Devianza e gruppi di adolescenti. Aspetti e considerazioni sulla gestione della reputazione.

Francesco Giacca

Francesco Giacca

Francesco Giacca
Educatore, Dipartimento Giustizia Minorile, Ufficio Servizio Sociale per i Minorenni, Napoli. Laureato in Sociologia, presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Napoli Federico II.










1. L’illusione globalistica sulla comprensione del crimine tra vecchi e nuovi paradigmi

La crescita di manifestazioni di estrema violenza ad opera di bambini e adolescenti ha prodotto l’ulteriore occasione per una riflessione teorica sul fenomeno che, nato come tipicamente statunitense, sta lentamente raggiungendo anche in Italia dimensioni preoccupanti, in particolare se si pensa alla diffusione dei baby-killer.
Vogliamo fare riferimento a soggetti che ancora giovanissimi si rendono colpevoli di omicidio, un fenomeno che appartiene alle nuove forme di criminalità giovanile che si stanno sviluppando e diffondendo; la violenza giovanile, infatti, oggi non si concretizza più solo in reati, ma tende ad esprimersi con maggiore frequenza anche in comportamenti omicidari.
Da una valutazione del materiale specifico sull’argomento, proveniente in larga parte dagli Stati Uniti, (Bailey, 1996; Benedeck, Cornell, 1989; Heide, 1992), il paese più colpito dalla criminalità minorile, è emerso che la maggior parte degli autori di omicidio sono di sesso maschile e si colloca nella fascia d’età che va dagli 11 ai 18 anni.
Molti sono i preadolescenti coinvolti nella realizzazione di delitti e numerosi sono anche gli episodi in cui l’omicidio è commesso da bambini di 5-6 anni d’età. Comprendere la criminalità, soprattutto quella minorile, è una impresa scientifica che sembra spesso risolta da molte teorie, ma che sempre continua a sfuggire, a riproporsi come sfida.
Le ipotesi interpretative, che nel tempo si sono succedute, non sempre hanno riconosciuto la complessità del comportamento criminale, definita sia dall’estrema differenziazione dei comportamenti, sia dalle caratteristiche situazionali e interattive che stanno alla base della singola condotta.
Gli stessi studiosi del settore sembrano aver abbandonato l’illusione di possedere o trovare spiegazioni alla delinquenza minorile che siano durature, specifiche ed esenti da critiche.
E - secondo Gaetano De Leo (1999) - quando non inseguono ancora la vaga utopia di una ipotesi globalistica capace di chiarire ogni aspetto del problema, si dedicano più modestamente a dissodare e a coltivare qualche ben delimitata area tematica il cui nesso con la possibilità di comprendere e rendere intelligibile il problema, ormai non viene più neppure indicato.
Dunque, l’impressione prevalente è che per studiare la delinquenza minorile sia necessario passare attraverso quello spazio che la criminologia ci indica e ci illustra con una crescente quantità di informazioni, ma rimane la sensazione che ci si debba oggi passare in modo nuovo, con criteri ordinatori che consentano una più chiara selezione della complessità, una sintesi più flessibile e quindi una comprensione e una spiegazione più adeguate alle esigenze del problema (Portigliatti - Barbos, 1998).
Le considerazioni che seguono affrontano la problematica della devianza minorile con un obiettivo che potremmo definire - forse banalmente - “centrato sull’opinione dell’adolescente deviante”, ovvero sull’illustrazione delle modalità attraverso le quali la messa in atto delle condotte delinquenziali costituisce una strategia potente per affermare e rivendicare identità sociali che rivestono particolare importanza nel mondo giovanile.
In altri termini, la comprensione della rilevanza di una condotta delinquenziale - senza ombra di dubbio - deve partire dall’esperienza quotidiana degli adolescenti, ascoltare e prendere sul serio quello che gli adolescenti stessi hanno da dire sulla propria quotidianità.
Nella realtà, questa attività è di solito accuratamente esclusa dagli studi sul tema.
Se la condotta delinquenziale è infatti ipotizzata - negli approcci scientifici classici - come prodotto di forze poste al di là dell’individuo che la mette in atto, ha poco senso aprire ad uno “spazio esperenziale quotidiano”.
Uno dei meriti, a nostro giudizio, dello studio che sinteticamente prenderemo in esame è - al di là di una sua convincente disamina sul tema della reputazione - quello di aver stimolato il dibattito scientifico sulla devianza minorile in rapporto alle minacce della cosiddetta società di massa.
Gran parte del bagaglio teorico, ancora in uso, in riferimento alla devianza minorile, che risale agli inizi del secolo, non è mai stato sottoposto al vaglio del metodo scientifico (Emler, Reicher, 1995).
