Persecutori, vittime, globalizzazione. L’adolescente tra etica e azione deviante


Giacca


Francesco Giacca

Sociologo ed Educatore dell'Ufficio Servizio Sociale Minorenni del Dipartimento Giustizia Minorile di Napoli






1. L’adolescente, l’indifferenza e il nostro tempo

Nell’ultimo periodo, forse, una approfondita analisi va compiuta sulla rappresentazione del “fare del male”, ovvero sulla possibilità di infliggere dolore e sofferenza all’altro. L’argomento sembra ovviamente scontato, tenendo conto che pubblicazioni, articoli e commenti si avvicendano sui maggiori quotidiani e riviste per addetti ai lavori quando - nello specifico - si discute della condotta penale adolescenziale e della sua particolare evoluzione.
Ma - se è così - con quale ottica possiamo considerare una questione così complessa, vasta, che investe regolarmente con tanta determinazione l’attuale dibattito nel nostro paese alla ricerca di risposte concrete?
Stanley Cohen (2001), alla variante “fare del male” ne ha contrapposto un’altra che - nella vita reale - è sempre attuale ed attiva, vale a dire quella dell’“astenersi dall’evitare e dall’opporsi a che il male venga fatto”.
Ma se consideriamo coloro che creano sofferenza come dei “perpetratori” vi è anche l’abitudine ad esaminare ed analizzare l’assenza di resistenza e opposizione al male da parte degli “spettatori”, vale a dire di coloro che, non avendo causato dolore e sofferenza con le proprie azioni, assistono al compimento del male o sanno che comunque ne è stato compiuto.
Zygmunt Bauman (2002) ci ricorda che fare una distinzione fra spettatori e perpetratori può avere un senso dal punto di vista legale (o della garanzia istituzionale).
Infatti, sottolineare la distinzione significa mettere in luce la differenza fondamentale tra azioni perseguibili per legge e azioni (o inazioni) non menzionate nel codice legale e che quindi possono incorrere soltanto nella colpevolezza morale e nell’infamia a cui tale colpevolezza riporta.
Ciò nonostante, la vera “novità” è che esiste un terreno comune ma nascosto - sul quale i perpetratori del male e i testimoni passivi si incontrano - chiamato “diniego”, vale a dire ciò che rende psicologicamente e sociologicamente possibili sia l’esecuzione del male che l’astensione da ogni reazione ad esso e che ha il compito di comprendere il nostro comportamento rispetto al dolore altrui e su cosa ci procura tale conoscenza.
Entrambi sono costantemente esposti alla possibilità che le loro azioni possano essere impugnate contro di loro in quanto dichiarate meritevoli di punizione.
In un mondo immerso nella “modernità liquida” all’interno della quale - come affermerebbero David Matza ed i suoi colleghi labeling theorists (1969, 23) - l’uomo partecipa ad una attività significante, creando la propria realtà e quella del mondo intorno a lui e nel quale non esistono valori assoluti ed universalmente accettati ed in cui la giustificazione degli atti commessi o dell’inattività non hanno una base più solida della loro condanna.
Utilizzando la metafora della “liquidità” viene descritto - in pratica - il superamento della modernità pesante, compatta, sistemica ed il trionfo della contingenza, della varietà, dell’ambivalenza, dell’indocilità, della liquefazione delle categorie di analisi condivise, delle istituzioni che le perpetuano, dei sistemi di regole e dell’ordine che ne consegue ed infine la sforzo nel gestire le relazioni interpersonali (Bauman, 1999; 2002).
Il sentimento di estraneità e di precarietà che caratterizza le persone - in tempi segnati dal dilatarsi dell’informazione e della comunicazione, dal costante evolversi delle tecnologie e dei consumi, dalla crescente mobilità delle persone - fa emergere lo scolorirsi dei confini, dei legami sociali, il declino dei riferimenti istituzionali e di valore; è in questo quadro magmatico che il cittadino sperimenta, per Bauman (2000), un crescente senso di insicurezza.
