Il nuovo concetto di Sicurezza nell’era della globalizzazione


Daniele Cellamare
Daniele Cellamare
Libero Docente di Relazioni Internazionali e membro del Consiglio Direttivo dell'ISTRID, Istituto Studi Ricerche ed Informazioni della Difesa




1. L’ordine internazionale dopo il bipolarismo
2. La crisi dell’Alleanza e le nuove opportunità per l’Europa
3. Il ruolo delle Forze Armate nella Società civile
4. Il nuovo Soldato ed il suo ruolo strategico
5. L’apparato delle MSU (Multinational Specialized Units)

1. L’ordine internazionale dopo il bipolarismo

Il nuovo ordine internazionale, pur basato sui sistemi collettivi globali di sicurezza, risente delle profonde e recenti trasformazioni geopolitiche che hanno condizionato la pianificazione delle Forze Armate verso obiettivi strategico-operativi adattabili ai nuovi scenari di possibile intervento - regionali o d’area - ma in ogni caso caratterizzati da un elevato grado di conflittualità, lì dove gli interventi militari post-conflittuali assumono connotati e caratteristiche operative sostanzialmente diversi da quelli tradizionalmente conosciuti e nel tempo elaborati dalle diverse dottrine.
Quindi gli stessi ruoli giocati dai concetti di sicurezza e di intervento risentono profondamente delle mutate esigenze dei Paesi occidentali che identificano oggi, come priorità fondamentale, il mantenimento di un generale scenario pacificato che permetta di salvaguardare i processi evolutivi in corso, legati agli sviluppi economici e tecnologici, da qualsiasi potenziale minaccia esterna.
Ed è proprio in questi termini che deve essere rivisitato l’impiego effettivo delle Forze Armate, non più chiamate a rispettare i principi tradizionali di equilibrio e di difesa (i parametri tecnico-militari del periodo bipolare) bensì a rispondere con efficacia alle nuove esigenze costituite dalle poche informazioni disponibili sui possibili e futuri teatri operativi, ovvero sulla conoscenza della natura dello scontro, dell’avversario, dei tempi di intervento e dei compiti effettivi da svolgere.
Una ulteriore variabile è determinata - oltre che dalla temporaneità ed occasionalità delle coalizioni militari in atto - dalla diversa interpretazione che viene oggettivamente riconosciuta al successo dell’operazione, lì dove non si tratta più di ottenere la sconfitta sul campo dell’avversario (o la creazione di una volontà di persuasione a desistere dall’intervento armato) bensì di ottenere un adeguato ristabilimento della situazione di pacificazione che ha preceduto le ostilità.
Quindi il livello di partecipazione, la relativa convenienza e le sostanziali differenze geo-strategiche dell’intervento esigono una pianificazione dello strumento militare sostanzialmente diversa da quella in precedenza utilizzata per fronteggiare un avversario caratterizzato da un elevato tasso di prevedibilità ed in genere affrontato con strumenti e politiche militari di analoga impostazione.
Rimanendo di conseguenza alterato anche il rapporto tra l’intensità dell’offesa militare ed il danno arrecato al sistema avversario - non è più sufficiente ridurre la vulnerabilità del primo a danno della vulnerabilità del secondo - si è ulteriormente modificato l’asse di neutralizzazione del conflitto anche a causa dell’assenza di aperture negoziali, intese nel senso storico-tradizionale del termine, ovvero della flessibilità politica in grado di mediare le eventuali rivendicazioni all’origine dello scontro.
La nuova dimensione delle soluzioni delle crisi è quindi rinviata ad una più vasta gamma di elementi concorrenti, ovvero un insieme integrato di fattori politici, azioni diplomatiche, impegno umanitario e strumento militare.
Il raccordo di questi elementi - nei livelli nazionali, multinazionali ed internazionali - è la nuova opzione in grado di calibrare il confronto con le sfide globali in atto, rimanendo il ruolo delle Forze Armate il principale strumento della sicurezza nazionale, in grado di edificare in una nuova ottica la globalità di tutti gli operatori di sicurezza, aggregando il consenso politico, economico, sociale e culturale del Paese.
La nuova sfida è la tutela della pacificazione, ovvero il mantenimento del livello produttivo e tecnologico, la conservazione del mercato economico ed il dinamismo dei processi di alleanze all’interno del ruolo internazionale svolto.
Sono infatti proprio questi i nuovi elementi di aggregazione dell’opinione pubblica che sigillano il ruolo delle Forze Armate: la prevenzione del conflitto, l’intervento mirato ed organico, il tentativo di mediazione e l’aiuto alla ricostruzione, considerati fondamentali per la riduzione delle tensioni e delle conflittualità latenti nel nuovo villaggio globale.
La misura della superiorità militare dell’Occidente è oggi affidata alla tecnologia, all’organizzazione e all’addestramento, ma in maniera più specifica alle nuove dottrine strategiche sul piano operativo e logistico.
E questo proprio a causa delle minacce future che tendono a minare tale superiorità attraverso comportamenti che mirano ad ottenere risultati decisivi sia sulla strategia militare - incertezza sui tempi e sulle modalità dell’aggressione - sia sulle operazioni tecniche - informatica pirata applicata sui sistemi satellitari - e sia su quelle politico-sociali, quali le azioni di propaganda per impedire o quantomeno ostacolare il consenso dell’opinione pubblica nelle operazioni militari di intervento mirato.
In altri termini, proprio mentre l’Occidente è riuscito ad affermare la sua superiorità militare, la nascita e lo sviluppo di forme alternative (non convenzionali) di scontro hanno favorito la creazione di un fronte irregolare (asimmetrico) che non permette di configurare i contorni di un disegno politico preciso (come interpretare una strage di civili se non con l’intento esclusivamente punitivo verso le istituzioni politiche?) ma che lascia presupporre la volontà dell’aggressore di esercitare una pressione destabilizzante sull’opinione pubblica, o meglio di favorire quella flessibilità politica (connotato fondamentale delle democrazie occidentali) in grado di condizionare un atteggiamento istituzionale più conciliante verso le motivazioni che hanno determinato l’aggressione.
