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Giustizia Amministrativa

Disciplina militare - Procedimento disciplinare di corpo - Contestazione addebiti - Necessità.


T.A.R. Piemonte, sez. I, sent. 24 maggio 2007, n. 564 (c.c. 23 maggio 2007), Pres. Gomez de Ayala, Est. Lotti, I. A. c. Ministero Difesa

La contestazione degli addebiti nel procedimento disciplinare rappresenta un momento essenziale ed indefettibile ed è idonea alla finalità per la quale è preordinata solo se, mediante precisi riferimenti ad un’azione o omissione e con espressa dichiarazione che è effettuata a titolo disciplinare (e non quale semplice richiesta di chiarimenti), consenta all’interessato l’esatta individuazione del fatto addebitatogli, al fine di consentirgli ogni possibile discolpa. (1)
(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“Ritenuto, invece, fondato il secondo motivo di ricorso, atteso che la previa contestazione degli addebiti riveste carattere essenziale nel procedimento disciplinare (cfr. Consiglio di Stato , sez. IV, 22 maggio 2000, n. 2909) ed è idonea alla finalità per la quale è preordinata se, mediante precisi riferimenti ad un’azione o omissione e con espressa dichiarazione che è effettuata a titolo disciplinare, consenta all’interessato l’esatta individuazione del fatto addebitatogli, al fine di consentirgli ogni possibile discolpa (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28 dicembre 2005, n. 7460);
Rilevato, infatti, che, diversamente dagli impiegati civili, è sanzione disciplinare il rimprovero inflitto ad un militare che deve essere preceduto dalla previa contestazione degli addebiti, specifica e congrua, per tempi e modalità, rispetto al fine che la legge ricollega a tale adempimento, in assenza della quel è illegittimo il provvedimento disciplinare adottato (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28 giugno 1988, n. 558);
Rilevato, nel caso di specie, che nella richiesta di delucidazioni del 17.10.2006 manca l’espressa dichiarazione che la stessa è effettuata a titolo disciplinare e, pertanto, essa non può valer quale contestazione degli addebiti;
Ritenuto, pertanto, fondato il ricorso per tale motivo, da considerarsi assorbente di ogni altro dedotto, e, per l’effetto, di dover annullare il provvedimento impugnato, salvi gli ulteriori provvedimenti della P.A.”




La contestazione degli addebiti nel procedimento disciplinare: ancora qualche precisazione


1. L’aspetto formale della contestazione degli addebiti.

La sentenza in commento ci induce a ritornare su un tema già oggetto in precedenza di qualche riflessione e per il quale, vista l’ulteriore proposizione di analoga problematica in sede di giudizio amministrativo, è opportuno ribadire alcune notazioni(1).
L’art. 15, 1°comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382, recante norme di principio sulla disciplina militare, stabilisce che nessuna sanzione disciplinare di corpo può essere inflitta senza contestazione degli addebiti e senza che siano sentite e vagliate le giustificazioni addotte dal militare interessato. La chiarezza e la perentorietà della disposizione normativa non lasciano alcun dubbio circa la circostanza per la quale l’atto di contestazione degli addebiti costituisce momento essenziale ed indefettibile di ogni procedimento disciplinare di corpo. Il Regolamento di disciplina militare, approvato con d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545, in attuazione della l. n. 382/1978, ribadisce il predetto principio, stabilendo all’art. 59, comma 1, che il procedimento disciplinare deve svolgersi attraverso alcune immancabili fasi, la prima delle quali è la contestazione degli addebiti. Anche l’art. 66, comma 2, R.D.M., nel delineare il procedimento disciplinare per l’eventuale irrogazione della consegna di rigore, dispone che il primo atto da compiere da parte del comandante di corpo,  durante la seduta alla quale partecipano il militare incolpato, il suo difensore e la commissione consultiva, è la contestazione degli addebiti. In sostanza, con l’atto di contestazione degli addebiti si apre il procedimento disciplinare(2).
L’atto in questione, quindi, rappresenta un passaggio obbligato nel procedimento disciplinare e la sua omissione inficia gli eventuali provvedimenti susseguenti, compreso il provvedimento finale(3).
Bisogna tener presente, poi, che l’atto di contestazione funge anche da comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, quindi, deve contenere - in qualche modo - le notizie obbligatorie da fornire all’interessato, ai sensi degli artt. 7 e 8 l. n. 241/1990(4), per consentire la più completa partecipazione dell’interessato al procedimento(5).
Se dal punto di vista formale non c’è più alcun dubbio sulla necessità della previa contestazione degli addebiti nell’ambito di un procedimento disciplinare, dal punto di vista sostanziale sono emerse alcune perplessità applicative.

2. L’aspetto sostanziale della contestazione degli addebiti.

In effetti, come - peraltro - viene evidenziato nella sentenza in commento, può sussistere un problema sostanziale dell’atto di contestazione. Nel momento in cui quest’ultimo non è in grado di svolgere la sua funzione, che è quella di consentire all’incolpato di poter controdedurre, quindi di poter recare ulteriori elementi ai fini di una decisione quanto più possibile ponderata e giusta, si verifica un difetto grave dell’atto endoprocedimentale, che può riverberarsi negativamente su tutto il procedimento disciplinare, compreso il provvedimento finale. In base alla finalità della contestazione degli addebiti, quest’ultima deve necessariamente contenere il fatto, opportunamente circostanziato, che costituisce trasgressione disciplinare. Il fatto storico, inoltre, deve essere evidenziato anche nella sua qualificazione giuridica disciplinarmente rilevante, cioè nella sua configurazione di violazione di un dovere specifico, attinente al servizio o alla disciplina, la cui fonte può rinvenirsi nella legge, nei regolamenti militari o promanare direttamente a seguito dell’emanazione di un ordine gerarchico(6).
La contestazione, in effetti, fissa il thema decidendum che come tale non solo deve essere idoneo a configurare il fatto storico oggetto di contestazione, ma anche la qualificazione giuridicamente (disciplinarmente) rilevante del fatto(7).
Se l’esatta configurazione del fatto disciplinarmente rilevante è essenziale per la corretta instaurazione del procedimento disciplinare, può non essere sufficiente nel momento in cui il destinatario dell’atto di contestazione non percepisca oggettivamente quest’ultimo come addebito disciplinare. L’atto di contestazione degli addebiti deve assolvere, quindi – anche e soprattutto – la funzione di rendere edotto l’interessato di essere di fronte al primo atto di un procedimento disciplinare, che può sfociare in un provvedimento punitivo. La predetta finalità deve chiaramente trasparire dall’atto di contestazione, anche al di là di meri aspetti formali, e l’incolpato deve essere posto in grado di rendersi conto che nei suoi confronti l’Amministrazione ha inteso attivare un procedimento disciplinare che può portare all’irrogazione di una sanzione. Ciò non sembra verificarsi nel caso in cui all’interessato pervenga una comunicazione che si connota quale mera e generica richiesta di chiarimenti, che non lascia intuire in nessuno dei suoi punti la finalità di avvio di un procedimento sanzionatorio. In effetti, una cosa è chiedere chiarimenti, cosa diversa è contestare addebiti e rendere consapevole il destinatario della formale attivazione di un procedimento disciplinare(8).
In tale contesto, generiche richieste di chiarimenti o delucidazioni, così come una richiesta di relazione di servizio, non possono costituire idonei atti di contestazione di addebiti disciplinari, poiché la loro formulazione non è oggettivamente rivolta ad incolpare un militare. In sintesi, la mancanza di un’espressa dichiarazione all’interno di queste richieste di chiarimenti o delucidazioni, la quale affermi esplicitamente che le stesse vengono effettuate a titolo disciplinare, porta la giurisprudenza, come nel caso in esame, a ritenere che le stesse non possano valere quale contestazione degli addebiti.

3. Contestazione degli addebiti e avvio del procedimento disciplinare.

Altro profilo di interesse, per quel che concerne l’atto di contestazione, è la sua funzione ulteriore di costituire comunicazione di avvio del procedimento amministrativo. Dall’atto di contestazione, infatti, inizia il procedimento disciplinare, quindi, iniziano a decorrere i termini procedimentali previsti, entro i quali deve concludersi il procedimento stesso(9).
La contestazione è ovviamente un atto recettizio, ha cioè efficacia nel momento in cui giunge nella sfera cognitiva del destinatario (solo da quel momento l’interessato è a conoscenza dell’incolpazione e può dirsi correttamente instaurato il contraddittorio, nei limiti strutturali del procedimento amministrativo). Da ciò consegue che il termine del procedimento, il termine massimo in questione(10), inizia a decorrere dal ricevimento dalle contestazioni da parte del militare incolpato(11).
 La contestazione può avvenire verbalmente o - preferibilmente - per iscritto(12).
Quando avviene per iscritto, deve essere indirizzata all’interessato e deve essergli consegnata personalmente o nelle altre forme di conoscenza presunta normativamente previste.
Nell’atto di contestazione, oltre all’addebito disciplinare devono essere indicati, ai sensi degli artt. 7 e 8, l. n. 241/1990, l’amministrazione competente, l’oggetto del procedimento, l’ufficio o la persona responsabile dello stesso, la data entro la quale deve concludersi il procedimento(13), l’ufficio in cui si può prendere visione degli atti.
La contestazione degli addebiti, inoltre, deve indicare anche il termine a difesa, posto anche a garanzia della corretta partecipazione dell’interessato al procedimento amministrativo (ma il profilo assorbente rimane quello relativo al diritto di difesa in un procedimento sanzionatorio). Nel procedimento disciplinare di corpo il termine per presentare memorie scritte e documenti da parte dell’incolpato è pari a due terzi di quello stabilito per la durata del procedimento stesso, sempre che quest’ultimo non sia già concluso(14).

