L’esame disciplinare di corpo a seguito di giudicato penale ovvero di provvedimento di archiviazione

Pietro Vinci

Piero Vinci
Capitano dei Carabinieri
Comandante della Compagnia Carabinieri di Messina-Centro






Il regime dei termini

1. Premessa
2. Il dies a quo
3. Gli accertamenti preliminari
4. I termini a difesa

1. Premessa
A distanza di diversi anni dall’entrata in vigore delle principali norme che regolano il procedimento disciplinare di corpo in particolare ed il procedimento amministrativo in generale, nonostante la proliferazione di ripetuti interventi volti a disciplinarne i risvolti ed a chiarire la portata dei relativi istituti, permangono tuttora, nella prassi applicativa, numerose e significative incertezze circa la corretta individuazione dei termini a cui soggiace il citato iter procedimentale.
A tal proposito, occorre preliminarmente chiarire come, con ogni probabilità, la ragione principale di tale perdurante aleatorietà debba essere individuata nel progressivo snaturamento del procedimento in questione.
Questo, difatti, è stato concepito dal legislatore in un’epoca storica in cui una consistente quota degli appartenenti alle Forze Armate prestava il proprio servizio in regime di coscrizione obbligatoria (e pertanto senza neppure che gli stessi fossero vincolati da un vero e proprio rapporto d’impiego con l’amministrazione) ed è nato come procedura speditiva, strutturata all’insegna dell’oralità, volta a sanzionare in modo rapido ed efficace le mancanze tipiche della quotidianità dei reparti. Nel prosieguo, senza essere mai intaccato nel suo impianto originario, è stato invece utilizzato nella prassi per fronteggiare le esigenze proprie di un contesto militare a carattere oramai marcatamente professionale, talvolta peraltro connotato dallo svolgimento di funzioni del tutto peculiari quali quelle di polizia.
è evidente come, in virtù di tale considerazione, a cui va sommata una generalizzata ipertrofia garantista, suggerita in molti casi dall’irrazionale timore di incorrere in censure da parte della giustizia amministrativa e, a onor del vero, giustificata anche dall’affermarsi di indirizzi giurisprudenziali ondivaghi e non sempre pienamente condivisibili, si sia determinato un sensibile appesantimento di tutto l’impianto che ha perso gran parte della originaria oralità per assumere una forma caratterizzata da una massiccia cartolarizzazione.
A riprova di tale assunto, basti la constatazione di come il procedimento disciplinare di corpo, in molti casi, venga adoperato quale strumento per esaminare il giudicato penale ovvero le condotte oggetto di accertamento da parte dell’autorità giudiziaria, conclusosi senza l’esercizio dell’azione penale, con provvedimento di archiviazione (decreto ovvero ordinanza)(1).
Viene pertanto in gioco, a tal proposito, la vexata quaestio dei termini del procedimento, posto che la relativa perenzione risulta tuttora uno dei motivi più frequenti di contenzioso, arrivando in molti casi a determinare l’invalidità dei provvedimenti adottati, con esiti defatiganti e sicuramente deleteri con riguardo all’interesse dell’amministrazione, laddove condotte ampiamente riprovevoli ed addirittura oggetto di censure in sede penale non riescono ad essere stigmatizzate con efficacia sul piano disciplinare.
Tale situazione è anche il portato del perdurante contrasto, sia giurisprudenziale sia dottrinale, in ordine alla natura dei termini stessi che, secondo un primo orientamento avrebbero, in ogni caso (tanto quelli dettati per l’avvio e la conclusione che quelli previsti per cadenzare le fasi infraprocedimentali), carattere ordinatorio-acceleratorio piuttosto che perentorio, sulla scorta del noto assunto secondo il quale la perentorietà di un termine deve risultare espressamente dalla legge e non può essere desunta in via interpretativa(2). In senso contrario, si è argomentato che tale ultimo principio, ricavato in via analogica partendo dal disposto dell’art. 152 c.p.c., non ha portata espansiva e non può pertanto essere trasposto dal campo processuale a quello sostanziale-procedimentale(3).

2. Il dies a quo
Ciò premesso, si pone in primo luogo il problema di individuare con precisione il momento iniziale (dies a quo) da cui far decorrere i successivi termini stabiliti per la conclusione del procedimento.
A tal proposito, con riferimento alla seconda delle opzioni sopra prospettate, è stato chiarito che “il termine iniziale del procedimento disciplinare di corpo decorre dalla data di deposito del decreto/ordinanza di archiviazione emesso dall’autorità giudiziaria”(4). Si è tuttavia precisato che “eccezionalmente, nel caso in cui non sia stato possibile acquisire tempestivamente il provvedimento, potrà essere assunta, quale termine iniziale, la data di rilascio della copia conforme del provvedimento”(5). Peraltro, tale eventualità dovrà essere sostenuta, in atti, da valide argomentazioni, laddove incombe sull’amministrazione l’onere di “porsi nelle condizioni di poter dimostrare che la tardiva acquisizione del decreto/ordinanza di archiviazione non sia addebitabile all’inerzia del comando interessato a seguire gli sviluppi del relativo procedimento penale, documentando compiutamente tutte le iniziative intraprese per ottenere dagli uffici giudiziari, secondo le intese localmente stabilite, il provvedimento”(6).
