Aspetti teorico-pratici della negoziazione operativa e le nuove sfide per l’Arma dei Carabinieri

Ciro Guida


Ciro Guida
Tenente Colonnello dei Carabinieri
Capo Sezione Analisi Operativa dell'Ufficio di Polizia Militare dello Stato Maggiore Difesa




1. La scuola di Harvard ed il negoziato di principi
2. Le origini della negoziazione operativa.
3. Il caso di emergenza e lo stato di crisi.
4. I differenti aspetti psicologici.
5. I presupposti del negoziato di principi.
6. Gli interessi e il ruolo della comunicazione.
7. Il significato della persuasione.
8. Il teatro operativo.
9. I protagonisti della negoziazione.
10. La sindrome di Stoccolma.
11. Alcune considerazioni conclusive.

1. La scuola di Harvard ed il negoziato di principi
La negoziazione intesa come “metodo non conflittuale di gestione dei conflitti”, fa perdere le sue radici storiche lontano nel tempo, probabilmente non sbaglierebbe colui che volesse vederne traccia nella frase riportata sia nel Vangelo di Luca (…) sia in quello di Matteo (…): “mettiti d’accordo col tuo nemico”. In realtà esiste una duplice veste di questa materia interdisciplinare nella quale si riversano le conoscenze che le provengono da sociologia, psicologia, tecniche di comunicazione, tecniche di redazione ed economia: la prima che potremmo definire di tipo culturale e la seconda che potremmo dire operativa.
Nel primo caso, la negoziazione si presenta come forma di accordo in grado di affrontare entrambe le componenti di un conflitto: il problema soggettivo del rapporto tra le parti ed il problema oggettivo del soddisfacimento dei bisogni reali reciproci. Le occasioni che richiedono un negoziato sono sempre più frequenti sia perché il conflitto sociale è in espansione ma anche perché ciascuno vuol partecipare alle decisioni che lo riguardano.
Il vero problema è che frequentemente si negozia male perché non se ne conoscono le regole di base e troppo spesso il negoziato è percepito solo come un compromesso che si basa su reciproche concessioni (che comportano la rinuncia parziale al soddisfacimento dei propri interessi). Per questo motivo, a negoziati duri o morbidi, secondo il modo di condurre le trattative, i ricercatori di Harvard nel corso dello Harvard Negotiation Project, hanno introdotto il negoziato di principi(1), basato sulla possibilità che entrambe le parti vedano migliorate le posizioni di partenza con una tecnica che consente il cosiddetto win-win (in cui entrambe le parti vincono). Il negoziato di principi si basa sull’asserto della necessità di essere duri con il problema e morbidi con le persone.
A voler sottolineare ulteriormente la delicatezza della materia in argomento, si ricordi che la negoziazione non consente di “fare giurisprudenza” poiché il giudice ha necessità di osservare il pregresso per emettere una sentenza che assegna la ragione ad una delle parti in causa, mentre in questo settore il negoziatore non assegna ragioni, ma cerca una soluzione alternativa che soddisfi le parti e, pertanto, il terreno della negoziazione è quello degli interessi piuttosto che quello dei diritti.

2. Le origini della negoziazione operativa
Invece, lo sviluppo delle tecniche di negoziazione secondo l’aspetto che abbiamo definito operativo, ovvero la negoziazione finalizzata a salvare vite umane (è il caso della negoziazione con i sequestratori in presenza di ostaggi, ma non solo) ed il loro inserimento sistematico nei programmi di addestramento delle forze di polizia, risale alla metà degli anni ’70 negli Stati Uniti e più tardi nei Paesi Europei.
Alcuni studiosi fanno risalire l’inizio delle ricerche sulla diversa possibilità di gestire le situazioni di crisi in presenza di ostaggi ad un episodio verificatosi a Monaco nel marzo del 1972, quando alcuni terroristi palestinesi presero in ostaggio undici atleti israeliani che stavano partecipando alle manifestazioni olimpioniche.
In quella occasione le richieste avanzate dai terroristi furono respinte e la polizia di Monaco decise per l’intervento armato.
A seguito dello scontro a fuoco così sviluppatosi e durato circa un’ora e mezza, morirono ventidue persone, tra le quali tutti gli ostaggi.
L’episodio, già di per sé violento e tragico, ebbe una cassa di risonanza ancora maggiore in virtù del contesto nel quale venne a svilupparsi ed indusse diversi Paesi a riconsiderare il ruolo delle forze di polizia nella gestione di questo tipo di crisi(2) nonché ipotesi diverse dall’intervento armato.
Sin dal gennaio del 1973 furono elaborati negli Stati Uniti programmi per il recupero degli ostaggi attraverso l’uso di team specializzati e, per la prima volta, si cominciarono a dotare questi gruppi specializzati non solo di armi idonee al particolare impiego, ma anche di un membro della polizia addestrato alla negoziazione con i sequestratori.
Schlossberg, psicologo della polizia, per primo curò i programmi di addestramento di questi gruppi che riscossero particolare interesse anche da parte del Federal Bureau of Investigation (FBI) che, a sua volta, sviluppò il SOARU (Special Operations and Research Unit), una nuova unità altamente specializzata il cui compito era quello di formare i negoziatori.
In pochi anni questa nuova figura fu inserita in un numero sempre maggiore di reparti della polizia degli Stati Uniti e successivamente anche nel nord Europa ed in altri Paesi del mondo. Più problematico appare invece trovare una giusta allocazione alla figura del negoziatore sia nelle forze di polizia sia nelle forze armate italiane e questo per due ordini di motivi: da un lato una casistica molto ridotta induce, in un’analisi dei rapporti costi-benefici, a non destinare personale e strutture in pianta stabile all’assolvimento di questo compito, d’altra parte, la grande difficoltà che incontra questo tipo di approccio ai problemi consiste nella convinzione, tuttora prevalente nella nostra cultura, che la negoziazione in quanto dote innata, non può da sé costituire materia di studio ed insegnamento; la negoziazione sembra ancora appartenere troppo al novero delle attività quotidiane perché possa rappresentare uno strumento scientifico di studio.
è bene rammentare che viviamo in una società dominata da sottili equilibri politici che non consentono confronti aperti tra parti opposte tant’è che è andato largamente sviluppandosi negli ultimi anni il concetto di “minaccia asimmetrica” (la minaccia proveniente da gruppi non riconducibili alle forze armate di un Paese); ciò comporta il manifestarsi di tutta una serie di dimostrazioni di forza, sovente in Paesi terzi, che si riducono ad atti di terrorismo. 