Ten. Col. Fausto Bassetta


 

Approfondimenti





(1) - Si veda: F. Bassetta, Le contestazioni nel procedimento disciplinare, in questa Rassegna, n. 2/2007, 150-152, nota alla sentenza del T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. n. 39/2007 (c.c. 20 dicembre 2006), Pres. La Medica, Est. Sapone, A. G. c. Ministero Finanze.
(2) - Sulla contestazione degli addebiti: P. Iovino - M. Mormando, Sanzioni disciplinari di corpo: l’esame di legittimità in sede contenziosa, in Riv. G.d.F., n. 2, 2005, 440 ss.
(3) - Cfr.: T.A.R. Toscana, sez. I, sent. 15 febbraio 2006, n. 423 (c.c. 16 dicembre 2005), Pres. Vacirca, Est. Migliozzi, P. S. c. Ministero Difesa.
(4) -  Sul punto: E. Boursier Niutta - A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare. La disciplina di corpo, Roma, Laurus Robuffo, 20043, 141 ss.; S. Russo, Modalità di avvio del procedimento disciplinare militare, in Diritto Militare, n. 1, 2001, 5 ss. Sulla possibilità del militare di avere accesso agli atti del procedimento prima della conclusione dello stesso, nonostante la diversa dizione del d. m. n. 519/1995, vedi: E. Boursier Niutta - F. Bassetta, La cognizione diretta degli atti dei procedimenti disciplinari militari, in Rass. Arma CC., n. 3, 1998, 70 ss. Nello stesso senso, in giurisprudenza: T.A.R. Liguria, sez. I, 3 maggio 1999, n. 205, in Foro amm., 2000, 989; T.A.R. Toscana, sez. I, sent. 20 giugno 2005, n. 2979 (c.c. 22 febbraio 2005), Pres. Vacirca, Est. Di Nunzio, B. A., c. Ministero Difesa.
(5) - Sulla partecipazione al procedimento e le sue diverse modalità: E. Boursier Niutta - A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare, cit., 147 ss.
(6) - Sulla necessità e sufficienza che la contestazione contenga l’indicazione chiara, precisa ed analitica del fatto storico che si assume commesso e la norma violata: E. Boursier Niutta - A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare, cit., 142 ss.
(7) - La recente pubblicazione “Guida tecnica. Norme e procedure disciplinari”, edita nel 2006 dal Ministero della Difesa - Direzione Generale per il Personale Militare, afferma: “la necessità che la contestazione degli addebiti debba avvenire sempre in forma scritta, recando fatti e circostanze di rilevanza disciplinare, nonché l’indicazione delle norme disciplinari violate (articoli del R.D.M. e/o della legge sui principi della disciplina militare)”.
(8) - Così: T.A.R. Abruzzo - L’Aquila, sent. 31 gennaio 2005, n. 43 (c.c. 1° dicembre 2004), Pres. Balba, Est. Rasola, N. C. c. Ministero Finanze.
(9)   - Cfr.: T.A.R. Toscana, sez. I, sent. 15 febbraio 2006, n. 423 (c.c. 16 dicembre 2005), Pres. Vacirca, Est. Migliozzi, P. S. c. Ministero Difesa.
(10)  - Il termine massimo è quello di 90 giorni stabilito dal d. m. 8 agosto 1996, n. 690, concernente il regolamento recante disposizioni di attuazione degli artt. 2 e 4 della legge 7 agosto 1990, n. 241, nell’ambito degli enti, dei distaccamenti, dei reparti dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica, nonché di quelli a carattere interforze.
(11) - Cfr.: Cons. Stato, sez. VI, sent. 13 maggio 2002, n. 2550 (c.c. 26 febbraio 2002) Pres. Ruoppolo, Est. Maruotti. Si legga il seguente passo della sentenza: “va rimarcata la natura recettizia della contestazione degli addebiti, sia nel senso che l’interessato acquista lo status di incolpato al momento della formale notifica all’interessato, sia nel senso che l’Amministrazione è tenuta a concludere il procedimento entro il termine di novanta giorni, decorrente non dalla data di emanazione della nota di contestazione degli addebiti, bensì da quella della sua notifica”.
(12) - Sulla possibilità dello svolgimento in forma orale del procedimento: Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 1994, n. 1065, in Foro amm., 1994, fasc. 12. Sulla necessità - almeno - di verbalizzare in forma scritta le contestazioni, cfr.: T.A.R. Veneto, Sez. I, sent. n. 956/2004 (c.c. 25 febbraio 2004), Pres. Baccarini, Est. De Piero. La pubblicazione “Guida tecnica. Norme e procedure disciplinari”, cit., afferma che “[è] opportuno che nell’irrogazione delle sanzioni disciplinari di corpo sia adottata la forma scritta anche quando il Regolamento di Disciplina prevede quella orale”. Ancora, si afferma che “[l]a forma orale, infatti, non consente all’Amministrazione di dimostrare agli organi di giustizia amministrativa che il procedimento disciplinare si è svolto nel rispetto della procedura prevista dalle norme che regola la materia (sentenza T.A.R. Lazio n. 310 in data 10/02/1987)”.
(13) - Quest’ultima comunicazione è stata introdotta dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15.
(14) - Cfr.: art. 6, comma 2, d. m. 690/1996. Si tenga anche conto che la pubblicazione “Guida tecnica. Norme e procedure disciplinari”, cit., afferma che “[a]ll’inquisito deve essere sempre concesso il termine a difesa, a meno che non vi rinunci per iscritto, per consentirgli di produrre memorie scritte e documenti. Tale termine non può superare i 60 giorni, pari a 2/3 del termine massimo a disposizione del Comandante di corpo per concludere il procedimento. Il citato termine di 90 giorni può essere ridotto dall’Autorità che procede quando le esigenze istruttorie non ne richiedono l’intero utilizzo. In tal caso il termine a difesa è commisurato ai 2/3 di quello minore indicato nella comunicazione di contestazione dell’addebito. Quando il termine del procedimento sia uguale o inferiore a 30 giorni, memorie scritte e documenti dovranno essere presentati entro 10 giorni dall’inizio del procedimento”.





Disicplina militare di stato - Provvedimenti sanzionatori - Potere decisorio del ministro della difesa - Sussiste.


Cons. Stato, sez. IV, sent. 12 marzo 2007, n. 1213 (c.c. 6 febbraio 2007), Pres. Ferrari, Est. Poli (rif., T.A.R. Puglia, sez. I, 25 gennaio 1999, n. 109)

