conv. con legge 23.5.1997 n.135, dell’art.3 della legge n.241 del 1990. Eccesso di potere per difetto di motivazione e per errore di fatto.
L’Amministrazione intimata si è costituita depositando una ampia memoria difensiva.
La causa è sta trattenuta per la decisione all’udienza del 19 dic. 2007.
DIRITTO
1. Il ricorso non merita accoglimento.
2. L’art. 18 del D.L. 25 marzo 1997 n.67 convertito nella legge 23 maggio 1997 n.135, ha riguardo alle spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità.
Tali spese sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato.
3. Con il primo motivo dedotto si duole il ricorrente che nel procedimento di rimborso delle spese dallo stesso sostenute non sarebbe stato richiesto il parere di congruità dell’Avvocatura Generale dello Stato, parere che secondo il ricorrente sarebbe comunque obbligatorio nel procedimento di rimborso.
La doglianza non ha pregio.
Come si evince chiaramente dalla lettera della legge, l’Avvocatura dello Stato è chiamata ad esprimersi solo sulla congruità delle spese legali di cui viene richiesto il rimborso mentre la decisione in ordine all’an del rimborso delle spese legali compete in via esclusiva all’Amministrazione di appartenenza del dipendente stesso (Cons. Stato, Sez. III, parere n.2177 del 3 dic. 2002; cfr. anche TAR Veneto, 1033 - 14 aprile 2004).
4. Nel secondo, terzo e quarto motivo che possono essere trattati unitariamente il ricorrente deduce violazione di legge e difetto di motivazione atteso che, a suo dire, ricorrerebbero i presupposti per la concessione del beneficio richiesto, essendo stato il ricorrente chiamato a rispondere di un reato militare in un giudizio conclusosi con una pronunzia che ha escluso ogni responsabilità dello stesso.
La vicenda in cui è stato coinvolto il ricorrente tuttavia non può ritenersi conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali secondo il paradigma legale del soprarichiamato articolo 18 del DL n.67 del 1997 e dunque rientranti nell’alveo della riferibilità al volere della Amministrazione.
Infatti il ricorrente è stato oggetto di un procedimento penale militare con l’accusa di avere commesso una violazione del regolamento di Disciplina Militare consistente nel non avere adempiuto ad un ordine impartitogli da un suo diretto superiore di mettersi sulla posizione di attenti e di assumere un contegno più formale.
Al riguardo il provvedimento evidenzia con chiarezza ed esaustivamente che, tenuto conto dei fatti così come ricostruiti nel procedimento penale militare n.470/a/01 RGNR al quale rinvia per relationem, manca il presupposto imprescindibile di una stretta connessione dei fatti compiuti con l’attività di servizio ovvero una riferibilità immediata e diretta di tali fatti e dell’agire dell’istante alla volontà dell’Amministrazione, unico presupposto per la rimborsabilità delle spese.
Puntuale è la giurisprudenza che ha evidenziato che il rimborso non spetta qualora i fatti per i quali il dipendente venga inquisito e poi assolto siano ricollegabili alla sua vita di relazione, ancorché in ambiente di lavoro, o comunque al suo status e cioè siano occasionalmente collegabili ad un incarico e non pure al diretto svolgimento delle funzioni istituzionali i cui effetti siano direttamente imputabili all’ Amministrazione (Cons. Stato, parere III Sez., 332 del 25 nov. 2003; TAR Liguria, Genova, Sez. I n.882 del 22 agosto 2002; Cons. Stato, V, 2242 del 14 aprile 2000).
In conclusione il ricorso non merita accoglimento.”




Accesso agli atti amministrativi - Istanza di singolo delegato di organismo di rappresentanza militare - Istanza presentata in adempimento del mandato - Interesse diretto, concreto ed attuale dell’istante - Non sussiste.

T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. n. 657/2008 (c.c. 16 gennaio 2008), Pres. Orciuolo, Est. Scala, C. P. c. Ministero Difesa

Il singolo componente di un organismo di rappresentanza militare, che richieda l’accesso ai documenti dell’amministrazione in adempimento del suo mandato, è sprovvisto, nella sua qualità di delegato, dei requisiti che la normativa richiede per una consentita esplicazione del diritto in esame, atteso il necessario vincolo di presupposizione che deve esistere tra la conoscenza degli atti e la finalità che si prefigge la normativa sul diritto di accesso, non già di controllo generalizzato dell’attività amministrativa, ma di una mirata ed efficace tutela di un interesse direttamente riferibile al soggetto richiedente, interesse che deve essere, quindi, diretto, concreto ed attuale (1).

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:


DIRITTO


L’oggetto della controversia all’esame del Collegio attiene alla titolarità, o meno, in capo al delegato di organismo di rappresentanza militare, di un interesse diretto, concreto ed attuale ad ottenere copia di documenti detenuti dall’Amministrazione di appartenenza, ed, in specie, degli atti relativi alla gestione esterna delle mense presso le Caserme “Podgora” e “Giacomo Acqua”, al fine della formulazione di proposte migliorative in seno al Comitato di base di appartenenza.
Il ricorrente sostiene che al singolo delegato non possa dirsi precluso di documentarsi ed informarsi preliminarmente su materie in ordine alle quali competente a deliberare è il COBAR di appartenenza, essendo il diritto di accesso strumentale all’esercizio di altro diritto, che invece è espressamente riservato all’organo collegiale.
A questa tesi si oppone quella dell’Amministrazione che sostiene come i singoli delegati, nella loro qualità di componenti dell’Organo di rappresentanza, non possano svolgere le attività devolute, invece, alle competenze collegiali del consiglio di appartenenza, con la conseguente carenza di un interesse diretto, concreto ed attuale connesso ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al richiesto documento, con esclusione, dunque, che, attraverso istanze di accesso sfornite dei presupposti di legge, possa essere esercitato un generalizzato controllo sull’attività della P.A.
Il ricorso è infondato.
Intanto, ad integrazione di quanto esposto in fatto, giova precisare che la Sezione si è, medio tempore, pronunciata, con la sentenza n. 227/2008 del 15 gennaio 2008, su analoga questione, respingendo il ricorso proposto dal ricorrente medesimo avverso il diniego di accesso ai contratti, capitolati e disposizioni tecniche in base ai quali l’Amministrazione aveva assegnato la gestione delle mense di cui sopra, esprimendo considerazioni pienamente condivisibili, ed estensibili anche alla odierna controversia.
Come noto, le norme introdotte dalla legge 241 nel 1990, nella attuale versione integrata e modificata, consentono l’esercizio del c. d. «diritto di accesso», ovvero, del diritto di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi, a tutti coloro che l’art. 22, legge in esame, definisce «interessati», in quanto possano ritenersi soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso.
Con norma speculare ai principi dianzi riportati, l’art. 2, D.P.R. 12.4.2006, n. 184, recante la disciplina applicativa in materia di accesso, prevede che “Il diritto di accesso ai documenti amministrativi è esercitabile nei confronti di tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario, da chiunque abbia un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l’accesso.”
è ormai principio consolidato che il diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui all’art.22, legge 7 agosto 1990, n. 241, trova applicazione in ogni tipologia di attività della pubblica amministrazione, essendo posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità della P.A., di talché, in linea di principio, l’Amministrazione detentrice dei documenti amministrativi, purché direttamente riferibili alla tutela di un interesse personale e concreto, non può limitare il diritto di accesso, se non per motivate esigenze di riservatezza.
In altri termini, la compiuta conoscenza degli atti amministrativi si realizza pienamente attraverso la previsione normativa del diritto di accesso, che si atteggia a presupposto per un corretto ed imparziale esercizio dei pubblici poteri, rendendo realmente possibile il controllo degli amministrati sugli atti che li riguardano.
Il diritto di accesso, dunque, consente una indefettibile tutela accessoria dei soggetti che interloquiscono con le pubbliche amministrazioni, nel presupposto che i soggetti titolari di interesse giuridicamente qualificato non abbiano altra possibilità per conoscere il contenuto dei documenti amministrativi.
Partendo dalle sopra delineate coordinate, ritiene il Collegio che l’odierno ricorrente sia sprovvisto, nella sua qualità di delegato, dei requisiti che la normativa invocata richiede per una consentita esplicazione del diritto in esame, atteso il necessario vincolo di presupposizione che deve esistere tra la conoscenza degli atti e la finalità che si prefigge la normativa sul diritto di accesso, non già di controllo generalizzato dell’attività amministrativa - che, anzi, l’art. 24, 3° comma, esclude espressamente - ma di una mirata ed efficace tutela di un interesse direttamente riferibile al soggetto richiedente.
Tanto osservato, è pacifico, perché dallo stesso ricorrente ammesso, che la materia di organizzazione delle mense - oggetto specifico della richiesta di accesso del 21 settembre - non rientra tra le competenze del singolo delegato, ma tra quelle collegiali dell’Organo di rappresentanza.
Soccorrono, sul punto, le norme di cui al D.P.R. 4.11.1979, n. 691, recante la disciplina dell’attuazione della rappresentanza militare, che, all’art. 1, tratteggia il sistema di rappresentanza, quale veicolo per il personale militare di esprimere pareri, richieste ed avanzare proposte, prospettando “istanze di carattere collettivo”, con specifico riferimento alle materie di competenza degli organi.
Per i fini di interesse, l’art. 10, lett. d), del richiamato D.P.R. n.691/1979, indica, fra le attività di rappresentanza devolute alla competenza collegiale dell’intero organismo rappresentativo, anche quelle concernenti l’“organizzazione delle sale convegno e delle mense”; tale disposizione, peraltro, è simmetrica a quella di cui al successivo art.12, che, alla lett. d) pone, addirittura, il divieto per i singoli delegati, nella loro qualità di componenti dell’organo di rappresentanza, di svolgere attività e funzioni devolute alla esclusiva competenza dell’intero consiglio di appartenenza.
Se il delegato, probabilmente in virtù di una continuità di collegamento con l’elettorato, è il naturale recettore delle sollecitazioni od osservazioni del personale militare, questi, poi, deve seguire, nel solco delle facoltà di cui è direttamente portatore, il percorso di attivazione delle competenze dell’organo di rappresentanza, tra cui va, senz’altro, compreso anche il diritto di accesso, attesa la natura strumentale ed accessoria dello stesso.
Non può, invero, ritenersi ammissibile che il delegato, nel compiere azioni strumentali all’esercizio di poteri radicati in seno all’organo collegiale, agisca, in sostanza, in via del tutto autonoma, anticipando, monocraticamente, decisioni proprie dell’organo, che solo è deputato a prospettare alle competenti autorità le istanze di carattere collettivo nelle materie indicate, e che devono precedere, e non seguire le necessarie attività istruttorie, che diversamente, potrebbero, addirittura, risultare inutili, in assenza di un previo deliberato collegiale.
Da quanto sopra, deve escludersi che il ricorrente - uti singulus - avesse la necessaria legittimazione per richiedere i documenti, la cui conoscenza avrebbe dovuto costituire il presupposto per ogni opportuna azione a difesa della collettività, con conseguente legittimità del diniego opposto dall’Amministrazione, in merito alla istanza dal medesimo avanzata.”