Ma proprio la supremazia tecnologica dell’Occidente, paradossalmente, ha determinato nelle Forze Armate un certo grado di inefficienza a causa del più generale fenomeno della contrazione dei bilanci della Difesa - in quasi tutti gli Stati occidentali dopo la fine della “guerra fredda” - con i prevedibili risvolti negativi sulla loro integrazione nell’intero apparato militare.
Pur rimanendo indispensabile l’esigenza di una tecnologia dedicata, anche a causa del necessario confronto con la globalizzazione internazionale, la contrazione delle spese per la Difesa deve essere considerata come un elemento applicato con metodica costanza dalla pubblica amministrazione negli ultimi cinquanta anni, lì dove le Forze Armate dei paesi avanzati sono rimaste ferme al minimo degli effettivi, pur aumentando la crescita dei costi necessari alla conservazione dell’operatività ed ai necessari ammodernamenti.
Anche considerando le necessità crescenti dei bisogni collettivi di una società evoluta, le aliquote delle risorse assegnate alle Forze Armate sono state concentrate esclusivamente sulle recenti missioni internazionali - dove l’importante ruolo svolto dall’Italia nell’Alleanza ed in Europa ci ha visti impegnati in dispositivi militari assimilabili a Nazioni di maggiore potenza - a discapito delle tecno-strutture e della loro modernizzazione, dei sistemi d’arma e della maggiore efficienza/efficacia delle unità chiamate a risolvere i problemi di coercizione o di dissuasione.
Senza tralasciare l’importante ruolo di moderazione svolto dall’Italia - specialmente nel contesto mediorientale, a vantaggio di una visibilità politica anche superiore a quella della stessa Unione Europea - è doveroso riconoscere il consenso internazionale verso le nostre Forze Armate, lì dove l’aumento sostenuto dal nostro Paese per le spese, destinate ad acquisire un elevato grado di professionalità del personale militare, ha contribuito in maniera decisiva al raggiungimento di standard qualitativi molto elevati.
Anche se importanti e significative elaborazioni tecnologiche sono state assimilate durante le operazioni di media ed alta intensità (Guerre del Golfo), analogo riscontro non è avvenuto per i conflitti di bassa intensità (quelli che oggi possiamo considerare i più frequenti) dove l’attenzione generale è stata dirottata esclusivamente verso la diminuzione del livello delle perdite umane combattenti, ed in modo particolare di quelle civili coinvolte nel confronto armato, a sicura rivoluzione della struttura delle Forze Armate e della loro dottrina di impiego, anche se la bandiera rimane quella delle operazioni di peace-keeping, di peace-building o di peace-enforcing, pur con le diverse “regole di ingaggio” diversamente definite per ogni intervento militare.
Senza escludere ancora la possibile opzione di iniziative militari da parte di Paesi con importanti capacità offensive militari - ma con valori diversi da quelli democratico-occidentali - lo scenario attuale impone una maggiore attenzione verso le diverse tipologie di criticità emergenti, costituite non solo dagli armamenti non convenzionali (nucleari, biologici e chimici, oltre al possibile impiego di tecnologia offensiva) ma anche dal terrorismo internazionale, dalla criminalità organizzata, dal commercio del narco-traffico e dai flussi migratori clandestini.
Gli Stati occidentali, quindi, pur avendo  una debole propensione all’uso della forza nella soluzione delle problematiche, anche se complesse e con pesanti ricadute all’interno del Paese, si vedono oggi costretti a riorganizzare lo strumento militare per eventi e situazioni originate fuori dai contesti territoriali (dislivelli socio-economici, redistribuzione delle risorse, fondamentalismi) ma che investono direttamente il “sistema sicurezza”, con un tale e sconvolgente impatto da rendere anche necessaria un’attività di mediazione nei confronti di attori che hanno privilegiato l’uso della violenza.
Le Forze Armate - con i necessari cambiamenti dei paradigmi dell’impiego della forza - devono assumere il difficile ruolo di fronteggiare i nuovi compiti affidati nel contesto della sicurezza (nazionale e collettiva) attraverso l’elaborazione di dottrine strategiche e tattiche innovative (dalla costituzione di forze multiruolo sino al principio della modularità interoperativa, passando attraverso la differenziazione tra la catena di Comando organico e quella di Comando operativo) per la salvaguardia dell’efficienza delle capacità operative in grado di contrastare le nuove minacce globali. Ed è proprio il nuovo concetto di minaccia - più complesso ed elaborato - a sostituire il tradizionale ruolo del termine “avversario/nemico”, imponendo anche una revisione culturale dell’idea stessa della “guerra” e rendendo necessaria una sua “demilitarizzazione”, o meglio integrandola maggiormente nel tessuto sociale del Paese, per diventare un nuovo e condiviso patrimonio civile.
Ed in questo più generale contesto si deve anche riferire il delicato compito della gestione delle situazioni post-conflittuali (Post-Conflit Management) con l’obiettivo di organizzare i processi di stabilizzazione delle aree di crisi, lì dove risulta evidente la necessità di un approccio multifunzionale e multinazionale - non dissociato dalle diverse istituzioni civile e politiche - come risultato di un addestramento e di una preparazione mirata che permetta alle Forze Armate di prendere decisioni tecnico-operative e di comprenderne le ricadute politiche (aspetti giuridici, sanitari e ambientali, oltre ai problemi legati alla riattivazione delle infrastrutture civili) nei complessi scenari di crisi dove vengono chiamate ad operare.
Destinate quindi a rimanere l’unico riferimento importante della sicurezza nazionale (nella misura e nel ruolo che abbiamo sin qui esaminato) le Forze Armate sono oggi chiamate a ridisegnare i termini della loro capacità di impiego, adeguandoli concretamente alle nuove esigenze di geo-strategia, ovvero alla ricerca ed all’elaborazione delle procedure più idonee per raggiungere gli obiettivi (problemi possibili e relative soluzioni) che la nuova globalizzazione impone.

2. La crisi dell’Alleanza e le nuove opportunità per l’Europa

Il dispositivo di difesa della NATO - caratterizzato nel passato da un sistema fondamentalmente statico, specialmente nelle forze di terra e nelle strutture logistiche - può oggi essere interpretato in una nuova lettura politico-militare che ne evidenzi le criticità piuttosto che le potenzialità nei suoi livelli strategici, operativi e tattici.