L’individuo, considerato come un incontenibile consumatore e “cercatore di sensazioni intense e gratificanti” - consumo purtroppo esteso anche alla sfera delle persone - aderisce a quella deprivazione non più considerata “relativa” ma “assoluta”, in altre parole così forte da far perdere il senso delle proporzioni, da riprodursi incessantemente e da costituire fondamento delle forme di devianza orientate al possesso, cioè alle devianze strumentali, ai comportamenti microcriminali di tipo “predatorio” (Prina, 2005).
Anthony Giddens (1994), ad esempio, sostiene che in un mondo in cui ormai più nessuno può “chiamarsi fuori”, il tema della fiducia o fidatezza è declinato sia al livello macro della globalizzazione sia a quello micro dell’interazione diretta fra persone.
è quindi comune esperienza che in un mondo denso di pericoli normalmente le persone non vivono in un perenne stato di ansia e sensazione di sicurezza, così come sono capaci di mantenere una continuità della propria identità, nonostante l’esplosione verso la dissoluzione dell’io per la frammentazione dell’esperienza(1).
Ed è importante ricordare - a proposito delle spiegazioni e di quelle “procedure di autoassoluzione” elaborate da coloro che commettono atti di devianza - come gli studi classici di Sykes e Matza (1957) hanno definito quei modi di aderire alla scelta deviante risolvendo, al contempo, il conflitto psicologico rispetto al sistema di valori interiorizzati(2).
Nella corrispondente direzione si muovono gli studi compiuti da Albert Bandura (1986) che ruotano intorno alla nozione di “determinismo triadico” e collocano in una interazione di reciproca causazione la condotta, i fattori personali e le influenze ambientali.
Il comportamento - quindi - può essere manifestazione di fattori cognitivi ed emozionali e opera su di essi ridefinendoli in termini di orientamento all’azione.
Se è vero, in effetti, che i ragazzi rielaborano incessantemente i contenuti loro trasmessi dalla società adulta, altrettanto vero è il fatto che le loro scelte e i loro comportamenti sono fortemente influenzati dal clima e dagli stimoli che li circondano.
Non possiamo ignorare - come spiega Franco Prina (2005) richiamando un lavoro di U. Beck (2000) - che molte delle scelte dei minori che vengono giudicati all’interno dei tribunali sono il riflesso evidente della cultura dominante del nostro tempo, quello che fissiamo come il tempo della “seconda modernità”.
è infatti convinzione dell’autore che molte forme di discostamento dalle norme e dei modi di agire che violano i diritti e le aspettative altrui originano da stimoli, condizioni, occasioni diffuse, sono inclusi cioè negli aspetti qualificanti e costitutivi dei sistemi sociali contemporanei.
In tal senso, quando parliamo di “normalità della devianza” - prosegue Prina (2003) - si fa riferimento al suo radicamento negli orientamenti culturali e nelle dinamiche sociali connesse con i processi di globalizzazione e il suo essere diretta espressione degli imperativi sistemici che reggono le società post-moderne.
Barcellona (1998) - in un interessante contributo sulla crisi del progetto moderno - tratteggia l’individuo della seconda modernità come un individuo libero ed indipendente, “titolare di diritti concepiti come assoluti e dunque profondamente egoista, che si pone come il prius di qualsiasi relazione intersoggettiva e di gruppo ed entra in rapporto con gli altri solo a partire da calcoli di utilità, senza riferimento a doveri, perché i doveri nascono nell’ambito di una relazione”.
In sintesi, continua l’autore, “il desiderio di liberarsi dagli oneri delle responsabilità ed il narcisistico desiderio di immediata gratificazione sono due aspetti che configurano i tratti di un “individualismo possessivo - individualismo proprietario”, svincolato da ogni legame di scopo, da ogni funzione o vincolo sociale”.
Questo breve quadro d’insieme, è sufficiente a disegnare quelle condizioni di profonda crisi di legalità che deriva dal diffuso venir meno dell’attaccamento morale e dell’adesione pratica alle norme che - come spiega Sgubbi (1990) - non solo alimenta una visione del crimine percepito come un “illecito di mera trasgressione” - ridefinibile attraverso processi di delegittimazione della norma violata - ma lo priva di riferimenti al disvalore dei fatti o delle loro conseguenze dannose o offensive per le vittime.