Fra gli altri suoi contenuti, vi è una analisi della civiltà e della società moderna, ivi compresi i pericoli che le minaccerebbero.
Questo tipo di analisi continua a esercitare la propria influenza sulle teorie della devianza adolescenziale a prescindere dalla misura in cui essa trova effettivo riscontro nella realtà.
Ci riferiamo evidentemente a quella tesi che nelle scienze sociali è comunemente nota come la teoria della società “di massa”, i cui assunti sono stati ampiamente confutati, tanto che nella gran parte delle scienze sociali essa non viene più considerata un modello plausibile di struttura sociale o di relazioni sociali (Pearson, 1983; Gillis, 1974).
Al contrario, nello studio del comportamento delinquenziale e dissociale si continua a prendere per buona questa teoria.
Nicholas Emler e Stephen Reicher, hanno mostrato come larga parte della sua attuale fortuna consista nel fatto che essa è in linea con le angosce sociali che sono sempre esistite nei confronti dei giovani e della sopravvivenza dell’ordinamento sociale.

2. Il linguaggio e l’interazione sociale nei gruppi di adolescenti

L’originalità e l’innovazione del contributo di Nicholas Emler e Stephen Reicher - spiega Augusto Palmonari (2000) - si fonda su un nuovo approccio allo studio socio-psicologico dell’adolescenza e alla comprensione della devianza/delinquenza adolescenziale.
Si ritiene di poter parlare di “nuovo approccio” poiché il modello elaborato dai due studiosi inglesi - anche se tiene conto di quel contesto geografico diverso e di una elaborazione non proprio recente - è stato verosimilmente poco dibattuto ed approfondito nel panorama italiano.
Una ulteriore precisazione. In queste considerazioni, non prenderemo in esame i “numeri” della ricerca effettuata - non per pigrizia e nemmeno perché vogliamo trascurarne la loro importanza - ma soltanto perché il nostro obiettivo è quello di sostenere un profilo concettuale le cui implicazioni tracciate dai due studiosi andrebbero analizzate anche nel nostro Paese.
In primo luogo, i nostri autori orientano la loro concezione allo studio della devianza tenendo conto che si tratta però, secondo il termine inglese delinquency, di una categoria riferita alle azioni compiute più che alle disposizioni personali.
Una categoria dai contorni sfumati, organizzata attorno ad alcuni modelli: atti delinquenziali sulla cui interpretazione il consenso è generale (uccidere per motivi banali, rapinare con la minaccia delle armi...) e molteplici azioni che possono essere interpretate in modo diverso in rapporto a diversificati fattori culturali e contestuali, oltre che alle caratteristiche di chi è la vittima o di chi deve giudicare.
è opportuno ricordare che il senso comune attribuisce al termine devianza un significato negativo (un deviante è colui che va contro le norme o aspettative sociali condivise: ruba, si comporta da folle, non rispetta le regole del vivere civile), ma d’altra parte le ricerche svolte dall’Interazionismo Simbolico (Becker, 1963; Matza, 1969) evidenziano che nei comportamenti etichettati come devianti si possono scoprire elementi di originalità ed innovazione, anche se non immediatamente accettati o condivisi dall’opinione pubblica.
Secondo Emler e Reicher, la devianza adolescenziale non può essere compresa a fondo facendo ricorso a modelli psicologici che centrano il loro interesse su carenze o patologie della personalità (regolatori interni) degli attori sociali, né ai modelli sociologici che enfatizzano il ruolo della scomparsa dei “regolatori esterni” causata dall’affermarsi della società di massa che ha portato alla perdita di ogni forma di vita comunitaria in cui i rapporti interpersonali erano assai vivi ed il controllo sociale poteva essere esercitato.
Quindi, la gran parte delle teorie sulla devianza condividono l’assunto che la devianza sia causata da una socializzazione mancata e non completa, carenza questa che diventa particolarmente evidente in adolescenza.
In altre parole, chi non riesce a superare i compiti di sviluppo che caratterizzano la transizione dall’infanzia all’età adulta o diventa direttamente deviante o cade preda di gruppi di coetanei che conducono alla devianza.
Queste impostazioni, tuttavia, trascurano completamente di analizzare le basi socio-psicologiche delle azioni devianti, cioè il contesto immediato in cui la devianza si attiva (o non si attiva) e il significato che essere o non essere devianti ha per il mondo sociale degli adolescenti.
