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  • N. 3/4 - Luglio-Dicembre
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  • Legislazione e Giurisprudenza
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Giustizia Amministrativa

Sentenze tratte dal sito www.giustizia-amministrativa.it (Massime a cura della Redazione

Disciplina militare di stato - Perdita del grado per rimozione - Fattispecie di illecito - Assunzione di sostanze stupefacenti - Violazione dei doveri di lealtà e correttezza - Sussistenza.

L’assunzione di sostanze stupefacenti, la cui natura giuridica è quella di illecito amministrativo, ai sensi della legislazione vigente, per un militare, istituzionalmente preposto alla repressione del contrabbando e del traffico di stupefacenti, si pone come comportamento contrario ai doveri di lealtà e correttezza assunti con il giuramento, quindi come illecito disciplinare grave, sanzionabile con la perdita del grado per rimozione.


Disciplina militare di stato - Sanzione disciplinare - Valutazione gravità e proporzionalità - Discrezionale apprezzamento dell’amministrazione - Legittimità.

Il provvedimento che infligge una sanzione disciplinare (specie quella più grave) è adeguatamente motivato, allorché individua, con sufficiente chiarezza, i relativi presupposti di fatto, la manifesta gravità degli stessi, nonché le ragioni che hanno indotto l’amministrazione a considerare incompatibili i fatti commessi con la prosecuzione del rapporto di servizio. La valutazione della gravità di un comportamento ai fini disciplinari e della proporzione tra la sanzione disciplinare irrogata e la gravità dei fatti contestati, costituisce manifestazione del discrezionale apprezzamento dell’amministrazione, suscettibile di sindacato di legittimità solo per macroscopici vizi logici che nella specie non sussistono.
Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 2 ottobre 2006, n. 5759 (c.c. 27 giugno 2006), Pres. Venturini, Est. Salvatore, S. F. c. Ministero finanze (conf. T.A.R. Lazio - Roma, sez. II, sent. 4 novembre 2004, n. 12430).

