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Corte Costituzionale

Massima e sentenza tratte dal sito www.cortecostituzionale.it

Appellabilità delle sentenze di proscioglimento - Appello del pubblico ministero - Limitatamente alle ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, c.p.p. - Illegittimità costituzionale.

Corte costituzionale, sent. 24 gennaio - 6 febbraio 2007, n. 26, Pres. Bile, Rel. Flick, (art. 1, legge 20 febbraio 2006, n. 46 e 10 - artt. 3, 24, 111 e 112 Cost.)

È viziato da illegittimità costituzionale l’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 c.p.p., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, c.p.p., se la nuova prova è decisiva (1).

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“Considerato in diritto
1. - La Corte d’appello di Roma dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, salvo che ricorrano le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, cod. proc. pen. - ossia quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado - e sempre che tali prove siano decisive.
Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata risulterebbe incompatibile con gli artt. 3 e 24 Cost., giacché - consentendo all’imputato di appellare contro le sentenze di condanna, senza accordare al pubblico ministero lo speculare potere di proporre appello contro le sentenze assolutorie, se non in una ipotesi talmente circoscritta da apparire «poco più che teorica» - porrebbe l’imputato in «una posizione di evidente favore nei confronti degli altri componenti la collettività», i cui interessi vengono tutelati dal diritto-dovere del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, impedendo, al tempo stesso, una esplicazione adeguata di tale tutela.
Verrebbe violato, inoltre, il precetto dell’art. 111 Cost., in forza del quale ogni processo deve svolgersi «nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo e imparziale», in quanto la norma denunciata non consentirebbe all’accusa di far valere le sue ragioni con strumenti simmetrici a quelli di cui dispone la difesa.
La medesima norma eluderebbe, da ultimo, il vincolo posto dal principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), cui dovrebbe ritenersi connaturata la previsione di un secondo grado di giudizio di merito anche a favore del pubblico ministero.
2. - La Corte d’appello di Milano dubita anch’essa della legittimità costituzionale, in parte qua, dell’art. 1 della legge n. 46 del 2006, coinvolgendo peraltro nello scrutinio di costituzionalità anche la norma transitoria di cui all’art. 10 della medesima legge. Quest’ultima norma viene censurata nella parte in cui rende applicabile la nuova disciplina nei procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, stabilendo, in particolare - ai commi 2 e 3 - che l’appello già proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento debba essere dichiarato inammissibile, salva la facoltà dell’appellante di proporre, in sua vece, ricorso per cassazione entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilità.
Dette disposizioni - a giudizio della Corte rimettente - violerebbero gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., in quanto accorderebbero al pubblico ministero un trattamento palesemente deteriore sia rispetto all’imputato, che è ammesso a proporre appello avverso le sentenze di condanna; sia rispetto alla parte civile, la quale, in base all’art. 576 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 6 della stessa legge n. 46 del 2006, conserverebbe invece - secondo il giudice a quo - il potere di appellare contro le sentenze di proscioglimento.
Tale asimmetria non risulterebbe assistita da alcuna ragionevole giustificazione, che valga a renderla compatibile con il principio di parità delle parti nel processo, in rapporto ad esigenze di tutela di altri valori di rango costituzionale.
Quanto, infatti, alla disparità di trattamento tra accusa e difesa, la scelta legislativa non potrebbe trovare un fondamento razionale nell’interesse dell’imputato ad una rapida definizione del processo a suo carico: interesse che non potrebbe essere realizzato a mezzo di una mera menomazione dei poteri della controparte processuale. Né tale scelta potrebbe fondarsi su di un preteso diritto dell’imputato medesimo ad un doppio grado di giurisdizione di merito in caso di condanna: diritto in realtà privo di riconoscimento tanto nella Costituzione, che nelle convenzioni internazionali in tema di diritti dell’uomo cui l’Italia ha aderito. Né, ancora, essa potrebbe fondarsi sull’ipotetico incremento del rischio della condanna di un innocente, indotto dall’appello del pubblico ministero contro la sentenza di proscioglimento a fronte della «disparità di forze in gioco», posto che la ventilata «disparità di forze» verrebbe comunque meno dopo la sentenza di primo grado.