Possiamo schematizzare la tesi presentata da Emler e Reicher sulla base di una pista interpretativa elaborata da Augusto Palmonari (2000) e Chiara Berti (1993):
- i rapporti sociali sono la sostanza dell’esperienza quotidiana, la comunicazione avviene non fra estranei, ma generalmente fra persone che si conoscono e che nutrono reciproci sentimenti, siano essi positivi, negativi o ambivalenti;
- l’azione umana è ampiamente controllata dall’esigenza di avere una reputazione. Questa necessità è sostenuta dal fatto che le persone si conoscono, hanno aspettative reciproche, si “dipingono” le caratteristiche dei propri interlocutori. In tal senso, la reputazione implica che ogni attore sappia anche che gli altri esprimono giudizi su di lui e questo fa sì che l’attore si sforzi di confermare o di modificare l’immagine di sé che ha fornito agli altri e che questi elaborano;
- in base a quanto affermato da E. Goffman (1959), il fine di tutto ciò che facciamo in pubblico è quello di presentare noi stessi; controlliamo le nostre azioni in modo che gli altri ci attribuiscano certe particolari qualità. Per il deviante è provato che è più facile esprimere qualcosa di chiaro e specifico circa se stessi trasgredendo le regole invece che rispettandole. Emler e Reicher tendono a sottolineare che la teoria dell’etichettamento riconosce agli attori sociali, nel passaggio dalla devianza primaria alla secondaria, una scarsa o nulla capacità di iniziativa sostenendo, invece, che gli attori sociali sono consci della reputazione che possono acquisire obbedendo alle norme sociali o trasgredendole e, perciò, le loro azioni sono intenzionalmente orientate ad influenzare il risultato del processo di etichettamento;
- gli autori, inoltre, concentrano le loro riflessioni sui differenti progetti reputazionali perseguiti dagli adolescenti e sulle ripercussioni che la realizzazione di tali progetti possono avere sulla qualità del loro agire sociale. Naturalmente, non si possono comprendere né le scelte, né le azioni degli adolescenti se non si conosce il contesto sociale in cui essi vivono ed agiscono. Emler e Reicher danno particolare rilievo a due aspetti del contesto: l’ordinamento istituzionale della società che gli adolescenti sperimentano direttamente grazie al contatto con il sistema scolastico in cui sono inseriti ed attraverso il contatto con altre agenzie (la polizia, il sistema sanitario, il mercato del lavoro, etc.) ed i gruppi sociali informali.

3. La rappresentazione della reputazione tra realtà e artificio

La relazione con l’autorità istituzionale è un elemento fondamentale del mondo sociale dell’adolescente ed è proprio qui che vanno indagate le spiegazioni della devianza e delinquenza adolescenziali (Emler, Reicher, 1995; Berti,1993; Palmonari, 2000).
La delinquenza adolescenziale, come si è già detto, può essere riconosciuta come una strategia per costruire e consolidare la propria reputazione tra i coetanei e, in generale, nel proprio ambito di vita.
Emler e Reicher (1995), ebbene, criticano l’assunto della società di massa secondo il quale l’anonimato costituisce una condizione comune e abituale.
In questo tipo di società le occasioni di anonimato sono numerose: la riprovazione sociale non può pertanto fungere da deterrente e la possibilità di mantenimento dell’ordine sociale ricade prevalentemente sull’interiorizzazione delle norme di comportamento (Emler, 1988).
Essi ritengono, piuttosto, che anche nelle grandi città esistano reti di persone che si conoscono ed interagiscono.
Contrariamente a quanto sostengono i teorici della società di massa, le relazioni formali e legate al ruolo sociale o con persone completamente sconosciute costituiscono una parte esigua delle relazioni interpersonali.
Le persone si scambiano assiduamente informazioni sui conoscenti comuni e le vicende che li riguardano sono uno degli argomenti preferiti di conversazione e, quindi, di non secondaria importanza nella costruzione della reputazione di un individuo.
Questo vale, in particolare, anche per gli adolescenti, che fanno parte spesso di piccoli gruppi in cui ci si conosce molto bene, come anche per il grado di conoscenza che non si estingue ai confini del proprio gruppo poichè i medesimi gruppi sono in relazione tra loro.
Gli approcci sociologici e quelli psicologici descrivono la devianza come il riflesso di forze che, provenienti dal contesto sociale e dal soggetto stesso, lo trasformano in un individuo in balia di forze che sfuggono al suo controllo.
L’impostazione concettuale di cui si parla ritiene, al contrario, che l’azione, tanto deviante che conforme, sia espressione di una scelta guidata dalla preoccupazione di costruire e mantenere una determinata reputazione, la quale opera in termini di controllo sociale.