Avanzamento degli ufficiali - Avanzamento a scelta - Valutazione in senso assoluto - Espressione di ampia discrezionalità tecnica - Legittimità.

La valutazione “in senso assoluto” dei candidati all’avanzamento di grado è caratterizzata da un’ampia discrezionalità tecnica, sindacabile solamente nelle ipotesi in cui siano riscontrabili vizi logici costituenti espressione di riconoscibili errori obiettivi, o emergano evidenti ed univoci sintomi di eccesso di potere per ingiustizia manifesta, come nel caso in cui la documentazione caratteristica del ricorrente mostri immediatamente un livello così macroscopicamente ottimale di precedenti di carriera dell’ufficiale scrutinato, da palesare l’assoluta inadeguatezza del punteggio assegnatogli (1).

Avanzamento degli ufficiali - Avanzamento a scelta - Eccesso di potere in senso relativo - Rilevanza - Differente valutazione di posizione identiche - Sussiste.

Il sindacato sulla valutazione “in senso relativo” è ammissibile solamente nei limiti in cui sia diretto a far emergere la utilizzazione di criteri di giudizio differenti a fronte di posizioni uguali o l’ingiustificato “scavalcamento” in graduatoria di un ufficiale da parte di un collega, a fronte di documentazioni caratteristiche rimaste invariate. (1)

T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. n. 1011/2008 (c.c. 14 novembre 2007), Pres. Orciuolo, Est. Modica de Mohac, L. L. c. Ministero Difesa

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“1. Il ricorso è infondato.
Il ricorrente lamenta violazione dell’art.26 della L. n.1137/1955 e successive modificazioni, dell’art.3 del D.M. 2.11.1993 n.571, nonché eccesso di potere per illogicità, difetto di motivazione, illogicità e disparità di trattamento, deducendo che la valutazione in base alla quale egli è stato “scavalcato” dal controinteressato (il quale in sede di precedente avanzamento lo seguiva in graduatoria):
a. non trova giustificazione in alcuna particolare sopravvenienza medio tempore intervenuta; in alcuna nuova situazione, obiettivamente riscontrabile, atta a determinare l’inversione del precedente ordine di classifica che lo vedeva collocato in posizione migliore;
b. è erronea “in senso assoluto” in quanto il punteggio attribuitogli è in aperto contrasto con i suoi precedenti di carriera e certamente non corrispondente ai titoli vantati;
c. ed è erronea anche “in senso relativo” in quanto il parigrado che ha conseguito la promozione possiede titoli inferiori ai suoi.
1.1. La doglianza relativa alla erroneità della valutazione “in senso assoluto” (sollevata genericamente nel primo motivo e, più specificamente, nella prima parte del secondo motivo di gravame), non può essere condivisa.
Secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza amministrativa, nella carriera militare la valutazione “in senso assoluto” dei candidati all’avanzamento di grado è caratterizzata da un’ampia discrezionalità tecnica, che - perciò stesso - è sindacabile solamente nelle ipotesi in cui siano riscontrabili vizi logici costituenti espressione di riconoscibili errori obiettivi (errori di calcolo o errori di fatto), o emergano evidenti ed univoci sintomi di eccesso di potere per ingiustizia manifesta, come nel caso in cui la documentazione caratteristica del ricorrente mostri immediatamente un livello così macroscopicamente ottimale di precedenti di carriera dell’ufficiale scrutinato, da palesare l’assoluta inadeguatezza del punteggio assegnatogli.
Al riguardo, invero, è stato affermato:
- che “la discrezionalità amministrativa attribuita alla Commissione di Avanzamento Ufficiali è particolarmente ampia poiché essa è di regola chiamata ad esprimersi su candidati dotati di buoni profili di carriera, le cui qualità sono definibili solo attraverso analisi di merito, con una valutazione che esprime un giudizio dotato di alto grado di soggettività e che, come tale, non si presta ad un sindacato giurisdizionale di tipo «forte»”; e che, in subjecta materia, “l’esistenza di limiti al controllo giurisdizionale si inserisce in un quadro che appare in armonia con i valori custoditi nell’art. 97 della Costituzione” (Consiglio di Stato, IV^, 18.10.2002 n.5688);
- che “il sistema di promozione a scelta degli ufficiali è caratterizzato non dalla comparazione fra gli scrutinandi, ma da una valutazione in assoluto per ciascuno di loro, talché l’iscrizione nel quadro di avanzamento è determinata dalla posizione conseguita da ciascuno nella graduatoria, sulla base del punteggio attribuitogli” (C.S., IV^, 25.3.2004 n.1512); e che - ancora - “il sistema di promozione a scelta, delineato dalla l. n. 1137 del 1955 e dal d.m. n. 571 del 1993, non implica una valutazione in termini comparativi tra gli ufficiali, ma un giudizio per merito assoluto di ciascuno di essi, talché l’iscrizione in quadro è determinata dalla posizione conseguita dall’ufficiale nella graduatoria stilata in base al punteggio attribuito” (Consiglio Stato , sez. IV,6 settembre 2005 n.4558 e 20 dicembre 2005 , n. 7220);
- che “il sistema di promozione a scelta, delineato dalla l. n. 1137 del 1955 e dal d.m. n. 571 del 1993 non implica una comparazione tra gli scrutinandi, ma una valutazione in assoluto di ciascuno di essi, talché l’iscrizione in quadro è determinata dalla posizione conseguita dall’ufficiale nella graduatoria stilata sulla base del punteggio attribuitogli. Detta valutazione, che costituisce esercizio della discrezionalità tecnica dell’amministrazione militare, è caratterizzata da un’amplissima discrezionalità, essendo riferita ad ufficiali dotati di ottimi profili di carriera, le cui qualità sono definibili attraverso sfumate analisi di merito che non sono la mera risultanza aritmetica dei titoli e dei requisiti degli scrutinandi, ma implicano una complessiva ponderazione delle loro qualità” (TAR Lazio Roma, I^, 5.7.2006 n.5409);
- che “il sindacato giurisdizionale di legittimità sulle valutazioni della Commissione superiore di avanzamento non può snaturare il carattere tipico della promozione a scelta, introducendovi connotazioni di merito comparativo, tanto più quando trattasi dell’avanzamento ai più elevati gradi delle Forze armate. Di conseguenza, tale sindacato deve estrinsecarsi nella verifica del corretto esercizio del potere valutativo, proprio della Commissione, sotteso all’attribuzione del punteggio ad ogni singolo ufficiale e, per non sconfinare nel merito dell’azione amministrativa, deve limitarsi al riscontro di palesi irrazionalità nell’assegnazione del punteggio, tali da non richiedere sfumate analisi degli iscritti in quadro, ma emergenti ictu oculi per la loro macroscopica evidenza” (TAR Lazio Roma, I^, 5.7.2006 n.5409); e - ancora - che “il sindacato giurisdizionale di legittimità sulle valutazioni della Commissione Superiore di Avanzamento non può snaturare il carattere tipico della promozione a scelta, introducendovi connotazioni di merito comparativo; tanto più quando, trattandosi dell’avanzamento ai più elevati gradi delle Forze Armate, la valutazione deve essere complessiva per tutte le categorie dei titoli, sì che tale sindacato deve estrinsecarsi nella verifica del corretto esercizio del potere valutativo, proprio della Commissione, nell’attribuzione del punteggio ad ogni singolo ufficiale e, per non sconfinare nel merito dell’azione amministrativa, deve limitarsi al riscontro di palesi irrazionalità nell’assegnazione del punteggio, tali da non richiedere sfumate analisi degli iscritti in quadro, ma emergenti “ictu oculi” per la loro macroscopica evidenza (TAR Lazio Roma, I^, 9.5.2005 n.3457);
- e, ciò che maggiormente interessa ai fini della decisione della questione dedotta in giudizio, che “la figura di eccesso di potere in senso assoluto presuppone una figura di ufficiale con precedenti di carriera costantemente eccellenti ed esenti da qualsiasi menda o attenuazione di rendimento; sicché i sintomi di tale vizio possono cogliersi esclusivamente quando nella documentazione caratteristica risulti un livello macroscopicamente elevato dei precedenti dell’intera carriera dell’ufficiale, da rendere a prima vista il punteggio del tutto inadeguato” (C.S., IV^, 14.12.2004 n.7950).
E poiché l’analisi della documentazione caratteristica del ricorrente ha evidenziato che la carriera dello stesso, per quanto indubbiamente brillante, non appare del tutto priva di mende, riserve ed attenuazioni di ottimalità - non essendo stato giudicato in numerose schede valutative, pur conclusesi con l’attribuzione della massima qualifica finale, con le più elevate aggettivazioni fissate dalla normativa vigente; ed avendo ottenuto nel grado di Colonnello solamente otto citazioni di compiacimento e/o di apprezzamento su diciotto documenti caratteristici - il giudizio espresso dalla Commissione ben resiste, secondo l’illustrato orientamento giurisprudenziale, alla dedotta censura.
1.2. Del pari infondata si appalesa la doglianza relativa alla erroneità della valutazione “in senso relativo” (sollevata genericamente nel ricorso e più specificamente in entrambi i ricorsi per motivi aggiunti).
Secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza amministrativa, il sindacato sulla valutazione “in senso relativo” (dei militari scrutinati per l’avanzamento di grado) è ammissibile solamente nei limiti in cui sia diretta a far emergere:
- la difforme valutazione di un medesimo titolo posseduto da due candidati o - ciò che esprime il medesimo concetto - la utilizzazione di criteri di giudizio differenti a fronte di posizioni uguali;
- l’ingiustificato “scavalcamento” in graduatoria di un Ufficiale da parte di un collega, a fronte di documentazioni caratteriali rimaste invariate.
Invero, al riguardo, la giurisprudenza amministrativa afferma:
- che “in sede di giudizio di avanzamento degli ufficiali delle forze armate lo scavalcamento illegittimo si verifica solo quando in precedente graduatoria riferita allo stesso grado gli ufficiali in comparazione si siano collocati in posizione invertita rispetto al quadro di avanzamento contestato, senza che nulla sia variato nella documentazione” (C.S., IV^, 16.5.2006 n.2796);
- che “il giudizio di avanzamento a scelta per merito assoluto e non per merito comparativo è comunque da ricollegare a criteri congrui, razionali ed omogenei, logicamente applicabili uniformemente a tutti i soggetti sottoposti al medesimo scrutinio”; ma che, ai fini del sindacato giurisdizionale, “l’incoerenza della valutazione con i precedenti di carriera e con i titoli (eccesso di potere in senso assoluto) e la rottura dell’uniformità del criterio (eccesso di potere in senso relativo), …. (omissis) … , devono emergere dalla documentazione caratteristica con assoluta immediatezza, per cui la valutazione in concreto attribuita deve apparire inspiegabile in relazione ai precedenti di carriera, ovvero alle valutazioni dei pari grado iscritti in quadro di avanzamento, e tale da rendere ingiustificato ed illogico il giudizio unitario complessivo della commissione” (C.S., IV^, 6.9.2005 n.4558);
- che “in tema di avanzamento a scelta degli ufficiali l’incoerenza della valutazione con i precedenti di carriera e con i titoli (eccesso di potere di senso assoluto) e la rottura dell’uniformità del criterio (eccesso di potere in senso relativo) anche se riferibili singolarmente a ciascuno dei complessi elementi sopra citati, non possono essere ricavate da una nuova analitica valutazione da parte del giudice, ma devono emergere dalla documentazione con assoluta immediatezza, per cui la valutazione in concreto attribuita deve apparire inspiegabile in relazione ai precedenti di carriera, ovvero alle valutazioni dei pari grado iscritti in quadro di avanzamento e tale da rendere ingiustificato ed illogico il giudizio unitario complessivo” (C.S.,IV^, 11.2.2005 n.401);
- che “il giudizio di avanzamento può essere oggetto di sindacato sotto il profilo dell’eccesso di potere in senso relativo, postulando la rilevazione in via immediata di macroscopiche incongruenze nell’attribuzione dei punteggi, rispettivamente, all’ufficiale interessato e ad uno o più pari grado iscritti in quadro, tali da dimostrare di per sé la disomogeneità ed incongruenza del metro di valutazione di volta in volta seguito, con correlativa rottura dell’uniformità del giudizio” (TAR Liguria Genova, I^ 14.1.2005 n.37; Id., 18.12.2004 n.1728); e, ancor più precisamente, che “il giudizio di avanzamento può essere oggetto di sindacato sotto il profilo dell’eccesso di potere in senso relativo (…) al fine di verificare se i punteggi siano stati assegnati con criteri più restrittivi nei confronti dell’ufficiale non promosso, pur in presenza di note caratteristiche assolutamente identiche” (TAR Liguria Genova, I^, 2.4.2004 n.332; Id., 17.3.2004 n.265).
E poiché nella fattispecie dedotta in giudizio il ricorrente non è stato in grado di dimostrare che il lamentato “scavalcamento” (a cagione del quale egli è precipitato in posizione deteriore rispetto ai tre ufficiali che lo seguivano nella precedente graduatoria) sia avvenuto a documentazione invariata (e senza sopravvenienze); né che titoli vantati sia da lui che dal controinteressato abbiano trovato diverso apprezzamento da parte della Commissione, anche sotto il dedotto profilo la valutazione esperita da quest’ultima ben resiste alla doglianza.
In ogni caso la Commissione ha considerato che il controinteressato:
- ha meritato un maggior numero di benemerenze del ricorrente (sette elogi ed otto encomi semplici, contro due elogi e cinque encomi semplici di quest’ultimo)
- vanta - a differenza del ricorrente - la frequenza al Corso Superiore presso la Scuola di guerra aerea ed al Corso presso l’Istituto Superiore Stati Maggiori Interforze:
- è autore di quattro pubblicazioni scientifiche mentre il ricorrente non ha mai pubblicato alcun lavoro;
- è stato premiato - contrariamente al ricorrente - con la medaglia di bronzo al merito della Sanità pubblica;
- ed ha svolto incarichi di grande prestigio (quali quelli di Presidente del Collegio medico-legale presso l’Istituto medico-legale di Napoli - Capodichino per circa venti mesi (svolto in parziale contemporaneità, per circa nove mesi, con quello di Capo Reparto pneumologia e fisiopatologia respiratoria), Capo Ufficio del Capo del Corpo Sanitario aeronautico, per circa un anno (svolto in parziale contemporaneità, per circa nove mesi, con quello di Capo pianificazione del Servizio Sanitario presso il Comando logistico dell’Aeronautica militare) e Capo Ufficio Direzione e Coordinamento del Servizio trasfusionale militare presso la Direzione Generale della Sanità militare per circa sessanta mesi;
- ha espletato “incarichi abbinati” per periodi molto più lunghi rispetto al ricorrente (che ha svolto incarichi abbinati per soli due mesi).
E poiché il giudizio in ordine all’importanza degli incarichi costituisce espressione valutativa di merito, perciò stesso insindacabile, il provvedimento impugnato resiste alle doglianze sotto ogni profilo.
2. In considerazione delle superiori osservazioni, il ricorso va respinto.”