Il Ministro della difesa è il massimo organo gerarchico e disciplinare delle Forze armate e, in tale contesto, la riforma dell’impiego pubblico, pur incidendo sui rapporti e sul riparto di competenze fra livello politico e dirigenza, ha lasciato ferme le particolari disposizioni recate dall’ordinamento di settore della difesa, tra le quali la competenza a decidere l’applicazione di sanzioni da parte del Ministro stesso nel campo della disciplina militare di stato. Pertanto, fatto salvo l’esercizio del potere di delega (di firma o in senso proprio) sicuramente utilizzabile in quanto modulo organizzatorio generale per tutte le amministrazioni, non possono estendersi le acquisizioni giurisprudenziali secondo le quali i provvedimenti disciplinari (e in generale di gestione del personale) rientrano automaticamente fra i compiti esclusivi della dirigenza militare. (1)
(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“1. Con sentenza del G.i.p. del Tribunale di Trani - n. 213 del 29 aprile 1996, irrevocabile il 13 giugno 1996 - al capitano di corvetta (C.P.) S[.] P[.] veniva inflitta, ex art. 444 c.p.p., la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione per i reati di peculato continuato, falsità materiale ed ideologica continuate, soppressione di atti pubblici; nel corpo della sentenza il giudice dava atto espressamente della sussistenza dei reati e del risarcimento del danno effettuato dall’imputato.
La sentenza penale veniva notificata dal P[.] all’amministrazione in data 14 settembre 1996.
1.1. Disposta inchiesta formale (cfr. determinazione del 20 novembre 1996), si procedeva alla contestazione degli addebiti (peculato continuato e falsità continuata) a mezzo nota datata 2 dicembre 1996 comunicata personalmente il successivo 5 dicembre.
Il P[.] prendeva visione di tutti gli atti acquisiti all’inchiesta formale e depositava memoria difensiva datata 13 dicembre 1996.
1.2. Acquisita la relazione finale redatta a conclusione dell’inchiesta formale, il Comandante in capo del Dipartimento militare marittimo di Taranto proponeva, a mente dell’art. 77, comma 2, l. n. 113 del 1954, la sanzione della sospensione disciplinare dall’impiego per mesi 12 (cfr. proposta del 16 gennaio 1997).
La direzione generale per il personale militare della marina si discostava dalla proposta, ex art. 77, comma 3, cit., a cagione della estrema gravità degli addebiti, deferendo il P[.] al consiglio di disciplina in vista della comminatoria della perdita del grado per rimozione (cfr. nota del 17 febbraio 1997).
1.3. Nominato il consiglio di disciplina, il P[.] veniva invitato ad esercitare la facoltà di ricusazione ex art. 84, l. 113 cit. (cfr. nota 21 febbraio 1997 comunicata il successivo giorno 26); con telex del 26 febbraio 1997 (inviato alle ore 12,30) quest’ultimo chiedeva un congruo termine per visionare gli atti in possesso del consiglio e predisporre le proprie difese; il richiesto termine veniva negato in ragione della inesistenza di atti nuovi non conosciuti dall’inquisito e contestualmente veniva fissata l’udienza disciplinare per il 27 febbraio 1997 (cfr. note del 26 febbraio 1997 comunicate alle ore 21,30 dello stesso giorno).
Davanti al consiglio di disciplina: veniva letta la memoria difensiva redatta dal P[.] nel corso dell’inchiesta formale; quest’ultimo rispondeva a tutte le domande ammettendo di aver prelevato somme di denaro in momenti di difficoltà economica; non forniva alcuna spiegazione in ordine alla contraffazione della firma del comandante; infine, depositava una memoria con cui insisteva per la concessione dei termini a difesa (cfr. verbale del 27 febbraio 1997).
Preso atto che il consiglio di disciplina lo aveva giudicato meritevole di non conservare il grado, il Direttore generale per il personale militare della marina, di concerto con il Comando generale delle Capitanerie di porto, comminava la sanzione della perdita del grado per rimozione (cfr. decreto del 4 marzo 1997).
1.4. Avverso tale sanzione il P[.] articolava le seguenti censure:
a) violazione degli artt. 74, l. n. 113 del 1954, 104, t.u.imp.civ. St., 15, l. n. 382 del 1978, sotto il profilo della totale genericità dell’atto di contestazione degli addebiti;
b) violazione dell’art. 77, l. n. 113 cit. perché il deferimento al consiglio di disciplina non è stato disposto dal Comandante in capo del Dipartimento marittimo militare di Taranto;
c) violazione dell’art. 111, comma 4, t.u.imp.civ.St., non essendo stato concesso il termine minimo a difesa di venti giorni fra la data di comunicazione dell’udienza disciplinare e quella di svolgimento effettivo;
d) eccesso di potere per sviamento dalla causa tipica, avendo l’amministrazione negato il diritto di difesa allo scopo di impartire una lezione esemplare;
e) violazione dell’art. 9, l. n. 19 del 1990 sotto il profilo che il procedimento disciplinare si era concluso oltre il termine perentorio di 90 gg. sancito dalla norma in esame;
f) violazione dell’art. 71, comma 1, l. n. 113 cit., perché la perdita del grado andava inflitta con decreto presidenziale;
g) violazione degli artt. 77 e 88, l. n. 113 cit. sotto il profilo che la decisione di sottoporlo al consiglio di disciplina e la conseguente perdita del grado non erano state adottate dal Ministro ma da organo incompetente.
2. L’impugnata sentenza - T.a.r. per la Puglia, sezione I, n. 109 del 25 gennaio 1999 - ha respinto tutti i motivi compensando integralmente fra le parti le spese di giudizio.
3. Con ricorso notificato il 24 gennaio 2000, e depositato il successivo 3 febbraio, il capitano S[.] P[.] proponeva appello avverso la su menzionata sentenza del T.a.r. riproponendo criticamente tutte le censure articolate in prime cure.
4. Si costituivano i Ministeri della difesa e dei trasporti deducendo l’infondatezza del gravame in fatto e diritto.
5. La causa è passata in decisione all’udienza pubblica del 6 febbraio 2007.
6. L’appello è parzialmente fondato e và accolto per quanto di ragione.
Attesa la delicatezza della vicenda in esame si esaminano le doglianze secondo l’ordine espositivo seguito nell’atto di appello e nella memoria conclusionale (del 22 gennaio 2007), e non secondo la tassonomia propria; con la precisazione che quelle di cui ai motivi 2, 6 e 7 del gravame saranno trattate congiuntamente, risolvendosi in distinti profili del medesimo motivo di incompetenza.
6.1. Con il primo mezzo si reitera la censura di genericità della contestazione degli addebiti.
Il mezzo è palesemente infondato:
- in base alla semplice lettura delle risultanze documentali;
- sulla scorta della pacifica circostanza che l’inquisito si è pienamente difeso nel merito percependo l’essenza delle accuse;
- in considerazione della minuziosità delle imputazioni penali indicate ed accertate nella sentenza emessa ex art. 444 c.p.p.
Parimenti infondato è l’argomento che fonda la genericità della contestazione sull’inidoneità dell’accertamento contenuto nella sentenza di applicazione della pena.
Seguendo un condivisibile indirizzo di questo Consiglio (cfr. sez. IV, n. 477 del 2006; sez. V, n. 4417 del 2006), anche prima della novella recata dalla l. n. 97 del 2001, in presenza di una sentenza c.d. di patteggiamento, non sono necessari autonomi accertamenti da parte dell’amministrazione in sede di procedimento disciplinare per i fatti non controversi e per quelli esaustivamente accertati in sede penale (come verificatosi nel caso di specie); tali conclusioni valgono anche per delimitare l’onere, gravante sulla p.a., di specificazione del contenuto della contestazione degli addebiti.
6.2. Con il terzo mezzo si lamenta la mancata concessione dei termini a difesa garantiti dall’art. 111, comma 4, t.u.imp.civ.St.
Il mezzo è inaccoglibile.
Premesso che, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice, al giudizio disciplinare militare si applicano, in caso di lacune, tutte le garanzie procedimentali previste dal menzionato t.u. se non incompatibili con le peculiarità dell’ordinamento militare (cfr., nella giurisprudenza costituzionale, C. cost., n. 104 del 1991; nella giurisprudenza amministrativa, fra le tante, sez. IV, n. 209 del 2006; sez. IV, 1875 del 1999), nel particolare caso di specie, la mancata concessione dei termini a difesa non ha comportato alcuna lesione della posizione soggettiva del ricorrente che si è potuto difendere in modo esaustivo dalle accuse mosse.
Deve evidenziarsi, inoltre:
- che gli atti entrati nella disponibilità del consiglio di disciplina erano gli stessi già visionati dall’inquisito in sede di inchiesta formale;
- che quest’ultimo ha fatto leggere, innanzi al consiglio, la memoria difensiva presentata all’ufficiale inquirente.
6.3. Con il quarto motivo si reitera la censura di eccesso di potere per sviamento dalla causa tipica.
Il mezzo è infondato sia in relazione a quanto illustrato al precedente punto 7.2., sia avuto riguardo alla straordinaria gravità degli illeciti penali commessi dall’ufficiale (prelievi abusivi per centinaia di milioni di lire nel corso di alcuni lustri, realizzati grazie alla falsificazione sistematica della documentazione contabile).
6.4. Con il quinto motivo si censura la tardiva conclusione del procedimento disciplinare, oltre il termine perentorio di 90 gg. sancito dall’art. 9, l. n. 19 del 1990.
Anche tale mezzo è infondato.
Secondo il consolidato indirizzo di questo Consiglio, il termine di 90 gg. previsto dall’art. 9 cit., si cumula con quello di 180 gg. entro cui iniziare il procedimento disciplinare, sicché all’amministrazione è concesso un termine globale di 270 gg. decorrente dalla data in cui ha avuto piena conoscenza della sentenza di condanna (cfr. Ad. plen. n. 1 del 2004; Ad. plen. n. 4 del 2000).
Conseguentemente nell’odierna fattispecie è stato rispettato il termine di 270 gg. iniziato a decorrere il 14 settembre 1996 (a seguito della notificazione della sentenza del Tribunale penale di Trani) e non esaurito alla data di adozione dell’impugnata sanzione espulsiva (4 marzo 1997).
Alle medesime conclusioni si perviene volendo seguire l’indirizzo giurisprudenziale che - in caso di sentenza c.d. di patteggiamento pronunciata prima della novella introdotta dalla l. n. 97 del 2001 (come nel caso di specie) - ritiene che l’amministrazione sia tenuta, a mente dell’art. 9, l. n. 19 cit., a rispettare il solo termine perentorio di inizio del procedimento disciplinare (180 gg. dalla comunicazione completa della sentenza irrevocabile), ma non quello di conclusione che rimarrebbe disciplinato dalla previsione generale di cui all’art. 120, t.u.imp.civ.St. che impone il rispetto del solo termine di fase di 90 gg. (cfr. ex plurimis Cons. St., Ad. plen. n. 6 del 2000).
6.5. Con il secondo, sesto e settimo mezzo viene dedotta, sotto più profili, l’incompetenza relativa della Direzione generale del personale militare ad esprimere, in luogo del Ministro della difesa, sia la determinazione di non aderire alla proposta di sanzione del Comandante in Capo del Dipartimento marittimo di Taranto, sia la volontà provvedimentale definitiva in ordine all’irrogazione della sanzione espulsiva.
In fatto giova fin d’ora precisare che non risulta, da tutti gli atti acquisiti al fascicolo d’ufficio e dalla lettura delle memorie dell’Avvocatura dello Stato, che sia stata rilasciata dal Ministro della difesa alla Direzione generale in questione, una delega di firma o una delega in senso proprio (neppure di contenuto generale).
6.5.1. Si dà atto che il ricorrente non contesta il rigetto del profilo imperniato sulla competenza del Capo dello Stato ad emanare la sanzione della perdita del grado come previsto dall’art. 71, comma 1, l. n. 113 cit. (cfr. pagina 15 del gravame). E' pacifico che successivamente all’entrata in vigore dell’art. 1, l. n. 13 del 1991, la forma del decreto presidenziale per l’esternazione degli atti amministrativi è limitata ai soli casi tassativi colà previsti (nell’ambito dell’ordinamento militare: la nomina degli ufficiali generali, dei vertici delle FF.AA., del Ministero della difesa, dei comandanti di grandi unità e regioni).
6.5.2. Il primo giudice ha respinto la censure in esame facendo generico riferimento alle innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 29 del 1993 circa l’attribuzione, in via generale, agli organi di direzione amministrativa di ogni competenza in materia di gestione del personale.
Anche l’Avvocatura dello Stato si è attestata sulla medesima linea senza approfondimenti di sorta.
Tale impostazione ermeneutica non è condivisibile.
Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. da ultimo sez. IV, 21 dicembre 2006, n. 7774; sez. III, 24 gennaio 2004, n. 1279\2003 cui si rinvia a mente dell’art. 9, l. n. 205 del 2000):
- il Ministro della difesa è il massimo organo gerarchico e disciplinare delle FF.AA. (arg. ex art. 1 e 2, l. n. 25 del 1997);
- la riforma dell’impiego pubblico (di cui al d.lgs. n. 29 del 1993, oggi d.lgs. n. 165 del 2001), pur incidendo sui rapporti e sul riparto di competenze fra livello politico e dirigenza, ha lasciato ferme le particolari disposizioni recate da alcuni ordinamenti di settore, fra cui quello della difesa (artt. 3, co. 1, 19, co. 11 e 12, 21, co. 3, d.lgs. cit.); pertanto non possono estendersi le acquisizioni giurisprudenziali secondo le quali i provvedimenti disciplinari (e in generale di gestione del personale) rientrano automaticamente fra i compiti esclusivi della dirigenza militare;
- è fatto salvo l’esercizio del potere di delega (di firma o in senso proprio) sicuramente utilizzabile in quanto modulo organizzatorio generale per tutte le amministrazioni.
Queste considerazioni appaiono ancora più corroborate ove si ponga mente all’evoluzione normativa successiva al d.lgs. n. 29 del 1993. Il legislatore, intervenendo sulle attribuzioni dei vertici militari in materia disciplinare onde armonizzarle con la riforma di cui alla l. n. 25 del 1997, ha espressamente modificato le competenze divisate dalle leggi di stato degli ufficiali e sottufficiali (rispettivamente artt. 75 e 79, l. 113 del 1954, artt. 65 e 69 l. n. 599 del 1954), limitandosi a sostituire ai comandanti di corpo d’armata (ed equiparati) gli alti comandanti militari interforze o di Forza armata, senza in alcun modo incidere sulle speciali competenze del Ministro delle difesa. (cfr. art. 21, comma 2, d.P.R. n. 556 del 1999 recante il regolamento di attuazione dell’art. 10 della l. n. 25 del 1997).
Per tutte le su esposte argomentazioni le censure di incompetenza relativa mosse avverso gli atti in precedenza individuati devono essere accolte.
7. L’accoglimento parziale del gravame comporta, in riforma dell’impugnata sentenza, l’annullamento della perdita del grado per rimozione.
Attesa la particolare delicatezza della vicenda la sezione, onde facilitare l’esecuzione della presente decisione, precisa che:
a) rimane fermo il potere del Ministro della difesa di rinnovare, ora per allora, il procedimento disciplinare a mente dell’art. 119, t.u.imp.civ. St., nel termine perentorio di trenta giorni decorrente dal passaggio in giudicato della presente decisione e nei limiti meglio specificati in prosieguo;
b) il Ministro della difesa ovvero l’organo a ciò delegato, qualora decida di riesercitare la potestà disciplinare, dovrà valutare se discostarsi dalla proposta del Comandante in capo del Dipartimento militare marittimo di Taranto del 16 gennaio 1997, formulata ai sensi dell’art. 77, comma 2, l. n. 113 del 1954 e, in caso affermativo, preso atto del parere espresso dal Consiglio di disciplina nella seduta del 27 febbraio 1997, determinarsi a mente dell’art. 88, l. n. 113 del 1954; in tal caso infatti, attesa la particolarità della vicenda in esame, non sarà necessario rinnovare l’intero procedimento disciplinare a partire dalla nota della Direzione generale del 17 febbraio 1997, essendo sufficiente che il Ministro della difesa (o un suo delegato) provveda ad assumere la determinazione di cui all’art. 88 cit.
8. In conclusione l’appello deve essere accolto ai sensi e nei limiti sopra evidenziati.”