Si legge quanto appresso in sentenza:
“2. Il Collegio osserva che nessuna delle critiche rivolte alla sentenza appellata è meritevole di favorevole considerazione.
In via prioritaria, va rilevato che, con riferimento al precedente punto 1.1., lett. b), le critiche incentrate sulle modalità di trasporto e di apertura del pacco contenente i campioni prelevati e sul mancato invito alle operazioni successive, che si sono svolte senza alcun preavviso, per cui non sarebbe da escludere una contaminazione, ancorché involontaria, degli stessi, nonché quelle sui criteri da seguire, dal punto di vista scientifico, per attribuire attendibilità agli esami effettuati presso l’Università del Sacro Cuore alla luce del parere della Prof. A. L., introducono per la prima volta in appello profili di censura non sollevati con il ricorso originario. Esse, pertanto, prima ancora che infondate, sono inammissibili.
Nel merito, nessuna delle critiche avanzate dall’appellante è tale da condurre a conclusioni diverse da quelle raggiunte dal primo giudice.
Al riguardo, conviene ricordare che le tappe del procedimento disciplinare, che si è concluso con la perdita del grado per rimozione, sono analiticamente e dettagliatamente evidenziate nel provvedimento del Comandante Generale della Guardia di Finanza.
In esso, infatti - pur dandosi atto della mancanza di prova dell’addebito circa la detenzione di sostanza stupefacente, essendo emerso nel corso del procedimento che quella sequestrata non appartiene a nessuna delle droghe conosciute attualmente in circolazione - sono esplicitate le ragioni che dimostravano inequivocabilmente le responsabilità del militare (dichiarazione, nell’immediatezza del fatto, di fare uso di droga da circa due anni e di avere acquistato la sostanza sequestrata poco prima da un certo Emanuele, giunto sul posto a bordo di una “Fiat Tipo” di colore grigio metallizzato in compagnia di tale Maurizio; referto della Facoltà di Medicina e Chirurgia “Agostino Gemelli” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, attestante la positività all’uso di cocaina e diagnosi in data 25 maggio 2001 del Centro militare di Medicina Legale di Roma, attestante la “persistente reattività disforia in soggetto tossicomane accertato”); sono richiamate dettagliatamente le difese addotte dall’interessato a propria discolpa (firma dei verbali in stato di emotività senza leggerne il contenuto; errore materiale della diagnosi di positività alla cocaina emersa dall’esame di laboratorio, tenuto conto che gli esami ematici e delle urine sono risultati negativi; probabile contatto involontario con sostanza stupefacente, avvenuto nei giorni antecedenti al proprio fermo a seguito di operazioni di servizio effettuate); sono, infine, analiticamente indicate le ragioni che impedivano di accogliere le discolpe predette e che inducevano a concludere nel senso del mancato possesso da parte dell’inquisito dei “requisiti morali” e della sua incompatibilità con la permanenza nello status di appartenente alla Guardia di Finanza, essendo stata provata a suo carico la piena violazione del giuramento prestato, cui consegue, ai sensi dell’art. 60 della legge 3 agosto 1954, n. 599, la perdita del grado per rimozione.
Ad avviso del Comandante Generale, gli addebiti contestati e poi provati nel corso del procedimento disciplinare, denotano gravi carenze di qualità morali e di carattere, perché il militare, assumendo droga, è entrato in netto contrasto con le finalità del Corpo in cui presta servizio, istituzionalmente preposto alla repressione di tali traffici ed ha arrecato grave nocumento all’immagine ed al prestigio della Guardia di Finanza.
Il contenuto del provvedimento impugnato consente, in primo luogo, di rilevare che tutti i profili di censura muovono dal presupposto, errato, che la perdita del grado per rimozione sia stata considerata una conseguenza automatica dell’uso di sostanze stupefacenti. Al contrario, dalle motivazioni poste a base del citato provvedimento, ampiamente richiamate, si ricava in modo evidente che gli elementi di fatto emersi sono stati valutati come incompatibili con lo status di militare della Guardia di Finanza, per la decisiva ragione che il comportamento del F[.] ha denotato gravi carenze di qualità morali e di carattere e si è posto in palese contrasto con gli obblighi nascenti dal giuramento.
2.1. Passando, poi, all’esame dei singoli rilievi mossi con il primo motivo di appello, si deve subito osservare che le prime analisi effettuate nell’immediatezza del fermo amministrativo, vale a dire quelle svolte in data 24 aprile 2001 presso il Centro Militare di Medicina Legale di Roma - Cecchignola, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, si sono concluse con un giudizio della CMO non di segno negativo, ma interlocutorio, avendo diagnosticato uno “stato ansioso disforico di grado moderato in soggetto con sospetta tossicosi in attesa di ulteriori accertamenti”, con conseguente non idoneità al servizio militare incondizionato per trenta giorni.
Identico giudizio diagnostico veniva formulato sotto la stessa data dall’Ambulatorio psichiatrico del Centro suddetto, il quale consigliava l’analisi del capello.
Pertanto, il successivo giudizio diagnostico espresso dalla medesima CMO in data 25 maggio 2001, in base al quale - presa visione del giudizio psichiatrico e dell’analisi del capello eseguito il 16 maggio 2001 dalla facoltà di Medicina e Chirurgia del policlinico “A. Gemelli” - è stata riscontrata una persistente reattività disforia in tossicomane accertato, con conseguente non idoneità al servizio militare incondizionato per 180 giorni, lungi dall’essere in contrasto con quello del 24 aprile 2001, costituisce la semplice prosecuzione degli accertamenti precedenti.