Disciplina militare - Illecito disciplinare - Concorso di più militari nella mancanza - Diverso trattamento sanzionatorio - Diverso ruolo assunto da ciascuno - Disparità di trattamento - Non sussiste.

T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. n. 1497/2008 (c.c. 13 febbraio 2008), Pres. Orciuolo, Est. Proietti, D. V. c. Ministero Difesa

Una differente e più grave sanzione irrogata ad un militare, in caso di concorso di più persone nell’illecito disciplinare, non configura una disparità di trattamento, nel momento in cui l’interessato, in virtù dei compiti specifici assegnatigli e delle funzioni esercitate, rivesta un ruolo di primaria importanza nella commissione delle condotte contestate, per cui risulta determinante il diverso ruolo assunto dai militari coinvolti nello svolgimento dei fatti (1).

(1) Si legge quanto appreso in sentenza:


FATTO


Con sentenza n.40/95 datata 30.1.1995, divenuta irrevocabile il 4.3.1995, il Tribunale Militare di Roma, ai sensi dell’art. 444 c.p.p. ha applicato nei confronti del Mar. A.M. V[.] D[.] la pena di mesi sei di reclusione militare (pena sospesa), per i reati di peculato militare aggravato continuato in concorso e peculato militare aggravato tentato, unificati dal vincolo della continuazione ex art. 81 c.p.
Ritenuto il comportamento del D[.] disciplinarmente rilevante, lo stesso è stato sottoposto a inchiesta formale disciplinare, all’esito della quale, con D.M. 31.5.1994, gli è stata irrogata la sanzione della sospensione dall’impiego per mesi due, ai sensi degli artt. 21 e 63 della legge 31.7.1954 n . 599.
Il D[.], considerato illegittimo tale provvedimento, lo ha impugnato dinanzi al TAR del Lazio, chiedendone l’annullamento.
L’Amministrazione resistente, costituitasi in giudizio, ha sostenuto l’infondatezza del ricorso e ne ha chiesto il rigetto.
Con ordinanza n. 1276 del 20.5.1996 il TAR ha respinto la domanda incidentale di sospensione proposta da parte ricorrente.
Con successive memorie le parti hanno argomentato ulteriormente le rispettive difese.
All’udienza del 13 febbraio 2008 la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.