La competenza disciplinare di stato del Ministro della difesa

1. La separazione tra politica e amministrazione: il ruolo particolare del Ministro della difesa.

Il Ministro della difesa costituisce la figura centrale del sistema organizzativo della difesa militare dello Stato. Questo ruolo fondamentale è stato, recentemente, ribadito dalla l. n. 25/1997. L’art. 1, l. n. 25/1997 reca importanti disposizioni in tema di attribuzioni del Ministro della difesa, con riguardo alla sua collocazione istituzionale all’interno della relativa amministrazione, alla sua attività esecutiva, alla sua azione di indirizzo politico-amministrativo, alla sua rilevanza istituzionale nelle relazioni internazionali e, infine, alla sua attività di coordinamento e controllo nel settore della pianificazione generale e finanziaria del suo dicastero(1).
A tal proposito, l’art. 1, l. n. 25/1997 definisce il Ministro della difesa, preposto all’amministrazione militare e civile della difesa, massimo organo gerarchico e disciplinare. La dottrina più sensibile non ha mancato di rilevare l’apparente contraddizione della norma con il disposto degli artt. 3, 14 e 16, d. lgs. n. 29/1993 (attualmente artt. 4, 14 e 16, d. lgs. n. 165/2001, ai quali - per comodità espositiva - faremo riferimento), in tema di funzioni e di responsabilità degli organi di governo e dei dirigenti(2).
In effetti, interpretando la dizione “massimo organo gerarchico” in senso letterale, cioè come struttura apicale dell’intera organizzazione amministrativa della difesa, si dovrebbe supporre che al Ministro della difesa non si applicherebbero i divieti di revoca, riforma, riserva e avocazione degli atti dei dirigenti stabiliti dall’art. 14, comma 3, d. lgs. n. 165/2001; così come si dovrebbe supporre che al Ministro della difesa rimanga la possibilità di decidere i ricorsi gerarchici avverso i provvedimenti emanati dai titolari degli uffici dirigenziali generali del proprio dicastero(3).
Una simile interpretazione risulterebbe dissonante con il complessivo quadro normativo sui rapporti tra politica ed amministrazione e, in sostanza, non giustificherebbe una peculiare posizione del Ministro della difesa sia all’interno della compagine governativa, sia in relazione alla concreta gestione dell’apparato amministrativo della difesa.
Si deve, allora, fondatamente ritenere che non è possibile scindere la locuzione “massimo organo gerarchico e disciplinare” nelle due espressioni di “massimo organo gerarchico” (in senso tecnico amministrativo) e “massimo organo disciplinare” (in senso gerarchico militare). I termini “gerarchico” e “disciplinare”, in sostanza, potrebbero essere stati utilizzati dal legislatore come un’endiadi e, quindi, riferirsi alla peculiare posizione del Ministro della difesa all’interno dell’ordinamento militare(4).
Questa impostazione trova un’esatta corrispondenza con la norma di cui all’art. 12, comma 1, lett. a), R.D.M., dove viene stabilito che per il militare dal principio di gerarchia deriva, tra l’altro, il dovere di obbedienza nei confronti del Ministro della difesa(5) e dei Sottosegretari di Stato per la difesa, quando questi ultimi esercitano le funzioni loro conferite per delega dal Ministro. Al Ministro della difesa è riconosciuto il potere disciplinare, ma non la potestà sanzionatoria, almeno per l’ambito della disciplina militare di corpo.
Bisogna anche aggiungere che l’interpretazione, la quale vuole anche per il Ministro della difesa la piena applicabilità delle norme che stabiliscono la separazione tra politica ed amministrazione, è pienamente accolta nella prassi amministrativa (i provvedimenti amministrativi emanati dai titolari degli uffici dirigenziali generali del ministero sono considerati a tutti gli effetti atti definitivi). Questa prassi, però, contrasta con un indirizzo giurisprudenziale che individua ancora ampi margini di manovra del Ministro della difesa in alcuni settori di concreta gestione amministrativa. È opportuno a questo punto, effettuare un’ampia ricognizione del le norme di settore per individuare proprio quegli ambiti di intervento del Ministro della difesa nella gestione amministrativa che devono essere ancora considerati sottratti al principio di separazione tra politica e amministrazione e vanno a qualificare in modo originale la posizione istituzionale del Ministro stesso nell’ambito della pubblica amministrazione e, in particolare, in seno al suo stesso dicastero.

2. Le residue funzioni “amministrative” del Ministro della difesa.

Per quel che concerne i poteri e le attribuzioni del Ministro della difesa non è sufficiente la lettura delle disposizioni generali contenuti nella l. n. 25/1997, nel d. lgs. n. 300/1999 e nel d. lgs. n. 165/2001.
La legislazione militare contempla in molti passi la necessità di atti e provvedimenti del Ministro, la maggior parte dei quali sono confluiti nella competenza dei pertinenti dirigenti generali. Vi sono, però, numerose decisioni e atti di intervento, con particolare riguardo alla sfera di gestione del personale, che è difficile ricondurre alla competenza dei direttori generali, per i profili di amplissima discrezionalità che sembrano relegare gli stessi in un piano intermedio tra gli atti di alta amministrazione e gli atti politici.
Un’elencazione ed un’analisi critica di questi istituti confermerebbe il residuo potere amministrativo del Ministro della difesa, giustificabile ampiamente dalla posizione di supremazia gerarchico militare dello stesso.
Si tratta - ovviamente - di “istituti limite” che hanno avuto un’applicazione estremamente sporadica, ma caratterizzano la particolare situazione di soggezione gerarchica degli appartenenti alle Forze armate e i peculiari profili del rapporto di impiego del personale militare.
Nel settore dello stato giuridico degli ufficiali, disciplinato dalla l. n. 113/1954, esiste una singolare ipotesi di cessazione dal servizio permanente, la cessazione d’autorità. In base a questo istituto, l’ufficiale può essere collocato in ausiliaria o nella riserva, d’autorità, cioè con provvedimento unilaterale dell’amministrazione(6).
La cessazione d’autorità ha, quindi, un contenuto ampiamente discrezionale, per cui si ritiene che possa essere utilizzata dall’amministrazione solo per gravissime ragioni di opportunità, quando non possano esperirsi gli altri strumenti previsti dall’ordinamento (come la non idoneità agli uffici del grado) e sussista le necessità cogente di collocare in congedo l’ufficiale.
Il provvedimento in questione rientrerebbe tra gli strumenti di autotutela dell’amministrazione, con un contenuto almeno parzialmente sanzionatorio, per cui andrebbero comunque garantite le condizioni minime di partecipazione al procedimento amministrativo da parte dell’interessato, con un’analogica applicazione degli istituti del procedimento disciplinare, trattandosi - in sostanza - di un provvedimento di dispensa dal servizio.
L’orientamento interpretativo espresso troverebbe qualche appiglio nelle stesse norme che disciplinano l’adozione di un simile provvedimento. In particolare:
- se si tratta di un generale di corpo d’armata o grado corrispondente, il provvedimento è subordinato alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della difesa, previo parere nel senso di una commissione militare, nominata di volta in volta dal Ministro, e del Capo di Stato Maggiore della difesa;
- per i rimanenti ufficiali il provvedimento riveste la natura di determinazione ministeriale, adottata previo parere nel senso delle competenti commissioni di avanzamento(7).
Rimane il dubbio che, anche per i rimanenti ufficiali, si possa supporre che l’adozione di un simile provvedimento sia demandata al direttore generale e non direttamente al Ministro della difesa (purtroppo prassi e giurisprudenza non ci sono di aiuto, stante la quasi completa inutilizzazione dello strumento). Per quel che concerne l’avanzamento degli ufficiali, la l. n. 1137/1955 prevede, in sede di formazione dei quadri di avanzamento a scelta, un importante e significativo intervento discrezionale dell’autorità politica. In particolare è disposto che gli elenchi (degli idonei e dei non idonei all’avanzamento) e le graduatorie sono sottoposti al Ministro della difesa, il quale li approva dopo aver eventualmente apportato le esclusioni dagli stessi che giudica opportune e necessarie nell’interesse dell’amministrazione(8).
Qui è indubbio che il potere di esclusione, per il suo contenuto eccezionalmente discrezionale, rimanga in mano al Ministro della difesa(9).
Esistono, infine, cause di sospensione della promozione e di cancellazione dai quadri di avanzamento(10).
Per gli ufficiali, la normativa è ancora contenuta negli artt. 34, 35 e 36, l. n. 1137/1955(11).
Il primo articolo si riferisce all’eventuale sopravvenienza delle stesse cause che avrebbero dovuto impedire l’inserimento dell’ufficiale nell’aliquota di avanzamento o sospenderne la valutazione, mentre l’art. 35, l. n. 1137/1955 dà facoltà al Ministro della difesa di sospendere discrezionalmente la promozione, in presenza di fatti di notevole gravità in cui sia rimasto coinvolto l’ufficiale, senza peraltro che la norma specifichi di quali fatti si debba tener conto, anche se dobbiamo ritenere siano certamente ulteriori rispetto a quelli contemplati dell’articolo precedente(12).
Anche qui si tratta di valutazioni di amplissima discrezionalità che è difficile non attribuire direttamente alla competenza diretta del Ministro della difesa.