Del pari, non varrebbe evocare i principi del contraddittorio, dell’oralità e dell’immediatezza, in rapporto alla valutazione puramente «cartolare» del materiale probatorio operata dal giudice di appello: giacché - al di là del rilievo che numerosi processi (ad esempio, quelli celebrati con il rito abbreviato) sono a base «cartolare» in entrambi i gradi di giudizio - non si comprenderebbe perché un «giudizio sulle carte» di proscioglimento abbia maggiore dignità di un analogo giudizio di condanna; sicché, ove portato alle sue logiche conseguenze, l’argomento dovrebbe determinare l’inappellabilità di tutte le sentenze.
Né avrebbe pregio l’assunto per cui il proscioglimento in primo grado non consentirebbe comunque di ritenere l’imputato colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio» - come attualmente richiesto dall’art. 533, comma 1, cod. proc. pen. ai fini della condanna - posto che la possibile difformità degli esiti del giudizio sarebbe necessariamente insita nella previsione di più gradi di giurisdizione di merito. D’altra parte, se l’appellabilità della sentenza di condanna da parte dell’imputato trova fondamento nell’eventualità che la decisione di primo grado sia errata, una analoga eventualità non potrebbe non giustificare, per il principio di parità, l’appellabilità anche delle sentenze di assoluzione.
Manifestamente illogica risulterebbe, infine, l’evidenziata disparità di trattamento rispetto alla parte civile, la quale è portatrice, nel processo penale, di un interesse meramente risarcitorio, utilmente azionabile davanti al giudice civile: mentre il pubblico ministero è la parte pubblica che fa valere, anche in sede di impugnazione, la pretesa punitiva dello Stato e l’interesse pubblico al ripristino dell’ordine violato dal reato.
3. - Le ordinanze di rimessione sollevano analoghe questioni, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
4. - In riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost., la questione è fondata.
Giova premettere come, secondo quanto reiteratamente rilevato da questa Corte, il secondo comma dell’art. 111 Cost., inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione) - nello stabilire che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità» - abbia conferito veste autonoma ad un principio, quello di parità delle parti, «pacificamente già insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali» (ordinanze n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
Anche dopo la novella costituzionale, resta pertanto pienamente valida l’affermazione - costante nella giurisprudenza anteriore della Corte (ex plurimis, sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 e n. 363 del 1991; ordinanze n. 426 del 1998, n. 324 del 1994 e n. 305 del 1992) - secondo la quale, nel processo penale, il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato: potendo una disparità di trattamento «risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia» (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
Alla luce di tale consolidato indirizzo, le fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle due parti necessarie del processo penale, correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse sono portatrici - essendo l’una un organo pubblico che agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi; l’altra un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali (in primis, quello di libertà personale), sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna - impediscono di ritenere che il principio di parità debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell’iter processuale, in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà. Alterazioni di tale simmetria - tanto nell’una che nell’altra direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella privata) - sono invece compatibili con il principio di parità, ad una duplice condizione: e, cioè, che esse, per un verso, trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo sviluppo di finalità esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per un altro verso, risultino comunque contenute - anche in un’ottica di complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparità di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui s’innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira (si vedano le sentenze n. 115 del 2001 e n. 98 del 1994) - entro i limiti della ragionevolezza.
Tale vaglio di ragionevolezza va evidentemente condotto sulla base del rapporto comparativo tra la ratio che ispira, nel singolo caso, la norma generatrice della disparità e l’ampiezza dello “scalino” da essa creato tra le posizioni delle parti: mirando segnatamente ad acclarare l’adeguatezza della ratio e la proporzionalità dell’ampiezza di tale “scalino” rispetto a quest’ultima. Siffatta verifica non può essere pretermessa, se non a prezzo di un sostanziale svuotamento, in parte qua, della clausola della parità delle parti: non potendosi ipotizzare, ad esempio, che la posizione di vantaggio di cui fisiologicamente fruisce l’organo dell’accusa nella fase delle indagini preliminari, sul piano della ricchezza degli strumenti investigativi - posizione di vantaggio che riflette il ruolo istituzionale di detto organo, avuto riguardo anche al carattere “invasivo” e “coercitivo” di determinati mezzi d’indagine - abiliti di per sé sola il legislatore, in nome di un’esigenza di “riequilibrio”, a qualsiasi deminutio, anche la più radicale, dei poteri del pubblico ministero nell’ambito di tutte le successive fasi. Una simile impostazione - negando, di fatto, l’esistenza di limiti di compatibilità costituzionale alla distribuzione asimmetrica delle facoltà processuali tra i contendenti - priverebbe di ogni concreta valenza la clausola di parità: risultato, questo, tanto meno accettabile a fronte della sua attuale assunzione ad espresso ed autonomo precetto costituzionale.