DIRITTO


1. Il ricorrente ha proposto le censure di seguito indicate avverso il provvedimento impugnato:
a. violazione e falsa applicazione dell’art. 9, secondo comma, della L. 7.2.1990 n. 19; eccesso di potere: ai sensi della disposizione indicata, le sanzioni disciplinari possono essere inflitte all’esito di idoneo procedimento, che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’Amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile; il procedimento deve necessariamente concludersi nei successivi novanta giorni; i due termini hanno carattere perentorio; nella fattispecie, la sentenza penale è passata in giudicato il 4.3.1995, mentre l’inchiesta formale nei confronti del ricorrente ha avuto inizio il 20.11.95 e, dunque, oltre i 180 giorni fissati dalla norma indicata per l’inizio del procedimento disciplinare, e si è concluso con la sanzione disciplinare irrogata con D.M. 12.2.1996, notificato il 20.2.1996;
b. violazione dell’art. 3, l.n. 241/90; erronea valutazione dei presupposti fattuali e giuridici; carenza di istruttoria e motivazione; ingiustizia manifesta: dalla nota del 12.2.1996, inviata al ricorrente, recante la motivazione della sanzione disciplinare, non emergono le ragioni che hanno condotto all’emanazione del provvedimento impugnato, considerando che l’Amministrazione ha fatto completamente riferimento alla sentenza patteggiata, omettendo di condurre un’indagine autonoma e di valutare concretamente i fatti, anche alla luce dei precedenti dell’interessato; 
c. eccesso di potere per illogicità manifesta e irrazionalità: il provvedimento impugnato, oltre ad essere immotivato, è stato adottato in presenza di fatti non esaminati e considerati sotto il profilo strettamente disciplinare; andava evidenziato come l’intensità della gravità della situazione avrebbe dovuto costituire materia per una loro logica e razionale considerazione che, nella specie, non risulta affatto evidenziata; inoltre, a situazioni assolutamente identiche, sono conseguite sanzioni del tutto differenziate e sostanzialmente ingiuste;
d. eccesso di potere per ingiustizia manifesta e disparità di trattamento: la vicenda penale che ha coinvolto il ricorrente ha visto protagonisti anche altri militari; alcuni di essi (i M.lli G[.] F[.], G[.] G[.] e M[.] P[.]) condannati alla medesima pena inflitta al ricorrente (ed ugualmente dai medesimi patteggiata), si sono visti infliggere il solo richiamo e non già la sospensione disciplinare dall’impiego irrogata al ricorrente; un altro militare (il M.llo A[.] F[.]), il quale aveva patteggiato la pena ad un anno e sei mesi di reclusione militare, non solo non ha avuto alcuna sospensione dal servizio, ma è stato promosso al grado superiore; un tale comportamento dell’Amministrazione è censurabile per ingiustizia manifesta e palese disparità di trattamento atteso che, nei confronti di soggetti versanti in situazioni identiche, sono state adottate, dalla medesima Autorità amministrativa, provvedimenti aventi contenuto differente.
2. Le censure prospettate dal ricorrente possono essere trattate congiuntamente e respinte per le ragioni di seguito indicate.
2.1. L’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, tra l’altro, stabilisce che il procedimento disciplinare nei confronti del pubblico dipendente sottoposto a procedimento penale, deve essere proseguito o promosso entro 180 giorni dalla data in cui l’Amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna, e deve essere concluso nei successivi 90 giorni.
Nel caso di specie, non è contestato il fatto che l’Amministrazione militare abbia avuto conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza di patteggiamento del ricorrente in data 28 luglio 1995 e, quindi, l’inizio del procedimento disciplinare in data 20.11.1995 risulta tempestivo perché intervenuto nel termine previsto di 180 giorni.
Tale procedimento disciplinare (iniziato il 20.11.1995: data di contestazione degli addebiti), risulta essersi concluso il 12.2.1996 (come riconosciuto dallo stesso ricorrente: cfr. pag. 5 e 6 del ricorso) con decreto notificato il 20.2.1996, sicché anche il termine di 90 giorni previsto per concludere la procedura risulta essere stato rispettato.
2.2. Chiarito ciò, va disattesa anche la censura con la quale si lamentano difetti di istruttoria e motivazionali del provvedimento sanzionatorio.
Al riguardo, va osservato che la sentenza di patteggiamento ha rilievo in sede disciplinare in quanto la sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p. contiene un’affermazione di responsabilità in merito ai fatti oggetto d’imputazione. Il giudice non si limita a recepire la richiesta di patteggiamento, ma verifica che non sussistano le condizioni di cui all’art. 129 c,p.p. e, quindi, se non assolve l’imputato, accerta la sua responsabilità.
I fatti addebitati in sede disciplinare che sono stati accertati in sede penale con decisione passata in giudicato, costituiscono elementi inconfutabili ed imprescindibili, in quanto fanno stato sotto il profilo disciplinare, ai sensi dell’art, 653 c.p.p.
è chiaro che il giudice penale accerta se la fattispecie concreta trova riferimento in una fattispecie astratta prevista dalla legge penale, mentre l’Amministrazione valuta se le stesse condotte assumono anche una valenza disciplinare, perché risultano lesi i doveri d’ufficio. Nella fattispecie queste valutazioni risultano essere state eseguite, poiché l’Amministrazione ha considerato la condanna penale equivalente alla non osservanza del giuramento prestato dal ricorrente, il quale impone l’obbligo del rispetto delle leggi ed, in particolare, della normativa di carattere penale. Appare, quindi, comprensibile che la violazione del giuramento abbia comportato una valutazione negativa ai fini dell’adozione della contestata sanzione disciplinare.
2.3. In questo contesto, non assume particolare rilievo il richiamo del ricorrente ai suoi precedenti di carriera, poiché la sanzione disciplinare è stata irrogata valutando le condotte già esaminate e sanzionate in sede penale.
2.4. Né risulta fondata la censura relativa ad una presunta carenza di istruttoria, considerando che dall’esame degli atti del procedimenti disciplinare emerge che il procedimento si è correttamente sviluppato in tutte le sue fasi, consentendo al ricorrente di esercitare il suo diritto di difesa, acquisendo tutti gli elementi di valutazione utili ai fini della decisione.
Il tenore del provvedimento impugnato smentisce anche la censura avente ad oggetto la presunta carenza motivazionale, considerando che l’atto è stato così motivato: “Sottufficiale in S.P., con sentenza patteggiata in data 31.01.1995, veniva condannato dal Tribunale Militare di Roma alla pena, sospesa condizionalmente, di mesi sei di reclusione, sostituita dalla reclusione militare, per il reato di peculato militare aggravato continuato in concorso, per essersi appropriato illecitamente di somme di denaro provenienti dalla gestione della mensa truppa del Comando Aeroporto Ciampino, consegnategli dal gestore della stessa e presso la quale svolgeva attività di fatto, nonché di peculato militare aggravato continuato tentato, per aver compiuto atti idonei diretti, in modo non equivoco, ad appropriarsi di parte delle somme anticipategli dall’Amministrazione per il funzionamento, sempre nell’ambito del Comando Aeroporto Ciampino, della gestione del Circolo Ufficiali (del quale era gestore), e della mensa Ufficiali (della quale era sottufficiale addetto alla contabilità e gestione del materiale), inserendo nella contabilità della sala di rappresentanza (della quale era addetto) documentazione non veritiera relativa a consumi non effettivamente realizzati. Sottoposto successivamente ad inchiesta formale disciplinare ai sensi dell’art. 65 della L. n. 599/54, non riusciva a dimostrare la propria estraneità ai fatti. Detta inchiesta si concludeva con l’accertamento di gravi responsabilità riconducibili al sottufficiale in questione, consistenti nella rilevante violazione di doveri attinenti al giuramento prestato, al grado ed alle funzioni del proprio stato, al senso di responsabilità e nell’aver tenuto un comportamento caratterizzato da grave leggerezza e superficialità, lesivo del prestigio e dell’immagine della Forza Armata”.
2.5. Circa la denunciata disparità di trattamento legata al fatto che l’Amministrazione avrebbe adottato nei confronti del ricorrente una sanzione disciplinare sperequata rispetto a quella irrogata ai M.lli F[.] (rimprovero), G[.] (rimprovero), P[.] (rimprovero) e F[.] (nessuna mancanza), va considerato che è risultato determinate il diverso ruolo assunto dai militari indicati nello svolgimento dei fatti: - il S.M. F[.] G[.] svolgeva un incarico connesso alla gestione dello spaccio militare; - il S.M. G[.] svolgeva un’attività a titolo di collaborazione, del gestore effettivo M.llo C[.], per la tenuta della contabilità dello spaccio medesimo; - il M.llo F[.] svolgeva un incarico connesso alla gestione dello spaccio militare; - il M.llo [V.] D[.], invece, era incaricato di funzioni amministrative quale gestore del Circolo Ufficiali, nonché quale Sott.le addetto alla contabilità e gestione del materiale presso la mensa ufficiali, nonché addetto alla sala di rappresentanza dello stesso aeroporto di Ciampino.
In sostanza, il ricorrente svolgeva compiti specifici assegnatigli ed in virtù delle funzioni esercitate, rivestendo un ruolo di primaria importanza nella commissione delle condotte contestate in sede penale e disciplinare. Da ciò, la comprensibile individuazione di diverse sanzioni irrogate.
3. Alla luce delle considerazioni che precedono il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato e debba essere respinto.”




Documenti caratteristici - Attività di valutazione dei superiori gerarchici - Espressione di ampia discrezionalità tecnica - Legittimità.

T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. n. 1882/2008 (c.c. 16 maggio 2007), Pres. Orciuolo, Est. Modica de Mohac, V. U. c. Ministero Difesa

La formulazione del giudizio concernente l’attitudine o la perizia espressa da un militare nell’esercizio della sua attività professionale costituisce il momento culminante di una valutazione ampiamente soggettiva che implica percezioni psichiche ed apprezzamenti personali riferibili esclusivamente al convincimento ed alla empirica “prudenza” di chi sia chiamato ad esprimersi. Per tale ragione, in sede di giurisdizione generale di legittimità, le valutazioni tecniche espresse dai superiori gerarchici incaricati di redigere le schede valutative, non sono sindacabili nel merito, salvo che nel caso di eccesso di potere per manifesta illogicità; vizio - questo - che si verifica solamente allorquando sia possibile dimostrare che il contestato giudizio è basato su un travisamento di fatti oggettivamente riscontrabile. (1)

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“ritenuto in fatto:
- che il ricorrente è un sottufficiale in forza presso la Marina Militare con il grado di Capo 1° (SSC/RT), in servizio a bordo di Nave Artigliere dal 23.8.2004 con l’incarico di Capo Nucleo Guerra Elettronica;
- che in data 2.9.2006 ha ricevuto a scheda valutativa n.35 (relativa al periodo corrente dall’1.1.2005 al 12.1.2006), nella quale gli è stata attribuita la qualifica di “superiore alla media”;
- che ritenendo ingiusta tale valutazione, il ricorrente la ha impugnata innanzi a questo TAR chiedendone l’annullamento per le conseguenti statuizioni di condanna;
esaminati i motivi di ricorso;
considerato in diritto:
- che con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta violazione dell’art.1 del DPR n.213 del 2002 ed eccesso di potere per violazione di circolari, deducendo che la scheda è stata comunicata al ricorrente oltre sette mesi dopo essere stata redatta dal compilatore;
- che la doglianza è inammissibile per difetto di interesse, posto che il ricorrente non ha dimostrato di aver subito alcun danno dall’asserito “ritardo”; ed infondata nel merito in quanto nessuna norma assoggetta la comunicazione in questione ad un termine perentorio;
- che con il secondo e con il terzo mezzo di gravame il ricorrente lamenta violazione dell’art.6, comma 3°, del DPR n.213 del 2002 ed eccesso di potere per contraddittorietà, manifesta illogicità ed incoerenza, deducendo che il provvedimento è carente di sufficiente motivazione e contraddittorio; e che la qualifica attribuitagli non corrisponde - per difetto - alla qualità del servizio reso;
- che la doglianza non merita accoglimento in quanto il compilatore della scheda ha specificato che “è emersa talvolta - a carico del ricorrente - qualche incomprensione che ha condizionato le relazioni interpersonali con i propri colleghi”, il che è sufficiente a giustificare il giudizio di non eccellenza e ad evidenziare che nel periodo preso in considerazione dal compilatore della scheda valutativa il ricorrente non è riuscito a far emergere le migliori caratteristiche della propria personalità. Il profilo di doglianza secondo cui la valutazione del compilatore della scheda sarebbe apodittico, basato su una erronea valutazione dei fatti e financo contraddittorio (rispetto ai precedenti di carriera), si appalesa - poi - inammissibile, essendo volto a sindacare - sulla base di considerazioni soggettive - il merito di un giudizio tecnico ampiamente discrezionale, licenziato da un superiore gerarchico. Al riguardo non resta che confermare il pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui la formulazione del giudizio concernente l’attitudine o la perizia espressa da un soggetto nell’esercizio di una determinata attività professionale costituisce il momento culminante di una valutazione ampiamente soggettiva che implica percezioni psichiche ed apprezzamenti personali riferibili esclusivamente al convincimento ed alla empirica “prudenza” di chi sia chiamato ad esprimersi. Non resta che confermare, cioè, il consolidato orientamento secondo cui in sede di giurisdizione generale di legittimità le valutazioni tecniche espresse dalle Commissioni giudicatrici o, come nel caso di specie, dai Superiori gerarchici incaricati di redigere le schede valutative, non sono sindacabili nel merito, salvo che nel caso di eccesso di potere per manifesta illogicità; vizio - questo - che si verifica solamente allorquando sia possibile dimostrare che il contestato giudizio è basato su un travisamento di fatti oggettivamente riscontrabile e/o su uno o più errori oggettivamente riconoscibili in quanto derivanti dalla inesatta applicazione di tecniche di calcolo, di regole matematiche o di regole proprie delle scienze esatte, ovvero dalla inesatta postulazione o utilizzazione di leggi scientifiche. E poiché nella fattispecie in esame il giudizio non si fondava su regole di tal genere, ma su valutazioni soggettive e personali non costituenti la risultante di calcoli obiettivi né verificabili alla stregua di regole proprie delle scienze esatte, ma volte a sondare l’indice di propensione dell’esaminato all’espletamento di specifici compiti, la inammissibilità della censura - peraltro non supportata da alcun argomento tecnico rilevante (ai fini del giudizio sulla intrinseca logicità del comportamento del compilatore) - appare fin troppo evidente;
- che con il quarto mezzo di gravame il ricorrente lamenta eccesso di potere per violazione della circolare DGPM/V/1299 del 7.10.2003, deducendo che nella scheda valutativa non risultano menzionate le rilevanti attività da lui svolte nel periodo preso in considerazione;
- che la doglianza non merita accoglimento in quanto nessuna norma impone che nella scheda valutativa siano analiticamente elencate tutte le attività e gli incarichi svolti dal militare, essendo sufficiente che dalla stessa emerga un giudizio sintetico in merito alla qualità del servizio reso e dei risultati eventualmente conseguiti;
- ritenuto, in definitiva, che in considerazione delle superiori osservazioni, il ricorso sia da respingere;”