Da questo punto di vista, in tempi in cui il termine “mediazione” fa riflettere, i termini “conciliazione” e “riconciliazione” riacquistano uno spazio, esprimono il desiderio profondo dell’incontro con l’altro(3).
“Riconciliazione”, tuttavia, non significa soluzione dei problemi, fine delle cause di conflitto.
Essa - chiarisce Antonio Mastantuono (2002)- non può ridursi alla esorcizzazione della conflittualità, mediante l’emarginazione di chi la crea, e neppure nel suo apparente superamento, mediante forme di facile concordismo, che fanno da copertura alla realtà, lasciando le cose come sono. La verità della riconciliazione sta oggi nel cuore dei conflitti, essa consiste nell’instaurare una volontà di fraternità, che non annulla le differenze e i disaccordi obiettivi.
La condizione umana è strutturalmente conflittuale e - come la psicanalisi ha dimostrato - l’uomo si costruisce opponendosi: il conflitto acquista, in questo senso, un valore altamente positivo.
La riconciliazione, basata sul sentimento di una armonia a breve scadenza, cioè come conciliazione, va perdendo il suo significato per coloro che hanno il senso e l’esperienza di un disaccordo profondo percepito come relativamente durevole. Così, la volontà di riconciliazione può forse apparire, da una parte, come un obiettivo a lunga scadenza, dall’altra, non più come un gesto, ma come un movimento da realizzarsi progressivamente, attraverso molte incertezze.
In questa visione, la riconciliazione non sopprime il conflitto, ma lo integra, sotto certi aspetti: ci si oppone a breve scadenza ma, nello stesso tempo, ci si sostiene reciprocamente, nelle speranze a lunga scadenza. Il processo mediativo ha, in ogni caso, la funzione di attivare o riattivare la comunicazione tra le parti, e di farlo attraverso una “terzietà” sia della struttura dei rapporti che dei risultati che ha le sue fondamenta nei modelli di “pensiero ternario” e nell’etica della comunicazione, con forme di superamento del “pensiero binario” (che ragiona in termini di giusto/sbagliato, vero/falso, ragione/torto) e dell’etica basata sul presupposto di una verità assoluta od oggettiva. Il pensiero ternario umanizza l’individuo, poiché ammette e richiede sia la stima di sé sia la sollecitudine per gli altri, ma esige anche le istituzioni giuste - come afferma Guillaume-Hofnung (1995) - nel suo “undicesimo comandamento” che recita “che nulla di ciò che è inumano ci sia estraneo”, o come quella che Simon (1993) definisce una nuova etica della responsabilità, per cui “io devo rispondere dell’altro”.
Anche Habermas (1983) e Apel (1992) - trattando l’argomento sul piano dell’etica della comunicazione - hanno dimostrato come la crisi delle verità assolute e la universalizzazione della comunicazione fra soggetti e culture, hanno lasciato come unico nucleo “inaggirabile” il discorso, la discussione, la comunicazione stessa.
Ma, d’altra parte, seguendo il pensiero di Duquoc (1971), immaginare una riconciliazione senza perdono significa definirla o attraverso il trionfo di una ideologia o attraverso lo sterminio di coloro che si fronteggiano. Ciò che nella nostra storia si deve riconciliare, non sono né dottrine né ideologie, ma uomini.
L’adesione alla legalità, in ogni caso, sembra oggi limitarsi alla sfera dell’astrazione e del ritualismo ed esprime un modello teorico di “dover essere” piuttosto che un orientamento volto al rispetto delle regole nei comportamenti quotidiani (Faccioli, 1996).
L’idea di “bene comune” appare a molti vuota e insensata, laddove prevale l’atteggiamento culturale qualificato come relativismo morale, cioè una estesa relativizzazione dei sistemi di significato in rapporto al contingente, all’utilità immediata, con il netto predominio di una morale del compromesso, che dà luogo ad atteggiamenti di permissivismo nei confronti della trasgressione, giustificata in quanto tende ad esprimere soggettività, particolarità individuale, soddisfazione personale, realizzazione dell’io, senza compromettere eccessivamente l’ambito delle relazioni pubbliche (Bertelli, 2000; Prina, 2005, 94).