Quindi, la domanda è: perché alcuni individui si espongono al rischio di incorrere in sanzioni e di compromettere la considerazione di cui godono?
Per rispondere a questo interrogativo, Emler propone una interpretazione della delinquenza adolescenziale in termini motivazionali che si allontana, tuttavia, dalla teoria del controllo sociale.
Per la teoria del controllo sociale le persone sono naturalmente portate alla delinquenza e, quindi, non interessa comprendere perché si commettano reati, ma capire perché ciò non avvenga (Hirschi, 1969).
Colui che grazie al proprio impegno, al rispetto delle norme, all’adesione ai valori convenzionali acquista una buona reputazione in famiglia, a scuola e nel gruppo di appartenenza non trae nessun vantaggio dal commettere azioni devianti.
Al contrario, il soggetto che invece ha sperimentato una carriera scolastica problematica, gode di scarse occasioni di valorizzazione personale ed è privo di legami non ha molto da perdere e non ha ragioni tanto forti che gli impediscano di commettere reati.
Per Emler e Reicher, invece, l’assenza di motivi per rispettare le norme permette la delinquenza ma non l’assicura; è una condizione necessaria ma non sufficiente. Per Hirschi (1969) la scarsa riuscita scolastica precede e spiega il comportamento deviante, mentre per Emler e Reicher gli atteggiamenti negativi verso la scuola e la devianza sono espressione della stessa disposizione motivazionale. L’antisocialità non deriva, come vorrebbe la teoria del controllo sociale, da una mancanza di forti ragioni a guadagnare e a conservare una buona reputazione, ma rappresenta una scelta in positivo e non l’esito di un fallimento.
Esistono, per i nostri autori, progetti alternativi di costruzione e gestione della propria reputazione e la scelta delinquenziale deriva da uno di questi.
Il comportamento antisociale è di rado non visibile e segreto: le trasgressioni vengono compiute perché c’è un pubblico e non perché questo non ci sia.
La maggior parte delle azioni delinquenziali degli adolescenti è infatti commessa in gruppo. Emler, Reicher e Ross (1987), osservando una popolazione di ragazzi e ragazze, hanno concluso che, sebbene alcuni reati - generalmente irrilevanti - vengano commessi da soli piuttosto che insieme ad altri, non esiste un tipo di delinquenza che in assoluto possa definirsi solitaria.
Quei reati - quali il furto, il vandalismo e lo spaccio di droghe - che per la loro gravità ci si aspetterebbe vengano perpetuati in segreto, sono invece più spesso commessi insieme ad altri.
In sostanza, per Emler, non esistono episodi separatori tra devianza occasionale e assunzione di un ruolo stabile di deviante, così come suggerirebbero gli studiosi dell’etichettamento secondo i quali la reazione sociale ed istituzionale segna l’uscita dall’anonimato.
Una prova del fatto che i devianti non tendono a nascondersi è fornita dalla dimostrata attendibilità dei resoconti personali sulle trasgressioni commesse e dallo scarso legame tra la tendenza a mentire e l’ammissione di reati.
Negli anni sessanta già David Matza (1969) conferma che la scelta deviante amplifica la comunicazione: quando altre possibilità di esprimere significati appaiono inadeguate, si ricorre al gesto deviante per rendere i significati meno ambigui e più decifrabili, più evidenti ed incisivi gli effetti.
La rottura delle regole sociali consente una presentazione di sé solo quando è visibile e dotata di significati chiari ed inequivocabili per il gruppo dei pari, l’audience più interessante per il soggetto. L’analisi delle strutture dei resoconti personali di azioni delinquenziali ha mostrato una netta separazione tra la dimensione dei reati gravi e quella delle infrazioni di lieve entità.
I reati gravi esprimono chiaramente la scelta deviante; sono meno diffusi, più visibili, commessi spesso in gruppo, facilmente interpretabili e costituiscono pertanto un mezzo efficace di presentazione di sé.
La violazione delle norme ha una efficacia comunicativa maggiore di quella assicurata dall’osservanza delle leggi; dal momento che i comportamenti conformi sono incoraggiati socialmente e le violazioni sanzionate, l’atto deviante sembra essere l’esito di una scelta piuttosto che il frutto di una coercizione e perciò diventa più significativo dell’identità di chi lo compie.
Inoltre, chi commette reati gravi, per la maggior parte della sua vita quotidiana si dedica ad attività legali. Dunque, il rispetto della legge non consente di distinguere nettamente il gruppo dei devianti da quelli delle persone conformi. La sproporzione tra il potenziale “diagnostico” dei modi di agire conformi e quello dei devianti chiarisce per quale motivo sia più difficile conquistare una fama di persone integre che una cattiva reputazione e perché questa, una volta consolidata, sia difficilmente modificabile (Skowronsky, Carlston, 1989; 1992).