Disciplina militare - Sanzioni di corpo - Richiamo orale - Comunicazione al punito mediante verbale di notifica - Violazione di legge per utilizzazione della forma scritta - Non sussiste.

La norma del regolamento di disciplina militare in tema di richiamo verbale dispone che non occorre che la sanzione venga comunicata per iscritto e che ad essa segua il consueto rapporto informativo ai superiori, ma non anche che ciò non debba mai accadere. Non si può, quindi ritenere che sia addirittura vietato comunicare l’avvenuta applicazione della sanzione mediante atto scritto ed annotarla, essendo - invece - da ritenere vietata solamente la trascrizione nel fascicolo personale, in modo da evitare che la sanzione incida sullo stato di servizio e sulla carriera del militare (1).

T.A.R. Lazio - Roma, sent. n. 1901/2008 (c.c. 30 maggio 2007), Pres. Orciuolo, Est. Modica de Mohac, N. T. c. Ministero Difesa

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“considerato:
- che nel giugno del 2006 il ricorrente, luogotenente in servizio presso l’Arma dei Carabinieri, inoltrava istanza di assegnazione in missione presso l’Ambasciata di Baghdad in Iraq, trasmettendola direttamente alla Direzione Generale per il Personale del Ministero degli Affari esteri; e contravvenendo, così, alla specifica disposizione che impone ai militari, nelle relazioni di servizio e disciplinari, di rispettare la via gerarchica (indirizzando le istanze tramite i propri superiori);
- che, conseguentemente, gli veniva inflitta la sanzione del “richiamo”;
- che l’applicazione della sanzione gli è stata comunicata mediante verbale di notifica, e dunque in forma scritta;
- che, in seguito ad accesso documentale, il ricorrente è venuto a conoscenza del fatto che dell’avvenuta irrogazione - a suo carico - della sanzione è rimasta (ulteriore) traccia scritta in un “appunto” redatto dall’Ufficiale che la ha inflitta; appunto ove sono annotate le ragioni della punizione e le circostanze nelle quali è stata comminata;
- che l’interessato sostiene che la sanzione del “richiamo” si caratterizza per la “oralità” (di per sé diretta a non lasciar tracce), e pertanto contesta il fatto che essa gli sia stata notificata con atto scritto e che la stessa sia stata annotata, seppur in un “appunto”;
- che pertanto ha proposto il ricorso in esame, con cui chiede l’annullamento di ogni annotazione dalla quale possa emergere l’avvenuta comminazione della sanzione in questione;
- che con il primo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione degli artt.13, 14 e 15 della L. n.382 del 1978, dell’art.62 del DPR n.545 del 1986, della L. n.241 del 1990, nonché eccesso di potere per erroneità dei presupposti, carenza di istruttoria e contrarietà ed illegittimità manifeste, deducendo che ai sensi della citata normativa il “richiamo” è una sanzione verbale; e che pertanto illegittimamente gli è stato comminato mediante comunicazione scritta ed annotato in un “appunto” destinato a lasciare memoria della vicenda (avendo così assunto la configurazione formale di una sanzione di maggior rilievo);
- che la doglianza non merita di essere condivisa.
L’art.62 del DPR n.545 del 1986 si limita a stabilire che il “richiamo” - forma di ammonimento con cui vengono punite lievi mancanze o omissioni causate da negligenza - può essere inflitto (da qualsiasi superiore) senza obbligo di rapporto; e che esso non dà luogo a trascrizione nel fascicolo personale ed a particolari forme di comunicazione scritta o pubblicazione.
Un’attenta lettura della norma induce, pertanto, a concludere che non occorre che la sanzione venga comunicata per iscritto e che ad essa segua il consueto rapporto informativo ai superiori, ma non anche che ciò non debba mai accadere; che, cioè, sia addirittura vietato comunicare l’avvenuta applicazione della sanzione mediante atto scritto ed annotarla (essendo da ritenere vietata - per contro - solamente la trascrizione nel fascicolo personale, in modo da evitare che la sanzione incida sullo stato di servizio e sulla carriera del militare).
Del resto, il fatto che sia legittimo procedere ad una qualche forma di annotazione ad uso interno degli uffici dai quali il militare dipende - purché, lo si ribadisce, essa non si risolva in una trascrizione nel fascicolo personale nello stato matricolare - è facilmente arguibile dalla lettura del successivo art.63 del citato DPR n.545 del 1986.
Poiché, infatti, esso prevede espressamente che in caso di recidività delle mancanze punite con il semplice “richiamo”, può essere comminata la sanzione (più grave) del “rimprovero”, appare evidente che la prassi di annotare i vari “richiami” al fine esclusivo di consentire (al superiore subentrante o a chi di competenza) di verificare se il militare già “richiamato” sia recidivante, non può essere censurata come illegittima. Diversamente opinando, infatti, l’art.63 cit. diverrebbe quasi del tutto inapplicabile;
- che con il secondo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione dell’art.3 della L. 241 del 1990 ed eccesso di potere per difetto di istruttoria, e contraddittorietà, deducendo che dal provvedimento risulta impossibile dedurre le ragioni specifiche su cui si fonda;
- che anche tale doglianza non merita di essere condivisa in quanto nell’“appunto” redatto dall’Ufficiale che ha comminato la sanzione verbale in questione emerge chiaramente che la stessa trae origine (e titolo) dal fatto che il ricorrente ha avanzato un’istanza senza trasmetterla per le vie gerarchiche;
- ritenuto, in definitiva, che in considerazione delle superiori osservazioni, il ricorso sia da respingere,”


Trattamento economico eventuale - Indennità per servizi esterni - Militari in servizio presso le sezioni di polizia giudiziaria - Non compete.

La circostanza che il militare sia, per esigenze amministrative o di altra natura, in forza ad altro reparto non consente di ritenere concretizzati i requisiti richiesti per la remunerazione indennitaria per servizi esterni, non venendo in considerazione un’attività presso un ente di terzi ma un’attività svolta dall’ufficio (cui si è assegnati e da cui provengono gli ordini di servizio) che è localizzato ed ubicato presso un ente terzo, quale peculiare modalità di articolazione del servizio di istituto. Pertanto, manca, nel caso di specie, quell’elemento di disagio o maggiore onerosità della prestazione che deve ritenersi sussistente nei confronti del militare che disimpegna il proprio servizio all’interno di strutture di terzi, ovvero presso strutture di pertinenza di enti diversi dalla Forza di Polizia di appartenenza. (1)

T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. n. 1916/2008 (c.c. 31 ottobre 2007), Pres. Orciuolo, Est. Scala, C. M. ed altri c. Ministero Difesa

(1) Si legge quanto appreso in sentenza:


FATTO


Riferiscono i deducenti, tutti appartenenti all’Arma dei Carabinieri, di essere effettivi presso le sedi del Comando di appartenenza, ma di essere assegnati a prestare servizio presso la Sezione di Polizia giudiziaria presso la Procura della Repubblica dei locali Tribunali, e di avere richiesto, perciò, l’erogazione dell’indennità per servizi esterni, ricevendo successive missive di diniego.
Ritenendo di avere, invece, diritto ex lege alla corresponsione dell’indennità prevista dalla norma sopra calendata, introducono, con il ricorso in epigrafe, azione di accertamento della detta pretesa economica, a far data dal 1° giugno 1999, o da quella in cui sono maturate le condizioni di cui alla normativa di riferimento.
Allegano a sostegno della stessa pretesa la circostanza in fatto che la loro attività lavorativa, in quanto ufficiali ed agenti di P.G. e funzionalmente dipendenti da magistrati della Procura della Repubblica, avviene presso le sedi di P. G., localizzate nei Tribunali locali, ed è, dunque, espletata in edifici diversi e strutturalmente separati dalle sedi dei rispettivi comandi amministrativi di appartenenza, dove, invece, si trova l’ufficio del Comandante che, quale superiore gerarchico, elabora e dirama gli ordini di servizio.
Asseriscono, altresì, la sussistenza degli altri requisiti richiesti dalla normativa applicabile, in quanto l’attività dai medesimi espletata è connotata dal carattere della stabilità, organizzata in turni coincidenti con l’intera prestazione giornaliera svolta sulla base di ordini di servizio presso la Sezione di P. G. emanati dal responsabile gerarchico - amministrativo, ossia il Comandante, e non dal responsabile dell’Ufficio ove ha sede la Sezione di P. G.
Deducono, al riguardo, la violazione dell’art. 50, 2° comma, del D.P.R. 16 marzo 1999, n. 254, per contraddittorietà tra il suo contenuto e quello dell’atto consistente nella sua disapplicazione; eccesso di potere, in diverse figure sintomatiche.
Concludono, dunque, previo riconoscimento dell’estensione del compenso giornaliero di cui all’art. 42, co. 1°, del D.P.R. 31.07.1995, n. 395, in applicazione dell’art. 50, co. 2°, del D.P.R. 16.03.1999, n. 254, per la condanna dell’intimata Amministrazione al pagamento degli arretrati a tale titolo maturati, maggiorati di interessi e rivalutazione.
Con atto di intervento adesivo si sono costituiti altri militari dell’Arma dei Carabinieri, che, trovandosi nelle medesime condizioni di fatto degli odierni ricorrenti, introducono per altrettanto istanza di accertamento del diritto alla corresponsione dell’emolumento di cui si tratta, con motivazioni in fatto ed in diritto sostanzialmente analoghe a quelle contenute nell’atto introduttivo.
L’Avvocatura Generale dello Stato si è ritualmente costituita in giudizio in difesa dell’intimata Amministrazione, eccependo, in rito, la prescrizione dei ratei maturati fino al quinquennio anteriore la notifica della domanda giudiziale, e, nel merito, l’infondatezza delle introdotte pretese.
Alla pubblica udienza del 31 ottobre 2007 la causa è stata trattenuta in decisione.