3. Il caso di emergenza e lo stato di crisi
Sebbene eminenti studiosi abbiano fornito nel corso degli anni varie classificazioni su base statistica delle diverse tipologie di sequestratori, sembra più utile, ai fini dell’esame della cosiddetta “negoziazione operativa”, fare riferimento ad una classificazione delle diverse tipologie di sequestro. Possiamo quindi riferirci a: sequestro a scopo di estorsione (tipologia che, sebbene più frequente nel nostro Paese, non si presta ad una negoziazione delle condizioni perché il sequestratore, per ovvi motivi, rifugge il contatto con gli organi ufficiali); sequestro ad opera di individui con disturbi mentali (che, per la specificità delle caratteristiche psichiche dell’autore del reato, non può essere utilmente trattato in questa sede); sequestro a causa di conflitto bellico (assimilabile per ciò che verrà detto a quello in stato di crisi) ed infine, il sequestro in caso di emergenza ed il sequestro in stato di crisi.
Nel “caso di emergenza” il sequestro di persona è solo occasionale, in quanto l’azione delinquenziale nasce con finalità diverse e nel nostro Paese, soprattutto da quando sono diminuiti i sequestri a scopo di estorsione, è sicuramente quello che si manifesta con maggiore frequenza. Ci troviamo nella circostanza in cui i rapinatori non possono uscire dal luogo in cui stanno commettendo la rapina per il tempestivo intervento delle forze dell’ordine e si trovano quindi, da rapinatori a trasformarsi in sequestratori. In questi casi, il delinquente non ha come obiettivo primario dell’azione il prendere l’ostaggio ed anzi, questo può talvolta rappresentare un impaccio.
Nello “stato di crisi”, invece, è delineata una situazione sociale ben diversa, agitata da forti tensioni politico-religioso-economiche, con stati di tensione dell’ordine pubblico, magari imponenti manifestazioni di piazza. In occasioni di questo genere, tipiche della nostra società degli anni ’70, ma per altri versi molto vicine ad alcune fenomenologie dei giorni nostri, è possibile che frange di dissidenti compiano azioni eclatanti finalizzate alla destabilizzazione, che comprendono il sequestro di persona con molteplici scopi: ottenere la liberazione di compagni di lotta, fare rivendicazioni politiche, ottenere pubblicità per il movimento cui appartengono e così via. Palermo e Mastronardi (2005) danno precise definizioni del termine terrorismo scegliendone tre più importanti fra le altre:
-  atti criminali diretti contro lo Stato con la calcolata intenzione di creare uno stato di panico e di terrore che avvengono fra particolari persone o gruppi o la popolazione in generale;
-  un metodo che si prefigge di creare stati di terrore per mezzo della violenza, usata da gruppi semi-clandestini o agenti segreti di particolari Stati e con particolari fini politici o semplicemente criminali. L’atto criminale non è diretto verso singole persone come negli assassini politici, ma ha come bersaglio vittime prese a caso, vittime di opportunità, o a volte vittime simboliche, con il precipuo intento di inviare un messaggio;
-  uno stato di guerra, la drammatizzazione del peggior tipo di violenza, inaspettata, verso vittime innocenti, con l’intenzione di creare uno stato di paura che si estenda al di là delle vittime coinvolte(3).
La storia ci ha insegnato che i fenomeni di massa frequentemente subiscono la strumentalizzazione di lobby di potere che rimangono per lo più occulte e che perseguono, attraverso il movimento popolare o di gruppi, fini che non sempre corrispondono a quelli della massa. Ecco quindi che si fondono, in un unico movimento, interessi contrastanti: ideologie da una parte ed interessi politico-economici dall’altra. Proprio a questo riguardo il celebre studioso Edward Luttwak ha formulato il concetto secondo cui la fortuna delle istituzioni - ed il motivo per il quale poi esse riescono a far sempre fronte alla minaccia terroristica - consiste proprio nello sfaldamento che viene a crearsi all’interno dei movimenti tra le frange che fungono da collegamento tra le lobby occulte ed il resto del gruppo oltre anche, chiaramente, alla contemporanea fine dei finanziamenti.


4. I differenti aspetti psicologici
Sono evidenti le differenze psicologiche, motivazionali, situazionali ed ambientali di base fra le due tipologie: nel sequestro in caso di emergenza il rapinatore non è pronto emotivamente e fisicamente ad affrontare il ruolo del sequestratore, anzi si trova a gestire una situazione che gli è sfuggita dalle mani, in un ambiente ostile nel quale deve contrattare la propria libertà; nello stato di crisi la situazione è ben diversa, il sequestratore gioca un ruolo per il quale si è preparato e non da solo, sa di avere alle spalle un’organizzazione che gli dà la forza del senso di appartenenza e che lo appoggia nell’azione che ha intrapreso. Qui il sequestratore, o il gruppo che ha alle spalle, ha scelto il luogo, il momento e probabilmente anche l’ostaggio e principalmente, a differenza di quanto accade nel caso di emergenza, non ha necessità di negoziare per se stesso, realizzando una delle regole fondamentali del negoziato: chi ha il potere decisionale non può negoziare. In questo quindi si pone alla pari del negoziatore delle forze dell’ordine, diventando egli stesso un negoziatore.
In questo secondo caso, diventa particolarmente importante il profiling, che costituisce il procedimento di costruzione di quell’insieme di correlati valutativi specifici desunti dall’osservazione della scena del crimine, relativi all’ipotetico soggetto che potrebbe aver commesso un delitto. Il “profilo” quindi costituirebbe il risultato del lavoro di profiling(4). L’attenta valutazione della scena del crimine (che, nel nostro caso, potrà fornirci conferme di quanto andiamo desumendo attraverso il contatto con il sequestratore) consentirà di stabilire se quanto sta accadendo si riferisce all’una o all’altra fattispecie di sequestro e, conseguentemente che tipo di persone il negoziatore si trova ad affrontare nonché quali siano i reali interessi che intendono perseguire.
Marco Strano e Luca Calzolari (2004) in proposito hanno sottolineato una possibilità che ci trova pienamente concordi e che riguarda l’inserimento dello psicologo delle forze di polizia all’interno delle strutture investigative o di pronto impiego sia per la realizzazione di percorsi di training mirati, sia per l’eventuale pronto impiego sul campo(5). Anche se storicamente tale collaborazione risulta complessa ed infarcita di pregiudizi (Rogers 1989)(6). Si ritiene pertanto che nell’attuale stato delle cose, per questo secondo caso, possano valere le linee che si andranno a descrivere nelle due ipotesi in studio, con particolare attenzione ai risvolti che derivano dal quadro psicologico del sequestratore.
Da quanto è stato detto sinora appare chiaro che, nei casi che stiamo trattando, la sola presenza degli ostaggi rappresenta per l’attento negoziatore il segnale della volontà di trattare. Da qui deriva un corollario sul controllo tipico dell’FBI: le situazioni in cui sono presenti ostaggi, in quanto rappresentano un’apertura, danno la possibilità alle autorità di esercitare forme di controllo che diventano scarse o assenti in mancanza di ostaggi.
Uno dei principali ostacoli da evitare nell’affrontare qualsiasi tipo di accordo è la trattativa da posizioni. Quando si assume una posizione, si ha la tendenza ad identificarsi con essa e quindi ad arroccarsi a difesa percependo anche le più piccole concessioni come una forma di sconfitta personale, poiché l’“io” finisce con l’identificarsi con la posizione assunta e, anche inconsapevolmente, per tralasciare la soluzione della problematica per difendere il proprio orgoglio che percepisce direttamente attaccato, rendendo sempre più problematico accogliere la possibilità di conciliare l’azione futura con la posizione precedente. Solitamente, quindi, più rigide sono le posizioni originarie di partenza, più piccole sono le concessioni che le parti sono disposte reciprocamente a fare e più difficile diventa la definizione dell’accordo.
La trattativa da posizione diventa uno scontro di volontà nel corso del quale il sentimento di rabbia può emergere con frequenza da parte di colui che sente di perdere terreno nei confronti della parte avversa e le problematiche aumentano in maniera esponenziale con l’aumentare delle parti che svolgono la trattativa di posizione, perché diventa più difficile sviluppare una posizione comune.