Inoltre, la scelta deviante permette al suo autore di definire con chiarezza la propria appartenenza al gruppo nella misura in cui è altamente improbabile che venga attuata da un membro di un gruppo non deviante.
La delinquenza è, per queste ragioni, un comportamento inequivocabile che dà informazioni sull’orientamento dell’adolescente nei confronti dell’autorità istituzionale.
Le azioni devianti e delinquenziali, quindi, costituiscono affermazioni chiare di dove una persona si colloca in rapporto all’ordine istituzionale della società e di quale sia il suo rapporto con l’autorità formale.
L’adolescenza costituisce un momento significativo per la definizione del rapporto con l’ordine istituzionale vale a dire dello spazio che l’adolescente riconoscerà allo Stato perché medi e stabilisca i termini delle proprie relazioni con gli altri.
La relazione che si stabilisce con l’autorità legale è segnata dalle percezioni e dalle aspettative che riguardano il potere e il modo in cui esso è esercitato.
L’immagine che un adolescente ha del potere contribuisce a determinare atteggiamenti e comportamenti verso il potere stesso.
In questo modo, se l’autorità legale è considerata soprattutto come fonte di discriminazione e pregiudizio, la relazione che con essa si stabilisce è di sfiducia e di diffidenza.
Questi atteggiamenti, secondo gli autori, possono contribuire a spiegare la devianza in due modi: come desiderio di rivalsa e di sfida nei confronti dell’autorità istituzionale e del sistema normativo e come necessità di assicurarsi in altri modi giustizia e protezione.
La natura negativa della relazione tra adolescenti e sistema istituzionale viene espressa, sul piano comportamentale, attraverso azioni che sfidano la capacità del sistema di difendere se stesso - nei suoi aspetti sia concreti sia simbolici - e i suoi rappresentanti e, sul piano verbale, tramite valutazioni e raffigurazioni negative dell’autorità scolastica e dei rappresentanti dell’autorità legale.
Gli studi compiuti ribadiscono che l’ammissione di coinvolgimento diretto in azioni delinquenziali e l’atteggiamento negativo nei confronti dell’autorità istituzionale presentano un’alta correlazione (Reicher, Emler, 1985; Emler, Reicher, 1987).
L’atto delinquenziale ha anche il significato di una giustizia che il soggetto si fa da sé e di una strategia volta a dimostrare pubblicamente di essere in grado di difendersi da solo.
In certi contesti i rapporti tra individui possono tradursi in pericolo, in rischio, per alcuni, di subire ingiustizie, violenze.
La consapevolezza di questo rischio può associarsi alla sensazione di una autorità debole o ingiusta, di un sistema legale al quale non ci si sente di appartenere, dal quale non ci si sente rappresentati, dal quale possono provenire i rischi di vittimizzazione.
La trasgressione dello schema tradizionale di regolazione del comportamento può costituire, dal punto di vista di chi si riconosce all’interno di un sistema di norme e riconosce la legittimità di coloro che ne controllano il rispetto, uno scadimento del prestigio personale nell’ambito della società.
Dal punto di vista di chi in tale sistema non si riconosce, la devianza invece può esprimere il tentativo di mantenere la propria posizione e reputazione all’interno del proprio gruppo di appartenenza. Esiste perciò un duplice vincolo: la voglia di conservare la propria reputazione, il timore di perdere il prestigio e il desiderio di garantirsi condizioni di vita più sicure.
Questo secondo vincolo, spiegabile in base al fatto che l’appartenenza alla società non garantisce a tutti ed allo stesso modo pari sicurezze, spiegherebbe perché alcuni adolescenti si espongano al rischio di sanzioni penali e di riprovazione sociale. La tutela della reputazione e la ricerca del prestigio come momenti del processo di costruzione dell’identità individuale sono inseparabili dalla identificazione con gli altri, dall’adesione ad un gruppo e a un sistema normativo. In materia di delinquenza i gruppi hanno proprie norme e il comportamento delinquenziale è un criterio che regola l’appartenenza al gruppo (Barbero Avanzini, 1998; Milgram, 1968; Cloward, Ohlin, 1968; Paroni, 2002).
Per gli adolescenti incontrati da Emler l’azione delinquenziale è l’unica possibile quando tutte le altre prese in esame sono state scartate in quanto inammissibili per i membri del proprio gruppo, dissonanti con l’idea che si ha di sé, inadatte ad offrire una immagine di sé e del proprio gruppo di appartenenza in opposizione rispetto ad altri gruppi sociali.