Pur presentando un buon livello di interoperatività (anche se limitato ai livelli di Comando, Controllo ed Addestramento) le funzioni di difesa territoriale sono rimaste circoscritte alle sole forze nazionali, specialmente nella Regione Meridionale, dove ogni singolo Paese - Italia compresa - ha risentito di un bassissimo livello di integrazione, al contrario degli Stati dell’Europa centro-settentrionale che hanno potuto trarre maggiore profitto dal livello operativo multinazionale.
Modificandosi il concetto stesso di alleanza permanente e di difesa collettiva (è venuta a mancare la comunanza di interessi, tipica del bipolarismo, accentuando le divergenze sia nei confronti degli Stati Uniti sia tra i singoli Stati europei) devono essere ricostruite l’unitarietà e la coesione necessarie a rendere l’impiego delle Forze Armate più organico e più dinamico rispetto alla precedente rigidità dell’organizzazione militare tipica della “guerra fredda”.
In modo particolare l’Italia - che potrebbe essere ulteriormente confinata nell’area meridionale dell’Alleanza Atlantica a causa dell’espansione della NATO verso Est, Europa centro-orientale e Paesi baltici - sembra subire lo spostamento del suo baricentro geopolitico a svantaggio di una maggiore integrazione europea (Londra, Parigi ed ovviamente Washington) anche a danno di una più diretta visibilità nel campo della politica estera. Se è pur vero che le recenti e numerose missioni fuori area hanno contribuito alla crescita del peso internazionale dell’Italia - con un sostanziale superamento delle funzioni meramente nazionali, ovvero interiorità e frontiere - ci troviamo ancora sprovvisti di un preciso disegno geopolitico di più ampio respiro, o meglio di una più intensa integrazione con l’Europa e con il contesto internazionale che ci permetta di giocare un ruolo sostanziale (il rischio è proprio quello della marginalizzazione) nell’ambito della sicurezza europea ed atlantica.
Quindi si tratta di operare un vero e proprio recupero del ruolo svolto dallo strumento militare (dalla riqualificazione culturale e professionale degli uomini sino allo sviluppo delle nuove tecnologie) per un impegno sinergico - coesione ed ottica globale - in grado di erogare sicurezza.
Pur considerando che è necessario vincere la naturale propensione delle singole Forze Armate verso la difesa di interessi corporativi (sicuramente accentuata dalla riduzione delle risorse finanziarie a disposizione) la nuova pianificazione deve affrontare il principale problema costituito dalle priorità, proprio perché si tratta di effettuare profondi adeguamenti sia nell’organizzazione militare (struttura, discontinuità tecnologica, equipaggiamento) sia nelle dottrine di impiego (riconversione delle capacità di intervento), ma il principale moltiplicatore di forze è in ogni caso costituito dalla possibilità che i dispositivi militari hanno di agire in sinergia, di operare con procedure comuni, semplici e facilmente accessibili, di fronteggiare con risposte qualificate ed unitarie le nuove esigenza di sicurezza: l’interoperatività tra le Forze Armate. Anche se l’integrazione europea ha sino ad oggi elaborato una molteplicità di istituzioni collegiali con competenze qualificate, è innegabile l’assenza di un indirizzo strategico complessivo in grado di produrre una forte legittimità politica sull’intero sistema di sicurezza.
Al di là della volontà politica generale dei singoli Governi - dove è pur sempre necessario riconoscere la diversità degli interessi e delle percezioni nazionali - la creazione di un meccanismo decisionale unificato risente del fenomeno della geometria variabile costituito dal fatto che le istituzioni esistenti hanno già maturato diverse (e più o meno sofisticate) competenze nel campo della Difesa e della Sicurezza.
è quindi prima necessario tenere conto delle caratteristiche peculiari delle organizzazioni esistenti, per individuare successivamente la sede politica dove concretizzare la volontà collettiva di adottare una strategia europea di sicurezza integrata, ovvero in grado di gestire quell’insieme di elementi (militari e sociali) necessari per la prevenzione, la dissuasione o la gestione delle crisi.
L’introduzione della tecnologia dedicata ha significato sul piano economico la fine di un periodo di sicurezza a basso costo ed ha determinato al tempo stesso una commistione di una serie di equazioni che - sul piano internazionale - si possono misurare con la contrazione delle spese per le armi strategiche a vantaggio di quelle necessarie ad una maggiore flessibilità convenzionale, oppure nell’inserimento di armi non convenzionali (senza escludere le nucleari tattiche) nelle strategie delle guerre asimmetriche, a compensazione delle insufficienze convenzionali.
Davanti ad uno scenario di tale complessità, è evidente l’aumento esponenziale delle variabili in grado di determinare una reale “integrazione militare europea”. Tra le opzioni che hanno storicamente tentato di realizzare questo obiettivo (per esempio la specializzazione dei ruoli tra i vari Alleati, con la concentrazione su determinate aree di interesse strategico per alcuni, e su impieghi militari con maggiore vantaggio comparato per altri) oggi sembra delinearsi con sempre maggiore intensità la soluzione affidata all’integrazione collettiva delle concezioni strategiche, operative e tattiche, attraverso una serie di interventi che spaziano dalla standardizzazione degli armamenti sino ad un piano comune di integrazione tecnologica nei sistemi d’arma, elemento fondamentale per un debito processo di interoperabilità.
Ma è anche necessario aggiungere alcune riflessioni relative al rapporto tra Alleanza ed Europa, o meglio alla concezione del “pilastro europeo” nella difesa atlantica. Come abbiamo avuto modo di considerare, l’Alleanza non è più in grado di garantire quella solidarietà automatica nella gestione delle crisi (specialmente in quelle fuori area) e risulta inoltre non sufficientemente idonea a conciliare risposte adeguate alle minacce di bassa intensità.
Senza escludere la necessità della conservazione dell’Alleanza, si delinea di conseguenza l’esigenza di compensare la diminuzione della sua utilità con l’elaborazione di nuovi strumenti militari - multilaterali e solidali - che troverebbero la loro ispirazione proprio nelle sinergie tra il modello atlantico ed il nuovo modello di cooperazione ed integrazione che abbiamo sin qui esaminato.