2. Azione educativa, responsabilità ed evoluzione della risposta preventiva

Il modello che oggi contraddistingue le diverse misure processuali per i minorenni e la programmazione degli interventi è quello di una giustizia riparativa, dove il trasgressore è tenuto a confrontarsi con la propria azione non solo di fronte un apparato formale e attraverso i percorsi standardizzati della retribuzione, ma per mezzo di modi di agire indirizzati a ristabilire l’ordine sociale infranto dal reato, in una visione che valorizzi, anche sul piano simbolico, una gestione partecipativa dei conflitti.
Nel modello di giustizia riparativa e nella prospettiva di un’etica del diritto non violento - in quella che alcuni hanno definito come “dimensione ecologica” e come sviluppo di un “processo culturale” (Resta, 1997; 2005) - la responsabilità appare come principio ispiratore e, contestualmente, obiettivo sia per gli autori di reato che per il sistema di giustizia. Seguendo alcune elaborazioni concettuali sviluppate da Gaetano De Leo e Patrizia Patrizi (1996; 1999), la responsabilità va considerata non solo rispetto al fatto commesso, ma come attivazione di responsabilità con riguardo alle conseguenze del reato sotto un duplice aspetto:
1)  avviare un percorso di rielaborazione critica delle proprie modalità di gestire il rapporto con la norma, quale impegno di sviluppo autoregolativo;
2)  posizionamento attivo positivo nei confronti della vittima e del sociale, come forma di contrasto con il posizionamento negativo espresso nel reato.
Per il sistema di giustizia - e più o meno nella stessa direzione - le responsabilità vanno riferite alla gestione del percorso successivo e conseguente alla commissione del reato nei termini di un intervento che abbia come fini:
a. assicurare la non interruzione dei processi socializzativi secondo la concezione sopra esposta di diritto, per il reo, alla continuità del proprio essere parte sociale;
b. la tutela della vittima e, anche in senso simbolico, della società.
Tali obiettivi appaiono raggiungibili solo per mezzo di una interazione fra i rispettivi percorsi delle responsabilità ma il trasgressore non può agire in senso riparativo se, contestualmente, il sistema penale non attualizza politiche giudiziarie coerenti con tale obiettivo e il percorso individuale di cambiamento non può che esplicarsi sullo sfondo di una continuità sistemica dell’appartenenza del reo al sistema sociale. Ci sembra quindi di poter affermare che i diversi obiettivi di responsabilità sembrano poter interagire nei termini di una circolarità ricorsiva, dove il piano dell’agire riparativo e quello dell’agire socializzativo si influenzano reciprocamente e possono sviluppare reciproca efficacia.
Anche in riferimento alla prevenzione speciale, l’ottica è quella dell’ opportunità, per il reo, di assumere competenze socializzative che siano di contrasto alla “competenza della devianza” operata attraverso il fatto reato.
Il beneficio della messa alla prova - all’interno del processo penale minorile - è l’espressione più marcata di tale ottica con la caratterizzazione dell’“obbligo di fare” come alternativa alle classiche sanzioni limitative e afflittive (De Leo, 1996; Sergio, 2005).
Così, le prescrizioni comportamentali e le formule riparative del danno e di conciliazione con la vittima, dove la progettualità di comportamenti orientati all’attribuzione di responsabilità positive - sostenuta attraverso il monitoraggio da parte dei servizi e la territorializzazione dell’intervento - sostituisce il contenimento passivizzante della reclusione con l’attivazione soggettiva verso l’assunzione delle conseguenze derivate dal reato e un impegno di ri-orientamento comportamentale(4).
Naturalmente, gli obiettivi descritti presuppongono alcuni passaggi, diversamente articolati e utilizzati in relazione alle diverse misure, come ad esempio una attenta conoscenza dell’imputato in termini di condizioni e risorse, al fine di predisporre programmi adeguati alle possibilità soggettive, un contratto iniziale i cui contenuti siano commisurati alla gravità del reato ed al senso della misura ipotizzata, infine un costante monitoraggio da parte dei servizi ed il controllo del giudice come strumenti di contenimento dei rischi di insuccesso (De Leo, Patrizi, 1999, 67).