In base alle considerazioni che precedono, è da escludere che nella specie vi sia stata discordanza tra i vari pareri medico - sanitari intervenuti e vanno, pertanto, disattesi i rilievi critici di cui al precedente punto 1.1. lett. a) e b) vuoi perché, non essendo stata effettuata un’analisi comparativa di differenti esami, non occorreva il supporto di un’indagine peritale ovvero di un parere scientifico, vuoi perché tutti gli esami di laboratorio sono stati effettuati, ovviamente, in presenza dell’interessato.
Né può condurre a diversa conclusione il parere della Commissione Medica di Seconda Istanza del 23 febbraio 2002, recante un giudizio di “lieve reattività ansiosa in soggetto senza segni di scompenso psicopatologico in atto con allegata denegata e non riscontrata tossicofilia”.
Il provvedimento di rimozione per perdita di grado non è stato emanato in considerazione delle condizioni psico-fisiche dell’interessato, ma per la violazione dei doveri di lealtà e correttezza assunti con il giuramento e per carenza delle qualità morali e di carattere.
In altri termini, come correttamente affermato dal primo giudice, l’esito della seconda visita medica è assolutamente irrilevante, posto che causa del provvedimento espulsivo non è lo stato di salute e l’efficienza del soggetto, da accertarsi mediante accertamenti strumentali sanitari rigorosi e da apprezzarsi sul piano medico legale, bensì valutazioni di tipo morale ed attitudinale che si collocano sul piano della sfera caratteriale del finanziere.
Altrettanto irrilevante, ai fini della legittimità del provvedimento impugnato, è la circostanza che la sostanza sequestrata è risultata non essere “cocaina”, atteso che di tale circostanza dà atto lo stesso provvedimento impugnato, nel quale si precisa che dell’esito negativo dell’esame di laboratorio si è avuto conoscenza solo nel corso dell’istruttoria del procedimento disciplinare. Ciò che dimostra come il provvedimento di rimozione è stato adottato senza tenere in alcun conto la natura della sostanza sequestrata, inizialmente qualificata “cocaina”.
In realtà, come esplicitamente chiarito nel provvedimento di rimozione, la responsabilità del F[.] è stata desunta, oltre che dai risultati delle analisi alle quali il medesimo è stato sottoposto, anche dalla sua dichiarazione, resa nell’immediatezza del fatto, di fare uso di cocaina da circa due anni e, quanto alla sostanza sequestrata (asseritamene “cocaina”), di averla acquistata poco prima da un certo Emanuele, giunto sul posto a bordo di una “Fiat Tipo” di colore grigio metallizzato in compagnia di tale Maurizio.
La tesi, esposta in sede di discolpa e riprodotta nel presente giudizio, di avere firmato i verbali in parola in stato di emotività senza leggerne il contenuto, appare, oltre che poco credibile come sostenuto nel provvedimento impugnato, stante l’anzianità di servizio (dodici anni) del militare proprio in attività antidroga, solo un tentativo difensivo, chiaramente smentito dai fatti.
Va, a questo proposito, rammentato che il ricorrente è stato sorpreso nella sua autovettura in occasione di un perlustramento da parte di agenti di polizia giudiziaria del Commissariato di P.S. “Anzio - Nettuno”, nel corso del quale gli agenti avevano incrociato una Fiat Tipo di colore grigio metallizzato, targata […], con a bordo tre persone, alla cui guida veniva riconosciuto il sig. M[.] Maurizio, noto pregiudicato da tempo oggetto di indagini da parte della Squadra Mobile del predetto Commissariato, perché dedito allo spaccio di stupefacenti del tipo “cocaina” in notevole quantità. In particolare, secondo quanto emerge dal rapporto del 19 aprile 2001, il F[.] veniva notato durante le ricerche in una delle stradine sterrate esistenti nella zona del M[.] che, accortosi della presenza degli agenti della polizia di Stato, era riuscito a far perdere le proprie tracce.
Ora, se si tiene conto che nella dichiarazione resa dal F[.] si parla di un certo Emanuele per individuare il venditore della sostanza sequestrata, giunto sul posto a bordo di un’autovettura Fiat Tipo di colore grigio metallizzato in compagnia di tale Maurizio, non sembra possano sorgere dubbi sul fatto che tali soggetti siano da individuare, rispettivamente, il primo in C[.] Emanuele, risultato intestatario dell’autovettura Fiat Tipo di colore grigio metallizzato, e il secondo, nel noto pregiudicato spacciatore di droga M[.] Maurizio.
Il che conferma la piena attendibilità dell’ammissione sull’uso da circa due anni della droga, fatta dall’inquisito nell’immediatezza dei fatti, ammissione che non può essere smentita dal tentativo successivo di attribuire l’accertata positività, in un primo tempo, a probabili errori di laboratorio e, in un secondo momento, alla possibilità di essere entrato in contatto con lo stupefacente per ragioni di servizio.
Concludendo sul punto, il primo motivo di appello è infondato e va, pertanto, respinto.
3. Con il secondo motivo di appello la sentenza viene censurata per erronea, insufficiente e/o inefficiente motivazione circa la sufficienza del presunto stato di tossicodipendenza per il provvedimento di rimozione.
La tesi del primo giudice, secondo la quale l’amministrazione non è tenuta a prendere in esame la possibilità di irrogare una sanzione meno afflittiva, atteso che, giusta il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, è sufficiente che la determinazione che irroga una sanzione disciplinare (specie quella più grave) indichi i relativi presupposti di fatto, la manifesta gravità degli stessi nonché le ragioni che hanno indotto l’amministrazione a considerare incompatibili i fatti commessi con la prosecuzione del rapporto di servizio, viene contestata perché non considera, da un lato, che il ricorrente non è risultato affetto né da tossicodipendenza né da tossicofilia (come accertato dalla Commissione medica di Roma, la quale, in esito agli accertamenti effettuati agli inizi del 2002, ha riscontrato il F[.] affetto da “lieve reattività ansiosa in soggetto senza segni di scompenso psicopatologico in atto con allegata denegata e non riscontrata tossicofila” lo ha ritenuto idoneo al servizio militare nella Guardia di Finanza), e, dall’altro lato, che l’assunzione saltuaria di sostanze stupefacenti non giustifica, di per se, la sanzione della perdita del grado per rimozione.