5. - All’indicata chiave di lettura si è, in effetti, costantemente ispirata la giurisprudenza di questa Corte relativa alla tematica - che viene qui specificamente in rilievo - delle possibili dissimmetrie a sfavore del pubblico ministero in punto di poteri di impugnazione.
5.1. - Nello scrutinare le questioni di legittimità costituzionale sollevate a tal proposito, questa Corte ha sempre recepito come corretta la premessa fondante di esse: che, cioè, la disciplina delle impugnazioni, quale capitolo della complessiva regolamentazione del processo, si collochi anch’essa - sia pure con le peculiarità che poco oltre si evidenzieranno - entro l’ambito applicativo del principio di parità delle parti; premessa, questa, la cui validità deve essere confermata.
Il principio in parola non è infatti suscettibile di una interpretazione riduttiva, quale quella che - facendo leva, in particolare, sulla connessione proposta dall’art. 111, secondo comma, Cost. tra parità delle parti, contraddittorio, imparzialità e terzietà del giudice - intendesse negare alla parità delle parti il ruolo di connotato essenziale dell’intero processo, per concepirla invece come garanzia riferita al solo procedimento probatorio: e ciò al fine di desumerne che l’unico mezzo d’impugnazione, del quale le parti dovrebbero indefettibilmente fruire in modo paritario, sia il ricorso per cassazione per violazione di legge, previsto dall’art. 111, settimo comma, Cost.
Una simile ricostruzione finirebbe difatti per attribuire al principio di parità delle parti, in luogo del significato di riaffermazione processuale dei principi di cui all’art. 3 Cost., una antitetica valenza derogatoria di questi ultimi: soluzione tanto meno plausibile a fronte del tenore letterale della norma costituzionale, nella quale la parità delle parti è enunciata come regola generalissima, riferita indistintamente ad «ogni processo» e senza alcuna limitazione a determinati momenti o aspetti dell’iter processuale. Né può trarsi argomento, in contrario, dallo specifico risalto che il legislatore costituzionale ha inteso assegnare al valore del contraddittorio nel processo penale, attestato dalle puntuali “direttive” al riguardo impartite nel quarto e nel quinto comma dell’art. 111 Cost.: non potendosi ritenere, anche sul piano logico, che tale distinto valore - anziché affiancarsi, rafforzandolo, al principio di parità - sia destinato ad esplicare un ruolo limitativo del medesimo; così da legittimare l’idea - palesemente inaccettabile rispetto ad altri tipi di processo, quale, ad esempio, il processo civile - per cui, nel processo penale, la clausola di parità opererebbe solo nei confini del procedimento di formazione della prova.
5.2. - Ciò posto, questa Corte ha ribadito che, anche per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni, parità delle parti non significa, nel processo penale, necessaria omologazione di poteri e facoltà.
A tal proposito - sulla premessa che la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale (ex plurimis, sentenza n. 280 del 1995; ordinanza n. 316 del 2002) - questa Corte ha in particolare rilevato come il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenti margini di “cedevolezza” più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato. Il potere di impugnazione della parte pubblica trova, infatti, copertura costituzionale unicamente entro i limiti di operatività del principio di parità delle parti - “flessibile” in rapporto alle rationes dianzi evidenziate - non potendo essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, di cui all’art. 112 Cost. (sentenza n. 280 del 1995; ordinanze n. 165 del 2003, n. 347 del 2002, n. 421 del 2001 e n. 426 del 1998); mentre il potere di impugnazione dell’imputato viene a correlarsi anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24 Cost.), che ne accresce la forza di resistenza di fronte a sollecitazioni di segno inverso (sentenza n. 98 del 1994).
