Materiali per una storia dell'Arma

Col. Azolino Hazon

RIVISTA DEI CARABINIERI REALI
Anno II - N. 2 - marzo-aprile 1935

I Carabinieri Reali nella campagna del 1848

Col. Azolino Hazon

(continua)

3. Mentre, ad ingrossare l’esercito del Radetzky, scendevan le valli dell’Adige, del Brenta e dell’Isonzo contingenti nemici, proseguiva l’investimento di Peschiera sotto la direzione del Duca di Genova ed alla presenza del Re, che giornalmente vi si recava da Sommacampagna, seguito a turno da uno degli squadroni di scorta. Maturava intanto nell’animo del Radetzky il piano di aggiramento sul Mincio dei piemontesi e ne faceva a Goito, il 30 Maggio, la prova. «Fu quella - scrisse Cesare Balbo - la più bella giornata di quella campagna, che fu la più bella che siasi mai fatta dagli Italiani; quel nome e quella data, ed anzi quei due mesi e mezzo dal 18 marzo al 30 maggio, quella prima metà della campagna del 1848, rimarranno cari e sereni nella memoria degli Italiani che vi parteciparono o li videro, in quella pure dei posteri».
A Goito infatti si infransero gli attacchi nemici, rinnovantisi con estrema violenza e tutti vennero decisamente respinti, attraverso episodi di valore e di audacia. Coronò la vittoria la notizia giunta sul campo della resa di Peschiera, avvenuta quello stesso giorno.
Seguivano silenziosi il Re nella battaglia gli squadroni, fissi gli sguardi su di lui, trepidando per lui. «Un obice cadde ai piedi del Re andando in scheggie: trattenne il cavallo e sorrise, vedendo la sua scorta timorosa per lui». Così il capitano di S. M. De Talleyrand Perigord, duca di Dino, del quartier generale principale.
Non mancò a Goito il tributo di eroismo offerto alla patria dal corpo, eroismo affiorato purissimo, e colto come sempre dal paterno vigile occhio del Re.
Il Gen. Lazari, come già a Pastrengo, ed il luogotenente Pogliotti, della prima divisione, prendevano diretta parte al combattimento, riordinando e riconducendo al nemico reparti presi da panico e da timore.
Con ordine generale dell’armata del 7 giugno il luogotenente Pogliotti venne decorato di medaglia d’argento al valor militare ed ebbe il generale Lazari le insegne di commendatore dell’ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro.
A meglio lumeggiare la figura di questo valoroso soldato giova riferire le parole scritte dal ministro della guerra, generale Franzini, in un documento ufficiale dell’epoca: «Il conte Lazari nella giornata di Pastrengo, il 30 aprile 1848, mandato dal Re ad ordinare ad una brigata di fanteria di sloggiare il nemico da Pastrengo, si mise volontariamente alla testa di una compagnia di cacciatori per animarli in primo impeto e poi, alla testa di una sezione di artiglieri, scortata da mezzo squadrone, cadde alle spalle di una colonna nemica che, sbaragliata dal fuoco, fuggì disordinatamente, lasciando gran parte de’ suoi in potere delle nostre truppe. Il sottoscritto deve pure testificare che in vista di queste azioni volontarie, condotte da tanto ardimento ed intelligenza, S. M. mi ordinava, come ministro della guerra e generale a disposizione di S. M. all’Armata, di testimoniare immediatamente al conte Lazari tutta la sua soddisfazione ed assicurargli avere egli meritata la medaglia di ‘Savoia’ destinata al merito ed al valore; ma che prevenuto di questa disposizione il conte Lazari mi pregò di ringraziare S. M. sperando nel corso della campagna di avere tempo a dare maggiori prove della sua devozione al Re ed alla causa che aveva impreso a sostenere. S. M. il 30 maggio, presso Goito, ebbe pure ad ammirare come dietro suo ordine il conte Lazari, spedito a rincorare un battaglione dell’ala sinistra, che preso da timore e da panico indietreggiava, riusciva a nome del Re a ricondurlo cd a ricondurlo al nemico».