L’assunto non può essere condiviso.
In punto di fatto, conviene ricordare che il Comandante Generale della Guardia di Finanza ha disposto la perdita del grado per rimozione, avendo ritenuto che il Maresciallo, con il suo comportamento, aveva denotato la carenza delle qualità morali e di carattere ed era venuto meno ai doveri di lealtà e correttezza assunti con il giuramento, ponendosi altresì in contrasto con le finalità istituzionali del Corpo.
In diritto, si deve rilevare che, come ripetutamente affermato dalla Sezione (cfr., Sez. IV, 25 maggio 2005, n. 2705; 15 maggio 2003, n. 2624; 30 ottobre 2001, n. 5868; 12 aprile 2001, n. 2259; 31 luglio 2000, n. 3647) e ribadito anche di recente (Sez. IV, 14 ottobre 2005, n. 5682), la valutazione della gravità di un comportamento ai fini disciplinari e della proporzione tra la sanzione disciplinare irrogata e la gravità dei fatti contestati, costituisce manifestazione del discrezionale apprezzamento dell’amministrazione, suscettibile di sindacato di legittimità solo per macroscopici vizi logici che nella specie non sussistono.
Come si è avuto modo di chiarire (cfr. Sez. IV, 31 luglio 2000, n. 3647), che l’assunzione di sostanze stupefacenti sia indice della gravità del comportamento del militare, si ricava dalla considerazione che, anche dopo la parziale abrogazione ad opera del referendum del 18 aprile 1993 di alcune norme del Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti (D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309), a mente dell’art. 75 del predetto Testo unico, l’assunzione di sostanze stupefacenti rimane illecito amministrativo.
Tanto più grave per un militare della Guardia di Finanza il cui compito è di contrastare il commercio di sostanze stupefacenti.
Il sindacato di legittimità sul giudizio operato dall’Amministrazione militare deve, coerentemente, essere calibrato sui compiti specifici che questa attende (nella specie fra i compiti d’istituto della Guardia di finanza vi rientra l’azione di contrasto al contrabbando ed al traffico di sostanze stupefacenti) e sulle attività istituzionali ad essa commesse (di rilievo quelle di polizia giudiziaria ordinaria e militare), senza invadere gli apprezzamenti di natura tecnico discrezionale a questo sottesi.
In altri termini, posto che il giudizio di tenuità di una sanzione disciplinare è direttamente correlato alla qualità dell’interessato, non può essere connotato da “tenuità” il comportamento di un Maresciallo, con dodici anni di anzianità, istituzionalmente preposto alla repressione del contrabbando e del traffico di stupefacenti, il quale, in contrasto con i doveri di lealtà e correttezza assunti con il giuramento, faccia uso di sostanze stupefacenti.
Il Collegio non ignora che, secondo taluni precedenti della sezione (cfr., IV Sez., 14 gennaio 1999, n. 20; id., 18 giugno 1998 n. 948), si è escluso, ai fini del reclutamento, che il vizio degradante di cui all’art. 31 R.D. 3 gennaio 1926, n. 126 fosse rintracciabile in un episodio isolato di assunzione di sostanza stupefacente di tipo hascisc, giacché come tale, doveva intendersi solo quello consistente in un stato patologico del fisico o in una grave devianza della psiche del candidato.
Si deve, peraltro, osservare che, in tali fattispecie, doveva essere riscontrato lo stato di salute e l’efficienza del soggetto, mediante accertamenti strumentali sanitari rigorosi, da apprezzarsi sul piano medico legale, e non confondibili con le valutazioni di tipo morale ed attitudinale che si collocano sul piano della sfera caratteriale dell’aspirante all’arruolamento.
Nel caso di specie, invece, non è in contestazione l’efficienza psico-fisica del finanziere, bensì la sua valenza morale ed attitudinale.
Inoltre, a ben vedere, diversa è la posizione di un soggetto che non ha ancora assunto, mercé l’arruolamento, gli obblighi giuridici e deontologici del militare in servizio, rispetto a quella di chi, già appartenente al Corpo, li infrange. In quest’ultimo caso, la riscontrata mancanza di affidamento sulle doti morali e caratteriali del militare ben può fondarsi sul provato uso di sostanze stupefacenti anche se circoscritto nel tempo, secondo un giudizio di disvalore che rientra nell’esclusiva determinazione del Comandante Generale.
Quanto all’asserita sproporzione tra fatto contestato e sanzione inflitta, va ricordato la pacifica giurisprudenza (A.P. 26 giugno 2000, n. 15), secondo cui anche questo aspetto rientra nella sfera di apprezzamento discrezionale dell’amministrazione.
In tale contesto interpretativo, si deve ribadire la irrilevanza, ai fini della legittimità del provvedimento impugnato, del parere della Commissione medica di seconda istanza di Roma, per la decisiva ragione che il provvedimento di rimozione per perdita di grado non è stato emanato in considerazione delle condizioni psico-fisiche dell’interessato, ma per la violazione dei doveri di lealtà e correttezza assunti con il giuramento e per carenza delle qualità morali e di carattere.
In altri termini, l’esito della seconda visita medica è assolutamente ininfluente, posto che causa del provvedimento espulsivo non è lo stato di salute e l’efficienza del soggetto, da accertarsi mediante accertamenti strumentali sanitari rigorosi e da apprezzarsi sul piano medico legale, bensì valutazioni di tipo morale ed attitudinale che si collocano sul piano della sfera caratteriale del Maresciallo.
Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello va respinto”.