DIRITTO


Con il gravame in esame tanto i ricorrenti, quanto gli intervenienti in adesione, tutti militari dell’Arma dei Carabinieri, introducono azione di accertamento del diritto alla corresponsione dell’indennità prevista per i servizi esterni, alla stregua di quanto disposto dalle norme di settore, ed in specie dall’art. 42, 1° comma, del D.P.R. 395/1995, come integrato dall’art. 50, 2° comma, del D.P.R. 254/1999, asserendo di trovarsi nelle condizioni normativamente previste, in quanto impiegati a prestare servizio in ambiente esterno rispetto al Comando di appartenenza ed, in specie, presso le Sezioni di Polizia giudiziaria presso la Procura della Repubblica dei locali Tribunali.
La trattazione della causa necessita di una previa ricognizione delle norme rilevanti, al fine di tratteggiare i contorni dell’istituto economico in controversia.
L’art. 12, comma I, del D.P.R. 5 giugno 1990 n. 147 ha previsto che “il supplemento giornaliero dell’indennità d’istituto, previsto dall’art. 2 della legge 28 aprile 1975, n. 135, nella misura stabilita dall’art. 7, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 10 aprile 1987, n. 150, è triplicato per il personale impiegato nei servizi esterni, ivi compresi quelli di vigilanza esterna agli istituti di pena, organizzati in turni sulla base di ordini formali di servizio. Tale maggiorazione non è cumulabile con quella di cui all’art. 11 ed ha decorrenza dal 1° luglio 1990”.
In epoca successiva è intervenuto il D.P.R. 31 luglio 1995 n. 395, il quale, all’art. 42, comma I, ha previsto che “a decorrere dal 1° novembre 1995 al personale impiegato nei servizi esterni, organizzati in turni sulla base di ordini formali di servizio, ivi compresi quelli di vigilanza esterna agli istituti di pena e quelli svolti dal personale del Corpo forestale dello Stato, è corrisposto un compenso giornaliero pari a £. 5.100 lorde”.
Con il D.P.R. n. 254/99, art. 50, comma II, tale compenso aggiuntivo è stato esteso al personale che “esercita precipuamente attività di tutela, scorta, traduzioni, vigilanza, lotta alla criminalità, nonché tutela delle normative in materia di lavoro, sanità, radiodiffusione ed editoria, impiegato in turni e sulla base di ordini formali di servizio svolti all’esterno dei comandi o presso enti e strutture di terzi”, senza, comunque, incidere sull’interpretazione del contratto precedente che agganciava il diritto retributivo non con riferimento a servizi specifici, bensì al carattere genericamente esterno del servizio stesso
Il D.P.R. n. 140 del 2001, agli artt. 7 e 19, ha rideterminato, con decorrenza 1.1.2001, in £. 8100 lorde il compenso giornaliero da corrispondersi al personale impiegato nei servizi esterni secondo le modalità indicate con l’art. 42 del D.P.R. n. 395 del 1995 ed art. 50 del D.P.R. n. 254 del 1999; il D.P.R. n. 164 del 2002 ha rideterminato, con decorrenza dal primo giorno del mese successivo alla sua entrata in vigore, in € 6,00 lordi il compenso giornaliero da corrispondersi al personale appartenente alle Forze di Polizia ad ordinamento militare, impiegato nei servizi esterni di durata non inferiore a tre ore, sempre secondo le modalità di cui all’art. 42 del D.P.R. n. 395 del 1995 e all’art. 50 del D.P.R. n. 254 del 1999.
Tanto precisato, rileva il Collegio che la questione giuridica introdotta con il gravame in esame è stata già esaminata dalla Sezione con recenti pronunce, fra le quali la n. 2058 del 2004 (confermata, in sede cautelare, in appello: cfr. Cons. St., ord. n. 875 del 1005) e n. 1842 del 2005, nelle quali sono stati espressi alcuni principi pienamente applicabili alla controversia che ne occupa.
è stato, invero condivisibilmente, osservato che l’attribuzione al personale interessato di una maggiorazione dell’indennità di istituto trova giustificazione - secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale - in un rilevante quid pluris della prestazione (rispetto al normale ed istituzionale servizio) che abbia un carattere di continuità, dovendosi conseguentemente escludere, ai fini in discorso, le attività onerose soltanto “saltuarie”, ovvero quelle espletate in modo “accidentale” e “momentaneo”.
Ed invero, se il Legislatore ha voluto garantire una indennità economica al personale che presta la propria attività lavorativa in condizioni disagiate, tale indennità deve essere allora corrisposta - in difetto di un diversa precisazione esplicitata dal pertinente dettato normativo - con riguardo a qualsiasi tipologia di servizio che presenti le caratteristiche del servizio esterno svolto in maniera stabile e continuativa (cfr. Cons. Stato, parere dell’Adunanza della Terza Sezione del 28 luglio 1998).
è innegabile, infatti, che anche per detta attività ricorrono esigenze di “compensazione” del maggiore sacrificio richiesto al personale, il quale risulta esposto a condizioni di lavoro più gravose rispetto alla normale attività di istituto, in base ad ordini formali di servizio e perciò in modo non occasionale.
L’indennità in esame, dunque, ha la funzione di remunerare con un compenso aggiuntivo le più diverse situazioni di disagio psico-fisico che il personale delle forze di polizia è chiamato ad affrontare, che, come puntualizzato con il citato parere della III^ sezione del Cons. Stato, è da considerarsi quello che opera “in condizioni di particolare disagio consistenti nell’esposizione ad agenti atmosferici ed ai rischi connessi alla prestazione del servizio in ambienti esterni”; mentre sempre il giudice di appello, (Cons. St., VI^, n. 4826 del 2002, che conferma in appello un ricorso azionato, in primo grado nel 1997, e dunque in data antecedente il D.P.R. del 1999) ha statuito che il diritto all’indennità riguarda “i soli servizi effettivamente espletati dagli istanti all’esterno degli uffici, ovverosia nell’attività di sorveglianza e di controllo del territorio”, situazioni, queste, spesso non tipizzabili a priori, ma comunque ben individuabili sulla base del criterio della maggiore gravosità del servizio reso rispetto alle normali attività che si svolgono all’interno dell’apparato burocratico.
Rispetto all’operata ricostruzione del fondamento giustificativo del beneficio in discorso, deve escludersi che la sopravvenienza normativa apportata dall’art. 50 del D.P.R. n. 254 del 1999 abbia introdotto elementi di carattere “innovativo” atti ad estendere l’ambito di applicazione dell’originaria previsione dettata dall’art. 12 del D.P.R. 147/90, poiché detta norma, per l’aspetto che interessa ai fini del decidere (“impiego in servizi esterni”), contiene, infatti, una mera specificazione dell’indicato presupposto.
Se le “attività di tutela, scorta, traduzione, vigilanza”, di per sé non possono che svolgersi all’esterno (e, quindi, già entrano nella previsione dei decreti n. 147 del 1990 e n. 395 del 1995) nuova, a ben vedere, è la sola previsione di attività “presso enti o strutture di terzi”, previsione quest’ultima che rinviene, all’evidenza, le ragioni della sua introduzione nella circostanza che nel citato parere del 28.7.1998 (precedente dunque all’entrata in vigore del D.P.R. n. 254 del 1999) il Consiglio di Stato aveva espressamente escluso che il servizio prestato all’esterno della struttura di appartenenza ma presso altri uffici (e dunque in ambienti interni), come ad es. “un’ispezione fiscale”, rientrasse nell’ambito applicativo dell’art. 12 del D.P.R. n. 147/1990; con altrettanta evidenza, conferma che come “servizio esterno” vada considerato quello “svolto fuori dei locali dell’ufficio di appartenenza”.
Sempre il riferimento al parere della III^ sez. del Consiglio di Stato del 28.7.1998 consente poi di comprendere l’innovazione apportata dall’ultimo atto di concertazione (D.P.R. n. 164 del 2002) nell’art. 48 sopra citato.
Il Consesso, difatti, pur escludendo, ai fini della corresponsione dell’indennità di cui si discute, che i turni di servizio esterno dovessero ricoprire l’arco delle 24 ore, aveva precisato che, in ogni caso, il turno di servizio “utile alla corresponsione del beneficio economico, deve coincidere, nella sua durata, con l’orario obbligatorio giornaliero”.
Tale durata, a decorrere dal primo giorno del mese successivo all’entrata in vigore del D.P.R. n. 164/2002, è stata ridotta e fissata in quella “non inferiore a tre ore”.
Premessa tale ricostruzione normativa, è possibile delineare il quadro d’insieme dei presupposti cui è ancorata la retribuzione supplementare dei cc.dd. servizi esterni, essendo necessario che si tratti:
a) di servizi svolti all’esterno inteso come spazio non ricompreso in uffici (od edifici all’interno dei quali l’unità organizzativa è materialmente insediata) ed il cui espletamento costringa l’operatore ad esporsi ad agenti atmosferici esterni od ai rischi propri della prestazione resa in ambiente esterno, con la precisazione che, a decorrere dall’1.6.1999, anche il servizio svolto in uffici di enti o terzi e dunque in ambienti chiusi ma ovviamente esterni (e materialmente ubicati in edifici diversi rispetto a quello in cui ha sede l’ufficio e/o struttura di appartenenza (Comando compagnia, Tenenza, Stazione, Nucleo...ecc.), deve essere remunerato con l’indennità de qua;