Precipitarono dopo Goito gli eventi e succedettero giorni gravi e paurosi. Il pensiero dominante di coprire la Lombardia e Milano avevano immobilizzato l’armata sopra una lunga linea, da Rivoli a Mantova. Periodo di irrisolutezza e di silenzio, brevemente illuminato dal fatto d’arme di Governolo - vi si distinse il capitano Trotti, decorato con medaglia d’argento - e rotto, quando a quando, a Rivoli ed a Mantova bloccata, da qualche colpo di cannone.
Vicenza intanto cadeva e con Vicenza tutto il Veneto e tutti gli entusiasmi che avevano sollevata e sorretta l’Italia in quella prima guerra d’indipendenza. Contro la bufera avvicinantesi minacciosa rimanevano ancora ritte l’armata piemontese e Venezia.
Ma venne l’offensiva di Radetzky sull’alto Mincio, il 23 luglio, per impadronirsi delle sponde e dei passi e tagliare la ritirata a Carlo Alberto; venne il ripiegamento sulla destra dei fiume, verso Volta Mantovana, del secondo corpo de Sonnaz, abbandonando Rivoli, Sona e Castelnuovo; venne sulle prime ore del 24 l’attacco piemontese da Villafranca, dove si erano concentrati parte del I° corpo e della divisione di riserva, per respingere verso il Mincio, fra Custoza e Sommacampagna, l’esercito austriaco, isolandolo da Verona, venne ultima vicenda, Custoza (25 luglio). In quest’ultima giornata di combattimento anche gli squadroni carabinieri reali ebbero la loro parte di impiego.
Doveva continuare il 25 luglio la conversione a sinistra, perno Valeggio, per schiacciare il nemico sul Mincio; e su Valeggio, estrema sinistra della linea di battaglia, doveva puntare la prima divisione con la brigata Aosta.
Spiegato il quinto reggimento, con tre battaglioni del sesto ed uno di Guardie in rincalzo, sostenuta dall’artiglieria di battaglia e preceduta da una linea di bersaglieri, avanzava su Valeggio la brigata, i fianchi coperti a destra da tre squadroni di Aosta, ed a sinistra dagli squadroni carabinieri: infiammata dalla presenza del Re, che percorreva le linee in mezzo al fuoco più vivo, impegnò alle 11 il combattimento, contro fanteria nemica, al cimitero ed al saliente orientale del paese, ma battuta dall’artiglieria, premuta alle ali da numerosa cavalleria, malgrado venisse questa replicatamente caricata, fu impotente a superare il margine dell’abitato, sistemato a difesa. Ordinò allora il Re fosse la brigata ritirata sulla linea La Gherla-case Bodrone nella sua formazione di battaglia. L’attacco simultaneo sulla rimanente fronte fra Custoza e Sommacampagna era mancato, ed era mancata la cooperazione del secondo corpo, che dalla destra del Mincio doveva puntare sul rovescio della difesa di Valeggio.
Le truppe del Duca di Genova e del Duca di Savoia, prevenute dagli Austriaci nel movimento di conversione, combattevano frattanto una dura battaglia fondendo in un unico episodio di valore gli eroici brillanti attacchi a Custoza, a Monte Torre, alla Berrettara, a Sommacampagna. Senza fortuna, perché alle cinque del pomeriggio iniziavano, combattendo, la ritirata su Villafranca, e su Villafranca alla medesima ora ripiegava la prima divisione con la brigata Aosta, protetta, contro le molestie della cavalleria e dell’artiglieria nemica, dagli squadroni dei carabinieri, di Aosta e di Savoia «e fu mercé il contegno della nostra cavalleria e la voce e l’esempio degli ufficiali che la marcia venne continuata con ordine» (Bava, Relazione sulla campagna).