5. I presupposti del negoziato di principi
I principi del negoziato sul merito si basano su alcuni presupposti fondamentali:
-  persone, sempre scindere le persone dal problema. Nel quotidiano le persone sono portate a trattare gli individui ed il problema nella stessa maniera, per cui è possibile che un’idea, maturata su di una determinata situazione, possa condurre ciascuno a trasferire quella idea sulla persona che ad essa associamo, perché l’io tende sempre ad essere coinvolto in situazioni oggettive. Inoltre la tendenza generalizzata a trarre deduzioni infondate da considerazioni sul fatto materiale, conduce a trattare le stesse come dati di fatto circa le intenzioni e l’atteggiamento che altre persone esprimono nei nostri confronti. Per quanto attiene alla percezione, prima di concentrarsi sul problema è fondamentale capire come la controparte pensa al problema, perciò spetta al buon negoziatore vedere il problema così come lo vede la sua controparte. Call (1996) scrive infatti: “È cruciale per il negoziatore capire il problema cui fa riferimento il sequestratore e come egli lo percepisca”(7). Schlossberg (1980) arrivò a dire che il negoziatore dovrebbe “identificarsi con la persona con cui comunica”;
-  interessi, concentrarsi sempre sugli interessi reali in causa e non sulle posizioni assunte. Accade ed anche con discreta frequenza che, siccome il risultato da conseguire è una posizione, le parti finiscano per pensare a se stesse in termini di quella posizione, dimenticando in realtà di affrontare il problema che impedisce loro di arrivare alla posizione stabilita che, peraltro, potrebbe essere anche la posizione del loro interlocutore. Distinguere fra posizioni ed interessi è cruciale: infatti il problema principale sta negli interessi, nei bisogni, nelle aspirazioni di ciascuna delle parti, non nelle posizioni contrapposte. A questo proposito alcuni autori sostengono ragionevolmente che: “conciliare gli interessi piuttosto che mediare fra le posizioni, funziona anche perché dietro le opposte posizioni ci sono di solito molti più interessi di quelli in conflitto. Per ogni interesse esistono di solito più posizioni in grado di soddisfarlo”(8). Il problema serio, secondo questi autori, nasce dal fatto che solitamente la posizione è palese, mentre gli interessi non lo sono;
-  opzioni, prospettare una gamma di opzioni quanto più vasta è possibile facilita il raggiungimento di un accordo ed in genere, il più forte in un accordo è colui che si presenta al tavolo del negoziato con una gamma di opzioni maggiore;
- criteri, i risultati ottenuti, per poter essere duraturi, devono fondarsi su criteri quanto più possibile oggettivi(9). Cercare di affrontare la realtà di interessi in conflitto erigendo la propria volontà contro quella dell’interlocutore, comporta che una delle due volontà dovrà essere soccombente rispetto all’altra. Allora conviene impostare il negoziato in base a criteri indipendenti dalla volontà di ciascuna delle parti, cioè su criteri oggettivi.
Da quanto è stato sinora detto emerge con chiarezza il concetto di potere negoziale: capacità di presentarsi ad una trattativa con il maggior numero possibile di alternative. Infatti, solo il negoziatore sprovveduto penserebbe alle alternative solo in caso di fallimento dell’accordo che si era prefisso.
Sebbene appaia un paradosso, il negoziatore più forte è quello che ha la possibilità di rinunciare all’accordo(10). Da cui discende che l’alternativa estrema in un negoziato è data dalla possibilità di non negoziare.


6. Gli interessi e il ruolo della comunicazione
Si è parlato sin qui in maniera generica di trattative o di accordi, ma in realtà esistono terminologie ben distinte fra loro che fanno capo a diversi modi di trattare una problematica per il raggiungimento di uno scopo:
-  negoziazione, trattativa fra due parti direttamente interessate all’accordo;
-  mediazione, trattativa fra due o più parti che, di comune accordo fra loro, decidono di rivolgersi ad una parte estranea alla contesa e con caratteristiche ben definite, che le aiuti a far emergere gli interessi confluenti;
-  conciliazione, trattativa che si svolge fra due o più parti che, di comune accordo, si rivolgano ad una parte terza in grado di prospettare una possibile soluzione.
Abbiamo visto che, si tratti di negoziazione, mediazione o conciliazione, il lavoro di colui che porta avanti le trattative deve sempre essere rivolto alla soluzione del problema. Inoltre è ormai assodato che le persone negoziano in quanto hanno degli interessi, quali obiettivi da difendere o da conseguire allora il negoziatore deve sapere che esistono tre tipi di interessi dei quali tenere conto in maniera diversa:
-  interessi contrastanti, sono quelli che trovano le parti in completo disaccordo e che le spingono, solitamente, ad optare per l’intervento di un conciliatore;
-  interessi compatibili, sono quelli che il buon conciliatore o mediatore deve saper far emergere smussando o superando le problematiche che derivano dagli interessi contrastanti;
-  interessi confluenti, sono quelli che realizzano un punto di incontro per entrambe le parti e quindi non necessitano di un intervento esterno(11).
è ormai un dato, riconosciuto come oggettivamente valido, la circostanza per cui la relazione delle parti in gioco nel corso di un sequestro di persona segue regole non casuali (Diez, 2001) ma evidenzia sempre una successione circolare che è costruita dall’interazione delle persone che negoziano e dalle reciproche influenze. Il negoziatore addestrato può incidere pesantemente su tali dinamiche e quindi sull’esito dell’evento(12).
Secondo alcuni autori (Zani-Selleri-David), l’interesse degli studiosi in materia di comunicazione, si è incentrato maggiormente sull’analisi dei requisiti necessari per una comunicazione “riuscita”, efficace, appropriata e soddisfacente.
Scarsa attenzione è stata riservata al fatto che gli interlocutori spesso sono scettici, magari per necessità, a volte non sono veritieri, spesso possono cercare di dissimulare le loro reali intenzioni(13).
L’asserto è tanto più vero quando si pensi che il negoziatore non è un “buonista”, perché il suo obiettivo è quello di concludere la trattativa portando a casa il risultato che si era prefisso e lo fa, nella migliore delle ipotesi, in maniera onesta e corretta nei confronti della controparte, ma negozia per vincere.
Se la controparte si sente sottoposta ad attacco, più facilmente si chiude a difesa contestando tutte le argomentazioni che le sono rappresentate senza neppure valutarle sino in fondo; in tal caso occorre porsi nei confronti dell’interlocutore consapevoli che comprendere il punto di vista dell’altro non significa condividerlo e, soprattutto, è fondamentale agire sempre in maniera diversa da come la controparte si aspetta. Ciò serve a coinvolgerla sino in fondo nel processo decisionale, momento fondamentale perché possa poi approvare senza riserve il risultato della trattativa.
Questo passaggio risulta particolarmente delicato, ma importante, nel momento in cui ci si renda conto, in qualsiasi momento della trattativa o nella fase conclusiva della stessa, che questa ha o avrà esiti sfavorevoli per la controparte. In questo caso il coinvolgimento nel processo decisionale, che consente l’analisi di ciascun passaggio, può aiutare, se non addirittura indurre la controparte alla stessa decisione cui il negoziatore era già arrivato.
In negoziati di una certa rilevanza, non è escluso che la parte rifiuti la firma sulle condizioni finali del trattato solo perché si è sentita esclusa dal processo di elaborazione che ha condotto al risultato.
Qualora nel corso della trattativa fosse necessario indurre la controparte a rinunciare o rivedere le proprie aspettative nei confronti di un interesse, sarà opportuno preoccuparsi di come fare a “salvargli la faccia”.
Salvare la faccia ha in realtà lo scopo di rendere conciliabile per una persona l’esito del negoziato o le decisioni che vanno via via prendendosi, con l’atteggiamento precedentemente espresso sullo stesso argomento. Aiutare l’interlocutore in tale circostanza lo renderà molto più disponibile ad accettare la decisione finale, soprattutto se questa è particolarmente distante dall’obiettivo che lui stesso si era prefissato all’inizio della trattativa. Sebbene certe affermazioni appaiano scontate, frutto di logica, è molto più frequente che le persone arrivino alla trattativa pronte allo scontro piuttosto che a lavorare insieme al problema comune.
Sino a questo punto il ruolo giocato dalla comunicazione appare principale, poiché senza comunicazione non può esservi negoziato (e qui si ritorni su quanto è stato detto in apertura a proposito del sequestro di persona a scopo di estorsione). Tutto il negoziato è una comunicazione fra due parti che hanno la volontà di giungere ad un risultato comune; il problema sorge quando, come è stato poc’anzi accennato, il negoziatore è più preparato a sostenere lo scontro con il suo interlocutore, cercando una vittoria schiacciante ed immediata, sebbene parziale e che spesso non produce risultati duraturi, piuttosto che una vittoria che appaghi entrambe le parti e sia completa e duratura. Di conseguenza, il primo passo di una comunicazione efficace consiste nell’essere certi di star parlando “con” una persona e non “contro” di lei.
Altrettanto importante diventa il problema dell’ascolto dell’interlocutore. Esistono infine, le problematiche connesse con l’eccesso di comunicazione che derivano frequentemente dal fatto di non aver ben chiaro cosa si voglia comunicare o lo scopo cui deve servire l’informazione che si sta fornendo, lasciando in questo modo l’altro libero di farne l’uso che ritiene più opportuno. Giocando diversamente la carta comunicativa, non solo possiamo limitare il campo d’azione dell’interlocutore, ma possiamo anche indirizzarlo al risultato che ci si propone di ottenere.
Per individuare e superare le difficoltà nella comunicazione, può essere utile riportare le modalità indicate da Adler e Towne (1990):
-  distinguere i fatti dalle interferenze: può essere opportuno, in certe situazioni, separare il comportamento osservabile (i fatti), dalle interpretazioni che ne abbiamo tratto (interferenze);
-  usare con parsimonia gli eufemismi: gli eufemismi sono parole che sono utilizzate per mitigare l’impatto di informazioni che potrebbero risultare spiacevoli;
-  usare il linguaggio emotivo con moderazione: i termini a forte connotazione emotiva, non solo difficilmente hanno la possibilità di uguale accuratezza, ma rischiano anche di essere accolti poco volentieri dalla controparte;
-  evitare il linguaggio equivoco: evitare cioè parole che possono avere più significati oltre quello comunemente accettato;
-  diffidare delle valutazioni statiche: quelle che definiscono gli altri con caratteristiche immutabili, cercando invece di specificare sempre il contesto nel quale gli eventi si sono verificati(14).