Ad avviso di chi scrive, la fissazione di tale termine, secondo le modalità sopra specificate, deve ritenersi perlomeno opinabile, in quanto derivante da una discutibile applicazione del procedimento analogico. Posto difatti che non esiste una regolamentazione espressa della specifica questione, si è ritenuto che la relativa disciplina dovesse ricavarsi, in via analogica, da quella che veniva considerata l’unica norma positiva applicabile ad un caso simile, l’art. 97 del D.P.R. 3/1957 (“Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello stato”).
La citata disposizione stabilisce, in effetti, che “il procedimento disciplinare deve avere inizio, con la contestazione degli addebiti, entro 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento od entro 40 giorni dalla data in cui l’impiegato abbia notificato all’amministrazione la sentenza stessa”. Attraverso una serie di passaggi successivi, la portata di tale norma è stata estesa dapprima ai dipendenti dello Stato che, pur in possesso dello status di militare, fossero comunque legati da un rapporto d’impiego con l’amministrazione, e pertanto all’esame disciplinare di stato del giudicato assolutorio, e quindi anche al similare esame, nella medesima sede procedimentale, dei provvedimenti di archiviazione. L’ultimo passaggio comporta poi l’estensione anche al procedimento di corpo, per il quale, per ovvi motivi, manca (e non potrebbe essere altrimenti) una specifica disciplina.
Emerge a proposito, già prima facie, una non perfetta trasposizione del portato originario della norma, laddove il dies a quo viene fatto coincidere non più con la data d’irrevocabilità del provvedimento, ma con il momento del suo deposito. La trasformazione sembrerebbe essere suggerita dalla sentenza n. 374/1995 della Corte Costituzionale, la quale ha opportunamente distinto il momento dell’irrevocabilità da quello del deposito del provvedimento (che, salvo rare coincidenze, sono cronologicamente separati), ritenendo irragionevole far decorrere il termine per l’avvio del procedimento di stato dalla data in cui la sentenza di proscioglimento sia divenuta irrevocabile, in virtù dell’oggettiva difficoltà che la P.A. incontra nell’averne notizia nel caso in cui tale evento si sia verificato prima del deposito del provvedimento medesimo, determinando un’erosione, potenzialmente significativa, del termine a disposizione dell’autorità amministrativa.
Secondo la sentenza additiva della Consulta, il dies a quo viene quindi spostato alla data di deposito della sentenza o dell’ordinanza che pronuncia sull’impugnazione, nel solo caso in cui sia successiva a quella in cui il provvedimento è divenuto irrevocabile. Considerato poi che, per quanto concerne i provvedimenti di archiviazione, non ha senso parlare di irrevocabilità, sembrerebbe ovvio fare riferimento, in tali casi, esclusivamente al momento del deposito.
A questo punto, tuttavia, non è possibile astenersi dall’evidenziare come, in epoca certamente meno risalente rispetto al 1957, sia intervenuta una nuova regolamentazione organica della materia, e segnatamente la legge 27 marzo 2001, n. 97, recante “norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”. In particolare, all’art. 5 comma 4 del citato provvedimento viene individuato il termine iniziale per l’avvio del procedimento disciplinare a seguito di condanna definitiva, coincidente con il momento della “comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare”, ribadendo con ciò il dettato dell’art. 9 comma 2 della precedente legge 7 febbraio 1990, n. 19.
Viene pertanto da chiedersi se, dovendo ricorrere all’analogia per trovare una norma da applicare ad un caso carente di disciplina positiva, non sia più logico fare riferimento al principio contenuto in una disposizione speculare e relativamente recente, piuttosto che alla risultante di una norma risalente e del principio di diritto contenuto delle declaratoria parziale di illegittimità costituzionale che la ha colpita.
Per comprendere appieno i termini della questione, occorre ricordare come esista una disposizione di legge (art. 129 Att. c.p.p.) che impone all’autorità giudiziaria, e segnatamente al pubblico ministero, quando venga esercitata l’azione penale nei confronti di un impiegato dello Stato, di dare notizia dell’imputazione all’autorità dalla quale l’impiegato dipende.
Per converso, e quale logica implicazione, sembrerebbe desumersi che la medesima autorità giudiziaria sia tenuta a comunicare all’amministrazione anche l’esito del processo instaurato, solo che non esiste una previsione ad hoc nel senso.
Nel silenzio della legge, che non specifica quindi se la citata comunicazione debba avvenire d’iniziativa da parte dell’autorità giudiziaria o a seguito di richiesta nel senso da parte della P.A., è stato stabilito che “in assenza di precisi orientamenti dottrinari e giurisprudenziali, per evitare la perenzione dei termini ed a salvaguardia degli interessi dell’amministrazione”, spetterà a quest’ultima “attivarsi per acquisire la copia conforme della sentenza munita del visto d’irrevocabilità”(7).