Assunzione di sostanze stupefacenti e doveri connessi con il giuramento prestato

1. La rilevanza disciplinare dell’uso di sostanze stupefacenti in base al Regolamento di disciplina militare.

La recente pronuncia del Consiglio di Stato contribuisce a consolidare un orientamento giurisprudenziale che vuole sottolineare sia l’illiceità disciplinare dell’assunzione, anche occasionale, di sostanze stupefacenti da parte di un militare, sia l’ampia possibilità di valutazione discrezionale di un simile comportamento da parte dell’amministrazione. In realtà, la materia è stata oggetto di differenti sistemazioni interpretative, in relazione al diverso coinvolgimento dell’appartenente alle Forze armate con le sostanze stupefacenti o psicotrope. La giurisprudenza non ha mancato, altresì, di rilevare la diversa incidenza dell’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, in relazione ai diversi momenti in cui l’amministrazione militare entra in rapporto con un soggetto che ha fatto uso, anche per una sola volta, di simili sostanze. In particolare, si è distinto tra problematiche connesse con l’attività di reclutamento e questioni concernenti la costanza del rapporto di servizio(1). Per quel che riguarda la sentenza in commento, ovviamente il riferimento è alla questione della compatibilità del comportamento di assunzione di sostanze stupefacenti con la permanenza del rapporto di impiego, rilevato che, senza alcuna ombra di dubbio, la condotta in questione costituisce illecito disciplinare. Una rapida ricognizione normativa ci conduce ad un primo immediato riscontro positivo, la norma di cui all’art. 36 R.D.M. (d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545)(2). In effetti, l’art. 36, comma 3, lett. d), R.D.M. dispone che il militare deve evitare l’uso di sostanze che possano alterare il suo equilibrio psichico(3). La formulazione della norma, volutamente ampia ed elastica, ricomprende qualsiasi tipo di sostanza che sia idonea a provocare un’alterazione dello stato psichico di un soggetto. La previsione normativa, però, non sembra sufficiente a fondare un giudizio di incompatibilità circa la permanenza in servizio di un militare che non si conformi a tale precetto. In effetti, l’art. 36 R.D.M., il quale detta le norme di contegno del militare, è condizionato nella sua applicazione (come quasi tutte le norme del Regolamento di disciplina militare) dalle tassative previsioni dell’art. 5 della legge di principio sulla disciplina militare, legge 11 luglio 1978, n. 382. L’art. 5, 2° comma, l. n. 382/1978, prescrive che i militari sono tenuti all’osservanza del Regolamento di disciplina militare dal momento dell’incorporazione a quello della cessazione dal servizio attivo. Il predetto limite di efficacia del Regolamento di disciplina militare, così come stabilito espressamente dalla legge, esclude che possano essere soggetti alle regole della disciplina militare di corpo i militari delle categorie in congedo, a differenza di quanto avveniva con i precedenti regolamenti di disciplina, i quali prevedevano apposite norme anche per questi ultimi militari. L’art. 5, l. n. 382/1978, però, al successivo 3° comma, introduce una norma che integra il principio generale enunciato al precedente comma. Infatti, viene stabilito che il Regolamento deve prevedere la sua applicazione nei confronti dei militari che si trovino in una delle seguenti situazioni:
- svolgano attività di servizio (non siano, cioè, in licenza, in permesso, a riposo, in libera uscita, in un’altra situazione di assenza autorizzata o, comunque, “liberi dal servizio”);
- siano in luoghi militari o comunque destinati al servizio (al di là della circostanza che svolgano o meno attività di servizio);
- indossino l’uniforme (in qualsiasi luogo e in qualsiasi circostanza);
- si qualifichino, in relazione a compiti di servizio, come militari o si rivolgano ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali(4).
L’ultima condizione sottolinea il fatto che il militare, anche “libero dal servizio”, in abiti civili e al di fuori dei luoghi militari, deve osservare le regole della disciplina militare ogni qual volta deve intervenire per compiti di servizio (deve effettuare un intervento disciplinare nei confronti di altri militari, presta soccorso - qualificandosi come militare - a chi versi in pericolo o abbisogni di aiuto, presta soccorso - richiestone anche verbalmente - alla polizia giudiziaria, ed altro ancora), o si relazioni con altri militari, in qualsiasi circostanza di tempo e di luogo, sapendo - ovviamente - di relazionarsi con altri militari (perché sono in divisa o perché si qualificano espressamente come tali). La norma di cui all’art. 5, 3° comma, l. n. 382/1978, limita in maniera considerevole l’ambito di applicazione del Regolamento di disciplina militare che, però, recupera la sua sfera di efficacia nei confronti di tutti i militari in servizio attivo alle armi, in base alla successiva disposizione di cui all’art. 5, 4° comma, l. n. 382/1978(5). Quest’ultima norma prescrive che anche quando non ricorrano le condizioni precedentemente elencate, i militari sono tenuti all’osservanza delle disposizioni del Regolamento di disciplina che concernono i doveri attinenti al giuramento prestato, i doveri attinenti al grado e i doveri attinenti alla tutela del segreto e al dovuto riserbo sulle questioni militari(6). In sostanza, i militari in servizio attivo alle armi devono sempre osservare le norme poste dagli artt. 9, 10 e 19 R.D.M.
In tale quadro, le norme di contegno, di cui all’art. 36 R.D.M., sono contestabili al militare, in caso di loro violazione, soltanto quando sia applicabile il Regolamento di disciplina militare. Si tenga presente, però, l’eventuale, ulteriore capacità lesiva di un comportamento di assunzione di sostanze stupefacenti in relazione all’esigenza di salvaguardia del prestigio dell’amministrazione militare.
In particolare, il militare ha il dovere di tenere in ogni circostanza una condotta esemplare ed onorevole. Questo specifico dovere si trova contemplato, così come formulato, nello stesso art. 36, comma 1, R.D.M. Anche per questo dovere, allora, dobbiamo svolgere le precedenti considerazioni per le quali lo stesso sembrerebbe attenere esclusivamente all’applicazione del Regolamento di disciplina militare, secondo le condizioni prestabilite all’art. 5, 3° comma, l. n. 382/1978. In realtà, l’art. 36 R.D.M. obbliga il militare a tenere in ogni circostanza una condotta esemplare per uno scopo particolare: la salvaguardia del prestigio delle Forze armate. È opportuno a questo punto effettuare qualche considerazione ulteriore in merito.