7. Il significato della persuasione
Tutti questi accorgimenti finiscono per giocare un ruolo fondamentale nella capacità di persuasione del negoziatore poiché è bene non dimenticare che se in una trattativa comune il margine d’errore può avere risvolti professionali, economici o addirittura politici, nel negoziato in presenza d’ostaggi il margine d’errore deve essere nullo o minimo, perché sono in gioco le vite degli ostaggi. In presenza di questi non può esistere un buon negoziato, ma solo un negoziato vincente ed è per questo che entra in gioco la persuasione: una sorta di arte che solo in parte può essere improvvisata, ove esiste una logica, che mai può coincidere con l’uso della logica pura. Per persuadere si devono attivare l’immaginazione ed il raziocinio, si devono spesso muovere anche i sentimenti, persino le passioni (…) ma sempre in modo delicato, senza oltrepassare una soglia che è difficile delineare in astratto. Forse nessun mezzo è troppo lieve per essere usato nella persuasione (…). Persuadere significa indurre un cambiamento nella volontà altrui, ma solo, si badi bene, attraverso un trasferimento di credenze, di opinioni”(15).
Il significato più intrinseco del termine persuasione sembra sia colto ed espresso in maniera perfetta ed inequivocabile da Palmarini, il quale continua asserendo che si ottiene il massimo della presa quando si adottano le linee di ragionamento che sono più prossime all’interlocutore facendo appello alle motivazioni che maggiormente gli stanno a cuore.
La capacità argomentativa del negoziatore può allora essere decisiva per far affiorare alla coscienza dell’altra parte ciò che sino a quel momento era stato sommerso. Oppure, “l’interlocutore, sebbene cosciente, non ha avuto l’occasione (o non è stato capace) di trarre tutte le conseguenze. L’intervento (del negoziatore) può essere decisivo per facilitare questo passaggio e per prospettargli, fra tutte le possibili conseguenze, quelle che maggiormente gli premono”(16). Infine, è lo stesso autore che afferma che è importante non dimenticare che esistono dei momenti privilegiati o addirittura irripetibili per esercitare un’azione di persuasione.
Il negoziatore deve essere affidabile e rendersi partecipe dei problemi dell’altra parte mostrando di averli realmente compresi, e ove sia possibile, deve essere in grado di prospettare soluzioni alternative che sfuggono all’interlocutore, ma soprattutto stabilire le verità e manipolare le modalità di comunicazione. Deve essere estremamente tenace e razionale, comunicativo e creativo per creare il senso di comune appartenenza e poter toccare le leve della volontà altrui. Il negoziatore deve poter essere sempre “controllato” per rispondere all’irrazionalità altrui con la propria razionalità ed in tal modo evitare lo scontro con chi è più vulnerabile ed incontrollabile e, da una posizione di identificazione, il negoziatore deve diventare un costruttore di verità(17).