Anche se questa ipotesi di lavoro sembra ricondurre a superati schemi di equilibrio appartenuti al vecchio Continente, non deve essere sottovalutata la possibilità di un disimpegno della presenza americana in Europa.
Pur conservando l’importanza di una posizione strategicamente rilevante, il problema potrebbe essere costituito dal “prezzo” della sicurezza, ovvero dalla necessità di trasformare l’Europa da consumatrice a produttrice di sicurezza, lì dove gli Stati Uniti potrebbero riconsiderare l’opportunità di produrre sicurezza anche a vantaggio di strutture ed organizzazioni in grado di elaborare autonomamente tali processi, per dirottare questo tipo di garanzie e di attenzioni verso aree che presentino scenari di maggiore complessità.
Ma anche considerazioni più attuali devono essere affrontate per una nuova prospettiva europea. Gli Stati Uniti - espressione prima di quella staticità tipica dell’Alleanza - hanno incontrato gravi difficoltà in termini di risposte adeguate alle connotazioni della nuova guerra asimmetrica (estrema vulnerabilità di tutti gli obiettivi sensibili, imprevedibilità della strategia/azione offensiva, approccio culturale diverso nella concezione del combattimento/scontro) e nelle more di una evidente assenza di riferimenti nelle regole etiche e nel rispetto delle norme internazionali, non sono stati in grado di elaborare con rapidità un ruolo adatto al nuovo scenario operativo.
Pur considerando legittima l’unica reazione possibile - potenziamento dello strumento militare secondo le tradizionali concezioni strategiche - possiamo oggi elaborare una risposta più sofisticata nella nuova “cultura della guerra”, ovvero nella capacità di edificare un sistema di sicurezza integrato che travalichi le convergenze nazionali contingenti, legate al momento alle sole coalizioni militari, per raggiungere quegli obiettivi strategici comuni - dai raccordi delle attività di Intelligence sino alla lotta ai finanziamenti occulti del terrorismo - in grado di offrire soluzioni alternative al mero rafforzamento dell’apparato militare.
Si tratta quindi di elaborare un nuovo concetto di ordine internazionale (nel villaggio globale l’avversario non è strutturato in centri di autorità costituiti) dove le funzioni primarie di sicurezza sono il risultato di uno interscambio di conoscenze tecnologiche (intese come fattori organici di influenza), di strumenti militari ed ovviamente di consensi politici.
Ed è proprio l’elaborazione di un consenso politico comune a costituire uno dei principale ostacoli per l’architettura di un assetto equilibrato e flessibile (la struttura del “G8” rimane pur sempre sprovvista di poteri predefiniti) lì dove le forme di cooperazione sono soltanto il risultato di uno specifico interesse nazionale legato alle contingenze.
Ma potrebbe il regionalismo costituire una risposta adeguata alle mutate esigenze della sicurezza e della stabilità internazionali? Poiché le democrazie occidentali hanno dimostrato la loro solidità e la loro capacità di reazione alle minacce, si tratta di superare le naturali preoccupazioni costituzionali - ovvero il pericolo della perdita di una parte di sovranità nazionale - e si rende opportuno trasformare le esigenze di uno Stato occidentale (società aperte e quindi convivenza con culture differenti) da punti di criticità in risposte organizzate alla globalizzazione, attraverso i differenti livelli - nazionale, internazionale e multinazionale - che ne rappresentano l’unico naturale (e necessario) processo evolutivo.

3. Il ruolo delle Forze Armate nella Società civile

Superati i vecchi moduli storiografici (sacralità della difesa della patria e quindi naturale propensione al sacrificio) in cui era stata relegata la cultura militare, accentuandone la distanza dalla cultura civile, i moderni processi di formazione tecnica, efficienza e serietà professionale hanno sostanzialmente definito un ruolo più significativo all’interno del tessuto sociale del Paese.
Ed anche senza contare le benefiche ricadute sociali e tecnologiche, oggi le Forze Armate possono godere di una nuova identità (prestigio sociale) che è necessario strutturare positivamente nei rapporti con la società civile, organizzandone la sua “militarizzazione”, ovvero ponendo il concetto stesso della sicurezza al primo posto nella scala dei valori sociali, con le sue spiccate caratteristiche di multidimensionalità e multifunzionalità.
Anche se al momento l’opinione pubblica ha solo la percezione - e non la consapevolezza - di far parte di una più vasta strategia di sicurezza (nazionale ed internazionale), spetta proprio alle Forze Armate - attraverso la disponibilità di uno strumento militare completamente e perfettamente adeguato - guidare le scelte strategiche del Paese, lì dove il ruolo dell’esercizio del governo, sino ad oggi soltanto marginale, dovrebbe integrarsi con lo strumento militare per creare quel necessario raccordo con il mondo politico, economico, sociale e culturale.
Anche se sotto il profilo sociologico una tale trasformazione potrebbe denunciare a prima vista i suoi limiti strutturali, non deve essere sottovalutato il patrimonio professionale acquisito dalle Forze Armate, nel corso dei secoli, nel campo delle applicazioni concrete delle scienze sociali e psicologiche, che hanno maturato l’efficienza, l’organizzazione e la capacità di adattamento di una formazione umana complessa, altamente disciplinata, strutturata gerarchicamente e fortemente fidelizzata.
In grado di assorbire l’evoluzione socio-politica generale (i valori di uguaglianza e della dignità umana), così come quella delle espressioni culturali più avanzate (rispetto della vita umana, indipendentemente dal colore della divisa) le Forze Armate sono quindi in grado di guidare, al di là dell’ambito militare, la strategia necessaria al raggiungimento degli obiettivi politici nazionali ed internazionali legati al sistema sicurezza, coinvolgendo tutti gli operatori e gli erogatori di sicurezza (ed in questo senso il potenziale umano è sconfinato) e superando lo stereotipo che vede questo tipo di impegno soltanto in uniforme.
I limiti sino ad oggi riscontrati (le tecniche della “strategia di sicurezza” sono state frammentarie e circoscritte al solo ambito militare) sono facilmente superabili con il contributo di numerose organizzazioni - da quelle produttive a quelle statali - che con un opportuno e costante monitoraggio possono apportare un contributo qualificato e professionale nella formazione del processo di sicurezza.