Per altro verso, non esiste nemmeno alcuna disposizione che faccia obbligo all’autorità giudiziaria di riferire all’amministrazione di appartenenza di un determinato soggetto l’esito di un procedimento aperto a suo carico e conclusosi senza l’esercizio dell’azione penale con provvedimento di archiviazione.
In tal caso, peraltro, a meno che il soggetto non sia stato arrestato, fermato o sottoposto a misure cautelari custodiali (v. art. 129 comma 3 bis Att. c.p.p.), l’amministrazione potrebbe tranquillamente essere del tutto ignara anche dell’esistenza stessa del procedimento. Essa, di conseguenza, si troverebbe nella materiale impossibilità di attivarsi per conoscerne l’esito, posto che all’atto del deposito il provvedimento diviene certamente disponibile alle parti che vi abbiano interesse, senza che però queste ultime debbano esserne necessariamente avvertite, soprattutto qualora non siano state chiamate in causa nella fase procedimentale.
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, se per un verso appare del tutto irragionevole gravare in linea generale l’amministrazione di un onere di richiesta di notizie in merito all’esito di procedimenti penali di cui potrebbe addirittura sconoscere l’esistenza, d’altro canto non è neppure possibile legittimare l’inerzia ingiustificata dei pubblici uffici.
Appare pertanto logico, e soprattutto coerente con la normativa vigente, che il termine iniziale per l’esame disciplinare di corpo di provvedimenti di archiviazione venga fatto coincidere con la data dell’acquisizione, comunque avvenuta, della copia conforme del provvedimento nel caso in cui l’esistenza del procedimento fosse ignota all’amministrazione(8), e con la data del deposito nei rimanenti casi, ribaltando dunque il rapporto tra regola ed eccezione precedentemente stabilito.
La questione si pone poi in termini differenti nel caso in cui il procedimento penale, essendo stata formulata l’imputazione, si sia concluso con l’emissione di una sentenza, sia essa di condanna che di proscioglimento (assolutoria ovvero di non luogo a procedere), oppure ancora con l’adozione di un decreto penale di condanna.
La materia è stata oggetto, sul punto specifico, di una recentissima innovazione, laddove, al fine di rimuovere le residue disomogeneità procedurali tra personale appartenente a diversi ruoli, è stato stabilito che anche nei procedimenti a carico di Appuntati e Carabinieri il comandante di corpo non possa più procedere nella sua competenza qualora non intenda avviare il procedimento di stato, ma debba comunque richiedere, per il tramite delle autorità gerarchiche sovraordinate, l’assenso da parte del Ministero delle Difesa(9).
Sulla scorta della vigente disciplina, pertanto, il dies a quo del procedimento di corpo finalizzato all’esame di un giudicato penale (sia di condanna sia assolutorio) decorre dalla data di ricezione da parte del comandante di corpo della comunicazione relativa alla determinazione, assunta dal Ministero della Difesa o dal Comando Generale, con la quale viene stabilito che la posizione del militare si considera definita senza l’adozione di provvedimenti di stato e con il rinvio degli atti per l’irrogazione di una sanzione disciplinare di corpo.

3. Gli accertamenti preliminari
Una volta individuato il dies a quo, occorre chiarire quale sia con esattezza il termine decorrente da questo momento iniziale.
Secondo una prima opzione interpretativa, il verificarsi della condizione necessaria all’instaurazione del procedimento determinerebbe il decorso immediato del termine di 90 giorni fissato dalle tabelle allegate ai decreti ministeriali 16 settembre 1993, n. 603(10) e 8 agosto 1996, n. 690(11), laddove nell’esame del giudicato penale (o della posizione disciplinare conseguente a provvedimento di archiviazione) non vi sarebbe spazio per i cosiddetti “accertamenti preliminari”.
Tale orientamento, che sembrerebbe essere stato sposato in un primo momento dall’amministrazione(12), contrasta tuttavia con quanto desumibile dal dato letterale della normativa vigente e da un costante orientamento giurisprudenziale, come peraltro ribadito dalla stessa amministrazione in altra sede(13).
Ai sensi dell’art. 59 del Regolamento di Disciplina Militare, difatti, “il procedimento disciplinare deve essere instaurato “senza ritardo” dal momento in cui l’amministrazione è venuta conoscenza del fatto ipoteticamente illecito sotto il profilo disciplinare”, mentre “il termine iniziale del procedimento di disciplinare di corpo coincide con la contestazione dell’addebito”. Quest’ultimo adempimento, difatti, secondo un indirizzo giurisprudenziale oramai consolidato, deve ritenersi equipollente alla comunicazione di avvio del procedimento(14) ed atto introduttivo del procedimento medesimo(15). Il termine di 90 giorni dovrebbe pertanto essere computato solo a partire dalla data delle contestazioni e non invece dal dies a quo individuato secondo le modalità in precedenza delineate, residuando pertanto un margine temporale “intermedio”, gli accertamenti preliminari, la cui quantificazione si presta peraltro a diverse possibili letture. Per altro verso, non è possibile prescindere dalla regola generale dettata dall’art. 10 del citato D.M. 16 settembre 1993, n. 603, secondo la quale “per i procedimenti d’ufficio il termine iniziale decorre dalla data in cui il competente organo o ufficio dell’Amministrazione adotta l’atto propulsivo o, per gli atti vincolati quanto all’emanazione, abbia conoscenza del fatto o della situazione da cui sorge l’obbligo di provvedere o abbia accertato la sussistenza dei presupposti ai quali la legge subordina la loro emanazione”.