8. Il teatro operativo
Osserviamo adesso le caratteristiche dell’area nella quale il negoziato operativo si svolge.
Con “teatro operativo” si fa riferimento a quell’area urbana posta intorno all’obiettivo (zona posta al centro del teatro operativo nella quale sono rinchiusi i sequestratori e gli ostaggi) che dovrà assumere alcune caratteristiche affinché al suo interno possa svolgersi il negoziato.
Ho distinto due diverse ipotesi(18) secondo le due situazioni in esame: il caso di emergenza non richiede particolari accorgimenti tecnici, dovendosi solo fare attenzione che i sequestratori non possano trovare vie di fuga laddove c’è una falla nel dispositivo di sicurezza e, contemporaneamente, che nessuno possa avvicinarsi al luogo in cui sono in corso le trattative.
Ciò trova la sua ragione d’essere perché in questa ipotesi, il malvivente non è uno specialista nei sequestri e capita spesso che non lo sia nemmeno di rapine. Questo elemento ha una ricaduta a cascata su diverse altre conseguenze: innanzitutto la scelta e la conoscenza dei luoghi.
Se, infatti, l’azione criminosa predisposta è la rapina, risulta quantomeno plausibile che la scelta dell’obiettivo sia stata effettuata sulla base innanzitutto della disponibilità di denaro, poi sulla base delle difficoltà rappresentate dal sistema di sicurezza (eventuale vigilanza armata, sistemi di videoripresa e così via), in base alla distanza intercorrente dal più vicino comando delle forze di polizia, in base alla facilità delle vie di fuga e del rapporto numerico tra i rapinatori e le dimensioni del posto in cui commettere il fatto. Inoltre, il rapinatore che si trasforma suo malgrado in sequestratore non ha all’esterno una rete di fiancheggiatori o sostenitori che ne allevi, almeno in parte il peso psicologico dell’azione e, in definitiva, come abbiamo visto, finisce per trovarsi nella posizione, pessima per qualsiasi persona affronti un negoziato, di dover trattare per se stesso.
Dal punto di vista psicologico, per quanto il coinvolgimento emotivo giochi un ruolo rilevante sull’andamento e quindi sul risultato del negoziato, trattare per qualcosa che non ci tocca direttamente consente una maggiore capacità di azione collegata ad una maggiore, anche se intrinseca, consapevolezza che le conseguenze non ricadranno direttamente su di noi.
Per quanto possa sembrare difficile da accettare, mentre il rapinatore negozia per la sua vita e quella dei suoi complici, con ripercussioni nell’immediato sulla propria vita, il negoziatore tratta affinché il reato in corso non produca ulteriori conseguenze (questo particolare modo di esprimersi evita volutamente di menzionare gli ostaggi e quindi consente una volta di più la spersonalizzazione dall’azione. Esattamente il contrario, come vedremo in seguito, di quanto si fa con il sequestratore, per cercare sempre di ricordargli che gli ostaggi sono persone, magari anziani, o donne, magari mamme con bambini e così via, senza mai consentire che sia perso il contatto con l’elemento umano tenuto in ostaggio).
In questo tipo di sequestro, inoltre, il sequestratore non è preparato a trattare, cerca solo una via rapida per uscire dalla situazione, il coinvolgimento emotivo è all’estremo, diventa più semplice lasciarsi andare al panico piuttosto che rimanere freddi o ad affrontare la realtà che lo aspetta all’esterno dei locali nel quale, per fatalità, è rimasto chiuso. Inoltre, è perfettamente consapevole che esiste una grande differenza tra l’essere incriminato per rapina piuttosto che essere incriminato per sequestro di persona o, peggio, per omicidio.
Tutti gli elementi che costituiscono questo tipo di negoziato, si riflettono in maniera positiva sull’organizzazione del dispositivo all’esterno dell’obiettivo e, conseguentemente, sul numero di persone che dovrà essere impiegato nell’area delle operazioni.
Di diversa portata si presentano le problematiche connesse con la seconda fattispecie che stiamo esaminando. Nel sequestro in stato di crisi, infatti, dal punto di vista logistico, è più che plausibile attendersi che il sequestratore, o meglio i suoi mandanti, abbiano accuratamente scelto il luogo nel quale effettuare il sequestro, è possibile anzi che proprio questo abbia un’importanza determinante ai fini degli scopi che l’azione criminosa si propone. è altresì possibile che sia stato compiuto uno studio sulle vittime del sequestro, potendo rappresentare queste l’obiettivo principale dell’azione. Per questi motivi, anche in assenza di una rivendicazione, o prima che questa sia effettuata, chi conduce le trattative deve riuscire ad ottenere più rapidamente possibile il maggior numero di informazioni sul conto delle persone con le quali si accinge a trattare.
è logico, in questo secondo caso, aspettarsi che possano verificarsi maggiori ingerenze dall’esterno o che possano verificarsi fatti di una tale gravità (quali l’esplosione di un ordigno o uno scontro a fuoco), per cui la cinturazione della zona deve essere ancora più rigida e sicuramente più estesa.
In un precedente studio sull’argomento(19) ho ipotizzato tre figure di riferimento per tutti i tipi di sequestro di persona, e due tipi di teatro operativo, a seconda che ci si trovi nel caso di emergenza o nello stato di crisi.
Le figure di riferimento sono quelle del negoziatore, del comandante operativo e del responsabile dell’area. Della prima di queste figure è stato detto all’inizio e si dirà in seguito tracciandone un profilo psicologico di massima, mentre il secondo personaggio fa riferimento alla figura del comandante della squadra di intervento operativa (GIS per l’Arma dei Carabinieri) pronta ad intervenire nel caso di richiesta del negoziatore o qualora il responsabile dell’area decidesse che non è più producente proseguire nelle trattative. Infine, l’ultima figura, ma di sicuro non di secondo rilievo rispetto alle altre e certamente totalmente sconosciuta nel nostro Paese nel panorama delle ipotesi di intervento per sequestro di persona, è quella del responsabile dell’area, che deve identificarsi con una persona posta gerarchicamente al disopra delle prime due, responsabile della durata del negoziato e di tutta l’area del dispositivo (area di cinturazione più quella in cui si trova l’obiettivo) nonché dell’eventuale decisione sull’intervento della squadra di intervento rapido. Inoltre il responsabile dell’area è il solo competente a parlare con le autorità di Pubblica Sicurezza.
Per quanto concerne la cinturazione dell’area nella quale il negoziato si svolge, sono previsti, almeno nei Paesi anglosassoni dove l’incidenza del fenomeno ha suggerito la costituzione di procedure ferree, tre anelli di sicurezza: il primo, più esterno, nel quale è deviato o interdetto il traffico pedonale e quello delle autovetture; un secondo, intermedio, nel quale viene realizzato lo sgombero completo ed usato per i movimenti delle sole forze di polizia, per lo stazionamento dei mezzi di soccorso e, al massimo, per i rappresentanti dei media. Il terzo, quello più interno, solo per le persone direttamente interessate al negoziato in corso.
Nello studio cui accennavo in precedenza, era stato semplicemente alleggerito il dispositivo dell’area nel caso di emergenza, in considerazione della costante attenzione che il nostro Paese pone al rapporto costi-benefici, a due anelli, ovviamente i due più interni.