3. Per una conclusione provvisoria

La devianza è un concetto essenzialmente “relativo”, in quanto sono variabili nel tempo e nello spazio le norme sociali e culturali che regolano i sistemi di convivenza e i processi di controllo sociale che li tutelano, mentre si ha devianza, in senso stretto, solo quando il sistema, attribuendo al comportamento divergente un carattere di disfunzionalità e di pericolosità, lo stigmatizza esplicitamente (Regoliosi, 1998).
è questa - a parere di chi scrive - una delle più indovinate definizioni di devianza; ciò che con certezza si può affermare è che alla comparsa dell’adolescenza si manifestano azioni che per la loro tipicità ed anche pericolosità possono creare un notevole allarme sociale e familiare: parliamo dei cosiddetti comportamenti problematici o a rischio.
Dunque, il fumo di tabacco, l’uso di spinelli e di altre droghe, l’abuso di alcool, la guida pericolosa, i comportamenti antisociali, l’attività sessuale precoce e non protetta, l’alimentazione disturbata, sono tutti esempi di comportamenti che possono, in modo diretto o indiretto, incidere sul benessere psicologico, sociale dell’adolescente e pure sulla sua salute fisica immediata e futura.
Tuttavia, alcune ricerche svolte recentemente in Italia hanno sottolineato che il coinvolgimento in questi comportamenti è oggi molto frequente tra gli adolescenti, ma è per lo più considerato transitorio (Bonino, 2005).
Lo studio dei campioni cosiddetti “normativi”, spiega Silvia Bonino (2005), ha permesso di afferrare i significati che questi comportamenti hanno per gli adolescenti; nello specifico, i campioni normativi sono costituiti da ragazzi e ragazze normali che sono capaci, se pure tra difficoltà e squilibri, di fare fronte ai compiti di sviluppo caratteristici dell’età, primo fra tutti frequentare la scuola.
Questi studi - orientati in primo luogo a comprendere i motivi che conducono ragazzi e ragazze normali a mettere a rischio il proprio benessere - hanno ulteriormente indagato sui fattori che possono aumentare il rischio di coinvolgimento oppure fungere da protezione.
In realtà i comportamenti, anche quelli che appaiono come i più irrazionali, sono di fatto il risultato di una scelta, di una valutazione, di una ricerca di adattamento; comprendere le loro funzioni è quindi essenziale per poter offrire all’adolescente l’opportunità di raggiungere i medesimi obiettivi positivi per lo sviluppo senza mettere a repentaglio il proprio benessere (Bonino, 2005, 22).
Il tema del raggiungimento di obiettivi ritenuti significativi sul piano personale e sociale non deve però essere orientato all’individuazione soltanto di quelli che chiamiamo “fattori di rischio”, ma anche e soprattutto alla rilevazione dei “fattori di protezione”, ovvero a quelle caratteristiche della persona, del contesto, o situazioni particolari che in qualche maniera diminuiscono la probabilità di coinvolgimento in comportamenti impropri, oppure che riducono il comportamento già in atto, o ancora vanno a regolare i fattori di rischio presenti nell’ambiente.
In linea generale, hanno un ruolo protettivo a livello individuale le maggiori competenze emotive, cognitive e relazionali, mentre all’interno dell’ambiente familiare abbiamo i modelli dei genitori e lo stile educativo autorevole, fatto di regole, supervisione e sviluppo del dialogo.
Nella scuola, oltre ai modelli degli insegnanti, svolgono un ruolo protettivo la soddisfazione per l’esperienza scolastica, lo stare bene a scuola e il successo scolastico; ancora, nella comunità, sono protettivi l’offerta di spazi per la sperimentazione e la realizzazione di sé e la partecipazione a gruppi che offrono occasioni di riflessione e di impegno a favore degli altri (Bonino, 2005, 23).
Ad ogni buon conto, ogni volta che un minorenne commette un reato di particolare effetto o gravità, si attiva un dibattito nell’opinione pubblica su cause e soluzioni della devianza giovanile in generale.
Si vuole solo osservare - in linea con le affermazioni di Nicholas Emler e Stephen Reicher (1995) - che, quali che siano le cause dei reati di eccezionale gravità, non esiste una sola ragione per supporre che esse siano le stesse delle assai più lievi, e diffuse, azioni devianti; allo stesso modo, i rimedi che possono essere appropriati per atti di estrema gravità sociale possono essere inefficaci - o persino controproducenti - se applicati agli atti di ordinaria devianza.
Naturalmente, un secondo fattore che influenza la discussione sulla devianza ha a che fare con le politiche legislative e dell’ordine pubblico; da questo punto di vista, sempre secondo gli studiosi inglesi, è impossibile scindere la spiegazione della devianza dall’attribuzione di responsabilità e di colpa.
Generalmente, tutte le teorie sottolineano la rilevanza di certi antecedenti del crimine ma, come corollario, lasciano in ombra quella di altri.
Nella misura in cui uno dei principali obiettivi dei governi, quantomeno di quelli democratici, è quello di garantire la pace sociale, proseguono Emler e Reicher, esiste una consistente opposizione delle autorità istituzionali ad accettare qualsiasi teoria che individui le cause della devianza in ambiti in cui il governo ha delle responsabilità.
Il crimine non può essere causato dalle politiche abitative, scolastiche, occupazionali o di altro tipo; è perciò di solito ricondotto a fattori individuali o, comunque, ad aspetti della sfera privata.
Considerata, quindi, questa forte tendenza all’occultamento dell’evidenza, è molto difficile che qualsiasi discussione pacata sul modo di affrontare la devianza adolescenziale venga ascoltata da qualcuno.