Posto pertanto che l’unico termine fissato dal citato decreto è quello di 90 giorni per la conclusione del procedimento, che il provvedimento disciplinare (rectius il provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare) non può essere ritenuto in alcun modo atto “vincolato quanto all’emanazione”, avendo piuttosto natura squisitamente discrezionale(16), ed inoltre che l’atto “propulsivo” deve essere identificato, al di là di ogni ragionevole dubbio, nelle contestazioni, si può senz’altro ritenere che i 90 giorni vadano computati a partire dalla contestazioni.
Re melius perpensa, l’amministrazione sembrerebbe in ultimo aver mutato posizione, laddove è stato esplicitamente chiarito che “la contestazione dell’addebito deve avvenire entro il termine previsto per l’esame del giudicato penale, se da questo sono stati rilevati fatti punibili con sanzione di corpo. La sanzione deve essere irrogata entro i successivi 90 giorni”(17).
Senza riproporre in questa sede le considerazioni già diffusamente svolte da altri commentatori(18), si impongono alcune precisazioni, funzionali a dirimere la questione sopra prospettata in forma chiara ed esaustiva.
Secondo l’orientamento ufficiale, dalla lettera dell’art. 59 del Regolamento di Disciplina Militare discende che “il procedimento disciplinare deve essere instaurato “senza ritardo” dal momento in cui l’amministrazione è venuta a conoscenza del fatto ipoteticamente illecito sotto il profilo disciplinare”(19).
Nel medesimo contesto viene evidenziato come “l’attività di accertamento prodromica all’eventuale instaurazione del procedimento disciplinare, i cosiddetti accertamenti disciplinari, pur non essendo soggetta ad una tempistica prefissata, deve essere in ogni caso condotta con tempestività ossia entro un ragionevole arco temporale, da considerarsi caso per caso in relazione alla gravità della condotta ed alla complessità degli accertamenti sul fatto sottoposto a vaglio”(20).
Sulla scorta di tali considerazioni, la durata della fase in questione non sarebbe fissata a priori in un arco temporale predeterminato, fermo restando che la congruità del periodo intercorrente tra il momento della conoscenza della condotta ipoteticamente censurabile e l’avvio del procedimento resta suscettibile di verifica da parte sia delle autorità gerarchicamente sovraordinate, in sede di controllo di legittimità ovvero qualora attivate a seguito di ricorso, sia dell’autorità giudiziaria, ove investita da un eventuale contenzioso.
Più recentemente, l’Amministrazione della Difesa ha ribadito che l’attività condotta nella fase degli accertamenti disciplinari “pur non essendo soggetta ad una tempistica prefissata, deve essere condotta con tempestività ed entro un ragionevole arco temporale”(21).
Orbene, tale impostazione configge con quella affermatasi, pur in forma non del tutto pacifica, in giurisprudenza. Quest’ultima, difatti, in alcune massime, prevalentemente per ragioni di certezza del diritto, ha elevato la fase degli accertamenti preliminari al rango di procedimento autonomo e propedeutico all’instaurazione del procedimento vero e proprio, con la conseguenza di dotare tale fase di un termine specifico, fissato, ai sensi del criterio residuale stabilito dall’art. 2 comma 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (nella sua versione originale), in 30 giorni, nella considerazione della mancanza di una specifica previsione nel senso. Tale termine, per effetto delle innovazioni introdotte con legge 11 febbraio 2005, n. 15, è stato poi esteso a 90 giorni.
La funzione di quella che viene considerata alla stregua di una “indagine preliminare” è identificata nel “far constatare l’infrazione al trasgressore”, “procedere alla sua identificazione” e “fare rapporto all’autorità competente ad infliggere la sanzione, se diversa da quella che ha compiuto la rilevazione”(22).
In altro parere, viene analogamente ribadito che, pur non essendo esplicitamente indicato dall’art. 59 R.D.M. un termine perentorio, alla fase dell’accertamento preliminare, che “si conclude con la decisione, da parte dell’autorità competente, di instaurare il procedimento disciplinare”, e pertanto da considerarsi quale “specifico procedimento amministrativo”, “trova poi applicazione la residuale previsione dell’art. 2 comma 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, che fissa in 30 giorni il termine per la conclusione del procedimento stesso”(23).
In senso contrario, la stessa Sezione del supremo organo della giustizia amministrativa aveva in precedenza rilevato che “l’art. 59 RDM dispone semplicemente che il procedimento disciplinare venga attivato ‘senza ritardo’, senza indicare al riguardo alcun termine decadenziale”, e che pertanto la tempestività dell’avvio del procedimento, attraverso la contestazione degli addebiti, deve essere apprezzata in relazione alla complessità della fattispecie ed alla possibilità di acquisire la disponibilità dei documenti necessari(24).