9. I protagonisti della negoziazione

Da quanto abbiamo detto in precedenza, è emerso che alcune persone non possono svolgere il negoziato e ciò a causa delle professioni che esercitano o del personale coinvolgimento in quanto sta accadendo. Questo argomento, si badi bene, è uno di quelli in cui maggiormente si avverte un diverso approccio alla materia da parte degli specialisti americani dovuto a concezioni culturali differenti.
Non possono svolgere una negoziazione, sicuramente tutti coloro che hanno il potere decisionale poiché potrebbero trovarsi nella pessima posizione assimilabile a quella di coloro che trattano per se stessi. In sostanza è molto più difficile argomentare un diniego ed è più difficile trattare direttamente quando si ha il potere decisionale.
Inoltre, non possono svolgere il ruolo del negoziatore tutti coloro che, per qualsiasi ragione o in qualunque modo, sono coinvolti nei fatti che si stanno verificando. Di conseguenza non possono fungere da negoziatori tutti coloro che hanno qualche legame con qualcuna delle vittime o con il sequestratore. Secondo l’F.B.I., e qui si osserva un momento di possibile minore aderenza con quanto accade nel nostro Paese, non possono fungere da negoziatori coloro che svolgono mestieri o professioni che possano influire negativamente sullo stato psicologico del sequestratore; non possono essere negoziatori, quindi, i sacerdoti, gli avvocati ed i giudici, gli psicologi ed i medici in generale.
Lo stato di tensione cui sono sottoposti tutti gli attori della trattativa in presenza di ostaggi, può rivelarsi anche sul negoziatore che, nel breve periodo, potrebbe cominciare a presentare sintomi di identificazione con il sequestratore o addirittura con l’ostaggio, ai quali possono seguire la paura del fallimento con la conseguente perdita dell’obiettività. Il timore delle critiche potrebbe aumentare lo stato d’ansia in una sorta di circolo vizioso che conduce all’isolamento ed all’esaurimento.
La cattiva percezione dello stress, con eccessi di euforia e, viceversa, stati di profonda depressione. Nel lungo periodo, a questi problemi, potrebbero aggiungersi quelli derivanti dallo scavalcamento della propria autorità, assunzione delle responsabilità del comando ed il senso di colpa.
Prima di affrontare le problematiche connesse con il team del negoziatore, è bene in questa sede affrontare la cosiddetta sindrome di burn out, una sorta di logoramento professionale e psicologico che tocca tutti coloro che operano in condizioni di particolare stress emotivo. La sindrome di burn out definisce quel processo in base al quale lo stress si converte in meccanismo di difesa e di risposta alla tensione che conducono a comportamenti di distacco emozionale dalla scena ed evitamento(20).
Un aspetto analogo al burn out per il gruppo riguarda, come abbiamo visto, solo il negoziatore per il suo continuo interagire con persone che hanno subito un trauma, con possibile sviluppo del disturbo post traumatico da stress e che i già richiamati studiosi (Strano-Calzolari) definiscono “traumatizzazione vicaria” (impatto psicologico che può avere il vissuto traumatico dell’ostaggio e del sequestratore sul negoziatore), i cui sintomi sul breve e lungo periodo abbiamo già precedentemente citato. Infine, tra i disturbi che il negoziatore potrebbe avvertire a causa del permanere la condizione di stress cui è sottoposto, non si può omettere la “compassion fatigue” (Figley, 1982). è una fenomenologia che si genera come meccanismo difensivo verso le difficoltà e lo stress a causa del sentimento di partecipazione profonda nei confronti di qualcuno che sta soffrendo.
Figley ha evidenziato due fattori che possono aumentare le possibilità dell’ingenerarsi della compassion fatigue: la prolungata esposizione a fattori traumatici e la memoria di situazioni passate irrisolte e non elaborate dall’operatore. Secondo lo stesso autore due fattori giocano un ruolo determinante sulla possibilità di evitare l’incedere di questa sindrome: la capacità di separazione emotiva dall’angoscia dell’evento e la soddisfazione per il lavoro che si sta svolgendo(21).
Per molto tempo si è discusso sull’opportunità che la trattativa in presenza di ostaggi fosse svolta da due negoziatori piuttosto che uno solo. è ovvio, per tutta una serie di circostanze che abbiamo già avuto modo di illustrare, che in questa sede il discorso è puramente dottrinale atteso che nel nostro Paese non sono ancora previste procedure standardizzate.
Il punto di riferimento, ancora una volta è rappresentato dai Paesi anglosassoni dove la problematica, oltre che avvertita, è anche affrontata in altra maniera. Quando può, l’FBI utilizza sempre team composti di sette persone: due negoziatori, il leader del team, un tecnico delle comunicazioni, un coordinatore, un tattico ed un esperto nelle scienze del comportamento. A nostro avviso non è comunque possibile scegliere un sistema a negoziatore singolo o doppio, affidandosi esclusivamente ad un esame dei rapporti costi-benefici e quindi sulla frequenza con la quale si verificano certi tipi di reato. La decisione di preparare i negoziatori indica la precisa volontà politico-sociale di affrontare le situazioni di crisi in presenza di ostaggi, ove possibile, in maniera non violenta ed appare quantomeno poco produttivo approntare un dispositivo di scarsa utilizzabilità.
Come abbiamo visto e come appare logico, ogni sequestro di persona ha una storia a se stante e conseguentemente i tempi di soluzione della crisi risulteranno variabili secondo fattori impossibili da prevedere a priori. In una simile prospettiva non è possibile escludere anche che la trattativa si protragga per più giorni in tal caso sarà opportuno prevedere che il negoziatore possa avere tempi di recupero e riposo senza, tuttavia, allentare la pressione sul sequestratore interrompendo la comunicazione. Ma a prescindere da quella che apparirà una regola fondata sul buon senso, affinché il negoziatore possa svolgere adeguatamente il proprio lavoro, gli sarà necessario un gruppo di supporto che potrà provvedere a tutte le necessità che si presenteranno nel corso del negoziato che chiameremo team del negoziatore. Di questo gruppo esclusivamente e squisitamente tecnico dovrebbero far parte: uno psicologo (il profiler cui si è accennato in precedenza), sebbene da altri autori più specificamente definito specialista nella scienza del comportamento - Strano, Calzolari, 2005, in grado di analizzare sul campo gli elementi che emergono nel corso dell’interazione con il sequestratore, fornendo al collega un quadro in tempo reale degli aspetti salienti del profilo psicologico dell’interlocutore(22).
Nelle squadre più piccole, sostengono i due autori citati con i quali concordiamo appieno, quest’ ultima figura potrebbe essere sostituita da un soggetto che assiste nella formulazione delle strategie e coordina le varie fasi della trattativa. Dovrebbe rappresentare il più stretto collaboratore del negoziatore, in grado di indicargli i percorsi alternativi per agire sulle leve della persuasione del sequestratore.
La seconda persona necessaria al team del negoziatore è il tecnico informatico, in grado di fornire tutti gli elementi connessi al caso rilevabili dalla banca dati delle forze di polizia e tutti quegli elementi rilevabili tramite quella fonte che si dovessero rendere necessari nel corso della trattativa. Riteniamo che sia fondamentale, se non inserire, quantomeno prevedere costanti contatti ed esercitazioni fra il team del negoziatore e la squadra di intervento operativo, per consentire la creazione di uno spirito di coesione che ne agevoli il compito sul campo.
Il materiale raccolto durante la negoziazione costituisce un nucleo informativo importantissimo su variabili come le reazioni emotive, il potenziale suicidiario ed il contatto con la realtà.
Grazie al substrato informativo è possibile sviluppare le cinque tappe di cui sarebbe composto un negoziato con sequestratori di persona (Donohue, 1991):
1.  riunione dell’intelligence;
2.  sviluppo della relazione;
3.  sviluppo e chiarificazione del problema;
4.  strategie di intervento;
5.  risoluzione.
è ovvio, proprio per non interrompere la comunicazione, che il primo contatto fra il negoziatore ed il sequestratore avviene solo dopo che sia isolata l’area dell’intervento com’è stato più su specificato.
Come si vede, la gestione di eventi in presenza di ostaggi richiede uno spiegamento di forze ingente e con un’alta concentrazione di specialisti i cui compiti risultano fra loro complementari e questa è una garanzia per il team del negoziatore che così agisce sentendosi deresponsabilizzata, forte di essere parte di un contesto operativo pronto ad aprirsi ad altre alternative di cui loro rappresentano solo una delle possibilità.