Alcune azioni sono invece dotate di una evidenza immediata e sono consonanti con la definizione di sé.
Per un gruppo che riconosce la legittimità del sistema istituzionale la trasgressione delle regole sociali è in contraddizione con la propria identità.
Per chi invece è in posizione antagonista, l’azione delinquenziale è consonante con il concetto di sé; esprime l’atteggiamento verso le convenzioni e le norme sociali e mette in luce le qualità di forza e di coraggio che consolidano la reputazione e che garantiscono l’appartenenza al gruppo.
L’appartenenza ad un gruppo antagonista verso il sistema istituzionale richiede infatti una solida reputazione di persona in opposizione.
L’azione delinquenziale non va quindi vista come semplice espressione di una identità preesistente bensì come forma di comunicazione agli altri di quello che si è quando questa identità rischia di essere messa in discussione o di non essere percepita chiaramente (Le Breton, 1995; Ilardi, 1999).
I devianti di cui Emler e Reicher parlano sono interessati alle istituzioni solo se e nella misura in cui queste interagiscono con la loro vita quotidiana, attraverso un sistema di norme regolative dei comportamenti individuali.
Funzioni espressive e funzioni reputazionali della definizione di sé come deviante sono interdipendenti: violare la legge è allo stesso tempo una definizione di dove a livello personale un individuo si colloca nei confronti del sistema sociale ed una pubblica dichiarazione rivolta ad altri.
è evidente la continuità tra questa interpretazione della devianza, in termini di gestione della reputazione, con la tradizione dell’Interazionismo Simbolico per la centralità che in tale spiegazione assumono la nozione di identità, le motivazioni del soggetto, i processi di significazione, le interazioni con l’autorità istituzionale (Manis, Meltzer, 1967; Blumer, 1966).
Le idee espresse da Emler e Reicher, quindi, convergono in direzione della costruzione di una teoria del comportamento giuridico proprio dell’adolescenza; quest’ultimo inteso come comportamento volontario che è in relazione ad una norma. Secondo gli studiosi del diritto, una teoria del comportamento giuridico deve essere articolata e con molte facce dato che molteplici sono i modi in cui un atto normativo esercita la sua influenza sugli individui.
Emler e Reicher concepiscono la delinquenza adolescenziale nei termini di un comportamento giuridico che origina dagli atteggiamenti individuali nei confronti dell’autorità che si consolidano e si esprimono nel contesto del gruppo di appartenenza.
Promesse di ricompense e minacce di punizione rafforzano la scelta della posizione da assumere in rapporto all’autorità e alle norme giuridiche.
I modi in cui gli atti normativi influenzano il comportamento vengono analizzati dai due autori alla luce delle dinamiche dello sviluppo adolescenziale e, in particolare, delle esigenze di riconoscimento sociale e di valorizzazione del proprio sé, di identificazione e di differenziazione, dei processi di socializzazione e del rapporto tra adolescenti e istituzioni.
Manca - essi sostengono - una psicologia sociale della delinquenza adolescenziale in grado di cogliere l’articolazione tra fenomeni collettivi ed esperienza individuale e che sappia dare conto del sociale senza cadere nel determinismo sociale e spiegare le differenze individuali evitando di ridurre i fenomeni a un livello strettamente individuale o intrapsichico.
Sia che si guardi ai processi psicologici generali che sottostanno alla violazione delle norme sia alle caratteristiche della realtà sociale, si trascura quasi sempre di osservare il contesto immediato di vita di chi delinque come di chi segue la legge.
I nostri ricercatori hanno proposto una serie di spiegazioni del modo in cui le condizioni di vita degli adolescenti possano produrre un orientamento oppositivo nei confronti dell’autorità istituzionale e consentire la sua espressione in azioni delinquenziali, analizzando le vicende dei rapporti con le istituzioni, la possibilità di coesistenza di orientamenti devianti e orientamenti conformi e il sostegno del gruppo dei pari - i tre fattori critici del divenire devianti - in relazione all’età, al genere, alla classe sociale ed al luogo di residenza.
La grande diffusione dei comportamenti delinquenziali in adolescenza si spiega con la combinazione di “motivi e mezzi” per violare le norme in questa fase della vita. L’inversione della tendenza, precisano, a commettere reati che si osserva dopo i sedici anni è dovuta al venir meno dell’appoggio del gruppo dei coetanei e all’aumento della repressione del comportamento delinquenziale.