b) di servizi organizzati in turni (non aventi carattere saltuario) la cui durata coincide con l’orario obbligatorio giornaliero ovvero, e solo a decorrere dal primo giorno del mese successivo all’entrata in vigore del D.P.R. n. 164/2002, di durata “non inferiore a tre ore”;
c) di attività espletata in base a “formali ordini di servizio.”
La fattispecie sottoposta con il ricorso in esame andrebbe a collocarsi, secondo la ricostruzione offerta dai ricorrenti, nell’ambito di cui alla lettera a), ovvero tra i servizi svolti all’esterno inteso come spazio non ricompreso in uffici (od edifici all’interno dei quali l’unità organizzativa è materialmente insediata) ed il cui espletamento - in quanto costringe l’operatore ad esporsi ad agenti atmosferici esterni od ai rischi propri della prestazione resa in ambiente esterno, con l’ulteriore precisazione che, a decorrere dall’1.6.1999, anche il servizio svolto in uffici di enti o terzi e dunque in ambienti che seppure chiusi sono da considerarsi alla stregua di ambienti esterni, in quanto materialmente ubicati in edifici diversi rispetto a quello in cui ha sede l’ufficio e/o struttura di appartenenza (Comando compagnia, Tenenza, Stazione, Nucleo...ecc.) - deve essere remunerato con l’indennità in questione.
Ed invero, i ricorrenti a supporto della loro pretesa richiamano quanto previsto dall’art. 42 del D.P.R. n. 395 del 1995 e dall’art. 50 del D.P.R. n. 254 del 1999, che consente la remuneratività dell’attività al personale che eserciti precipuamente attività di tutela, scorta, traduzioni, vigilanza, lotta alla criminalità, nonché tutela delle normative in materia di lavoro, sanità, radiodiffusione ed editoria, impiegato in turni e sulla base di ordini formali di servizio svolti all’esterno dei comandi o presso enti e strutture di terzi .
Asseriscono, infatti, i medesimi, che pure essendo effettivi presso la sede dei rispettivi Comandi, sono assegnati alla sezione di Polizia Giudiziaria presso la Procura della Repubblica dei locali Tribunali, e, dunque, svolgono l’attività lavorativa in edifici appartenenti o nella disponibilità dei Tribunali stessi, tutti diversi e strutturalmente separati dalle sedi dei rispettivi comandi amministrativi di appartenenza, da cui scaturisce il disagio che la norma mirerebbe a remunerare, operando in regime di distacco.
La Sezione ha già indicato l’ambito applicativo di cui all’art. 50 in esame, delineandone i presupposti con la decisione n. 5889 del 2004, e ritenendo errato il “tentativo esegetico di leggere tale norma alla luce della ratio rinvenuta (nel parere reso) dalla III^ sezione del Consiglio di Stato nell’adunanza del 28 luglio 1998; e cioè secondo un parere che in quanto antecedente al D.P.R. del 1999 necessariamente aveva a riferimento un parametro normativo difforme nel cui seno era ancora inesistente ogni richiamo ai servizi svolti presso enti e strutture di terzi”.
Per converso, nel momento in cui la nuova disciplina della materia ha “esteso” la corresponsione del compenso de quo anche ai servizi svolti “presso enti o strutture di terzi” ha, in primo luogo, individuato una modalità di prestazione del servizio esterno (legittimante il relativo trattamento indennitario) prima, non solo non prevista, ma anche espressamente esclusa dal citato Consesso; in secondo luogo, ha considerato che “l’esposizione ad agenti atmosferici ed ai rischi connessi alla prestazione del servizio in ambienti esterni” (che come precisato dal Consiglio di Stato nel citato parere costituiscono la ragione motiva della specifica compensazione del servizio), non esaurisce l’insieme delle condizioni di particolare disagio alla cui ristorazione è destinata l’indennità in parola, apprezzando, a monte, la fonte di possibili ed ulteriori disagi anche nel servizio prestato “presso enti e strutture di terzi”.
Dunque la ragione giustificatrice del compenso economico di cui si discute deve essere individuata, alla stregua di quanto recato con il D.P.R. n. 254 del 1999, nella soggezione a condizioni di lavoro più gravose rispetto alla normale attività di istituto, mentre la misurazione quali-quantitativa del disagio è argomento che rimane estraneo all’attività esegetica, avendo già il Compilatore del D.P.R. n. 254 del 1999 stabilito, a monte, che l’attività del personale, “impiegato in turni e sulla base di ordini formali di servizio”, svolta “presso enti e strutture di terzi” presenta un tasso di onerosità maggiore di quella ordinaria di istituto e deve essere indennizzato. (cfr, sul principio, Cons. St. n. 2242 del 2005)
Escluso che l’attività esterna espletata, con carattere di stabilità e periodicità, presso i locali di un ente pubblico possa pregiudicare la corresponsione dell’indennità di cui si discute, il vero nodo da sciogliere rimane quello dello svolgimento, in via ordinaria, dell’attività d’istituto, anche di tipo collaborativo, presso altre amministrazioni o altre strutture; anche tale ipotesi è stata risolta dalla Sezione (dec. n. 5889/2004 cit.) nel senso dell’esclusione del diritto alla ristorazione indennitaria in tutte le ipotesi in cui l’attività svolta dal militare (pur formalmente ed amministrativamente dipendente per l’impiego da altro ufficio: Stazione, Comando, Compagnia ecc.) si esaurisca nell’ambito dell’ente (di terzi) ove riceve dal superiore le disposizioni di servizio cui attenersi.
In tal caso, difatti, la circostanza, ad esempio, che il militare per ritirare lo stipendio debba recarsi presso l’Ufficio dell’Arma da cui formalmente dipende, ovvero, che debba chiedere l’autorizzazione per i congedi (pure concordati con la struttura presso cui presta servizio) dall’ufficiale dell’Arma che dirige l’ufficio che formalmente lo ha in forza, non può essere assunta a sintomo di quel disagio che l’indennità mira a ristorare.
Tanto puntualizzato, ritiene il Collegio che la situazione lavorativa degli odierni ricorrenti rientra appieno nella ipotesi appena descritta, in quanto l’appartenenza dei medesimi ai fini dell’impiego al relativo Comando comporta senz’altro che a detto ufficio vanno partecipate le presenze giornaliere dei ricorrenti, così come vanno comunicate tutte quelle variazioni matricolari di interesse, ma certamente, in ragione del distacco di cui sono destinatari, il detto ufficio non è la sede ove giornalmente i ricorrenti si recano per sottoscrivere il foglio presenze e ricevere il formale ordine di servizio relativi al turno da osservare e lo specifico servizio da eseguire, invece, presso le rispettive Sezioni di P.G.
Dunque la circostanza che il militare sia, per esigenze amministrative o di altra natura, in forza ad altro Reparto non consente di ritenere concretizzati i requisiti richiesti per l’invocata remunerazione indennitaria, non venendo in considerazione un’attività presso un ente di terzi ma un’attività svolta dall’Ufficio (cui si è assegnati e da cui provengono gli ordini di servizio) che è localizzato ed ubicato presso un ente terzo, quale peculiare modalità di articolazione del servizio di istituto.
Pertanto, manca, nel caso di specie, quell’elemento di disagio e/o maggiore onerosità della prestazione che il Compilatore del D.P.R. n. 254 del 1999 ha ritenuto sussistente nei confronti del militare che disimpegna il proprio servizio all’interno di strutture di terzi, ovvero presso strutture di pertinenza di enti diversi dalla Forza di Polizia di appartenenza; anzi, nel caso che ne occupa, i ricorrenti sono impiegati presso struttura di Polizia giudiziaria riferibile alla stessa Arma, il che esclude che i ricorrenti abbiano titolo a percepire, con decorrenza dalla data di entrata in vigore del D.P.R. n. 254 del 1999, l’indennità prevista dal relativo art. 50.
Né, sotto altro profilo, compete, alcuna retribuzione aggiuntiva in costanza di svolgimento del servizio in ambiente chiuso, ben potendo essere localizzato l’ufficio di appartenenza presso immobile o stabile diverso da quello ove ha sede il proprio Reparto, in quanto, come sopra ampiamente argomentato, la connotazione indefettibile perché possa ammettersi la retribuzione aggiuntiva è che il servizio si svolga al di fuori della sede di appartenenza, nell’ambito dell’attività di sorveglianza e controllo del territorio.
Per quanto attiene invece a quanto previsto dall’art. 42 del D.P.R. n. 395 del 1995, e cioè al trattamento indennitario da ricollegarsi, non al servizio svolto presso enti o strutture di terzi, ma ai “servizi svolti all’esterno inteso come spazio non ricompreso in uffici (od edifici all’interno dei quali l’unità organizzativa è materialmente insediata) ed il cui espletamento costringa l’operatore ad esporsi ad agenti atmosferici esterni od ai rischi propri della prestazione resa in ambiente esterno” v’è da dire che non risultano evidenziati in gravame elementi di fatto cui ancorare, a tale titolo, la reclamata remunerazione, essendosi limitati i ricorrenti, nel proporre ricorso collettivo, a dedurre di essere assegnati presso le rispettive Sezioni di P.G., senza specificare se ed a quale tipologia di servizio esterno gli stessi siano stati addetti.
Conclusivamente, alla stregua delle superiori considerazioni, il ricorso si dimostra infondato e deve essere respinto.”


Disciplina militare - Mancanza disciplinare - Gravità - Apprezzamento ampiamente discrezionale da parte dell’autorità amministrativa - Sussiste.