10. La sindrome di Stoccolma
Dalla etimologia del termine alle difficoltà interpretative
Esiste concorde parere nell’affermare che il termine (Hostage Identication Sindrome secondo una delle più recenti e pertinenti definizioni - Turner 1985(23)) sia stato identificato per la prima volta ed isolato come specifica fenomenologia medica a seguito di un fatto verificatosi nell’agosto del 1973, nella sede della Sveriges Kredibank di Stoccolma, allorquando nell’istituto di credito irruppe un rapinatore armato di fucile mitragliatore. Alla rapina fallita, seguì un sequestro di persona durato 131 ore a carico di quattro persone. Gli psicologi che per la prima volta furono chiamati ad interessarsi ai sintomi riscontrati dagli ostaggi, notarono che questi persistevano in una sorta di fedeltà verso il bandito che nel corso del sequestro li minacciava di morte, anche diverso tempo dopo che il fatto si era concluso. In realtà, gli stessi psicologi, si resero conto che questi avevano avuto, durante le fasi del sequestro, più paura della polizia, percepita come l’elemento ostile, piuttosto che dello stesso sequestratore che li teneva in ostaggio. Superato lo step dell’etimologia del termine, cominciano a verificarsi discordanze sui pareri relativi alla sindrome di Stoccolma, dovuti alle diverse interpretazioni che sono state  fornite dagli studiosi di discipline diverse. Galanter, ad esempio, nel suo studio sulla psicologia dei gruppi carismatici da cui ha tratto la teoria dell’ “effetto sollievo” (il gruppo promuove norme comportamentali che possono esporre il seguace ad angoscia potenziale. Poi egli arriva a sentire che il sollievo dall’angoscia dipende dalla fedeltà al gruppo, il che lo rende, a sua volta più ricettivo alle richieste del gruppo)(24) sostiene: “Con questo termine (sindrome di Stoccolma) viene indicato il meccanismo di difesa posto in essere da ostaggi che finiscono per identificarsi con l’aggressore, cioè con colui che infligge l’angoscia ma che, nel contempo, detiene il potere di dare sollievo emozionale all’ostaggio”(25).
Ma non tutti condividono questa definizione della sindrome in argomento poiché, secondo altri autori (Lothar Knaak), la fenomenologia della situazione psichica della vittima è pluriforme.
La situazione singola ha un’altra dimensione nella realtà che non l’esperienza collettiva. Le diverse situazioni nelle quali la vittima può venire a trovarsi variano, d’altra parte, in dipendenza delle loro condizioni preliminari(26).
D’altra parte, in epoche più recenti altri autori hanno descritto la Sindrome in argomento come: “la risposta emotiva, spesso inconscia, al trauma di diventare una vittima di sequestro”(27).
Questo tipo di risposta non appartiene ad una scelta razionale, atteso che le persone sono trattenute contro la propria volontà e sotto costante minaccia per la loro vita.
Questa sindrome che coinvolge sia il sequestratore sia gli ostaggi, comporta un elevato livello di stress per la vittima la quale deve raggiungere nuovi livelli di adattamento psicologico per farvi fronte.
Knaak affronta la problematica dell’ostaggio partendo dal confronto della posizione della vittima di un arbitrio prevedibile con quella della vittima del caso.
L’arbitrio in questo caso si presenta come risultato di un regime dispotico, laddove maggiore è il dominio del superiore assoluto e più legittimo il dispotismo. Le vittime di questi regimi sono coscienti del loro ruolo di vittime; l’accettazione di questo ruolo accentua l’autocoscienza del proprio valore e ciò le predestina al martirio(28).
La vittima di una causa imprevista non risponde a queste caratteristiche, mancando la condizione necessaria alla condizione tirannica. La posizione della persona alla quale viene all’improvviso imposto il ruolo della vittima è indispensabile (ma non sufficiente da sola, aggiungeremmo) per qualificare l’atto terroristico, sia in una situazione di comune delinquenza, sia di delitto politico.
Più vicini alle posizioni di Knaak, si ritiene che per comprendere a fondo la Sindrome di Stoccolma sia opportuno partire dall’esistenza di modelli di comportamento di base che consentono a ciascuno, inserendolo in una categoria, di riconoscersi come singolo appartenente alla stessa specie. L’individuo pone in essere comportamenti riflessi che, in condizioni estreme entrano automaticamente in funzione, ne sono tipici, ad esempio, tutti quei riflessi basati sull’istinto di conservazione. Tali riflessi rientrano nelle funzioni archetipiche e sono legate all’istinto che tende alla salvaguardia delle funzioni elementari e condizionanti della vita stessa. Secondo Knaak, tutte queste norme alla base di funzioni archetipiche sono forme primitive reattive e involontarie, cioè di carattere infantile, a dipendenza del loro rango primitivo. In sostanza, lo svolgimento del sentimento reattivo della vittima reinserisce il desiderio di protezione del bambino, specialmente in caso di sequestro(29).
Nel momento del massimo spavento, l’attività mentale può facilmente regredire ad una fase infantile (ad un’età che è ben inferiore ai cinque anni, poiché, come il bambino si trova in totale dipendenza dai genitori, anche l’ostaggio si trova in una situazione di totale dipendenza dai sequestratori.
E, come l’adulto accompagna il bambino per fargli prendere coscienza del mondo, così il sequestratore accompagna l’ostaggio verso la liberazione) e stimolare reazioni di protezione e di cura, il soggetto fa appello alla compassione dell’altro che dovrebbe attivare la protezione (nel nostro caso alle Istituzioni).
Ma quando il bisogno di protezione rimane inascoltato e permane la situazione di paura e, potenziale pericolo, l’individuo può provare la sensazione di abbandono (che il nostro autore definisce autismofobia), può accadere che sia cambiato il bersaglio dell’odio e ciò accade quando la vittima si identifica negli aggressori, soprattutto se questi offrono alle vittime la possibilità di solidarizzare con le loro ideologie. In questa fase troviamo un’altra caratteristica ricorrente nella sindrome che è quella della cd. introiezione: un meccanismo associato all’apprendimento imitativo, mediante il quale i bambini assumono le caratteristiche ammirate dai genitori o da altri modelli. Tale spiegazione trova il conforto anche nella chiave di lettura psicoanalitica fornita alla Sindrome in esame, secondo la quale “l’Io adulto governato dal principio di realtà assume una funzione direttiva e fa da intermediario fra le richieste della realtà, le richieste istintive (ES) e gli imperativi morali del Super-Io, utilizzando, se necessario, meccanismi di difesa” (Anna Freud)(30).
Quando è minacciato, l’Io si adatta per continuare a funzionare anche nelle esperienze più dolorose. Secondo questa spiegazione della Sindrome, ed in questo il momento di incontro con la teoria di Knaak, l’identificazione con l’aggressore ha lo scopo di evitare la potenziale punizione da parte del nemico; infatti, per Knaak il motivo per il quale la vittima si identifica con l’aggressore è da cercare unicamente nel rapporto di potere che si è venuto a creare, atteso che in questi casi gli aggressori hanno espresso maggiore potenza di coloro che dovrebbero garantire l’ordine pubblico. In sintesi, alla vittima del caso, quella cioè vittima del fatto singolo, può, per molti aspetti, essere assimilata la vittima di sequestro per fatto squisitamente terroristico e proprio in questa categoria sono evidenti gli effetti dell’istinto di conservazione.
Riprendendo il pensiero pienamente condivisibile di Ferracuti ed Abbate, riteniamo che, dal punto di vista medico, si possa efficacemente sintetizzare la Sindrome di Stoccolma in tre fasi successive:
-  sentimenti positivi degli ostaggi verso i sequestratori;
-  sentimenti negativi degli ostaggi nei confronti delle forze dell’ordine;
-  reciprocità dei sentimenti positivi da parte dei sequestratori.
Non esiste una personalità specifica per la quale sembri più probabile l’instaurarsi della sindrome, per cui possono esserne colpite persone di entrambi i sessi e di ogni età, anche se non si sviluppa sempre. I fattori che sembrano determinanti per l’insorgere della sindrome sono legati all’intensità dell’esperienza, alla dipendenza dell’ostaggio dal sequestratore per la propria sopravvivenza, dalla distanza psicologica dell’ostaggio dall’autorità ed il tempo. Gli studiosi non si mostrano concordi sull’ipotesi che favorire l’insorgere della sindrome possa essere d’aiuto al negoziatore per una più veloce risoluzione della trattativa poiché, e qui tutti si dimostrano concordi, se in qualche caso l’insorgere della Sindrome di Stoccolma può aver giovato al ruolo del negoziatore, sempre l’insorgere del fenomeno è stata causa di intralcio per la squadra di intervento nel caso in cui fosse stato necessaria la soluzione non negoziale della crisi.
Solo come accenno si dirà che una terapia di queste forme dello squilibrio psichico della vittima del terrore deve basarsi sul principio della ricostruzione o dell restaurazione dell’equilibro prestabilito(31).