Il Re, che in quella pericolosa situazione era stato invitato dal gen. Bava a porsi al sicuro con la sua scorta verso Villafranca, aveva voluto seguire il destino dei suoi soldati, mettendo anzi a disposizione, per l’impiego, gli squadroni carabinieri; e di questi scrisse il gen. Bava nella relazione sulla campagna «Ebbi motivo di essere soddisfattissimo per il loro coraggioso contegno».
Da Villafranca proseguì la marcia al ponte Goito e poi verso Milano. Il nemico dolente per le profonde ferite, non aveva tentato l’inseguimento.
 Cadeva così sul Mincio il sogno della prima guerra di indipendenza.
I componenti di alcuni reparti più duramente provati ripiegarono in disordine verso i ponti di Marcaria e di Canneto sull’Oglio, ma quì drappelli di carabinieri li fermarono, mentre altri al ponte di Cremona sul Po impedirono che truppe in disordine si riversassero verso Piacenza.
In coda alle truppe il Re ed i Principi. Carlo Alberto invece di concentrare i resti della sua armata fra Piacenza ed il Po decideva di avviarsi sotto le mura di Milano per tentare la salvezza della città, risoluto ad immolare se stesso e la sua armata in quel disperato tentativo, ultimo atto cavalleresco della sua anima generosa.
Il 4 agosto alle otto gli Austriaci attaccavano gli avamposti, e Carlo Alberto, successivamente, si portava nei punti più minacciati lungamente soffermandosi a Casabianca ed a Porta Romana, dove si concentravano gli sforzi nemici, e dove «la battaglia accanitamente sostenuta dalle guardie e dai fanti di Casale si svolgeva sotto gli occhi stessi del Re, lontano pochi passi e talmente esposto ai colpi nemici che vari carabinieri della sua scorta ne ebbero morte» (Pinelli, Storia del Piemonte).
Ma alle 5 di sera; dopo una giornata di combattimento in cui parve si ridestassero i fanti ed i cavalieri di Goito e di Custoza, veniva la difesa ritirata sulle mura della città. Rientrato il Re a palazzo Greppi, fu esaminata, in un consiglio di guerra la situazione. Riconosciuta disperata, alle 9 i generali Lazari e Rossi uscivano da porta Romana per trattare le clausole dello sgombero della città, mentre ancora agli avamposti crepitava la fucileria.
Le condizioni imposte dagli Austriaci, ed accettate dai parlamentari, parvero soverchiamente dure alla cittadinanza milanese ed il giorno dopo divulgatasi la notizia della tregua, la costernazione si impadronì dei cittadini; e nel loro dolore furono ingiusti e immemori del generoso slancio che aveva condotto il Re sotto le mura di Milano. Si gridò al tradimento e si lanciarono oscure minacce di vendetta. La folla urlante si riversò nelle adiacenze di palazzo Greppi, tentandone la invasione. Grave fu allora il pericolo corso dal Re che, privo della scorta per aver voluto così testimoniare la piena sua confidenza nel popolo, si trovò solo ed isolato dal suo esercito, in balìa - scrisse il generale Bava nella sua relazione sulla campagna - «di una calca furibonda la quale non esprimeva che sangue e vendetta nei suoi atti e nelle sue parole».
Il generale Scati, che non si era sentito tranquillo della sicurezza di Carlo Alberto, aveva però trattenuto a sua personale difesa 25 carabinieri, e quando, dispersa la guardia nazionale, la corte del palazzo fu invasa «non restarono fermi al loro posto sullo scalone che i coraggiosi carabinieri», i quali, respinti i più temerari che lo scalone affollavano, arditamente si gettarono su quell’orda di popolo affrontandone il furore e ricacciandola (Duca di Dino, La guerre de Lombardie).
Dal balcone del palazzo Greppi, intanto, fra il tempestar di urla e di schiamazzi il generale Lazari, riusciva a dar lettura di un Sovrano proclama al popolo milanese; «lettura più volte così pericolosamente interrotta e sempre ripigliata con freddezza di costanza e con potenza di coraggio, a encomiarsi stupendo e più che rarissimo ad imitarsi» (Ruffini).