 Ciò non toglie, tuttavia, che le eventuali menomazioni del potere di impugnazione della pubblica accusa, nel confronto con lo speculare potere dell’imputato, debbano comunque rappresentare - ai fini del rispetto del principio di parità - soluzioni normative sorrette da una ragionevole giustificazione, nei termini di adeguatezza e proporzionalità dianzi lumeggiati: non potendosi ritenere, anche su questo versante - se non a prezzo di svuotare di significato l’enunciazione di detto principio con riferimento al processo penale - che l’evidenziata maggiore “flessibilità” della disciplina del potere di impugnazione del pubblico ministero legittimi qualsiasi squilibrio di posizioni, sottraendo di fatto, in radice, le soluzioni normative in subiecta materia allo scrutinio di costituzionalità.
5.3. - In simile ottica, questa Corte si è quindi ripetutamente pronunciata - tanto prima che dopo la modifica dell’art. 111 Cost. - nel senso della compatibilità con il principio di parità delle parti della norma che escludeva l’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di condanna emesse a seguito di giudizio abbreviato, anche nella sola forma dell’appello incidentale, salvo si trattasse di sentenza modificativa del titolo del reato (artt. 443, comma 3, e 595 cod. proc. pen.).
Al riguardo, si è infatti osservato come la soppressione del potere della parte pubblica di impugnare nel merito decisioni che segnavano «comunque la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere nel processo attraverso l’azione intrapresa» - essendo lo scarto tra la richiesta dell’accusa e la sentenza sottratta all’appello non di ordine «qualitativo», ma meramente «quantitativo» - risultasse razionalmente giustificabile alla luce dell’«obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito alternativo di cui si tratta» (sentenza n. 363 del 1991; ordinanze n. 305 del 1992 e n. 373 del 1991): rito che - sia pure per scelta esclusiva dell’imputato, dopo le modifiche attuate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 - «implica una decisione fondata, in primis, sul materiale probatorio raccolto dalla parte che subisce la limitazione censurata, fuori delle garanzie del contraddittorio» (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
Tali caratteristiche del giudizio abbreviato - che conferiscono un particolare risalto alla dissimmetria di segno opposto, riscontrabile a favore del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, le cui risultanze sono direttamente utilizzabili ai fini della decisione (al riguardo, si veda la sentenza n. 98 del 1994) - valevano, dunque, a rendere la scelta normativa in discorso «incensurabile sul piano della ragionevolezza in quanto proporzionata al fine preminente della speditezza del processo» (sentenza n. 363 del 1991). Fine al quale non avrebbe potuto essere invece sacrificato - per la ragione dianzi indicata - lo speculare potere di impugnazione dell’imputato (sentenza n. 98 del 1994).
6. - Ben diversa è la situazione nel caso oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità.
6.1. - Al di sotto dell’assimilazione formale delle parti - «il pubblico ministero e l’imputato possono appellare contro le sentenze di condanna» (ergo, non contro quelle di proscioglimento) - la norma censurata racchiude una dissimmetria radicale. A differenza dell’imputato, infatti, il pubblico ministero viene privato del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo veda totalmente soccombente, negando per integrum la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere con l’azione intrapresa, in rapporto a qualsiasi categoria di reati.
 Né varrebbe, al riguardo, opporre che l’inappellabilità - sancita per entrambe le parti - delle sentenze di proscioglimento si presta a sacrificare anche l’interesse dell’imputato, segnatamente allorché il proscioglimento presupponga un accertamento di responsabilità o implichi effetti sfavorevoli. Tale conseguenza della riforma - in ordine alla quale sono stati prospettati ulteriori e diversi problemi di costituzionalità, di cui la Corte non è chiamata ad occuparsi in questa sede - non incide comunque sulla configurabilità della rilevata sperequazione, per cui una sola delle parti, e non l’altra, è ammessa a chiedere la revisione nel merito della pronuncia a sé completamente sfavorevole.