11. Alcune considerazioni conclusive
La tematica, sulla cui complessità non appare il caso di soffermarsi ulteriormente, presenta momenti di criticità che si riferiscono quasi esclusivamente a due aspetti: da un lato la difficile problematica concernente la responsabilità giuridica del negoziatore che, in mancanza di un assetto normativo specifico, al momento può essere attribuita esclusivamente mediante l’applicazione, da parte della magistratura, della norma giuridica generale esistente al fatto contingente.
Il secondo aspetto di criticità è relativo all’adozione di procedure d’intervento di cui al momento si avverte la mancanza, sebbene l’Arma dei Carabinieri, con brillante intuizione, a seguito di uno studio in materia e cogliendo un modello di consolidato successo, sin dal 2004 ha inserito un nucleo di negoziatori all’interno del Gruppo d’Intervento Speciale. L’iniziativa, che ha posto l’Arma all’avanguardia nel settore e non solo tra le Forze di Polizia, non ha ancora trovato il naturale seguito nell’elaborazione di procedure di intervento standardizzate: una simile prospettiva potrebbe offrire maggiori garanzie di tranquillità all’operatore che si trovasse nelle situazioni che abbiamo osservato nel corso della trattazione, ma fornirebbe anche all’Istituzione un ruolo pilota e, in definitiva, di leader nel settore.
L’augurio è, quindi, che possa essere studiata una dottrina in grado di porre ancora una volta l’accento sulla necessità di affidare l’intervento degli operatori a procedure standardizzate sia per il territorio nazionale sia per i Teatri all’estero.


Approfondimenti


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(*) -  Gli argomenti sviluppati nell’articolo sono stati tratti, su concessione della casa editrice Franco Angeli, dal volume: Introduzione alla psicologia giuridica - Campi applicativi e metodologie di intervento, a cura di I. Petruccelli e F. Petruccelli, in Psicologia, Saggi e studi, edito dalla Franco Angeli s.r.l., in Milano, nel 2007, seconda parte: La psicologia nel processo penale, dal capitolo dello stesso autore: La negoziazione applicata alle situazioni di crisi in presenza di ostaggi e sindrome di Stoccolma, pagg. 249-277.

(1) - Roger Fisher - William Ury, L’arte del negoziato, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1995, pag. 23.
(2) - E. Improta, V. Lembo, Corpi d’Elite, Istituto Geografico de Agostini, Novara, 1986, vol. 1.
(3) - Gorge B. Palermo, Vincenzo M. Mastronardi, Il profilo criminologico, Giuffrè editore, Milano, 2005, pag. 340.
(4) - Ivi, pag. 45 e ss.
(5) - Marco Strano, Direttore Tecnico Capo Psicologo della Polizia di Stato (Associazione Nazionale Funzionari di Polizia) e Luca Calzolari, Psicologo, International crime Analysis Association, contributo “Le tappe del processo di negoziazione”, gennaio 2004.
(6) - M. Strano, L. Calzolari, ivi.
(7) - M. Strano, L. Calzolari, intervento citato.
(8)   - Ivi, pag. 72.
(9)   - Ivi, pag. 35.
(10) - C. Guida, La cultura negoziale, ed. Interculturali, Roma, 2004, pag. 29.
(11) - C. Guida, Introduzione alla psicologia giuridica, a cura di Irene Petruccelli e Filippo Petruccelli, Franco Angeli ed., Milano, 2007, pag. 259.
(12) - M. Strano, L. Calzolari, contributo L’intervento del team di negoziazione, gennaio 2005.
(13) - B. Zani,  P. Selleri e D. David, La comunicazione. Modelli teorici e contesti sociali, Carocci ed., Roma, 2000, pag. 91.
(14) - B. Zani, P. Selleri e D. David, op. cit., pag. 98.
(15) -  M.Piattelli Palmarini, L’arte di persuadere, Oscar Saggi Mondatori; Milano, 1995, pag. 5.
(16) -  M.Piattelli Palmarini, op. cit. pag. 48.
(17) - C. Guida, La cultura negoziale, op. cit. pag. 51 e ss.
(18) - C. Guida, La cultura negoziale, op. cit. pag. 41.
(19) - C. Guida, Introduzione alla psicologia giuridica, op. cit. pagg. 265-266.
(20) - M. Strano e L. Calzolari, contributo citato.
(21) - Ivi.
(22) - In realtà non riteniamo sia fondamentale propendere per l’una o l’altra figura o per altre ancora che potrebbero essere menzionate, a prescindere da una specifica specializzazione nel preciso incarico. Questo atteggiamento può essere desunto anche dagli esperimenti di Pinizzotto e Finkel (1990) menzionati da Kocsis (2005) sull’attendibilità del profiling. Gli stessi autori (Strano, Calzolari) ammettono che nel sistema americano l’incidenza della presenza di uno psicologo è di circa il 76% (Butler, 1993).
(23) - F. Ferracuti,  L. Abbate, Enciclopedia medica italiana, USES Edizioni scientifiche, Firenze, 1987, vol. XIV, pag. 1245.
(24) - M. Galanter, Culti, SugarCo edizioni, Carnago (VA), 1989, pag. 142.
(25) - M. Galanter, op. cit., pag. 162.
(26) - L. Knaak, Contributo al convegno “Dalla parte della vittima”, tenutosi a Milano nel marzo del 1978, realizzato dal Gruppo di Psicologia Giuridica della Facoltà di Medicina, Università degli Studi di Milano, edito nella collana di Psicologia criminale, diretta da Gullotta Guglielmo, da Giuffré ed., Varese, 1980.
(27) - F. Ferracuti e L. Abbate, op. cit., pag.1245.
(28) - L. Knaak, contributo cit.
(29) - Ivi.
(30) - F. Ferracuti e L. Abbate, op. cit. pag. 1246.
(31) - L. Knaak, contributo cit.