Più in generale, si è diffusamente argomentato a favore della natura meramente ordinatoria o sollecitatoria del termine, comunque definito, per la formulazione delle contestazioni, senza che al suo decorso potessero essere ricondotti effetti perentori.
Ad ogni buon conto, pur senza entrare nel merito della opinabilità dell’autorevole orientamento giurisprudenziale che aveva individuato, facendo applicazioni delle regole generali, un termine specifico di 30 giorni (che comunque dovrebbe ora ritenersi esteso a 90 giorni) per lo svolgimento degli accertamenti preliminari, alcune elementari considerazioni di logica giuridica e buon senso suggeriscono di strutturare diversamente tale vincolo temporale, leggendo il disposto dell’art. 59 R.D.M., attraverso una interpretazione additiva, come “senza ritardo, ed al più tardi entro 30 (90) giorni”.
Occorre poi precisare come non si debba cadere nell’equivoco, purtroppo abbastanza ricorrente, di ritenere sempre applicabile tout court agli accertamenti preliminari, qualora propedeutici all’instaurazione di un procedimento di corpo finalizzato all’esame dei contenuti di un provvedimento dell’autorità giudiziaria, il termine (di 90, 120 o 180 giorni a seconda dei casi) fissato per l’esame propedeutico del giudicato penale ovvero della posizione disciplinare.
Va ricordato, a tal proposito, che uno dei possibile esiti di tale disamina è costituito proprio dalla decisione del comandante di corpo, che non ravvisi la sussistenza di un illecito disciplinare di stato, di richiedere l’avallo ministeriale per l’instaurazione di un procedimento di corpo, il cui termine comincia a decorrere solo dalla data in cui l’autorizzazione nel senso perviene all’indirizzo del citato comandante(25).
L’amministrazione afferma in proposito che, ai fini dell’irrogazione di sanzioni disciplinari, la contestazione dell’addebito deve avvenire entro il termine previsto per l’esame del giudicato penale, se da questo sono rilevabili fatti punibili con sanzioni di corpo(26).
Resta fermo che l’applicabilità di tale regola presuppone l’adesione all’opzione interpretativa secondo la quale, in caso di sentenza penale di condanna, la disposizione contenuta nell’art. 2 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, che stabilisce che “la destituzione può sempre essere inflitta all’esito del procedimento disciplinare che deve essere sempre proseguito o promosso entro 180 giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna”, ovvero quella di analogo tenore contenuta nell’art. 5 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (con il termine ridotto a 90 giorni), possono essere riferite anche al procedimento di corpo che, come è noto non può concludersi, a differenza di quello di stato, con la destituzione o l’estinzione del rapporto d’impiego.
Per altro verso, il termine così determinato avrebbe durata anche notevolmente superiore a quello normalmente stabilito, secondo un affermato indirizzo giurisprudenziale (90 giorni, pari al termine generale del procedimento amministrativo), per gli accertamenti preliminari. Ciò nondimeno, vanno poi esclusi dall’operatività della norma, per ovvi motivi, i casi in cui il procedimento di corpo prenda forma all’esito di un precedente procedimento di stato. In tal caso è evidente che l’avvio del procedimento disciplinare non può essere fatto coincidere con le contestazioni mosse dal comandante di corpo, bensì con l’atto introduttivo del procedimento stato a monte, così che “la contestazione dell’addebito e l’irrogazione della sanzione devono avvenire entro il termine previsto per la conclusione del procedimento disciplinare di stato, se a seguito di inchiesta formale/Consiglio o Commissione di disciplina sono stati rilevati fatti punibili con sanzioni di corpo”(27).
Si determinerebbe in tal caso una sorta di commistione tra la disciplina dei termini propria del procedimento di stato e quella relativa al procedimento di corpo, il cui termine di 90 giorni verrebbe degradato al rango endoprocedimentale, essendo di fatto assorbito nell’ambito della scansione temporale dettata dalla normativa di stato che, in virtù della sua natura legislativa, avrebbe valenza preminente.
Fatte tali premesse, sembrerebbe facile addurre, a sostegno della tesi che evidenzia la difficoltà di operare una sovrapposizione tra gli accertamenti preliminari al procedimento di corpo e l’esame propedeutico del giudicato penale o della posizione disciplinare, alcune ulteriori considerazioni di ordine logico.
In primo luogo appare difficile comprendere quali debbano essere l’oggetto e la funzione di tale verifica, posto che la conoscenza della condotta ipoteticamente illecita deriva non da una percezione diretta o da un referto generico, ma dalla ricezione di un atto qualificato come la copia conforme di un provvedimento dell’autorità giudiziaria ovvero la determinazione ministeriale o dirigenziale che rinvia gli atti al Comandante di Corpo.
Per tale ragione, non vi sarebbe alcuna necessità di compiere verifiche in merito ai presupposti dell’avvio del procedimento disciplinare, trattandosi di un atto praticamente necessitato, vanificando di fatto la funzione tipica degli accertamenti preliminari(28).