Approfondimenti

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(1) - Anthony Giddens (1994, 71) definisce la globalizzazione nei termini di un processo dialettico caratterizzato dall’”intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località distanti facendo sì che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa. (…)Questi eventi locali possono andare in direzione opposta alle relazioni distanziate che li modellano”. Su questo argomento si veda anche Cfr.: J.N. Rosenthau, (1980), The Study of Global Interdependence, London, Pinter; Cfr.: I. Wallerstein, (1982), Il sistema mondiale dell’economia moderna, trad.it., Bologna, Il Mulino.
(2) - Tali tecniche, definite di “neutralizzazione” (negazione della responsabilità, minimizzazione del danno prodotto, negazione della vittima, la condanna dei giudici, il richiamo a ideali più alti), attraverso forme di razionalizzazione del comportamento deviante hanno cercato di chiarire la distanza socialmente definita fra questo e i valori condivisi, anche se per Taylor, Walton, Young (1973) ed in Italia da De Leo e Patrizi (1999) a proposito delle carriere devianti - questi criteri di giustificazione hanno comunque continuato a facilitare o ad ispirare la perpetrazione di atti devianti neutralizzando le costrizioni normative preesistenti.
(3) - Il rinnovato interesse per le vittime ha contribuito a promuovere l’emersione del modello “riparativo”, che sta riscuotendo un interesse crescente sia in Europa, sia nell’area giuridica del Common Law. La giustizia riparativa può essere definita come un paradigma di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo; per un concetto generale, Cfr.: F. Scaparro, (a cura di), (2001), Il coraggio di mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzioni alternative delle controversie, Guerini e Associati, Milano, pagg. 308-354.
(4) - Il principio è quello della co-costruzione di percorsi sostitutivi e alternativi della pena detentiva - riducendo la necessità del carcere - che possano, però, tener conto di quattro elementi:
1) stimolare il reo ad un confronto attivo con le conseguenze delle proprie azioni;
2) richiedere impegni comportamentali che siano riparativi dei danni causati e finalizzati alla prevenzione che l’individuo infranga nuovamente la norma;
3) attivare nel reo, attraverso tali impegni comportamentali, competenze d’azione socialmente orientate in senso positivo;
4) produrre capacità di agire responsabile attraverso interventi che chiedono conto dell’adempimento agli impegni concordati (De Leo, Patrizi, 1999, pagg. 64-67).