T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. n. 2033/2008 (c.c. 27 febbraio 2008), Pres. Orciuolo, Est. Scala, M. M. c. Ministero Difesa

Il sindacato giurisdizionale del provvedimento comportante l’inflizione di una sanzione disciplinare deve essere limitato alla legittimità dell’azione amministrativa, attraverso la verifica se il procedimento sia supportato da un adeguato approfondimento dei risvolti in punto disciplinare delle risultanze emerse in sede penale, essendo, invece, preclusa la rivisitazione in chiave critica del giudizio disciplinare e degli elementi probatori su cui esso si è fondato, non potendo il giudice amministrativo apprezzare nuovamente i medesimi fatti su cui è fondato il giudizio disciplinare, appartenendo all’ambito discrezionale la valutazione che di tali fatti ha reso l’autorità amministrativa ed il relativo giudizio di gravità delle condotte ritenute rilevanti (1).

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“considerato che il ricorrente, appuntato dei carabinieri in congedo, impugna il provvedimento con cui è stata irrogata la sanzione della rimozione per perdita del grado ai sensi degli artt. 34, n. 6, 35, lettera b) e 42 della legge 18 ottobre 1961, n. 1168, deducendo, al riguardo, la violazione ed erronea applicazione delle norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare, di cui alla legge 27 marzo 2001, n. 97; eccesso di potere per motivazione insufficiente e carenza istruttoria;
considerato che lamenta, in sostanza, come l’Amministrazione abbia intrapreso procedimento disciplinare a seguito di sentenza di non doversi procedere, conclusiva ex art. 529 c. p. p. del procedimento penale a suo carico, concluso con provvedimento sanzionatorio adottato in assenza di un completo riesame dei fatti che non hanno assunto rilevanza penale, anche alla stregua di altra sentenza conclusa con analoga formula di non doversi procedere a carico di altra persona per vicenda che aveva visto pure il ricorrente coinvolto;
considerato che il ricorrente lamenta, altresì, come non sia stata operata la valutazione di eventuali circostanze incidenti sul fatto penalmente rilevante ai fini del giudizio di proporzionalità della sanzione da comminare, in considerazione della posizione di congedo in cui il medesimo si trova;
rilevato, dall’esame della documentazione versata in atti dalla resistente Amministrazione in esecuzione delle sopra richiamate ordinanze, che il GIP ha disposto l’archiviazione per prescrizione del procedimento penale a carico del ricorrente per il reato di truffa a danno di terzo, avendo il medesimo utilizzato assegno risultato poi oggetto di smarrimento;
rilevato che la legge 18 ottobre 1961, n. 1168, recante le norme sullo stato giuridico dei vice brigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei carabinieri, all’art. 34 indica le ipotesi in cui è applicabile la perdita del grado, e, tra le altre, prevede al n. 6 la rimozione, per violazione del giuramento o per altri motivi disciplinari ovvero per comportamento comunque contrario alle finalità dell’Arma o alle esigenze di sicurezza dello Stato, previo giudizio della Commissione di disciplina, articolato in un complesso procedimento, che si esaurisce con la determinazione del Comandante Generale dell’Arma per i militari di truppa in congedo;
considerato che il decreto ora impugnato è stato adottato sulla base delle condivise conclusioni della Commissione di disciplina, tenuto conto del comportamento osservato dal ricorrente, gravemente lesivo dell’immagine dell’Istituzione, avendo egli evidenziato gravissime carenze morali e di carattere, incompatibili con la permanenza nell’Arma, sia pure nella posizione del congedo;
rilevato che dall’esame della documentazione versata in atti dalla resistente Amministrazione, in ottemperanza all’ordine istruttorio sopra richiamato, emerge che lo svolgimento dell’inchiesta formale avviata a carico del ricorrente è stata supportata, tra l’altro, dalle stesse dichiarazioni rese dal ricorrente, che hanno confermato i fatti che avevano dato impulso all’azione penale, e dalla puntuale ed autonoma considerazione degli stessi fatti come enucleabili dalle stesse, e sostanziatisi nella commissione in modo non equivoco di azioni disdicevoli, a maggior ragione se riferite ad esponente di una forza di polizia armata, tra le cui finalità rientra quella di repressione di fatti analoghi, a nulla rilevando, dunque, che la vicenda penale si sia conclusa per un fatto meramente procedurale, quale l’intervenuta prescrizione dell’azione penale;
osservato che il sindacato giurisdizionale del provvedimento comportante l’inflizione di una sanzione disciplinare deve essere limitato alla legittimità dell’azione amministrativa, attraverso la verifica se il procedimento sia supportato da un adeguato approfondimento dei risvolti in punto disciplinare delle risultanze emerse in sede penale, essendo, invece, preclusa la rivisitazione in chiave critica del giudizio disciplinare e degli elementi probatori su cui esso si è fondato, non potendo il giudice amministrativo apprezzare nuovamente i medesimi fatti su cui è fondato il giudizio disciplinare, appartenendo all’ambito discrezionale la valutazione che di tali fatti ha reso l’autorità amministrativa ed il relativo giudizio di gravità delle condotte ritenute rilevanti;
rilevato, con riferimento al caso in controversia, come l’Amministrazione abbia operato una autonoma valutazione dei fatti, ritenendoli meritevoli di provvedimento disciplinare, con irrogazione dell’unica sanzione in concreto irrogabile al militare ormai in posizione di congedo;
ritenuto, in ogni caso, che le valutazioni circa la gravità e la rilevanza, ai fini della individuazione della sanzione da irrogare, dei fatti penalmente rilevanti a carico di dipendenti pubblici sono espressione dell’ampia discrezionalità di cui è titolare la Pubblica amministrazione per la migliore tutela dell’interesse pubblico alla legalità, all’imparzialità ed al buon andamento degli uffici pubblici, secondo i principi sanciti dall’art. 97 Cost., e l’esercizio concreto di tale discrezionalità, impingendo nel merito dell’azione amministrativa, sfugge al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, salvo che non sia affetto ictu oculi dal vizio di eccesso di potere nelle particolari figure sintomatiche dell’illogicità, della contraddittorietà, dell’ingiustizia manifesta, dell’arbitrarietà ovvero dell’irragionevolezza. (cfr. Cons. di stato, IV Sez., 22 settembre 2003, n. 5401);
ribadito che i fatti contestati coincidono con quelli in relazione a cui il ricorrente era stato rinviato a giudizio e che gli stessi fatti, poi, hanno formato oggetto di autonoma valutazione, per come emersi nella loro consistenza, e che hanno condotto ad un giudizio di riprovevolezza dal punto di vista disciplinare;
considerato che il provvedimento impugnato, resiste, pertanto, alle censure dedotte avverso la parte dispositiva dello stesso, siccome idoneamente supportato dai fatti, pacificamente ammessi dallo stesso ricorrente, e congruamente motivato con riferimento alle rilevate carenze morali e di carattere, in ragione della condivisibile incompatibilità con i requisiti richiesti ai militari in s.p.e. di una delle Forze Armate da parte di chi, pure appartenente alla stessa, abbia osservato comportamenti rilevanti penalmente, ancorché al di fuori del servizio, in violazione degli obblighi assunti con il giuramento, con conseguente inevitabile forte compromissione del prestigio dell’Istituzione di appartenenza;
ritenuto che, in ragione delle superiori considerazioni, è legittimo il gravato provvedimento, siccome supportato da idonee valutazioni, esaurienti nell’evidenziare l’assenza dei requisiti per la permanenza nell’Arma dei Carabinieri”.


Disciplina militare - Procedimento disciplinare di stato - Termini - 270 giorni dalla notizia della sentenza penale di condanna - Legittimità.

T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. n. 2246/2008 (c.c. 30 gennaio 2008), Pres. Orciuolo, Est. De Bernardi, M. B. c. Ministero Difesa

La sanzione disciplinare, adottata a seguito di procedimento disciplinare conseguente ad una sentenza penale di condanna, deve intervenire nel termine di 270 giorni dalla avvenuta conoscenza della sentenza stessa, in base a quanto disposto dall’art. 9 legge n. 19/1990. (1)

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:


FATTO e DIRITTO


Ritenendolo illegittimo sotto più profili, il signor M[.] B[.] ha impugnato (chiedendone contestualmente la sospensione dell’esecutività) il provvedimento con cui i competenti organi del Ministero della Difesa ne hanno disposta - a seguito, e per effetto, della perdita di grado (per rimozione dovuta a motivi disciplinari) - la cessazione dal servizio permanente a decorrere dal 26.7.2007.
Nella Camera di Consiglio del 30.1.2008, il Collegio (chiamato a delibare la proposta domanda incidentale di tutela cautelare) ritiene -stante la manifesta infondatezza delle pretese attoree - di poter definire immediatamente il giudizio con una sentenza in forma semplificata.
Premesso - al riguardo - che le circostanze di fatto poste a base del provvedimento impugnato non formano oggetto di alcuna contestazione: limitandosi - l’interessato (condannato a 5 mesi di reclusione per diserzione aggravata e continuata) - ad articolare motivi di censura meramente formali (sostanziantisi, in estrema sintesi, nella presunta inosservanza dei termini previsti per l’avvio e la conclusione del procedimento disciplinare), si osserva:
- che il giudicato penale è stato acquisito dall’Amministrazione della Difesa il 17.10.2006;
- che la contestazione degli addebiti all’inquisito è stata effettuata il successivo 21 dicembre;
- che il 22.5.2007, al termine di un’approfondita indagine, l’Ufficiale inquirente ha proposto il deferimento (avvenuto appena 3 giorni dopo) dell’inquisito stesso alla Commissione di disciplina;
- che, il 25.6.2007, tale Organo ha ritenuto il B. non meritevole di conservare il grado;
- che il Decreto Ministeriale che ha concluso formalmente il procedimento “de quo” è intervenuto (come si è visto) il 12.7.2007: ben al di qua, dunque, dei 270 giorni (decorrenti dal momento in cui la p.a. ha avuto notizie della condanna a carico del proprio dipendente) previsti dall’art.9 della legge n.19/90 (unica norma applicabile alla fattispecie oggetto di considerazione).
Nel condividere - in proposito - l’orientamento giurisprudenziale che ha evidenziato:
a) come il conteggio del termine previsto (dal 2° comma della cennata disposizione legislativa) per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento “de quo” vada effettuato dal momento in cui sono decorsi i 180 giorni dalla contestazione degli addebiti;
b) come l’art.120 T.U.I.C.S. (incongruamente citato dal B[.]) trovi applicazione, anche nei confronti dei militari, solo qualora il procedimento disciplinare intentato nei confronti di uno di tali soggetti tragga origine (diversamente che nella circostanza) da una sentenza di condanna a pena “patteggiata”, il Collegio non può (appunto) che concludere per l’infondatezza della proposta impugnativa.”