Tenendo conto che l’orizzonte spazio/tempo dei futuri processi di pacificazione è particolarmente esteso/lungo, la strategia della difesa diventa globale (preparazione ed interazione con gli obiettivi politici ed economici, attività diplomatiche di ampio respiro internazionale, mobilitazione delle risorse sociali del Paese) e questo rende indispensabile la creazione di uno “strumento di sicurezza”: presenza, sorveglianza e controllo (spazi aerei, vie di comunicazione, coste e territorio, flussi migratori, ordine pubblico, calamità naturali) ed integrazione culturale (impatto sull’opinione pubblica, dall’educazione alla sicurezza collettiva sino alla distribuzione di informazioni addestrative).
Perché limitare alle sole Forze Armate (per altro già penalizzate dalla riduzione degli organici e dei finanziamenti) il compito della sicurezza senza ridistribuirne l’onere nella realtà civile del Paese, utilizzando in forma interoperabile tutte le risorse idonee a produrre sicurezza?
Le forze interne a disposizione sono innumerevoli (potenziale umano, materiale e procedurale) e possono integrarsi in un sistema organizzato - ben diffuso e per certi aspetti anche con il vantaggio della “invisibilità” - che con il bagaglio culturale di conoscenze e di informazioni (capacità di analisi, valutazione ed intervento) potrebbe risultare in grado di fornire risposte adeguate ai rischi ed alle minacce asimmetriche, senza contare i vantaggi nel rapporto costo/efficacia, non più inteso come una spesa da sostenere, bensì come un investimento da ottimizzare (a semplice titolo esplicativo, la possibilità di estendere i corsi specializzati ai funzionari della pubblica amministrazione).
Anche se le maggiori potenzialità, quelle sin qui esposte, dovrebbero pervenire dal mondo civile, è evidente che alle Forze Armate viene richiesto un impegnativo cambiamento di mentalità (comportamentale ed organizzativo) per assumere al meglio la leadership di questo processo di trasformazione. Ma se analizziamo, anche questa volta sotto il profilo sociologico, la posizione dominante del concetto di strategia, riscontriamo un insieme di sottosistemi costituiti dalle scienze dirette, tipiche degli strumenti militari (Ingegneria ed Informatica) e dalle scienze ausiliarie (Storia, Geografia e Psicologia) e possiamo quindi ricondurre, anche con un certo rigore scientifico, questi strumenti concettuali, teorici e metodologici al patrimonio culturale delle Forze Armate, in grado pertanto di vincere agevolmente la sfida di un processo così complesso e dinamico. Pur senza nascondere le difficoltà interne (lo strumento militare deve superare anche l’impostazione interforze per assumere le connotazioni di un vero e proprio sistema integrato) le Forze Armate sono sicuramente in grado di controllare le esigenze del coordinamento - pur nella scelta delle capacità ritenute pertinenti dei servizi erogatori - e della interazione operativa comune, attraverso collegamenti ed adozione di procedure mirate.
Solo se riusciamo a fondere la disciplina consapevole e la dedizione partecipe (il militare) con l’attività propositiva e la volontà realizzatrice (il civile) possiamo ottenere il vero professionista della sicurezza. In definitiva, perché limitare il concetto di interoperatività, pur nelle sue più variegate accezioni del termine, al solo ruolo svolto dalle Forze Armate nel nostro Paese? Ed ancora, perché non adattarlo ad uno scenario multinazionale ed internazionale?
Consideriamo il problema della sicurezza nel nuovo ambito multipolare (irregolare ed instabile) e proviamo ad analizzare la nuova tendenza politico-strategica perseguita dagli Stati Uniti, ovvero la creazione di un “Occidente allargato” (da Vancouver a Vladivostock) nell’ambito di un nuovo concetto di ordine internazionale (ampliamento della NATO ad Est e condivisione del sistema satellitare e dello scudo spaziale) che ideologicamente persegue un obiettivo - storicamente ben collaudato - che si fonda sulla vittoria di quella cultura militare che riesce ad integrare fattori intellettuali, tecnici e professionali con i valori tradizionali della conservazione dello stato di pacificazione, ovvero nella possibilità di confrontare e predisporre gli strumenti militari comuni per aumentare le possibilità di successo nell’ipotesi di un conflitto generalizzato.
Pur riconoscendo il pragmatismo di una simile impostazione per ottenere una reazione di forma ordinata e lineare ai possibili contrasti geo-strategici (non solo conflittuali), i limiti sembrano delinearsi nell’esclusione di quei Paesi che - proprio nella percezione di una configurazione anti-occidentale - potrebbero costituire la causa di ulteriori fratture che si tradurrebbero inevitabilmente in contrapposizioni di natura militare - terroristica. Il ruolo delle Forze Armate (nella massima dimensione del cambiamento militare, civile, multinazionale ed internazionale) dovrebbe in effetti partecipare al contributo politico che non è costituito (o meglio, non si limita) nella mera lotta al terrorismo, bensì al “governo” della globalizzazione, necessario per la realizzazione di un sistema internazionale legittimo che ancora oggi non sembra controllarne gli sviluppi, ma piuttosto subirne gli effetti.
Infatti, non è forse lecito considerare l’asse Washington - Mosca (nell’architettura di una nuova sicurezza collettiva) come un nuovo bipolarismo in grado di soffocare i processi di integrazione/dialogo sino ad oggi sviluppati dall’Unione Europea? Ed ancora, non si corre il rischio di una crescente marginalizzazione politica e tecnologica?
Un corpo di dirigenti - militari e civili, frutto di un travaso interattivo tra politica, industria e finanza - incoraggiato ad innovare, a studiare ed elaborare azioni geopolitiche di sicurezza strategica, operativa e tattica, sembra delinearsi oggi come l’unico strumento idoneo a bilanciare la leadership americana, purtroppo già ampiamente minata da una crescente impopolarità internazionale, legata proporzionalmente agli elevati costi della gestione della sicurezza, nazionale e globale.