È evidente, poi, come tale sperequazione non venga attenuata, se non in modo del tutto marginale, dalla previsione derogatoria di cui al comma 2 dell’art. 593 cod. proc. pen., in forza della quale l’appello contro le sentenze di proscioglimento è ammesso nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado: previsione non presente nel testo originariamente approvato dal Parlamento, ma introdotta a fronte dei rilievi su di esso formulati dal Presidente della Repubblica con il messaggio trasmesso alle Camere il 20 gennaio 2006 ai sensi dell’art. 74, primo comma, Cost., nel quale si era segnalato, tra l’altro, come «la soppressione dell’appello delle sentenze di proscioglimento» determinasse - stante la «disorganicità della riforma» - una condizione di disparità «delle parti nel processo […] che supera quella compatibile con la diversità delle funzioni svolte dalle parti stesse». Risulta, infatti, palese come l’ipotesi considerata - sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive nel corso del breve termine per impugnare (art. 585 cod. proc. pen.) - presenti connotati di eccezionalità tali da relegarla a priori ai margini dell’esperienza applicativa (oltre a non coprire, ovviamente, l’errore di valutazione nel merito).
Altrettanto evidente, ancora, è come l’eliminazione del potere di appello del pubblico ministero non possa ritenersi compensata - per il rispetto del principio di parità delle parti - dall’ampliamento dei motivi di ricorso per cassazione, parallelamente operato dalla stessa legge n. 46 del 2006 (lettere d ed e dell’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., come sostituite dall’art. 8 della legge): e ciò non soltanto perché tale ampliamento è sancito a favore di entrambe le parti, e non del solo pubblico ministero; ma anche e soprattutto perché - quale che sia l’effettiva portata dei nuovi e più ampi casi di ricorso - il rimedio non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito dall’appello.
6.2. - La rimozione del potere di appello del pubblico ministero si presenta, per altro verso, generalizzata e “unilaterale”.
È generalizzata, perché non è riferita a talune categorie di reati, ma è estesa indistintamente a tutti i processi: di modo che la riforma, mentre lascia intatto il potere di appello dell’imputato, in caso di soccombenza, anche quando si tratti di illeciti bagatellari - salva la preesistente eccezione relativa alle sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda (art. 593, comma 3, cod. proc. pen.; si veda, altresì, per i reati di competenza del giudice di pace, l’art. 37 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274) - fa invece cadere quello della pubblica accusa anche quando si discuta dei delitti più severamente puniti e di maggiore allarme sociale, che coinvolgono valori di primario rilievo costituzionale.
È “unilaterale”, perché non trova alcuna specifica “contropartita” in particolari modalità di svolgimento del processo - come invece nell’ipotesi già scrutinata dalla Corte in relazione al rito abbreviato, caratterizzata da una contrapposta rinuncia dell’imputato all’esercizio di proprie facoltà, atta a comprimere i tempi processuali - essendo sancita in rapporto al giudizio ordinario, nel quale l’accertamento è compiuto nel contraddittorio delle parti, secondo le generali cadenze prefigurate dal codice di rito.
7. - A fronte delle evidenziate connotazioni, l’alterazione del trattamento paritario dei contendenti, indotta dalla norma in esame, non può essere giustificata, in termini di adeguatezza e proporzionalità, sulla base delle rationes che, alla stregua dei lavori parlamentari, si collocano alla radice della riforma.
7.1. - A sostegno della soluzione normativa censurata, si è rilevato, anzitutto, che l’avvenuto proscioglimento in primo grado - rafforzando la presunzione di non colpevolezza - impedirebbe che l’imputato, già dichiarato innocente da un giudice, possa essere considerato da altro giudice colpevole del reato contestatogli «al di là di ogni ragionevole dubbio», secondo quanto richiesto, ai fini della condanna, dall’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., come novellato dall’art. 5 della stessa legge n. 46 del 2006. In simile situazione, la reiterazione dei tentativi dello Stato per condannare un individuo già risultato innocente verrebbe dunque ad assumere una connotazione “persecutoria”, contraria ai «principi di uno Stato democratico» (in questo senso, in particolare, l’illustrazione della proposta di legge A.C. 4604 da parte dei relatori alla Commissione giustizia della Camera dei deputati).