2. Assunzione di sostanze stupefacenti e lesione del prestigio dell’istituzione.

Il dovere di salvaguardia del prestigio dell’istituzione militare di appartenenza costituisce un dovere attinente al grado rivestito (art. 10 R.D.M.), perciò da osservare incondizionatamente da parte del militare in servizio attivo alle armi. Possiamo affermare con certezza, allora, che il dovere di tenere una condotta esemplare ed onorevole (cioè finalizzata alla salvaguardia del prestigio delle Forze armate) sia un dovere attinente alla posizione di servizio attivo alle armi del militare. L’importanza dell’art. 36 R.D.M., in combinato disposto con l’art. 10 R.D.M., al fine di comprendere appieno il concetto di prestigio dell’istituzione e, conseguentemente, le ipotesi di lesione di questo bene immateriale, ma straordinariamente importante per le Forze armate in termini di immagine, esterna ed interna, di fiducia accordata dai cittadini e dagli stessi appartenenti all’istituzione e, indirettamente, di efficienza organizzativa e funzionale, non si limita alla formulazione del suo 1° comma. Ancor più del comma 1, il comma 2 dell’art. 36 R.D.M. dà una positiva indicazione di quello che dovrebbe essere un comportamento esemplare ed onorevole, cioè, l’improntare il proprio contegno al rispetto delle norme che regolano la civile convivenza. Rispettando queste norme, non solo si evitano lesioni del prestigio dell’istituzione, ma si tiene costantemente una condotta esemplare. Alcune norme di civile convivenza vengono infine elencate sia per la loro importanza sia a scopo esemplificativo, al successivo comma 3 dell’art. 36 R.D.M.(7).
La violazione delle prescrizioni contenute nell’art. 36 R.D.M., però, non sempre costituisce una violazione del prestigio dell’istituzione: può essere indice di questa lesione quando al comportamento tenuto si legano elementi estrinseci, come le negativa risonanza pubblica, conseguente all’episodio che vede coinvolto un militare. La lesione del prestigio dell’istituzione, cioè un comportamento disonorevole disciplinarmente sanzionabile, si configura perciò quando la condotta del singolo riverberi negativamente sull’istituzione in termini di apprezzamento o di giudizio negativo per la condotta tenuta. Il singolo, in quanto appartenente all’istituzione, è anche l’immagine individuale della stessa, dei suoi valori, della sua rilevanza sociale: perciò il pubblico si aspetta da lui sempre un comportamento esemplare e rispettoso delle regole della civile convivenza. Ecco, allora, che tramite la salvaguardia del prestigio dell’istituzione, rientrano in campo disciplinare comportamenti privati che non hanno un diretto ed immediato collegamento con il servizio, ma infrangono regole di civile convivenza. Dobbiamo, però, avvertire che in dottrina si sono sollevati diversi dubbi sulla possibilità di punire comportamenti attinenti alla sfera privata, anche attraverso la norma di cui all’art. 10 R.D.M.(8). è necessario, allora, circoscrivere la fattispecie di lesione del prestigio dell’istituzione, individuando esattamente gli elementi costitutivi della stessa. è importante, innanzitutto, che al fatto sia collegato sempre un effetto di negativa risonanza pubblica, come precedentemente accennato. Possiamo anche affermare che la lesione del prestigio dell’istituzione non si configura in tutti i suoi elementi costituitivi quando il fatto, pur essendo indice di inosservanza delle regole della civile convivenza, non abbia una risonanza pubblica o, anche qualora l’avesse, non venga qualificato dalla circostanza che a commetterlo sia un militare, in quanto questa circostanza non emerga. Bisogna, a questo punto, intenderci per risonanza pubblica (negativa), poiché - letteralmente - si potrebbe ipotizzare che questa si abbia solo quando l’evento sia a conoscenza di un numero più o meno rilevante di persone. L’ambito più o meno esteso di conoscenza dell’ipotesi di lesione al prestigio dell’istituzione è sicuramente una circostanza che aggrava la condotta, ma per la realizzazione della fattispecie antidisciplinare è sufficiente che anche un numero ristrettissimo di persone (anche una sola) sia a conoscenza diretta del fatto (un passante che vede un militare in divisa che nei pressi di una persona che invochi aiuto si gira e se ne va: non solo è stato infranto il disposto di cui all’art. 36, comma 3, lett. b), ma anche e in modo ancor più grave il disposto di cui all’art. 10 R.D.M.).
Detto ciò, nel caso in esame del Consiglio di Stato, sarebbe ipotizzabile la lesione del prestigio dell’istituzione anche solo in base alla circostanza per la quale i soggetti entrati in contatto con il ricorrente, al fine di cedere la sostanza stupefacente, fossero stati a conoscenza della qualità dell’acquirente di appartenente ad un corpo militare di polizia. Non c’è dubbio che, qualora soggetti dediti ad attività delittuose abbiamo constatazione diretta di connessi comportamenti illeciti da parte di coloro che sono preposti proprio ad ostacolare e reprimere tali attività, il prestigio dell’istituzione al quale appartenga chi pone in essere tali violazioni sia gravemente leso. Quanto sopra, però, nel caso di specie non è dato sapere sia avvenuto (che - cioè - i due soggetti menzionati nella sentenza fossero a conoscenza che il ricorrente era un appartenente ad un corpo militare di polizia), anzi, tenendo conto che l’amministrazione non ha contestato una mancanza del genere in sede di procedimento disciplinare, si deve supporre il contrario.