La sicurezza del Re rimase affidata così totalmente all’animosa ed appassionata vigilanza dei carabinieri, che «quantunque stanchi - scrisse Alfonso Lamarmora - mostravansi rassegnati a qualunque sacrificio, sicché ero persuaso che i rivoltosi avrebbero dovuto passare sopra i loro corpi prima di arrivare agli appartamenti dove trovavasi il Re». Distribuiti lungo lo scalone ed alla porta, essi traevano in arresto, la sera, otto o nove individui che eran stati sorpresi intenti ad appoggiare una scala contro una finestra della camera del Re ed a notte alta davano il passo, al convenuto segnale, ad una compagnia di guardie, e ad una di bersaglieri, guidate dal Duca di Genova e dal colonnello Alfonso Lamarmora per liberare Carlo Alberto.
Poco dopo, in silenzioso corteo, il Re Sabaudo usciva dalla città alla volta del Piemonte, verso cui muovevano anche gli avanzi dei gloriosi reggimenti.
L’ordine relativo all’organizzazione delle truppe del presidio per la difesa di Milano, diramato la sera del 5 agosto dal generale Olivieri, nominato comandante di tutte le truppe di Lombardia, aveva determinato le singole dislocazioni, e prima vi figurava quella di una compagnia di carabinieri di formazione, assegnata alla difesa del quartier generale al palazzo nazionale in piazza del Duomo.
La nuova ritirata ritrovò sulle vie ed ai ponti, fedeli alle loro consegne, i carabinieri reali. L’ordine speciale n. 41 diramato da Magenta, quartier generale dell’armata, il 6 agosto, prescriveva: «Questa sera, alle ore 5, sarà fatto partire un plotone di carabinieri per il ponte sul Ticino (S. Martino) col carico di fermare gli uomini isolati vestiti in uniforme ed armati, di formarli in drappelli per corpo al di quà del ponte, e di farli riunire domani al proprio corpo al momento del suo passaggio. L’ufficiale dei carabinieri reali, comandante il plotone, avrà l’incarico di comunicare alle divisioni le singole direzioni».
Anche da Peschiera, cinta d’assedio, il consiglio di difesa, presieduto dal generale Federici, aveva deciso nella seduta del 5 agosto, fra le altre provvidenze destinate ad ottenere ed a mantener viva la resistenza ad oltranza, di utilizzare il distaccamento carabinieri di cui disponeva per il servizio di piazza.
4. Gli ordini generali d’armata del 15 e 25 agosto premiarono le prove di valore, date dall’esercito sardo nelle dolorose battaglie dell’ultimo periodo della campagna. Non ne furono scordati i carabinieri reali.
Diceva l’ordine del giorno 15 agosto 1848, datato da Alessandria. «Le truppe del secondo corpo d’armata combatterono dal 22 al 25 luglio sulle alture di Rivoli, S. Giustina, Sona e Volta, con grande valore, e se il successo non potè, per le esuberanti forze nemiche, coronare i loro sforzi, tuttavia in nessun luogo furono di viva forza respinti e si ritirarono dovunque in buon’ordine. S. M. manifesta la viva soddisfazione dell’animo suo concedendo a coloro che furono notati come i più valorosi le seguenti ricompense: (cito solamente gli appartenenti al corpo). Luogotenente Brunati CC. RR. terza divisione: menzione onorevole; si distinse nel combattimento di Volta Mantovana dove ebbe fracassata una gamba».
E l’ordine del giorno del 25 agosto Successivo: «Il Re, per rimunerare i militari del primo corpo d’armata che sotto gli ordini del generale Bava nei fatti d’arme del 24 e 25 luglio alla gola di Staffalo e circostanti colli, sulle alture di Sommacampagna, Berettara, Custoza e Valeggio, il dì 4 agosto fuori le mura di Milano, furono gli ottimi tra tanti buoni e bravi soldati, ha loro assegnate le promozioni, ricompense e menzioni onorevoli che seguono: (Cito solamente gli appartenenti al corpo). Menzione onorevole: Stato Maggiore Generale. Li tre squadroni di guerra CC. RR. conte di S. Front, maggiore CC. RR. comandante; cav. Brunetta capitano primo squadrone; cav. Incisa, capitano secondo squadrone; Del Pozzo, sottobrigadiere terzo squadrone; Marcellino, carabiniere terzo squadrone.