Al riguardo, è peraltro sufficiente osservare come la sussistenza o meno della colpevolezza dell’imputato «al di là di ogni ragionevole dubbio» rappresenti la risultante di una valutazione: e la previsione di un secondo grado di giurisdizione di merito trova la sua giustificazione proprio nell’opportunità di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado, che non avrebbe senso dunque presupporre esatte, equivalendo ciò a negare la ragione stessa dell’istituto dell’appello. In effetti, se il doppio grado mira a rafforzare un giudizio di “certezza”, esso non può non riflettersi sui diversi approdi decisori cui il giudizio di primo grado può pervenire: quello di colpevolezza, appunto, ma, evidentemente, anche quello - antitetico - di innocenza.
In tale ottica, l’iniziativa del pubblico ministero volta alla verifica dei possibili (ed eventualmente, anche evidenti) errori commessi dal primo giudice, nel negare la responsabilità dell’imputato, non può qualificarsi, in sé, “persecutoria”; essa ha, infatti, come scopo istituzionale quello di assicurare la corretta applicazione della legge penale nel caso concreto e - tramite quest’ultima - l’effettiva attuazione dei principi di legalità e di eguaglianza, nella prospettiva della tutela dei molteplici interessi, connessi anche a diritti fondamentali, a cui presidio sono poste le norme incriminatrici.
7.2. - A fondamento della scelta legislativa in esame viene allegata, per altro verso, l’esigenza di uniformare l’ordinamento italiano alle previsioni dell’art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98; nonché dell’art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881. Tali norme internazionali pattizie prevedono che ogni persona condannata per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza o la condanna siano riesaminati da un tribunale superiore o di seconda istanza: principio che - si sostiene - verrebbe vulnerato nel caso di condanna dell’imputato in secondo grado, conseguente all’appello del pubblico ministero avverso la sentenza di proscioglimento emessa in primo grado (in questa prospettiva, si veda la relazione del proponente alla proposta di legge A.C. 4604).
Con riguardo ad entrambe le norme, questa Corte ebbe, peraltro, già in precedenza a rilevare come il riesame ad opera di un tribunale superiore, da esse previsto a favore dell’imputato, non debba necessariamente coincidere con un giudizio di merito, anziché con il ricorso per cassazione; e ciò perché l’obiettivo perseguito è quello di «assicurare comunque un’istanza davanti alla quale fare valere eventuali errori in procedendo o in iudicando commessi nel primo giudizio, con la conseguenza che il riesame nel merito interverrà solo ove tali errori risultino accertati» (sentenza n. 288 del 1997; si veda, altresì, la sentenza n. 62 del 1981). Al riguardo, non è, d’altro canto, senza significato la circostanza che il legislatore costituzionale del 1999 - nel riformulare l’art. 111 Cost., nell’ottica di un suo adeguamento ai principi del «giusto processo» - non sia intervenuto sul tema delle impugnazioni, continuando a riferirsi al ricorso per cassazione per violazione di legge come unico rimedio impugnatorio costituzionalmente imposto.
Dirimente è, peraltro, il rilievo che, alla luce della disciplina - più recente ed analitica di quella del Patto internazionale - dell’art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convezione europea (su cui soprattutto fanno leva i lavori parlamentari), il diritto della persona dichiarata colpevole di un reato al riesame della «dichiarazione di colpa o di condanna», da parte di un tribunale superiore, può essere oggetto di eccezioni - oltre che «in caso di infrazioni minori» e «in casi nei quali la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione più elevata» - anche quando essa «sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento» (paragrafo 2 del citato art. 2). Quest’ultima eccezione presuppone, evidentemente, che la legge interna contempli un potere di impugnazione contra reum, e quindi a favore dell’organo dell’accusa; essa implica pertanto il riconoscimento che tale potere - anche quando si tratti di impugnazione di merito - è compatibile con il sistema di tutela delineato dalla Convenzione e dallo stesso Protocollo, come del resto conferma la legislazione vigente in buona parte dei Paesi dell’Europa continentale.
7.3. - Si pone l’accento, da ultimo, sul rapporto solo «mediato» che il giudice dell’appello ha con le prove (in tale ottica, si veda nuovamente la citata illustrazione dei relatori della proposta di legge A.C. 4604): reputandosi, in specie, che comporti una situazione di diminuita garanzia - in rapporto ai principi di oralità e immediatezza, ispiratori del processo penale nel modello accusatorio - un assetto nel quale la decisione di proscioglimento di un giudice (quello di primo grado), che ha assistito alla formazione della prova nel contraddittorio fra le parti, può essere ribaltata da altro giudice (quello di appello), che fonda invece la sua decisione su una prova prevalentemente scritta.