E se è quindi anche vero che le Organizzazioni collettive sono superate dalla complessità delle situazioni geo-strategiche (senza considerare i limiti oggettivi di un singolo Stato in un possibile intervento di natura internazionale) lo scenario della globalizzazione - inteso come una nuova redistribuzione dei fattori di potenza economica, politica e sociale, e sotto un profilo storiografico riconducibili alla pericolosa situazione precedente l’inizio delle ostilità della Grande Guerra - impone la interoperatività del sistema difesa/sicurezza nella sua qualità di procedure aggiornate per lo sviluppo delle capacità preventive, dove la multifunzionalità potrebbe addirittura configurarsi come la misura del “confine” del nuovo ordine internazionale globalizzato.

4. Il nuovo Soldato ed il suo ruolo strategico

Senza entrare nel merito, in questa sede, sulla sostenibilità politica del “diritto-dovere di ingerenza a fini umanitari” della Comunità Internazionale, ci limiteremo a prendere in considerazione solamente le attività di Peace-keeping, lì dove i contingenti militari non possono influire concretamente sulla criticità della situazione nell’area di intervento (come è noto, tali attività sono basate sul consenso delle parti in lotta, sulla neutralità dei Caschi Blu e con l’impiego delle armi quasi sempre limitato all’autodifesa passiva) ma così come abbiamo avuto modo di analizzare, il contributo che essi possono apportare è diventato significativo e sostanziale, ed in ogni caso in linea con l’ordine codificato dal Diritto Internazionale, assolutamente coerente con gli obiettivi di fondo del mondo e della cultura occidentale.
Se evitiamo di includere anche le attività di Peace-enforcing, legittimate dalle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ma che hanno per certi aspetti dimostrato i limiti delle istituzioni internazionali, possiamo ricondurre il nostro studio al nuovo ruolo svolto dal soldato nel contesto della “civilizzazione” della guerra, ovvero nei criteri logici da adottare per conferire maggiore capacità per fronteggiare i compiti affidati nel nuovo contesto, assimilabili - nei criteri metodologici - alla più generale sicurezza nazionale, collettiva ed internazionale. In questo più vasto ambito, il “premio di assicurazione” della sicurezza, oltre che dalle decisioni prese dal potenziale avversario, è misurato dalla prevenzione e dalla collaborazione (sempre nazionali ed internazionali) che ne diminuiscono le probabilità di aggressione.
Attraverso un’elaborazione - analisi e sintesi concettuali - delle principali problematiche legate ai paradigmi che determinano le esigenze di riorganizzazione delle Forze Armate alla luce dei nuovi parametri della “sicurezza globale”, questo elaborato si propone nella sua fattispecie di individuare gli aspetti principali di geo-strategia - che potrebbero in ogni caso costituire spunto di maggiori approfondimenti - in grado di orientare le scelte fondamentali per realizzare la formazione del “soldato moderno”; lungi dal definire in senso operativo le modalità di tale processo di trasformazione, il contributo si limita a fornire gli elementi di valutazione delle attuali tendenze, o meglio dei dibattiti sino ad oggi intervenuti nelle trasformazioni strutturali del più generale “sistema di difesa integrato”.
Lo stesso strumento militare ha perduto i suoi parametri ideologici iniziali (le prime operazioni umanitarie, affidate ai militari per le loro spiccate capacità operative, sono state fortemente criticate dai Comandanti a causa della dispersione delle forze sul territorio, minando la capacità di autodifesa del contingente) per adattare la “cultura della guerra” al più ampio contesto dei valori del patrimonio civile: salvaguardia delle condizioni di vita della popolazione coinvolta, il rimpatrio dei rifugiati, l’assistenza sanitaria, il controllo sul rispetto dei diritti umani e l’organizzazione di eventuali referendum ed elezioni, oltre ai complessi compiti legati al già citato Post-Conflit Management ed agli impegnativi rapporti con le Organizzazioni Non Governative, presenti nelle zone di crisi quasi sempre in modo capillare e significativo.
Un ulteriore fattore di oggettiva difficoltà è costituito dai mezzi di comunicazione di massa e degli effetti che essi producono sul comportamento dei contingenti militari nello svolgimento delle loro funzioni.
Tralasceremo quindi l’esame dei cosiddetti “moltiplicatori endogeni” (addestramento, leadership e morale) che vengono utilizzati per misurare la capacità di intervento dell’unità di combattimento - in altri termini, gli indicatori del Combat Power - per analizzare le “doti” che devono costituire il corredo culturale del soldato nel moderno impiego delle Forze Armate che, come abbiamo già accennato, hanno sviluppato una natura più “dinamica” (rispetto alla “staticità” del periodo bipolare) con i loro interventi esterni, sostanzialmente più impegnativi e più complessi, ma anche caratterizzati dai nuovi paradigmi di incertezza e variabilità, ma che sono in ogni caso tutti riconducibili al più generale concetto di mantenimento geopolitico dei processi di pacificazione e di sicurezza, nazionali ed internazionali.
Poiché l’impiego della forza non può essere più considerato come lo strumento ultimo delle attività politiche e diplomatiche (cambiano quindi i parametri temporali), il valore rilevante dell’intervento è oggi identificato nella sua tempestività - ovvero nella capacità di ridurre al minimo la caduta di prestigio delle Istituzioni Internazionali e degli Stati che concorrono alle operazioni - rendendo indispensabile il grado di costante efficienza operativa delle unità che potrebbero essere chiamate ad operare (accuratezza dell’addestramento/preparazione).
Anche lo stesso approntamento della forza deve tenere conto - oltre che della natura e della formazione della coalizione - delle numerose variabili costituite dal tipo di minaccia, dalle modalità operative e dai differenti livelli (quantitativi e qualitativi) richiesti dall’intervento, senza trascurare che la diffusione delle informazioni (Internet) ha compromesso gran parte del livello gerarchico delle conoscenze.
Anche se la preparazione tecnico-militare del soldato deve essere pianificata per operare contro avversari diversificati, si sono recentemente delineati i contorni del tipo di combattimento verificato nei conflitti etnici, ovvero in quei Paesi dove proliferano culture asimmetriche della guerra e dove l’avversario è per certi aspetti demilitarizzato, limitandone in questo modo l’identificazione soltanto al primo grado di pericolo latente, senza alcun riferimento a parametri ideologici prestabiliti.