Stato maggiore prima divisione: Cav. Poliotti, luogotenente CC. RR.
In seguito venne concessa la medaglia d’argento al maggiore S. Front «per aver sostenuta con intrepidezza la ritirata fra Valeggio e Villafranca» e fu concessa la menzione onorevole al capitano Morelli di Popolo «per essersi distinto a Milano il 4 agosto, adoperandosi per la sua salvezza e riportandone ferita». Molti encomi furono pure tributati «al contegno militare, e sangue freddo ed al coraggio di individui» degli squadroni, ed ebbero, i loro comandanti, le insegne di cavaliere dell’ordine mauriziano.
Sulla fine di agosto, sciolti in Alessandria i tre squadroni di guerra ed i distaccamenti assegnati alle divisioni, ritornava il contingente a ricomporre le stazioni rimaste temporaneamente soppresse od incomplete; ritornava alla consueta feconda sua opera, che il momento sommamente delicato e pericoloso richiedeva più vigile e più sicura, più pronta ad ogni sacrificio.
In quei giorni il comandante superiore dei CC. RR. all’armata, colonnello Avogadro di Valdengo invitato a riferire al ministero della guerra sull’opera e sull’impiego avuto dall’Arma durante la campagna, mentre riconosceva che «una parte del corpo reggimentato poteva essere di un vantaggio certo e sicuro» non altrettanto favorevole si mostrava sull’impiego avuto dai carabinieri in guerra essendo stati i risultati quasi negativi. «L’isolamento di tanti uomini - precisava - influiva in modo pregiudichevole sul proprio morale, e se la disciplina si mantenne salda lo si deve alle forti istruzioni fondamentali che reggono il corpo e non già al servizio speciale dei carabinieri in campagna, che si riduceva in sterili marce e ben raramente di qualche utilità. I militari si rendevano conto del loro nulla, non esclusi gli ufficiali, e deploravano tale triste condizione, mentre ambizione loro sarebbe stata quella di prendere parte alle fazioni campali e di distinguersi. Alcuni pochi che ne ebbero occasione provarono del buon spirito cui erano animati, sia di patriottismo, di zelo, che di bravura».
Legittimo il rammarico in chi soldato aveva sognato solo la vita guerriera del soldato, ma certo soverchiamente pessimista il giudizio sull’opera riservata in guerra ai carabinieri: opera meritoria e necessaria e indispensabile anzi, perché primo requisito per il successo nel combattimento la disciplina del campo di battaglia. Lo imparammo a nostre spese nelle successive campagne.
D’altra parte ben comprensibile lo sfogo in quei momenti dolorosi per l’esercito e pel paese, pieni di passioni, di recriminazioni, di astiosità.
Particolarmente opportuna, perché superiore ad ogni disappunto, ad ogni amarezza, giungeva quindi la nobile, dignitosa, ammonitrice parola del comandante, generale Lazari, che lasciando il 14 ottobre il comando del Corpo, scriveva ai suoi carabinieri nell’ordine del giorno di commiato: «L’onore vi sia sempre di guida in ogni circostanza della vita, l’amore alla Patria, allo Statuto ed al Re, che lo donò generosamente ai suoi popoli, vi sia di norma nelle peculiari vostre attribuzioni. Così operando vi manterrete sempre in quel concetto, in quella stima che vi valse fin qui l’ammirazione dello straniero e dell’Italia, e che vi acquistò la benevolenza dei vostri concittadini. In ogni mia condizione sociale vi seguirò col cuore ed applaudirò ad ogni vostro operato a prò della Patria».