3. La disciplina militare di stato e il ruolo del Ministro della difesa.

In tema di disciplina militare non si può negare la potestà dell’azione disciplinare di stato e quella sanzionatoria in capo al Ministro della difesa. Per quanto riguarda le sanzioni di stato dobbiamo distinguere tra autorità competente a disporre l’inchiesta formale o l’accertamento disciplinare e autorità competente ad adottare la relativa sanzione. L’azione disciplinare in tal caso risulta esercitata da parte dell’autorità competente a disporre l’inchiesta formale o l’accertamento disciplinare.
Per gli ufficiali, tra gli altri è competente ad esercitare l’azione disciplinare il Ministro della difesa, il quale può ordinare direttamente l’inchiesta formale per qualsiasi ufficiale, ai sensi dell’art. 76 l. n. 113/1954, ed è unico competente, ai sensi dell’art. 75, 3° comma, l. n. 113/1954, se si tratta di ufficiale generale o colonnello (e gradi corrispondenti) assegnato per l’impiego all’area tecnico-amministrativa del Ministero della difesa o ad enti, comandi, reparti di altra Forza armata, o di ufficiali corresponsabili della stessa Forza armata, ma dipendenti da enti e comandi militari diversi.
Anche per i sottufficiali, tra gli altri, è competente a disporre l’inchiesta formale il Ministro della difesa, il quale può ordinare direttamente l’inchiesta formale per qualsiasi sottufficiale, ai sensi dell’art. 65, 6° comma, l. n. 599/1954, ed è unico competente, ai sensi dell’art. 65, 5° comma, l. n. 599/1954, se si tratta di sottufficiale assegnato per l’impiego ad enti, comandi, reparti di altra Forza armata, o quando vi sia corresponsabilità tra sottufficiali di Forze armate diverse o connessione tra i fatti ad essi ascritti.
Infine, anche per gli appuntati e i carabinieri, tra gli altri, è competente a disporre l’accertamento disciplinare il Ministro della difesa, ai sensi dell’art. 38, 3° comma, l. n. 1168/1961.
In materia di azione disciplinare di stato, per i volontari di truppa delle Forze armate valgono le stesse norme previste per i sottufficiali, ai sensi dell’art. 30, comma 2, d. lgs. n. 196/1995.
è evidente che, se al Ministro della difesa si riconosce l’esercizio dell’azione disciplinare, deve essergli riconosciuta anche la relativa potestà sanzionatoria in materia di sanzioni di stato. Si tenga presente, infine, che il Ministro della difesa può sempre discostarsi in melius dal giudizio del consiglio o della commissione e, eventualmente, anche in pejus, ma soltanto in casi di particolare gravità(13).
In questo ultimo caso, l’autorità deliberante non può limitarsi ad esporre le ragioni in base alle quali non concorda col diverso e meno afflittivo giudizio espresso dalla commissione di disciplina (non può cioè limitarsi a sostituire la propria all’altra valutazione di merito), ma deve invece concretamente individuare le circostanze “eccezionali” che impongono di disattendere la proposta formulata dall’organo competente, all’esito del giusto procedimento e con la piena garanzia del contraddittorio(14).
Tutti questi penetranti poteri in tema di gestione del personale con riguardo soprattutto alle categorie di vertice, trovavano (e ancor trovano) la loro ragion d’essere nella necessità che sia garantita dalla massima autorità politica la perfetta rispondenza dei comportamenti delle autorità militari ai principi di lealtà, fedeltà e correttezza istituzionale in un campo di pubblici interessi particolarmente delicato(15).
Attualmente, possiamo rinvenire ulteriori ragioni per confermare in capo al Ministro della difesa questi particolari poteri amministrativi. In particolare, in presenza di vertici tecnico-amministrativi non soggetti alla responsabilità dirigenziale, di cui all’art. 21, d. lgs. n. 165/2001, quindi sottratti al sistema di valutazione e controllo previsto per la dirigenza pubblica, e stante l’inapplicabilità dello spoil system per i più importanti incarichi di livello dirigenziale generale, il Ministro della difesa deve poter esperire poteri correttivi e di intervento a garanzia anche della linea politica adottata. Inoltre, i suddetti poteri amministrativi svolgono, ora, anche una funzione di garanzia nei confronti dei destinatari degli stessi provvedimenti, di rango più elevato, considerando che l’eventuale dirigente responsabile, il Direttore generale del personale militare, è un ufficiale con il grado di generale di divisione o di corpo d’armata e gradi equivalenti. Senza considerare l’illogica conclusione per la quale il Capo di Stato maggiore della difesa non avrebbe gli stessi poteri del Direttore generale del personale militare.

Ten. Col. Fausto Bassetta


Approfondimenti



(1) - Sui compiti del Ministro: P. Bonetti, Ordinamento della difesa nazionale e Costituzione italiana, Milano, Giuffrè, 2000, 73 ss.; A. Baldanza, L’organizzazione del Ministero della difesa e delle Forze armate, in L’ordinamento militare (a cura di V. Poli - V. Tenore), I, Milano, Giuffrè, 2006, 169 ss.
(2) - Sul punto, con particolare riguardo alle relazioni istituzionali tra Ministro della difesa e Capo di Stato Maggiore della difesa: P. Bonetti, Ordinamento della difesa, cit., 77 ss.
(3) - C’è chi non esclude che il Ministro della difesa possa esercitare i poteri normalmente implicati dai rapporti di gerarchia. In sostanza, ben potrebbe coordinare direttamente l’attività dei due uffici che da lui dipendono direttamente (il Capo di Stato maggiore della difesa e il Segretario generale della difesa), risolvere conflitti che insorgessero fra di loro e impartire ordini o, quanto meno, direttive dettagliate. Così: G. D’Auria, Il Ministero della difesa (articoli 20-22), in A. Pajno - L. Torchia, La riforma del Governo, Bologna, Il Mulino, 2000, 251. Si tenga, però, conto che, se la notazione è sicuramente fondata per i rapporti tra Ministro e Capo di Stato maggiore della difesa, non altrettanto può dirsi per il Segretario generale, il cui incarico, solo sul piano della prassi, è sempre stato ricoperto da un militare. Infatti, in base alla l. n. 25/1997, quest’ultima carica può essere ricoperta anche da un funzionario civile o, addirittura, da un estraneo all’Amministrazione della difesa, al che è difficile ipotizzare un vero e proprio rapporto gerarchico, tanto meno di natura militare.
(4) - Si è affermato che “l’autonomia dell’ordinamento militare si traduce in un suo automatico inserimento in quella che è l’amministrazione diretta centrale dello Stato. Ciò avviene mediante l’apprestamento di organi dell’amministrazione diretta quali organi apicale dell’ordinamento organizzatorio: codesto viene sussunto in quella, che lo fagocita … L’amministrazione per ministeri, dunque, assorbe l’ordinamento militare, che peraltro sopravvive a questa ‘unione’, mantenendo intatta la sua natura di ordinamento organizzatorio”: B. Cavallo, Teoria e prassi della pubblica organizzazione, Milano, Giuffrè, 2005, 248.
(5) - Si veda la seguente massima: Cons. Stato, Sez. IV, 15 luglio 1999, n. 1235, in Cons. Stato, 1999, I, 1107: “L’ordine adottato dai responsabili militari (e tale deve ritenersi anche il Ministro della difesa) non richiede alcuna motivazione, essendo intrinseco a materia in cui l’interesse pubblico specifico del rispetto della disciplina e dello svolgimento del servizio prevalgono in modo immediato e diretto su qualsiasi altro”. Recentemente, vedi anche: Cons. Stato, sez. IV, sent. 21 dicembre 2006, n. 7774 (c.c. 5 dicembre 2006), Pres. Salvatore, Est. Poli.

(6) - Cfr.: art. 44, 1° comma, l. n. 113/1954.

(7) - Cfr.: art. 44, 2° comma, l. n. 113/1954.
(8) - Cfr.: art. 27, 1° comma, l. n. 1137/1955. In giurisprudenza: Cons. Stato, sez. IV, 1° luglio 1980, n. 738, in Giur. It., 1981, III; 255.
(9) - Cfr.: Cons. Stato, sez. IV, sent. . 21 dicembre 2006, n. 7774, cit: “La c.d. approvazione ministeriale si sostanzia in un accertamento della legittimità degli atti posti in essere dalla commissione di avanzamento» (cfr. sez. IV, n. 538 del 1978). La dizione «approvazione» deve considerarsi atecnica, non integrando una condizione d’efficacia rispetto all’atto con cui si conclude l’operato della commissione, bensì l’atto costitutivo dell’effetto giuridico della formazione della graduatoria o degli elenchi degli idonei. Al Ministro è riconosciuto il più ampio apprezzamento, potendo questi rifiutare l’approvazione della graduatoria formata dalla commissione superiore di avanzamento, per qualsiasi vizio di legittimità in essa individuabile, e non solo per aspetti formali dell’operato di tale commissione, rilevabili dai relativi verbali (cfr. sez. IV, n. 538 del 1978).
Trattasi di un intervento nel procedimento non dall’esterno, come controllore, ma prima ancora che esso si concluda, con facoltà proprie”.
(10) - In generale per la varie cause di esclusione, di impedimento e di sospensione: C. Lamberti - A. Baldanza, L’avanzamento nelle Forze armate, in I procedimenti amministrativi tipici e il diritto di accesso nelle Forze armate (a cura di V. Poli - V. Tenore), Milano, Giuffrè, 2002, 180. Il potere di esclusione e di approvazione della graduatoria sono visti come poteri distinti, ma intimamente connessi, in quanto esercitati in un unico contesto procedimentale: Cons. Stato, sez. IV, sent. . 21 dicembre 2006, n. 7774 , cit
(11) - Su queste ipotesi, vedi: G. Russo, Avanzamento degli ufficiali. La sospensione della promozione e la cancellazione dal quadro di avanzamento, in Rass. Arma CC., n. 3/1996, 34.
(12) - Sul punto, vedi: G. Russo, Avanzamento degli ufficiali, cit., 35.
(13) - Cfr.: art. 88, l. n. 113/1954 (ufficiali); art. 75 l. n. 599/1954 (sottufficiali, volontari di truppa; art. 42, 4° comma, l. n. 1168/1961 (appuntati e carabinieri). Per gli appuntati e carabinieri la facoltà di discostarsi dal giudizio della commissione da parte del Ministro o del comandante generale viene stabilita solo in melius. In giurisprudenza è stato sottolineato come la normativa che stabilisce una riforma in pejus si riferisca ad ipotesi del tutto eccezionali, nel contesto delle quali al decidente è consentito di valorizzare elementi o presupposti non tenuti adeguatamente presenti dall’organo istruttorio, ma nel fare ciò deve concretamente individuare le circostanze eccezionali che impongano di disattendere la proposta formulata dall’organo competente, al termine del giusto procedimento e con la piena garanzia del contraddittorio; cfr.: Cons. Stato, sez. IV, 24 febbraio 2006, n. 810.
(14) - Cfr.: Cons. Stato, sez. IV; dec. n. 5370/2002 (c.c. 4 giugno 2002), Pres. Trotta, Est. Rulli.
(15) - Cfr.: Cons. Stato, sez. IV, sent. . 21 dicembre 2006, n. 7774 , cit.: “Sul piano storico costituzionale, il potere gerarchico (o, secondo una diversa tesi, quello più tenue di sovraordinazione) del Ministro della difesa intende affermare la sottomissione delle FF.AA. all’autorità politica civile onde garantire la integrazione dell’ordinamento militare in quello generale; tale potere evidenzia, sul piano organizzativo, la funzione di organo di raccordo fra la struttura militare e l’interesse politico generale; marca il punto di contatto (di cerniera) fra l’ordinamento militare e quello giuridico generale. La previsione di tale potere di intervento del Ministro attenua i rischi di separatezza (ed incomunicabilità) fra settore militare e vita civile, in ambiti sensibili quali, ad esempio, quello disciplinare (si pensi al potere del Ministro di operare contro il parere dell’organo collegiale disciplinare come meglio si vedrà in prosieguo), o in materia di avanzamento”.

Esame del giudicato penale - Sentenza di proscioglimento - Termini per iniziare il procedimento disciplinare - 180 giorni dalla data di irrevocabilità della sentenza.