Ai fini della risoluzione dell’odierno incidente di costituzionalità, non è peraltro necessario scrutinare la condivisibilità o meno di tale affermazione, la quale evoca tensioni interne al vigente ordinamento processuale, connesse al mantenimento di impugnazioni di tipo tradizionale nell’ambito di un processo a carattere tendenzialmente accusatorio. A prescindere, difatti, dal rilievo che l’ipotizzata distonia del sistema - ove effettivamente riscontrabile - sussisterebbe anche in rapporto alle sentenze di condanna, per le quali il pubblico ministero mantiene il potere di appello, avuto riguardo alla possibile modifica in peius della decisione da parte del giudice di secondo grado come conseguenza di divergenti valutazioni di fatto (le quali portino, ad esempio, al mutamento del titolo del reato o al riconoscimento di una circostanza aggravante); è assorbente la considerazione che il rimedio all’eventuale deficit delle garanzie che assistono una parte processuale va rinvenuto - in via preliminare - in soluzioni che escludano quel difetto, e non già in una eliminazione dei poteri della parte contrapposta che generi un radicale squilibrio nelle rispettive posizioni.
All’obiezione, poi, che le possibili soluzioni alternative al problema dianzi evidenziato, almeno ove calibrate sull’attuale assetto del sistema delle impugnazioni, peserebbero negativamente sui tempi di definizione del giudizio, è agevole replicare che neppure la ragionevole durata del processo - principio che, per costante affermazione di questa Corte, va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 219 del 2004; ordinanze n. 420 e n. 418 del 2004, n. 251 del 2003, n. 458 e n. 519 del 2002) - può essere perseguita, come nella specie, attraverso la totale soppressione di rilevanti facoltà processuali di una sola delle parti. E ciò a prescindere dalla possibilità - da più parti prospettata e che resta aperta alla valutazione del legislatore - di una revisione organica del regime delle impugnazioni, intesa ad eliminare le tensioni da cui, per quanto accennato, il problema stesso trae origine.
8. - Nel suo carattere settoriale, per contro, la novella censurata ha, inoltre, alterato il rapporto paritario tra i contendenti con modalità tali da determinare anche una intrinseca incoerenza del sistema.
Per effetto della riforma, infatti, mentre il pubblico ministero totalmente soccombente in primo grado resta privo del potere di proporre appello, detto potere viene invece conservato dall’organo dell’accusa nel caso di soccombenza solo parziale, vuoi in senso “qualitativo” (sentenza di condanna con mutamento del titolo del reato o con esclusione di circostanze aggravanti), vuoi anche in senso meramente “quantitativo” (sentenza di condanna a pena ritenuta non congrua).
9. - Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque ribadire che, nella cornice dei valori costituzionali, la parità delle parti non corrisponde necessariamente ad una eguale distribuzione di poteri e facoltà fra i protagonisti del processo. In particolare, per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni - ferma restando la possibilità per il legislatore, dianzi accennata, di una generale revisione del ruolo e della struttura dell’istituto dell’appello - non contraddice, comunque, il principio di parità l’eventuale differente modulazione dell’appello medesimo per l’imputato e per il pubblico ministero, purché essa avvenga nel rispetto del canone della ragionevolezza, con i corollari di adeguatezza e proporzionalità, che si sono a più riprese ricordati.
Nella specie, per contro, la menomazione recata dalla disciplina impugnata ai poteri della parte pubblica, nel confronto con quelli speculari dell’imputato, eccede il limite di tollerabilità costituzionale, in quanto non sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e “unilaterale” della menomazione stessa: oltre a risultare - per quanto dianzi osservato - intrinsecamente contraddittoria rispetto al mantenimento del potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna.
 Le residue censure dei giudici rimettenti restano di conseguenza assorbite.
10. - L’art. 1 della legge n. 46 del 2006 va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 cod. proc. pen., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva.
Correlativamente, va dichiarata l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile.

per questi motivi

La Corte Costituzionale riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva;
2) dichiara l’illegittimità costituzione dell’art. 10, comma 2, della citata legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 gennaio 2007.”