3. Assunzione di sostanze stupefacenti e violazione del giuramento prestato.

Rilevato che la violazione dell’art. 36 R.D.M. non è sufficiente a fondare una sanzione disciplinare di stato e non può applicarsi al caso in questione, e che la lesione del prestigio dell’istituzione non è stata contestata, dobbiamo verificare l’esattezza dell’assunto che vuole identificata nell’assunzione di sostanze stupefacenti una violazione del giuramento prestato. Si tenga conto che a norma dell’art. 60, 1° comma, numero 6), legge 31 luglio 1954, n. 599, recante lo stato dei sottufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica(9), la perdita del grado per rimozione è irrogabile per violazione del giuramento o per altri motivi disciplinari.
La prestazione del giuramento comporta per il militare l’osservanza di specifici doveri, contemplati dall’art. 9 R.D.M.(10). Infatti, la norma prevede che con il giuramento il militare s’impegna solennemente ad operare per l’assolvimento dei compiti istituzionali delle Forze armate, con assoluta fedeltà alle istituzioni repubblicane, con disciplina ed onore, con senso di responsabilità e consapevole partecipazione, senza risparmio di energie fisiche, morali ed intellettuali, affrontando - se necessario - anche il rischio di sacrificare la vita. Si tratta dei doveri di fedeltà, lealtà e correttezza la cui estrema importanza è sottolineata, come già visto, dalla circostanza che gli stessi devono essere osservati dal militare anche quando non ricorrano le condizioni previste dalla legge per l’applicazione del Regolamento di disciplina militare.
La violazione dei doveri attinenti al giuramento è una fattispecie espressamente elencata, al numero 1, dell’allegato “C” del Regolamento di disciplina militare; la stessa costituisce uno dei comportamenti che possono comportare l’irrogazione della consegna di rigore. Per la norma è sufficiente la semplice violazione dei doveri attinenti al giuramento, senza che la violazione medesima sia connotata da particolari indici di gravità, per poter procedere all’eventuale irrogazione della consegna di rigore. Più problematica è la distinzione tra violazione del giuramento e violazione dei doveri attinenti al giuramento, in considerazione del fatto che nel primo caso è anche irrogabile una sanzione disciplinare di stato, mentre la seconda ipotesi è sanzionabile sul piano disciplinare di corpo. In realtà, non esiste una netta differenza tra violazione del giuramento e violazione dei doveri attinenti al giuramento, poiché con il giuramento, come già visto, si assumono determinati obblighi e si attivano corrispondenti doveri che sono sostanzialmente specificati dalla norma di cui all’art. 9 R.D.M. Esistono, in effetti, significativi punti di contatto tra le due violazioni. Violare il giuramento significa violare il dovere di fedeltà alla Repubblica italiana, il dovere di osservanza della Costituzione e delle leggi, l’obbligo di adempimento, con disciplina ed onore, dei doveri inerenti al proprio stato giuridico, al fine di difendere la patria e le istituzioni democratiche. Violare i doveri attinenti al giuramento, ai sensi dell’art. 9 R.D.M., significa non mantenere l’impegno ad operare per l’assolvimento dei compiti istituzionali delle Forze armate, con le precise modalità stabilite dalla pertinente norma, in sostanza significa non osservare i doveri di fedeltà, lealtà e correttezza. è chiaro che, al di là delle formulazioni letterali, esiste un’area di sovrapposizione tra i due doveri, per cui sarà l’autorità militare competente a valutare disciplinarmente questa violazione e a decidere concretamente quale tipo di sanzione applicare in relazione - soprattutto - alla gravità della mancanza commessa. In questo campo la giurisprudenza amministrativa riconosce l’ampio potere discrezionale dell’autorità militare, ritenendo la valutazione della gravità della mancanza questione di merito insindacabile dal giudice amministrativo(11).
Qualora l’amministrazione militare ritenga di irrogare la perdita del grado per rimozione, allora, è opportuno che si valuti la gravità della sanzione, cioè il suo specifico contenuto sanzionatorio. In generale, la perdita del grado comporta che il militare al quale venga applicata, qualunque grado rivesta, ridiscenda nella posizione di soldato semplice o di comune di ultima classe, se appartenente alla Marina militare. La perdita del grado, quale ulteriore effetto giuridico ope legis, comporta altresì la cessazione dal servizio permanente o la cessazione da eventuali ferme o rafferme contratte, a seconda delle diverse posizioni di stato giuridico del militare(12). è evidente che, al di là della perdita della posizione gerarchica raggiunta con il grado conseguito nello svolgimento della carriera, la rimozione, come maggiore contenuto afflittivo, comporta la destituzione del militare che viene conseguentemente collocato in congedo(13). Per tali motivi la perdita del grado per rimozione, comportante il predetto effetto destitutorio, non potrà mai avvenire automaticamente, a seguito di una condanna penale, ma sarà sempre applicata dall’amministrazione militare competente attraverso uno specifico procedimento disciplinare di accertamento delle responsabilità(14). Per quanto riguarda i presupposti, dobbiamo rilevare che le leggi di stato giuridico sono abbastanza laconiche sul punto. In particolare, per quel che concerne le trasgressioni disciplinari che legittimano l’irrogazione di simile sanzione, le leggi di stato giuridico per gli ufficiali e i sottufficiali si riferiscono, come già visto, a “violazione del giuramento” o “altri motivi disciplinari”(15), mentre quella per gli appartenenti ai ruoli iniziali delle Forze di polizia ad ordinamento militare fa riferimento, oltre alle predette fattispecie, anche a un comportamento comunque contrario alle finalità dell’Arma (o del Corpo) o alle esigenze di sicurezza dello Stato(16). Al di là della violazione del giuramento, per quel che concerne gli “altri motivi disciplinari” è evidente che debba trattarsi di rilevanti trasgressioni alle regole della disciplina, la cui gravità consiglia l’adozione di una sanzione disciplinare di stato in luogo di una sanzione disciplinare di corpo, compresa la consegna di rigore. I comportamenti astrattamente meritevoli di una sanzione disciplinare di stato e, ancor più, della perdita del grado per rimozione, devono essere comunque più gravi di quelli per cui l’ordinamento militare prevede la possibilità di irrogare la consegna di rigore, per non vulnerare il principio di proporzionalità. A tale fine è rilevante anche la posizione soggettiva del militare e, in particolare, la connessione dei doveri del proprio stato con l’assolvimento dei compiti istituzionali, in relazione all’impegno assunto proprio con il giuramento. In tale quadro, l’integrare attività illecite di cui si ha il compito istituzionale di prevenire e reprimere la commissione, può ben costituire una violazione dell’impegno ad operare per l’assolvimento dei compiti istituzionali dell’organizzazione militare di appartenenza che viene assunto con il giuramento. Se, in questa ipotesi, è configurabile una fattispecie astratta di illecito disciplinare, è necessario - come sopra rilevato - che la stessa debba essere individuata come fattispecie concreta, soprattutto in relazione alla sua gravità, la quale può consigliare l’applicazione di una sanzione disciplinare di stato o, al contrario, può trovare ragionevole soddisfazione sul piano della disciplina di corpo.