Poiché in questi casi l’avversario non è in grado di ottimizzare compiutamente i più alti livelli tecno-informatici, vengono utilizzate commistioni tra tattiche proprie della guerra territoriale (comprese le tecniche di guerriglia) e l’uso di sofisticati sistemi d’arma. Rimane quindi compito delle Forze Armate quello di organizzare la costituzione di forze multiruolo che siano in grado di sintetizzare quei requisiti storicamente considerati inconciliabili, ovvero elevata potenza e rigidità, tipiche delle unità metropolitane, con elevata flessibilità e potenza ridotta, tipiche delle unità coloniali.
Pur considerando che l’apparato militare tecnologicamente più avanzato può rivelarsi incapace di contrastare una minaccia a bassa tecnologia, solo un’adeguata e calibrata introduzione dei nuovi mezzi tecnici nella riorganizzazione multiruolo delle forze di intervento occidentali potrà essere in grado di realizzare tale raccordo, tenendo anche presente che l’addestramento tecnologico - oltre a conferire maggiore efficacia all’azione - deve mirare a diminuire non solo il livello delle perdite della popolazione civile, ma anche quelle dell’avversario.
Senza disconoscere l’elevata importanza della multifunzionalità delle dotazioni tecnologiche (basti pensare ai vantaggi economici legati alla loro interoperabilità a livello multinazionale ed internazionale) è necessario elaborare alcune considerazioni sull’effettivo dispiego della tecnologia - raggiunta od acquisita - sul terreno delle operazioni.
Le alleanze e le coalizioni multinazionali hanno perduto il valore intrinseco che le ha caratterizzate durante il periodo bipolare (riconoscibilità immediata dell’alleato) a causa dell’ingresso di Stati che non sempre condividono i valori democratici dell’Occidente, ma che piuttosto condividono - solo nella contingenza - l’opportunità di un intervento per il mantenimento di una pacificazione geo-politica e geo-economica, ma in ogni caso per la condivisione di una situazione a loro favorevole.
Nasce quindi l’esigenza - l’alleato non era conosciuto, adesso è conosciuto, ma è affidabile? - di proteggere il patrimonio tecnologico per evitare che la sua diffusione possa nel futuro compromettere la sicurezza stessa dell’erogatore di tecnologia. Il pericolo è in effetti politico: il multinazionalismo potrebbe assumere nel futuro il suo significato peculiare solo in considerazione del fatto che permette ad ogni singolo Stato di realizzare, in modo più efficace ed economico, i propri interessi nazionali, ed in questo senso le valutazioni delle Forze Armate devono essere particolarmente attente, al di là delle considerazioni politiche che possono influenzare (o tenere in ostaggio) le decisioni governative. Le diverse “culture della guerra”, nell’ambito geo-politico, marcano le loro differenze.
E potrebbe essere quindi proprio la multinazionalità a porre sostanziali problemi di interoperatività nei livelli organizzativi di Comando, di controllo e di logistica (basti pensare alle differenti parti di consumo dei mezzi in dotazione, così come le procedure di manutenzione e riparazione) senza contare le barriere linguistiche e le differenti abitudini/tradizioni di vita militare.
Ulteriore riflessione merita la sostanziale differenza - in realtà un vero e proprio scarto ideologico - tra la cultura militare occidentale (figlia dell’eroismo e del sacrificio) e la cultura strategica di quei Paesi che non la condividono (la vocazione al martirio) che mira al conseguimento della “vittoria” non attraverso la distruzione delle forze nemiche, bensì procurando il collasso di un più generale punto critico - dall’unità combattente isolata all’edificio popolato da civili - ottenendo la sua vulnerazione anche se non viene calcolato come un passo decisivo verso la vittoria finale.
E se quindi l’integrazione interforze non deve limitarsi all’occasionalità dell’evento (attuazione solo in caso di impiego), è necessario renderla strutturale attraverso una serie di passaggi obbligati che devono gradualmente investire la completa pianificazione (elaborazione di dottrine e concetti tattici interforze), la soluzione comparata degli strumenti tecnologici e la revisione del ciclo formativo degli uomini (discipline umanistiche e addestramenti all’estero) con particolare attenzione allo studio della psicologia dello “amico/nemico”, ovvero all’individuazione dei suoi valori e dei centri di razionalità che presiedono le valutazioni e le scelte nel più ampio contesto geo-strategico.
Nel socio-sistema costituito dalle Forze Armate (importanza dell’elemento umano) la coesione e la volontà di realizzazione degli obiettivi sono perseguibili solo attraverso forti motivazioni psicologiche e morali, la cui assenza è in grado di determinare significative inabilitazioni dell’efficienza militare, lì dove la componente morale risulta tanto più rilevante quanto più le operazioni sono di bassa intensità.
Poiché tali motivazioni si fondano sul sostegno del più generale consenso della società civile, il pericolo principale è costituito dalla diversa percezione dell’avversario (inteso come “non nemico”) poiché essa è stata aprioristicamente determinata non dalle Forze Armate di appartenenza, bensì dalle valutazioni politiche contingenti, depolarizzando il sistema-soldato verso una diversa interpretazione dello “amico/nemico” e quindi del comportamento da tenere per salvaguardare e garantire il ruolo sostanziale che deve svolgere e l’autostima di cui ha costantemente bisogno.
L’importanza degli aspetti psicologici ha acquistato valenza crescente proprio in misura dei conflitti a bassa intensità caratterizzati dall’asimmetria tecnologica: lì dove la debolezza strutturale del contendente è più marcata, la componente psicologica (intesa nell’accezione più ampia del termine) costituisce l’elemento principale per la definizione della capacità operativa - accettazione di sofferenze, privazioni ed alti tassi di perdite - per compensare la superiorità materiale dell’avversario.
Un vero e proprio fattore di potenza che viene opportunamente utilizzato - azioni indirette al posto della resistenza frontale - per evitare che possa essere compiutamente sfruttata la superiorità tecnologica, limitandone in questo modo il vantaggio competitivo.