Ciò modificherebbe, per converso, la natura del provvedimento disciplinare che, da atto discrezionale in senso pieno, diventerebbe vincolato quanto all’emanazione ferma restando la discrezionalità in ordine ai contenuti, facendo sì che il termine di 90 giorni, a mente dell’art. 10 del d.m. 16 settembre 1993, debba essere computato non già dall’atto propulsivo (le contestazioni), ma dalla data in cui l’amministrazione ha avuto “conoscenza del fatto o della situazione da cui sorge l’obbligo di provvedere” ovvero ha “accertato la sussistenza dei presupposti ai quali la legge subordina la loro emanazione”.
Tale assunto risulta, ad un esame più attento, non del tutto condivisibile o, perlomeno, non estensibile alla generalità delle ipotesi in esame.
Nulla quaestio, difatti, nel caso in cui, all’esito dell’esame della posizione disciplinare di stato gli atti vengano rimessi al comandante di corpo: in tal caso quest’ultimo è chiaramente tenuto ad aprire il procedimento disciplinare di sua competenza, non essendo possibile in tale fase alcuna valutazione comparativa di interessi e restando la sua discrezionalità confinata nell’ambito dell’iter procedimentale vero e proprio, in ordine al contenuto dei provvedimenti conclusivi da adottare.
In tal caso le contestazioni dovranno essere mosse immediatamente, essendo peraltro già stato condotto un corrispondente esame in altra sede ed essendo già di massima fissato il “capo d’imputazione”(29).
Secondo l’interpretazione da ritenersi preferibile e coerente con i principi generali, alla comunicazione diretta al comandante di corpo dovrà essere pertanto attribuito valore recettizio, dispiegando essa i suoi effetti, quanto alla decorrenza dei termini, dal momento del suo arrivo a destinazione, ossia da quando perviene materialmente nella disponibilità dell’ufficio di staff del comandante, a nulla rilevando i tempi interni di trattazione della pratica e la data effettiva nella quale il responsabile dell’ufficio ne ha preso visione(30).
è poi ovvio che la materiale formulazione delle contestazioni, anch’esse atto recettizio(31), la cui efficacia resta pertanto condizionata dalla conoscenza (legale(32)) da parte del manchevole, richiede comunque un margine, sia pur minimo, di tempo. Deve tuttavia escludersi che a tale lasso temporale, in assenza di specifiche disposizioni nel senso, siano applicabili tempistiche a carattere perentorio, dovendosi piuttosto avere riguardo all’unico termine di novanta giorni decorrente dal dies a quo iniziale, posto che in virtù della natura sostanzialmente vincolata dell’atto introduttivo è impossibile configurare un autonomo procedimento provvisto di termini dedicati. Diversamente si sarebbe pervenuti, nella previdente disciplina, all’assurda conseguenza di attribuire effetti caducatori dell’intero procedimento a delle contestazioni mosse al trentunesimo giorno dalla ricezione della determinazione dirigenziale, allorquando l’iter procedimentale si era concluso magari nei successivi 20 giorni e dunque ampiamente nel rispetto del termine di 90 giorni. L’estensione del termine generale per la conclusione dei procedimenti amministrativi da 30 a 90 giorni ha poi di fatto svuotato la questione, sul piano pratico, di rilevanza concreta.
Mentre analoghe considerazioni possono essere formulate in caso di sentenza di condanna, a cui vanno riconnessi i noti effetti conformativi propri del giudicato, ben diverso è invece il caso il cui il comandante di corpo si trovi ad esaminare una sentenza di assoluzione o un provvedimento di archiviazione, laddove precludere ogni discrezionalità in ordine all’avvio del procedimento disciplinare contrasterebbe con ogni principio di logica giuridica e di economia procedimentale.
Se difatti per un verso è ipotizzabile una serie di circostanze in cui l’imputato è stato prosciolto ovvero l’azione penale non è stata esercitata a causa della totale infondatezza della notitia criminis(33), d’altro canto si rende in ogni caso necessario verificare la sussistenza dei presupposti per l’avvio dell’azione disciplinare, posto che, come è stato correttamente osservato dalla dottrina, “non qualunque fatto che abbia determinato un giudizio penale è punibile, ma solo quei fatti in seguito ai quali sia possibile instaurare un procedimento disciplinare”(34).
In concreto, si tratta di accertare innanzitutto il ricorso delle condizioni di cui all’art. 5 della legge 11 luglio 1978, n. 382 (“Norme di Principio sulla Disciplina Militare”), che delimita l’applicabilità del Regolamento di Disciplina Militare a quei militari i quali svolgano attività di servizio, si trovino in luoghi militari o comunque destinati al servizio, indossino l’uniforme, si qualifichino, in relazione a compiti di servizio, come militari o si rivolgano ad altri militari in divisa o che comunque si qualifichino come tali.
In tal caso si dovrà pertanto ritenere che il termine di 90 giorni decorra comunque dalla data delle contestazioni, fatta salva la possibilità da parte dell’amministrazione di compiere un esame propedeutico della posizione disciplinare, secondo le regole e la tempistica in precedenza delineati.