Cons. Stato, sez. IV, sent. 27 giugno 2007, n. 3713 (c.c. 15 maggio 2007), Pres. Vacirca, Est. Saltelli, Ministero Difesa c. A. G. (conf. T.A.R. Lazio, sez. I, sent. 17 ottobre 2006, n. 10455)

Il procedimento disciplinare deve avere inizio, con la contestazione degli addebiti, entro 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento e non dalla data di conoscenza della sentenza, acquisita direttamente dall’amministrazione procedente. (1)
(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“Premesso che con la sentenza n. 10455 del 17 ottobre 2006 il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez. I, accogliendo il ricorso proposto dal signor G[.] A[.] […] ha annullato la determinazione in data 8 giugno 2006, con la quale il Direttore generale per il personale militare del Ministero della Difesa ha disposto nei suoi confronti la perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari, con conseguente cessazione dal servizio: ciò per la violazione dei termini di cui all’articolo 97, terzo comma, prima parte del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, essendo stato avviato il procedimento disciplinare in data 21 novembre 2005, mediante notifica dell’atto di contestazione degli addebiti, oltre il termini di 180 giorni dalla data di irrevocabilità (27 febbraio 2005) della sentenza n. 1179/04 del G.U.P. del Tribunale di Pistoia, di non luogo a procedere;
il Ministero della Difesa con atto di appello notificato il 14 dicembre 2006 ha chiesto la riforma di detta statuizione, osservando che il termine di cui all’articolo 97, terzo comma, del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, non poteva che decorrere dalla data di conoscenza della sentenza del G.U.P. del Tribunale di Pistoia, non notificata, ma acquisita direttamente dall’Amministrazione, di propria iniziativa il 26 agosto 2005, con conseguente piena legittimità del provvedimento disciplinare, anche per quanto riguardava la sua determinazione di merito;
l’appellato, ritualmente costituitosi in giudizio, ha chiesto il rigetto dell’avverso gravame, deducendone l’inammissibilità e l’infondatezza;
in esecuzione dell’ordinanza n. 1059 del 27 febbraio 2007 di questa Sezione, l’Amministrazione appellante ha depositato copia conforme della sentenza del G.U.P. di Pistoia n. 1179/04 del 29 ottobre 2004, comprensiva dell’attestazione della sua irrevocabilità, nonché comunicazione dell’Ufficio del giudice dell’udienza preliminare di Pistoia, datata 14 marzo 2007, in ordine alle ragioni che hanno determinato la irrevocabilità della ricordata decisione;
Rilevato che:
il terzo comma dell’articolo 97 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, stabilisce che “il procedimento disciplinare deve avere inizio, con la contestazione degli addebiti, entro 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento od entro quaranta giorni dalla data in cui l’impiegato abbia notificato all’amministrazione la sentenza stessa;
detti termini, secondo la unanime giurisprudenza, hanno natura perentoria (C.d.S., sez. IV, 18 aprile 1994, n. 341; 17 dicembre 2003, n. 8296; sez. VI, 21 agosto 2000, n. 8296);
la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della ricordata disposizione nella (sola) parte in cui prevede, in caso di sentenza o ordinanza che pronuncia sull’impugnazione, che il procedimento disciplinare deve essere iniziato entro 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento, indipendentemente dalla data di deposito della sentenza o ordinanza conclusiva del procedimento, se successiva alla data in cui si verifica l’irrevocabilità della pronuncia di proscioglimento;
Considerato che:
nel caso di specie, come emerge dalla documentazione in atti, la sentenza di proscioglimento (non luogo a procedere per non punibilità del reato ascritto) emessa dal G.U.P. del Tribunale di Pistoia, n. 1179/04 depositata il 29 novembre 2004) nei confronti del signor G[.] A[.] è divenuta irrevocabile il 27 febbraio 2005 per non essere stata impugnata dai soggetti cui la legge attribuiva il diritto di proporre gravame;
pertanto non può accedersi alla tesi sostenuta dall’amministrazione appellante, secondo cui il termine di avvio del procedimento disciplinare non poteva che decorrere dal momento di acquisizione della sentenza, laddove invece era ancorato esclusivamente, per effetto del ricordato terzo comma dell’articolo 97 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, alla data di irrevocabilità della sentenza (27 febbraio 2005);
rispetto a tale ultima data il procedimento disciplinare, avviato con la notifica della contestazione degli addebiti in data 21 novembre 2005, è palesemente tardiva;
Ritenuto che, in conclusione, alla stregua delle osservazioni svolte, la sentenza impugnata non merita le critiche rivoltele e che l’appello deve essere respinto, potendosi nondimeno compensare le spese del presente grado di giudizio”.



Indennità supplementare di poligono - Militare dell’Arma dei Carabinieri - Non spetta.

Cons. Stato, sez. IV, sent. 24 luglio 2007, n. 4145 (c.c. 27 aprile 2007), Pres. f.f. Saltelli, Est. Carella, C. G. c. Ministero Difesa (conf. T.A.R. Sardegna, sent. 6 marzo 2001, n. 214)

L’indennità supplementare di poligono è prevista solo per i militari delle Forze Armate ed essa, lungi dal compensare gli svantaggi legati in astratto allo status di militare in servizio presso un determinato distaccamento, è legata allo svolgimento della specifica attività militare, quale accessorio della indennità di impiego operativo attribuito. L’emolumento in questione, nel disegno del legislatore, è in perfetta alternativa con l’indennità di istituto prevista in favore del personale delle forze di polizia, per cui lo stesso non spetta agli appartenenti all’Arma dei carabinieri. (1)
(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“1. Nel presente giudizio è controverso se spetti all’appellante, Maresciallo Capo in servizio presso la Stazione dei Carabinieri del Poligono di Perdasdefogu, “l’indennità supplementare di poligono”, prevista dall’art. 16 della Legge 23 marzo1983, n. 78.
La norma così dispone: “il Ministero della Difesa, su proposta del capo si stato maggiore della difesa, con decreto da emanare di concerto con il Ministro del tesoro, può attribuire una indennità di impiego operativo supplementare, nella misura massima mensile del 100% dell’indennità di impiego operativo stabilita in relazione al grado e all’anzianità di servizio militare dall’annessa tabella I, escluse le maggiorazioni indicate alle note a) e b) della predetta tabella, agli ufficiali e ai sottoufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica che prestano servizio in via continuativa presso: poligoni permanenti dislocati a Capo Teulada ed a Perdasdefogu…”.
Le argomentazioni svolte in ricorso si basano sull’art. 18 del d.p.r. 359 del 10 maggio 1996, che testualmente recita: “fermo restando quanto previsto dall’art. 17 della legge 23 marzo 1983 n°78, in materia di corresponsione e cumulabilità di impiego e delle relative indennità supplementari……nei confronti del personale di cui all’art. 10, comma 1, che presta servizio nelle condizioni di impiego previste dalle citate norme, le indennità di aeronavigazione, di volo, di pilotaggio e di imbarco e relative indennità supplementari sono rapportate agli importi vigenti per i militari delle Forze Armate impiegati nelle medesime condizioni operative”.
Tale disposizione, sempre a detta del ricorrente, va posta in relazione con la legge n. 78/83 che, all’art. 16, prevede una indennità supplementare per servizio reso presso i poligoni permanenti che va applicata nello specifico proprio in relazione ed in funzione dei peculiari compiti e mansioni che il personale dell’Arma dei Carabinieri svolge nei medesimi luoghi del personale delle altre tre forze armate.
2. L’appello è infondato e deve essere respinto.
Come si ricava dalla combinazione delle norme dianzi illustrate, l’invocata indennità di poligono è prevista solo per i militari delle Forze Armate ed essa, lungi dal compensare gli svantaggi legati in astratto allo status di militare in servizio presso un determinato distaccamento, è legata allo svolgimento della specifica attività militare, quale accessorio della indennità di impiego operativo attribuito.
Quest’ultimo emolumento, nel disegno del legislatore, è in perfetta alternativa con l’indennità di istituto prevista in favore del personale delle forze di polizia, nel cui novero rientra l’Arma dei C.C., come espressamente sancito dall’art. 16 della legge n. 121 del 1981 e ribadito dall’art. 3 del D.Lgs. n. 297 del 2000.
L’indennità di poligono in questione non può essere perciò corrisposta al personale appartenente alle forze di polizia che gode di un proprio trattamento previsto dalla citata legge n. 121 del 1981 e, segnatamente, dall’art. 43 - che ha istituito una speciale indennità determinata in base alle funzioni attribuite, nonché alla responsabilità ed ai rischi connessi al servizio di polizia - se non duplicando la medesima funzione compensativa svolta dalla indennità di istituto, al pari della indennità di impiego operativo di cui alla legge n. 78 del 1983.
Del resto, sul piano pratico, poiché l’indennità di poligono è parametrata in funzione dell’indennità di impiego operativo riconosciuta, resta impraticabile l’attribuzione della reclamata indennità nell’assenza di corresponsione del suo valore base.
3. Sul punto di diritto controverso il Collegio non intende discostarsi dai propri specifici precedenti (IV, 30.06.2005, n. 3578; IV, 08.07.2003, n. 4058), resi in fattispecie identiche (cui si rinvia a mente dell’art.9, L. n. 205 del 2000).
In estrema sintesi lo snodo argomentativo si dipana sulla considerazione che nessuna norma dell’ordinamento (ed in particolare a livello costituzionale), ha inteso perseguire un’assoluta identità di posizioni e trattamenti all’interno delle medesime Forze di Polizia - ad ordinamento civile o militare - fra queste ultime ed il personale delle Forze Armate.
Ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, il legislatore gode di ampia discrezionalità nel differenziare il trattamento economico di categorie in precedenza egualmente retribuite e, in ogni caso, lo scorrimento verso l’alto di una categoria retributiva non comporta la necessità di innalzare i livelli superiori o inferiori.
Pertanto, è anche manifestamente infondata la sollevata questione di costituzionalità in relazione agli articoli nn. 3 e 36 della Costituzione, nella parte in cui le norme considerate escludono il personale delle Forze di Polizia ad ordinamento militare dalla percezione della c.d. indennità di poligono.
4. In conclusione l’appello deve essere respinto.”



Procedimento disciplinare - Apparente divergenza tra fatti contestati e quelli sanzionati - Rapporto di continenza tra gli stessi - Violazione principio di corrispondenza - Non sussiste.