Il sostegno collettivo, facilitato dalla permanenza nel sistema scolastico, viene infatti a mancare all’uscita da questo; si allentano i contatti tra i coetanei e parallelamente il rischio di sanzioni penali comincia ad essere più sentito rispetto al passato. Emler e Reicher dedicano una particolare attenzione alla questione del genere. La loro non è una teoria della differenza di genere: la spiegazione della delinquenza - come espressione di un orientamento negativo verso l’autorità istituzionale - è riferita tanto agli adolescenti che alle adolescenti.
Poiché i due autori suppongono che la salienza e la rilevanza del rapporto con le istituzioni siano identiche per maschi e femmine, il minore coinvolgimento delle ragazze in comportamenti devianti e delinquenziali può essere spiegato ipotizzando, in esse, un atteggiamento più favorevole nei confronti dell’autorità istituzionale.
L’osservazione dei modi di vita quotidiana fornisce ulteriori elementi esplicativi; ad esempio, le adolescenti hanno minori opportunità di commettere reati perché, rispetto ai coetanei, sono meno libere di trascorrere fuori casa il loro tempo libero.
Vivere meno sulla strada comporta minori occasioni di scontri con l’autorità, l’assenza di esigenze di trovare forme alternative di protezione e di difesa della reputazione - attraverso l’assunzione di una identità deviante - e serie difficoltà, rispetto ai ragazzi, a condurre una doppia vita, di devianti in strada e di persone conformi in famiglia.
Per spiegare la maggiore diffusione della delinquenza tra chi proviene da classi subalterne, il pensiero viene orientato sul ruolo che ha l’esperienza scolastica nel confermare il divario di risorse - che precede l’ingresso nella scuola - tra ragazzi provenienti dalle classi medie e alte e ragazzi dei ceti svantaggiati.
Tale dislivello di risorse, materiali e culturali, viene difficilmente colmato; chi proviene dai ceti subalterni incorre più facilmente in sanzioni, ha un rendimento scolastico penalizzato dalla mancanza di risorse e avverte la limitatezza dei propri orizzonti.
Diffidenza e sfiducia verso la scuola costituiscono il primo passo di un percorso di allontanamento dei ragazzi dalle istituzioni.
Chi proviene da classi sociali svantaggiate ha inoltre maggiori possibilità di nascondere le proprie trasgressioni ai genitori perché passa molto del suo tempo fuori casa, sottraendosi al controllo degli adulti.
Gli adolescenti delle classi medie e alte hanno, in casa, spazi a loro disposizione dove possono ascoltare musica, vedere video, giocare con il computer e invitare gli amici; entrano a far parte di gruppi formali - sportivi, religiosi, culturali - e tutto ciò consente ai genitori un contatto maggiore con la vita dei propri figli e con quella dei loro amici.
Per commettere azioni delinquenziali, non basta passare però il tempo libero fuori casa e sottrarsi al controllo degli adulti.
Sono essenziali l’appoggio e l’approvazione di un gruppo di coetanei che condividano un atteggiamento oppositivo verso le istituzioni.
L’area di residenza costituisce un fattore di facilitazione della delinquenza quando in essa esiste una concentrazione di gruppi devianti ad alta visibilità.
Le differenze nella diffusione della delinquenza in relazione alle aree di residenza possono attribuirsi a due fattori complementari: in aree dove è più elevato il livello di degrado sociale è maggiore la presenza di gruppi devianti; in secondo luogo, la possibilità di esprimere comportamenti oppositivi è inversamente correlata alla quantità di tempo trascorso sotto il controllo degli adulti e alla ricchezza di risorse fruibili nell’ambito di vita.
I due autori criticano quegli approcci che si soffermano esclusivamente su variabili intrapsichiche e trascurano l’importanza di quella forma di controllo sociale esercitata dalla preoccupazione per la propria reputazione e la centralità che assume il sostegno del gruppo dei coetanei nell’adolescenza.
Le caratteristiche individuali, secondo Emler e Reicher, non possono essere considerate in modo isolato rispetto ad altri fattori.
è il modo in cui un determinato aspetto individuale viene letto e gestito a far sì che si inizi un percorso verso la devianza. Struttura sociale e caratteristiche individuali sono dunque reciprocamente coinvolte nella costruzione della devianza, piuttosto che costituire ipotesi esplicative che si contendono la possibilità di una sua comprensione. Le differenze individuali derivano, secondo la teoria di Emler e Reicher, dalla centralità che il rapporto con l’autorità ha nella definizione di sé e dalla natura di questo rapporto.
Rischio di vittimizzazione, inaffidabilità delle istituzioni, mancanza di reti convenzionali di aiuto e capacità limitate di gestione della reputazione concorrono in maniera determinante nella scelta deviante.