4. I termini a difesa
Altra annosa questione è quella che riguarda la corretta delimitazione dei termini endoprocedimentali per l’esercizio del diritto di difesa.
Si è diffusamente affermata la convinzione che la disciplina dettata dal R.D.M. dovesse in proposito essere integrata con quella fissata dall’art. 62 del D.M. 8 agosto 1996, n. 690, recante “disposizioni di attuazione degli articoli 2 e 4 della legge 241/90 nell’ambito degli enti, dei distaccamenti e dei reparti dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica nonché di quelli a carattere interforze”. La citata norma stabilisce difatti che “i soggetti che hanno titolo a prendere parte al procedimento (…) possono presentare memorie scritte e documenti entro un termine pari a due terzi di quello stabilito per la durata del procedimento, sempre che questo non sia già concluso”, con una formulazione non particolarmente felice e che pone una serie di questioni interpretative di non poco momento.Qualora difatti si intendesse accogliere l’impostazione secondo al quale il termine richiamato nella disposizione de qua sia quello di durata massima del procedimento disciplinare (pari a 90 giorni), si dovrebbe concludere che i termini a difesa siano già fissati a priori in 60 giorni.
A questo punto occorrerebbe chiedersi se ciò comporti anche, portando il ragionamento alle estreme conseguenze, la fissazione di un termine minimo per la conclusione del procedimento, posto che, essendo le parti legittimate a produrre le proprie deduzioni entro 60 giorni, un eventuale provvedimento finale adottato prima del decorso di tale termine soffrirebbe dell’illegittimità derivante dalla mancata valutazione degli elementi prodotti successivamente all’emanazione dello stesso, ma entro il sessantesimo giorno dall’avvio del procedimento.
Tale deduzione sembrerebbe tuttavia in contraddizione col dato letterale della norma medesima che esplicitamente ammette l’ipotesi di una conclusione anticipata del procedimento, anche nella pendenza del termine per l’esercizio delle facoltà partecipative. Se allora la ratio della disposizione non è quella di stabilire un margine temporale minimo, garantito ed incomprimibile, per l’esercizio del diritto di difesa, si dovrebbe allora concludere che la funzione della stessa sia piuttosto quella di mettere al riparo l’amministrazione dalle difficoltà derivanti dalla presentazione di memorie tardive che, qualora verificatasi alla vigilia del decorso del termine finale per l’adozione del provvedimento, ne renderebbe impossibile la compiuta valutazione.
Secondo un’ulteriore opzione interpretativa, il riferimento operato dalla disposizione sarebbe da riconnettere non già al termine massimo normativamente fissato per la durata del procedimento, ma a quello di volta in volta stabilito dall’amministrazione che, in relazione alla complessità del caso, potrebbe autolimitarsi fissando un termine anche inferiore ai 90 giorni, sul quale andrebbe computato il margine di due terzi entro il quale sarebbe possibile presentare memorie e documenti che comunque, a mente del medesimo art. 62, non potrebbe in ogni caso essere inferiore a 10 giorni. La tesi appare perlomeno dubbia, anche alla luce della nuova formulazione dell’art. 82 della legge 7 agosto 1990 n. 241, al quale con legge 11 febbraio 2005 è stata aggiunta la lettera c bis, che stabilisce nella comunicazione di avvio del procedimento deve essere indicata, tra l’altro, la data entro la quale questo deve concludersi, stabilita secondo le modalità fissate inequivocabilmente ed in via generale dall’art. 2 della medesima legge.
Per altro verso, è possibile argomentare, non senza fondamento, che la disciplina dettata dall’art. 62 del D.M. 8 agosto 1996, n. 690 sia inapplicabile al procedimento disciplinare.
In effetti, occorre preliminarmente rilevare come quest’ultimo sia fornito di una propria specifica disciplina, fissata dall’art. 59 del R.D.M., approvato con D.P.R. 18 luglio 1986, n. 545, atto normativo di rango superiore al decreto ministeriale ed al quale questo, ancorché successivo, non può derogare, a meno che non operi in forza di una specifica delega conferita con legge. In effetti il regolamento in questione detta norme di attuazione degli artt. 2 e 4 della legge 241/90, che tuttavia si limitano a demandare alla fonte secondaria la determinazione dei soli termini per la conclusione del procedimento e l’individuazione delle unità organizzative responsabili. Le disposizioni ulteriori contenute nel D.M. 690/96, come quelle relative ai termini endoprocedimentali, devono pertanto ritenersi ultronee rispetto alla delega legislativa e pertanto sprovviste del livello di forza attiva propria delle norme secondarie emanate in attuazione della legge.
Secondariamente, non si può fare a meno di considerare come l’assetto sopra delineato sia difficilmente compatibile con la struttura stessa del procedimento disciplinare, disegnato dal R.D.M. anche in ragione delle esigenze di speditezza che gli sono proprie, laddove (come è bene ogni tanto ricordare) era stato concepito per censurare con efficacia ed immediatezza (di qui l’ulteriore requisito dell’oralità(35)) le violazioni della disciplina, posto che fine precipuo di quest’ultima è proprio quello di tutelare l’integrità e l’efficienza della compagine militare, che ben poco giovamento trarrebbero da una sanzione tardiva delle mancanze.