Cons. Stato, sez. IV, sent. 10 agosto 2007, n. 4393 (c.c. 8 maggio 2007), Pres. Ferrari, Est. Inastasi, Ministero Finanze c. F. S. (rif. T.A.R. Lazio, sez. II, sent. 15 maggio 2006, n. 3512)

Non sussiste la violazione del principio di corrispondenza tra fatti contestati e fatti sanzionati in un procedimento disciplinare, allorché tra il fatto contestato e quello definitivamente accertato intercorra un rapporto di continenza, ben potendo la sanzione essere inflitta in relazione ad alcuno soltanto dei molteplici comportamenti richiamati in sede di contestazione. In effetti, il principio di corrispondenza investe solo il quadro fattuale, in quanto per costante giurisprudenza si esclude che l’autorità disciplinare sia vincolata dalla qualificazione giuridica degli addebiti operata in sede istruttoria. (1)
(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“L’appello è fondato e va pertanto accolto.
Con il primo motivo d’appello l’Amministrazione deduce che - diversamente da come ritenuto dal Tribunale - il provvedimento sanzionatorio fonda in realtà sugli stessi fatti considerati nella contestazione di addebiti.
Il mezzo è fondato.
Come è noto il principio di corrispondenza tra i fatti contestati e quelli sanzionati riveste - come giustamente rilevato dalla sentenza impugnata - rilievo primario nel procedimento disciplinare e comporta, a garanzia del diritto dell’incolpato al contraddittorio difensivo, che questi non possa essere punito per mancanze non previamente contestate.
E tuttavia l’eventuale difformità tra i rilievi contenuti nella contestazione e quelli addotti a sostegno della sanzione non comporta - di per sé sola - l’illegittimità di quest’ultima.
Per un verso deve infatti ricordarsi che il principio di corrispondenza investe solo il quadro fattuale, in quanto per costante giurisprudenza si esclude che l’Autorità disciplinare sia vincolata dalla qualificazione giuridica degli addebiti operata in sede istruttoria.
Per altro verso va pure rilevato che non sussiste violazione del principio di corrispondenza allorché tra il fatto contestato e quello accertato intercorra un rapporto di continenza, ben potendo la sanzione essere inflitta in relazione ad alcuno soltanto dei molteplici comportamenti richiamati in sede di contestazione.
Ciò premesso, dal raffronto tra la parte motiva del decreto impugnato in prime cure e gli analitici addebiti contenuti nell’atto di contestazione si evince come la sanzione espulsiva sia stata irrogata in puntuale connessione con il nucleo degli illeciti disciplinari a suo tempo contestati al m.llo F[.], il quale in sostanza è stato perseguito in relazione ad un comportamento materiale ab origine ben individuato per come già fatto oggetto di indagini penali e per quello stesso specifico comportamento è stato punito.
In conclusione, deve obiettivamente escludersi che la sanzione fondi su circostanze e condotte del militare estranee a quelle prese in considerazione in fase di addebito. Ulteriormente l’Amministrazione deduce che ha errato il Tribunale nel ritenere che nel caso in esame il Comandante generale si sia illegittimamente discostato dal giudizio formulato dalla Commissione di disciplina.
Anche questo mezzo risulta fondato.
In virtù del combinato disposto dell’art. 75 della legge n. 599 del 1954 e dell’art. 1 della legge n. 260 del 1954, nei procedimenti disciplinari a carico dei sottufficiali di Finanza il Ministro (ora il Comandante generale) può discostarsi dal parere della Commissione di disciplina, in casi di particolare gravità, anche a sfavore dell’incolpato.
Dal punto di vista strutturale tale previsione - che non trova riscontro nell’ordinamento disciplinare del pubblico impiego civile e dei militari di truppa del Corpo - incide sulla qualificazione procedimentale del suddetto parere.
Infatti in presenza della facoltà di dissenso attribuita all’Organo decidente il verdetto della Commissione - che nel procedimento disciplinare paradigmatico assume valenza sostanzialmente costitutiva o co-determinativa, dovendo soltanto essere recepito in un provvedimento formale - degrada a parere obbligatorio ma non vincolante.
Ne consegue in generale, sotto il profilo funzionale, che l’Autorità deliberante da esso può discrezionalmente discostarsi in fase costitutiva col solo onere - secondo costrutti acquisiti in giurisprudenza - di evidenziare con completezza le ragioni logiche e giuridiche che la inducono a disattendere il giudizio formulato dall’organo collegiale al termine del segmento procedimentale istruttorio.
In questo quadro di riferimento, in sede disciplinare il dissenso del decidente - investendo la valutazione sulla congruità della sanzione proposta - può dunque legittimamente relazionarsi anche ad un diverso apprezzamento delle risultanze istruttorie, essendo evidente che il giudizio finale circa la gravità dell’illecito non può essere formulato se non mediante contestuale individuazione e qualificazione delle condotte materiali effettivamente ascrivibili al militare in base al materiale probatorio acquisito nel procedimento.
Tanto premesso in generale, la giurisprudenza della Sezione ha peraltro da tempo posto in luce per un verso che, come sopra ricordato, la previsione di cui si discute non trova riscontro nell’ordinamento disciplinare del pubblico impiego civile e dei militari di truppa dello stesso Corpo ed ha dunque valenza chiaramente derogatoria; per altro verso che la facoltà di dissenso attribuita all’Autorità disciplinare comporta nei fatti la possibile sconfessione di una proposta formulata dall’organo collegiale competente all’esito del giusto procedimento e con la garanzia del contraddittorio.
In un’ottica costituzionalmente orientata è stato pertanto statuito che allorquando fa uso di tale facoltà l’Autorità deliberante non può limitarsi semplicemente a sostituire la propria valutazione di merito a quella espressa dalla Commissione di disciplina ma deve individuare i presupposti straordinari che impongono di disattendere il giudizio della commissione.
In altri termini, la reformatio in peius  si giustifica - e la questione di legittimità costituzionale all’uopo dedotta dall’appellato è manifestamente infondata - se supportata dall’individuazione di elementi prospettici o di sistema che in precedenza non sono stati tenuti adeguatamente presenti e che vanno invece ragionevolmente valorizzati in rapporto ad esigenze ordinamentali di settore.
Applicando queste coordinate ermeneutiche, ritiene il Collegio che tali presupposti di straordinarietà non possano disconoscersi nel caso all’esame, in cui l’aggravamento della sanzione si correla secondo il provvedimento impugnato all’incidenza degli illeciti ascritti al dipendente nella materia del reclutamento del personale, e dunque in un ambito che riveste importanza obiettivamente nevralgica - come già rilevato dalla Sezione in riferimento a fattispecie analoga: cfr. ord.za n. 2248 del 2004 - sia in vista dell’espletamento della missione che l’ordinamento affida al Corpo sia per quanto attiene la credibilità agli occhi dei giovani aspiranti delle procedure di selezione e di arruolamento.
Detto questo sul punto nodale della controversia, la stessa si avvia ad una soluzione obbligata, risultando in realtà infondate tutte le ulteriori censure - di difetto di istruttoria e di travisamento nonché di sproporzionalità - dedotte in primo grado dal ricorrente e qui pur suggestivamente riproposte nel controricorso.
Al riguardo, basta infatti osservare che il provvedimento è stato adottato in prevalenza sulla base del materiale probatorio acquisito nel procedimento penale, la cui valutazione ha indotto il Comando a ritenere l’effettiva sussistenza dei gravi fatti addebitati al sottufficiale.
Al riguardo è appena da osservare che la P.A. in sede disciplinare ben può tenere conto delle risultanze emerse nelle varie fasi del pregresso procedimento penale, sì da evitare ulteriori accertamenti istruttori alla luce del principio di economicità del procedimento: ciò che conta, infatti, è che di tali risultanze sia autonomamente valutata la rilevanza in chiave disciplinare”.



Procedimento disciplinare - Pendenza del procedimento penale - Sospensione del primo procedimento - Necessità.

T.A.R. Lazio - Roma, sez. II, sent. 5 luglio 2007, n. 6051 (c.c. 6 giugno 2007), Pres. ed Est. Capuzzi, F. S. c. Ministero Finanze

L’amministrazione deve sospendere il procedimento disciplinare, alla luce dell’art. 117 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, in caso di contemporanea pendenza del procedimento penale e del procedimento disciplinare, laddove la vicenda sia unica e prenda spunto dallo stesso comportamento del militare e non possa disconoscersi una interdipendenza tra il fatto oggetto di indagine da parte del giudice penale ed il fatto contestato in sede disciplinare. (1)
(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“1.La questione, è già nota alla Sezione riguardando una vicenda di asserito uso, da parte del ricorrente, finanziere già in servizio presso il Comando […], di sostanze stupefacenti e della conseguente sanzione disciplinare di stato pronunziata dal Comando Generale della G.d.F. in data 17 giugno 2003.
Con sentenza n. 1573 del 2 marzo 2005, la medesima Sezione annullava tale provvedimento mentre il Consiglio di Stato, Sez. IV, con decisione n. 339 del 14 dic. 2005, confermava l’annullamento con diversa motivazione ritenendo che la votazione della Commissione di disciplina avrebbe dovuto svolgersi a scrutinio segreto e non palese, facendo salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione.
Il Comandante Regionale Lombardia della G.d.F., preso atto di tale ultima formulazione ed avvalendosi del disposto dell’art. 5 della legge n. 37 del 1968, disponeva la rinnovazione del procedimento disciplinare di stato esperito a carico del F[.] a partire dal provvedimento di nomina e convocazione della Commissione di Disciplina.
Tale Commissione, in data 20 aprile 2006, giudicava l’interessato “non meritevole di conservare il grado”.
Il Comandante in seconda della Guardia di Finanza, ritenendo fondato il predetto giudizio, infine, in data 3 maggio 2006 irrogava al ricorrente la sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione, oggetto dell’odierno giudizio.
2. Con il primo motivo dedotto il ricorrente sostiene che l’Amministrazione, stante la pendenza del procedimento penale presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta, avrebbe dovuto, ex art. 117 del DPR n. 3 del 1957, sospendere la procedura disciplinare ed attendere la conclusione della vicenda contenziosa.
3.La doglianza è fondata ed assorbente.
Giova sottolineare che, a distanza di pochi giorni dalla adozione del nuovo provvedimento espulsivo, è intervenuta la sentenza 16.5.2006 con la quale il Tribunale di Caltanissetta ha assolto il F[.] dal reato ascrittogli “perché il fatto non sussiste” con una delle formule quindi che, ai sensi dell’articolo 97 comma 1° del DPR n. 3 del 1957 nonché dell’articolo 653 c.p.p così come novellato dall’articolo 1 della legge 27.3.2001 n. 97 e art. 20, comma 3 della legge 31.7.1954 n. 599, comporta, una volta divenuta irrevocabile la sentenza, l’impossibilità per la Amministrazione di sottoporre o proseguire il giudizio disciplinare per gli stessi fatti.
La difesa erariale, nella memoria depositata, assume che non potrebbe trovare applicazione la pregiudiziale sospensione invocata, in quanto l’Amministrazione, per la instaurazione del procedimento disciplinare, non avrebbe preso spunto dalla imputazione penale.
Si afferma, da parte della difesa erariale, che la vicenda giudiziaria a carico del ricorrente è scaturita dal fatto che il F[.], in qualità di pubblico ufficiale, aveva omesso di denunziare alla autorità la persona che gli aveva ceduto la sostanza stupefacente (art. 361, secondo comma c.p.), mentre la valutazione disciplinare della Amministrazione ha preso le mosse dall’asserito uso di cannabinoidi, nonché dalla detenzione presso la abitazione del medesimo di n. 30 semi di canapa indiana, questo e non altro essendo stato oggetto di contestazione formale da parte dell’Ufficiale inquirente .
4. Osserva la Sezione che, là dove la vicenda sia unica e prenda spunto dallo stesso comportamento, non può disconoscersi una interdipendenza tra il fatto oggetto di indagine da parte del giudice penale ed il fatto contestato in sede disciplinare, a meno di non eludere, nella sostanza, la norma che impone la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del giudizio penale.
Nel caso in esame non può ragionevolmente ritenersi che la valutazione del giudice penale, sia pure concentrata su alcuni specifici ma significativi aspetti della vicenda relativi alla affidabilità del militare ed alla assenza di contiguità e  contatti con ambienti della criminalità per l’acquisto degli stupefacenti, non avrebbe dovuto necessariamente riflettersi ed influenzare le valutazioni disciplinari dell’Amministrazione (cfr. al riguardo anche la sentenza pronunziata, nei confronti del F[.], dal giudice di appello, Cons. Stato, IV, 339 del 2006, cit. pag. 7).
Del resto la giurisprudenza ha avuto modo di sottolineare in casi analoghi, “...deve ritenersi illegittima la distinzione ..adottata in conseguenza di un procedimento disciplinare che è stato attivato e non sospeso a seguito di contestazione di fatti identici o comunque tipologicamente riconducibili ad altri per i quali era in corso l’azione penale (Cons. Sez. VI, 30.7.1997 n. 1149).
è stato ritenuto anche che “..la valutazione della complessiva condotta del dipendente, ove questa dovesse risultare completamente esente da responsabilità di ordine penale, non potrebbe non essere influenzata da siffatto responso anche in sede disciplinare.   L’assunto di potere tenere ben chiaro il discrimine tra i profili di illiceità penale e quelli di illegittimità amministrativa conduce alla concreta elusione della norma che impone la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del giudizio penale” ( Cons. Stato, VI da ultimo cit.).
In sostanza, fermo restando il principio di separazione dei due giudizi penale e disciplinare, nel caso che occupa la sospensione del procedimento disciplinare si imponeva in quanto avrebbe favorito la coerenza e completezza dell’azione amministrativa fornendo al dipendente la garanzia che il giudizio sul suo comportamento sotto il profilo disciplinare fosse fondato su elementi certi ed incontestabili.
Per i suesposti motivi il ricorso è meritevole di accoglimento e per l’effetto la determinazione del 3.5.2006 di irrogazione della sanzione della rimozione dal servizio deve essere annullata”.