5. L’apparato delle MSU (Multinational Specialized Units)

Il concetto di MSU, apprezzato da Washington così come dagli Stati Maggiori dei principali Paesi dell’Alleanza, sembra destinato a confermare nel tempo la sua validità come modello di una “Forza di Polizia” da impiegare nelle missioni congiunte all’estero, in virtù del suo “strumento”, costituito al tempo stesso dall’aspetto militare e da quello di polizia, diventato indispensabile nei Teatri operativi internazionali (è rimasta famosa la dichiarazione espressa da Nicholas Burns, Ambasciatore americano presso la NATO: “Dobbiamo seguire l’esempio dell’Italia. Tutti gli Alleati devono formare un Corpo come quello dei Carabinieri, noi compresi”).
In effetti, così come abbiamo avuto modo di analizzare, la nuova sfida dell’Occidente travalica la vittoria sul campo ed investe la capacità di mantenere il controllo del territorio per garantire la stabilità e la sicurezza per la ricostruzione (politica, civile e militare) ed in questo senso le capacità espresse dalle MSU riguardano le possibilità di auto-difesa di tipo militare, l’autonomia logistica e l’esperienza necessaria per addestrare, supportare ed affiancare le Forze di Polizia locali.
Anche se l’apprezzamento dell’Unione Europea risale al Vertice di Helsinki del 1999 (la costituzione di una “Forza di Polizia di 5.000 uomini rapidamente impiegabili fuori dal territorio europeo) sono state le esperienze in Somalia e nei Balcani a determinare l’esigenza di una “Forza di Polizia Multinazionale”, davanti a scenari fortemente caratterizzati da:
-  elevate tensioni sociali (politiche, etniche e religiose);
-  presenza di Forze avversarie con capacità di guerriglia e terrorismo;
-  correlazione con forze eversive internazionali e criminalità organizzata;
-  traffici illeciti per il finanziamento ed il sostegno delle attività militari;
-  precarie condizioni economiche della popolazioni;
-  possibile presenza di armi di distruzioni di massa a fini terroristici,lì dove le MSU hanno potuto esprimere con successo le capacità di attività di polizia (comprese l’antisommossa, l’investigazione e la lotta al crimine organizzato) di antiterrorismo, di attività di sicurezza e scorta, ed anche di HUMINT.
In particolare in Somalia (UNOSOM, “Missione Ibis”, 1992-1994) sono emersi i limiti dei Caschi Blu dell’ONU, appartenenti per la maggior parte a Paesi del Terzo Mondo, nel gestire le complesse attività di controllo di folle civili utilizzate come masse di manovra, riuscendo i Carabinieri ad avviare in questo complicato contesto un programma di addestramento della Forza di polizia somala.
Anche nelle successive crisi dei Balcani (Missioni NATO) la stessa Alleanza richiese l’intervento / sviluppo della MSU per svolgere un effettivo ruolo operativo per l’ordine e la sicurezza pubblica, dopo aver constatato non solo le difficoltà incontrate in questo senso dalle Forze Armate convenzionali, ma anche l’oggettiva incapacità dimostrata dalle Forze di Polizia dell’ONU - IPTF in Bosnia e UNMIK Police in Kosovo - risultate poco adatte a svolgere questi compiti a causa della scarsa omogeneità (elementi provenienti da differenti culture e con diverse procedure operative) unita alla insufficiente capacità di deterrenza e ad una incompleta autonomia logistica.
Attualmente la NATO, l’Unione Europea ed altri Paesi occidentali, hanno avviato la riorganizzazione delle Forze di Polizia - così come degli strumenti multinazionali di NRF e FERR - utilizzando come “modello base” proprio la struttura MSU dei Carabinieri italiani, ed in tutti i Paesi dove le forze anglo-americane hanno sviluppato forme di intervento per il contrasto al terrorismo, sono stati schierati anche assetti di Polizia Militare (in affiancamento alle Forze Speciali, all’Intelligence ed al CIMIC) a testimoniare l’importanza della cooperazione internazionale nei compiti investigativi e di polizia nel contrasto alle minacce terroristiche.
Poiché i risultati di questa operazione sono stati ritenuti più che soddisfacenti - le strutture di Polizia presenti in Teatri Operativi critici hanno permesso la raccolta di informazioni che si sono rivelate preziose per la neutralizzazione di elementi sovversivi presenti nei Paesi occidentali - è auspicabile la presenza degli assetti MSU in misura sempre più ampia e diffusa.
In questo senso sono state anche formulate alcune ipotesi da parte del Pentagono (costituire intorno ai Carabinieri una “Forza di Polizia della Coalizione”) e dal Regno Unito (su scala limitata alle competenze territoriali della “Divisione Multinazionale Sud Est”, della quale fa parte anche il Contingente italiano) che purtroppo non hanno trovato adeguato riscontro non solo a causa di valutazioni politiche nazionali, ma sostanzialmente per la limitazione delle forze che i Carabinieri avrebbero potuto schierare in Teatro.
Gli Stati Uniti, che sentono maggiormente la necessità di disporre di forze addestrate professionalmente per risolvere i problemi di sicurezza, di ordine pubblico e di antiterrorismo, hanno utilizzato i Marines (Iraq) poiché istituzionalmente preparati al contrasto di operazioni ostili in ambiente urbano, prima di richiedere la collaborazione dei Carabinieri (nel più ampio programma interforze per la “Acquisizione di Armi non Letali”) per mettere a punto un piano di riorganizzazione della propria Polizia Militare.
Rimane quindi sostanziale prevedere l’aumento degli organici delle MSU per lo sviluppo di un assetto multinazionale dotato di dottrine e di procedure comuni, sempre all’interno di un più ampio dispositivo militare, in grado di gestire (garantire copertura ampia ed omogenea) le vaste estensioni dei Paesi interessati dagli interventi delle Coalizioni, caratterizzati da precarie vie di comunicazione ed infrastrutture, così come dalla presenza di minacce distribuite asimmetricamente sul territorio e di conseguenza di difficile localizzazione.
Quindi le capacità specifiche delle MSU costituiscono, anche in virtù dell’impiego di Unità militari convenzionali specificatamente addestrate, un contributo decisivo per i Contingenti militari posti a presidio del Teatro Operativo, senza contare la grande rilevanza costituita dalla possibilità che hanno, l’Italia in particolare e l’Europa in generale, di colmare una sostanziale carenza presente attualmente nella NATO, ovvero di produrre Sicurezza su scala globale, attraverso l’integrazione multinazionale delle MSU.