4. Conclusioni

David Matza, nel suo saggio più conosciuto, scrive: “secondo qualsiasi dizionario, che è sempre la migliore fonte di chiare definizioni nominali, deviare significa uscire dal tracciato, ad esempio un sentiero o una norma. Se qualcuno trovasse piacevole tale impresa, potrebbe divertirsi a classificare le forme di deviazione secondo un certo numero di criteri già stabiliti: la chiarezza del sentiero, la distanza dal sentiero, gli auspici sotto i quali il sentiero è stato tracciato, se uno devia da solo o in compagnia, la sanzione prevista, i moventi comunemente attribuiti alla deviazione oppure (cosa che di solito ha lo stesso risultato), la disciplina accademica che si proclama autorevole giudice delle anime di coloro che deviano. Ma quando tutto sia stato detto e fatto, inevitabilmente ritorniamo alla saggia osservazione che vi sono molti tipi di deviazione e che la deviazione è, in una certa misura, questione di grado. A livello nominale non si può dire di più, sebbene molto possa essere detto con una infinità sorprendente di particolari. Quale che sia la concezione di norma o di sentiero, si possono osservare facilmente dei fenomeni occasionali che esistono marginalmente ad essi. Quando questi fenomeni appaiono al margine della devianza o della conformità, la designazione deviante non è certa. Tale incertezza è fastidiosa per chi detesta il disordine, ma in verità la difficoltà risiede nella natura della società, non nel concetto di deviazione. Le definizioni culturali, in specie nella società contemporanea, tendono all’ambiguità. Poiché le norme cambiano, i membri di una società possono dare ai fenomeni marginali delle risposte apertamente ambigue, oppure evasive, se vi è una qualche ragione per essere prudenti” (Matza, 1969, 26-27).
A questo punto crediamo opportuno, a conclusione di questa breve analisi, soffermarci sul nostro paese e, cercando di avere bene in mente quanto riportato dai due autori, ci proponiamo di evidenziare quelle che Gaetano De Leo definisce come le “questioni emergenti”, i nuovi bisogni e i nuovi strumenti d’intervento all’interno della Giustizia Minorile Italiana (De Leo, 2005).
In primo luogo, forse la prima valutazione qualitativa da fare è quella sui minori immigrati, considerati da più parti come l’emergenza più incalzante sul territorio italiano. Minori che, inoltre, sono fortemente differenziati al loro interno (nord africani, albanesi, che provengono dall’est), con famiglia e senza famiglia, che presentano un progetto migratorio o che non lo hanno.
Al di là delle rilevazioni statistiche, le quali ci dicono che questi gruppi sono poco presenti al Sud Italia e fortemente presenti al Nord e, soprattutto, negli Istituti Penali e poco nelle misure alternative, bisogna interrogarsi di più sull’aspetto operativo.
Ancora, bisogna ragionare con particolare attenzione sui cosiddetti ragazzi multiproblematici, minori che hanno diversi problemi non solo di criminalità, ma anche di tossicodipendenza e magari anche disturbi di ordine psichiatrico, spesso interagenti tra loro nell’influenza dei gruppi di adolescenti.
In Italia, su questa categoria esistono pochi studi e sperimentazioni, in particolare sulle ipotesi di presa in carico o di risposte giudiziarie penali per questi soggetti.
Un ulteriore settore di studio da esaminare è quello dei minori plurirecidivi per il quale, in realtà, non esiste una raccolta dati.
Si tratta - per De Leo - di un aspetto scientifico rilevante, sia sul piano operativo per incrociare il recidivismo con le diverse misure, sia con i diversi provvedimenti per valutarne l’efficacia e in qualche modo influenzare la forma di progettualità pensata per loro.
Poi ci sono gli autori di reati molto violenti. In Italia esistono pochi casi, ma ciò significa che il problema non può essere ignorato e che bisogna sperimentare forme di intervento che funzionino e, soprattutto, su come produrre dei cambiamenti nella direzione della socialità.
Per concludere, abbiamo i minori con problematiche psicopatologiche ed i reati di gruppo.
Nel primo caso, ricordiamo che una certa fragilità psicologica aumenta in generale in adolescenza e la presenza di questi minori nel sistema giudiziario e penale minorile spesso crea problemi di gestibilità nei contesti dove vengono accolti.
Nel secondo caso, cioè per le cosiddette baby gang, possiamo affermare che nel nostro paese non si sa molto, sia per i ragazzi che per i gruppi. In linea con le ricerche portate avanti da Emler e Reicher, sarebbe importante conoscere - anche in termini operativi - approfonditamente la dimensione relazionale e di gruppo, quest’ultima spesso considerata come elemento scatenante il reato.