Procedimento disciplinare militare - Termini - Norme integrative in caso di lacune legislative - Testo Unico sugli impiegati civili dello Stato - Applicabilità.

Cons. Stato, sez. IV, sent. 25 luglio 2007, n. 4142 (c.c. 20 febbraio 2007), Pres. f.f. Bernabè, Est. Carella, Ministero Difesa c. L. S. (rif. T.A.R. Bolzano, sent. 31 marzo 2004, n. 183)

Allorquando un procedimento disciplinare speciale, come il procedimento disciplinare di stato dei militari, presenti delle lacune normative, dovrà farsi applicazione della disciplina comune e residuale contenuta nel testo unico 10 gennaio 1957, n. 3, che pone delle vere e proprie norme di chiusura, specie per gli aspetti di garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa. (1)



Procedimento disciplinare militare - Termini a difesa - Possibilità di riduzione senza pregiudizio del diritto alla difesa - Legittimità.

Cons. Stato, sez. IV, sent. 25 luglio 2007, n. 4142 (c.c. 20 febbraio 2007), Pres. f.f. Bernabè, Est. Carella, Ministero Difesa c. L. S. (rif. T.A.R. Bolzano, sent. 31 marzo 2004, n. 183)

I termini concernenti gli atti interni possono anche essere ridotti dall’Amministrazione procedente, purché si consenta la piena difesa dell’incolpato. In tali casi il dipendente, in caso di invito a presentare le discolpe in un termine più breve di quello prescritto, non può più dolersi una volta che abbia regolarmente rassegnato le sue deduzioni senza fare in proposito alcuna eccezione. Allo stesso modo, il dipendente, se invitato per l’audizione orale con un breve termine di preavviso, qualora abbia presenziato all’audizione orale, senza neanche chiedere il rinvio della seduta ai fini di una più incisiva difesa, ma invece si sia difeso nel merito, non può eccepire la lesione del diritto alla difesa. (1)
(1) Si legge quanto appreso in sentenza:
“1. La questione dibattuta nel presente giudizio riguarda sanzione disciplinare di stato della perdita del grado per rimozione inflitta a Maresciallo Capo dell’Arma dei Carabinieri e, in particolare, investe l’applicabilità nei procedimenti di specie dei termini preveduti dagli artt. 105 e 111, comma quarto, del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 sugli impiegati civili dello Stato (venti giorni per la presentazione delle giustificazioni - e per il dibattimento orale - anziché sei come in concreto avvenuto).
Il Giudice di primo grado ha affermato il rispetto di detti termini anche nei procedimenti disciplinari militari e, di conseguenza, ha rilevato la lesione dei diritto di difesa dell’inquisito, mentre il Ministero appellante ha sostenuto il contrario e, nello specifico, che il più breve termine assegnato non ha provocato alcuna lesione, avuto riguardo alle difese scritte rassegnate dall’appellato senza opposizione alcuna e neanche accennare ad eventuali difficoltà difensive o richiesta di rinvio della seduta orale; quest’ultimo, a sua volta, ha richiamato la generale tendenza al maggiore possibile avvicinamento dei diritti del cittadino militare a quelli del cittadino che tale non è (Corte Cost. 11 marzo 1991, n. 104; n. 490 del 1989) ed opposto come l’appurata compromissione del diritto di difesa è stata tale da non consentire all’incolpato che di predisporre solo una scarna memoria difensiva per cui è da escludere che egli abbia potuto effettuare al meglio le proprie difese.
Su tali questioni controverse la Sezione si è già pronunciata con consolidata giurisprudenza dalla quale non vi è ragione per discostarsi ed alla quale si rinvia, ai sensi dell’art. 9 della Legge 21 luglio 2000, n. 205.
2. La difesa statale contesta, in primo luogo, l’affermata applicabilità nella fattispecie del T.U. n. 3/57 sugli impiegati civili dello Stato, mentre andava
fatto riferimento alla normativa speciale di cui agli artt. 64 e seguenti della Legge 31 luglio 1954, n. 599, e successive modifiche e integrazioni, concernenti i procedimenti disciplinari nei confronti dei sottoufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica.
Questa tesi non può essere condivisa.
Com’è noto, la Corte Costituzionale, con sentenza 11 marzo 1991, n. 104, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 20, 64, 65, 72 e 74 della Legge suindicata; ed, ancora, dopo l’intervento della stessa Corte contenuto nelle decisioni n. 145 del 1976 e n. 264 del 1990, deve ritenersi ingiustificata in materia ogni differenziazione tra dipendenti civili e militari, salvo che la normativa speciale (primaria e secondaria) disciplinino compiutamente il procedimento disciplinare e le sue scansioni temporali.
Nel caso di specie è pacifico che la citata fonte primaria - tanto è vero che è dovuta intervenire la Corte Costituzionale - non individua affatto termini di apertura, svolgimento e chiusura del procedimento disciplinare.
In proposito questa Sezione ha avuto già modo di affermare che “……allorquando un procedimento disciplinare speciale….presenti delle lacune, dovrà farsi applicazione della disciplina comune e residuale contenuta nel testo unico n°3 del 1957, che pone delle vere e proprie norme di chiusura, specie per gli aspetti di garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa” (IV, 15 marzo 2000, n. 1411; 13 dicembre 1999, n. 1875, in tema proprio di giudizio disciplinare a carico di appartenente all’Arma dei Carabinieri).
3. Così precisato il quadro, può essere ora affrontata la questione della natura ordinatoria ovvero perentoria dei termini previsti dall’artt. 105 e 111, comma quarto, del D.P.R. n. 3 del 1957.
Questo Consiglio ha già rilevato che tali termini, per l’adozione degli atti intermedi del procedimento disciplinare, hanno carattere ordinatorio e sollecitatorio in quanto adempimenti interni dell’Ufficio nell’ambito della procedura, non funzionali ad essenziali esigenze di tutela del dipendente, per le quali soccorre invece il limite temporale perentorio di novanta giorni e di cui all’art. 120 del ricordato T.U. (IV, 5 ottobre 2005, n. 5362; IV, 11 novembre 2004, n. 7281; V, 19 marzo 1996, n. 280).
Il Collegio condivide, quindi, contrariamente a quanto ritenuto dal T.A.R., la tradizionale giurisprudenza del medesimo Consiglio di Stato per la quale - purché si consenta la piena difesa dell’incolpato - i termini concernenti gli atti interni possono anche essere ridotti dall’Amministrazione procedente (Commissione Speciale del Pubblico Impiego, parere 11 novembre 1991; VI, 30 ottobre 1979, n. 768) ed il dipendente, in caso di invito a presentare le discolpe in un termine più breve di quello prescritto (Cons. St. VI, 17 ottobre 1962, n. 665; V, 22 febbraio 1957, n. 68) o se invitato per l’audizione orale con un breve termine di preavviso (Cons. St. VI, 31 gennaio 1962, n. 103), non può più dolersi una volta che abbia regolarmente rassegnato le sue deduzioni senza fare in proposito alcuna eccezione e presenziato all’audizione orale senza neanche chiedere il rinvio della seduta ai fini di una più incisiva difesa, ma invece si sia difeso nel merito.
Sotto tale aspetto, ritiene il Collegio che le controdeduzioni svolte in memoria dell’appellato - nel senso che la brevità del termine assegnato ha consentito di predisporre solo una scarna memoria difensiva ma non di svolgere al meglio le proprie difese - non possono essere accettate alla luce dell’attività difensiva comunque dispiegata e senza rappresentare alla Commissione alcuna sua specifica esigenza di carattere difensivo ovvero chiedere in modo reale termine a difesa.
Ne deriva, nell’assenza di un concreto profilo di pregiudizio per l’incolpato, che, nella specie, non risulta di per sé viziata la riduzione dei termini ordinatori in questione, né si può ritenere che l’incolpato non sia stato posto in grado di difendersi oppure che si sia verificata lesione del diritto di difesa dell’inquisito.
4. Per le ragioni che precedono, l’appello va accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, il ricorso di primo grado va respinto”.