Esso prevede espressamente, tra le sue varie fasi, quella dell’acquisizione delle giustificazioni e delle eventuali prove testimoniali, senza che tuttavia venga stabilita una precisa scansione temporale delle stesse, tutte comunque contraddistinte, come si evince dalla ricorrente ripetizione delle locuzioni “senza ritardo” ed “immediatamente”, proprio dal generale requisito della speditezza.
Applicando correttamente la disciplina vigente, e fermo restando che il manchevole deve essere necessariamente reso edotto della possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa e messo concretamente nelle condizioni di poterlo fare, la congruità del lasso di tempo resogli disponibile a tal fine deve essere valutata con criterio equitativo in relazione alle circostanze.
A prescindere dalle considerazioni sin qui svolte, si deve tuttavia segnalare come l’amministrazione abbia preso una posizione espressa sulla specifica materia, laddove è stato espressamente stabilito come “all’inquisito deve essere sempre concesso il termine a difesa, a meno che non vi rinunci per iscritto, per consentirgli di produrre memorie e documenti”.
A ben vedere, qualora come in questo caso si ritenga applicabile il disposto del D.M. 690/96, non appare corretto configurare il termine a difesa quale oggetto di concessione: esso spetta a prescindere da un espresso richiamo, in quanto stabilito a monte ed in via generale dal regolamento.
Quanto poi alla durata di tale termine, l’amministrazione sembrerebbe aver sposato la seconda delle tesi sopra prospettate, laddove si sostiene che questo “non può superare i 60 giorni, pari ai due terzi del termine massimo a disposizione (…) per concludere il procedimento” e “può essere ridotto dall’autorità che procede quando le esigenze istruttorie non ne richiedono l’intero utilizzo”, così che “il termine a difesa è commisurato ai due terzi di quello minore indicato nella comunicazione di contestazione dell’addebito”, e se “inferiore o uguale a 30 giorni, memorie scritte e documenti dovranno essere presentati entro 10 giorni dall’inizio del procedimento”(36). Valgono in proposito le considerazioni sopra svolte. Al limite, si potrebbe ipotizzare che l’amministrazione, nel comunicare l’avvio del procedimento, piuttosto che abbreviarne il termine conclusivo, abbia solo la possibilità di limitarsi ad indicare alla parte la data entro la quale prevede di concluderlo, sollecitando a tal fine la produzione delle memorie.
La natura dei termini a difesa non è poi suscettibile di definizioni categoriche. è evidente come questi non abbiano carattere squisitamente perentorio: non è difatti pensabile che il decorso del termine comporti l’assoluta decadenza dall’esercizio delle facoltà partecipative. Le memorie presentate tardivamente, ma comunque prima dell’adozione del provvedimento finale, non sono tamquam non essent: l’amministrazione se può ne tiene conto, se non lo fa il provvedimento finale deve ritenersi comunque immune da censure. Tale ultima conseguenza, comunque significativa, esclude anche che ai termini a difesa possa essere attribuito carattere meramente ordinatorio.


Approfondimenti

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(1) - Quanto alla configurabilità, sul piano sostanziale, del concorso tra illecito disciplinare di corpo e reato cfr., più diffusamente: P. Vinci, Il concorso tra illecito disciplinare di corpo e reato - Profili sostanziali e rapporto tra i relativi procedimenti di accertamento, nella Rassegna dell’Arma, n. 3-2000, pagg. 35 ss., nonché la più recente circolare n. MD GNIL 040040746 CIRC/III/7^/1^ in data 26 maggio 2005 del Mistero della Difesa - Direzione generale per il personale militare che, al fine di dirimere una serie di questioni controverse, ha stabilito, anche in forza della sentenza n. 406/2000 della Corte Costituzionale, che anche in ordine ai fatti costituenti reato contro il servizio e la disciplina ovvero ricadenti sotto la previsione dell’art. 260 comma 2 c.p.m.p. è ammissibile il cumulo tra sanzione penale e disciplinare.
(2) - Tale tesi ha ricevuto peraltro l’autorevole avallo della Corte Costituzionale la quale, nella sentenza 17 luglio 2002, n. 355, ha ribadito che “la mancata osservanza del termine a provvedere non comporta la decadenza dal potere, ma vale a connotare in termini di illegittimità l’operato della Pubblica Amministrazione, nei confronti della quale i soggetti interessati alla conclusione del procedimento possono insorgere utilizzando, per la tutela della propria situazione soggettiva, tutti i rimedi che l’ordinamento appresta in via generale per simili ipotesi”. Cfr., in proposito: V. Poli e V. Tenore, L’ordinamento militare, Giuffrè 2006, volume I, pagg. 250 ss. e volume II, pagg. 719-722.
(3) - Si tratta di una giurisprudenza minoritaria del Consiglio di Stato ed invece consolidata della Corte di Cassazione, relativamente all’analogo campo delle sanzioni amministrative adottate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689 e segnatamente di quelle previste dal Codice della Strada.
(4) - Circolare n.