4. L’assunzione di sostanze stupefacenti come violazione dei doveri disciplinari nella giurisprudenza amministrativa.

La valutazione circa la sufficienza dell’assunzione di sostanze stupefacenti da parte di un militare a configurare un illecito disciplinare grave, sanzionabile con la perdita del grado per rimozione, come già rilevato, è una problematica affrontata dalla giurisprudenza secondo angoli visuali differenti. In particolare, da una parte, è stato affermato che il comportamento in questione non può ritenersi di rilevanza tale da giustificare l’applicazione della massima sanzione di stato - quale la perdita del grado per rimozione - comportante la cessazione del rapporto di servizio. Più precisamente si è affermato che la contrarietà ai principi di moralità e di rettitudine, la violazione dei doveri attinenti al giuramento prestato e a quelli di correttezza ed esemplarità, se ben possono fondarsi sul comprovato abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti, non possono tuttavia trovare adeguata giustificazione in un unico ed isolato episodio di assunzione di tali sostanze. Questo assunto è ribadito soprattutto quando non è in alcun modo provata una maggior frequenza o familiarità dell’uso di tali sostanze e nella circostanza che il fatto in questione non abbia avuto alcuna ripercussione o collegamento con il servizio, né direttamente né indirettamente. La mancata connessione con il servizio, poi, non consentirebbe di affermare che con tale condotta si sia integrato il livello minimo di disvalore disciplinare che deve comunque connotare il fatto di assunzione di sostanze stupefacenti, soprattutto sotto il profilo dell’incidenza di tale condotta sulla prestazione del servizio e sull’adempimento dei doveri connessi all’ufficio(17). D’Altra parte, prevale un contrapposto indirizzo giurisprudenziale, espresso soprattutto dal Consiglio di Stato, il quale - argomentando in base al quadro normativo recato dal Testo unico del 1990 (d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309) - rileva come l’assunzione di sostanze stupefacenti sia indice della gravità del comportamento del militare, nella considerazione che, anche dopo la parziale abrogazione, ad opera del referendum del 18 aprile 1993, di alcune norme del predetto Testo unico, in base all’art. 75 d.P.R. n. 309/1990, l’assunzione di sostanze stupefacenti rimane illecito amministrativo. Il comportamento, poi, appare tanto più grave per un militare appartenente all’Arma dei carabinieri o al Corpo della Guardia di Finanza, il cui compito è di contrastare il commercio di sostanze stupefacenti, per cui il sindacato di legittimità sul giudizio operato dall’amministrazione militare deve, coerentemente, essere calibrato sui compiti specifici che questa attende e sulle attività istituzionali ad essa commesse (di rilievo quelle di polizia giudiziaria ordinaria e militare), senza invadere gli apprezzamenti di natura tecnico discrezionale a questo sottesi(18). In sostanza è l’indirizzo ribadito con la sentenza del Consiglio di Stato in commento. In definitiva, la valutazione della gravità di un comportamento ai fini disciplinari e della proporzione tra la sanzione disciplinare irrogata e la gravità dei fatti contestati, costituisce manifestazione del discrezionale apprezzamento dell’amministrazione, suscettibile di sindacato di legittimità solo per macroscopici vizi logici. Vizi logici che nella specie non sono ritenuti sussistenti, in relazione alla evidente violazione dei doveri di lealtà e correttezza che commette un appartenente alle forze di polizia ad ordinamento militare nel momento in cui fa uso, anche occasionalmente, di sostanze stupefacenti, “tradendo” l’impegno assunto con il giuramento di operare per l’assolvimento dei compiti istituzionali, che prevedono - tra l’altro - proprio l’attività di prevenzione e repressione in materia di stupefacenti.

Ten. Col. CC Fausto Bassetta



Carabinieri - Cessazione dal servizio - Scarso rendimento - Natura giuridica.

L’istituto della cessazione dal servizio per scarso rendimento non ha natura disciplinare, pertanto non è necessaria l’assistenza di un difensore e la partecipazione dell’interessato alle varie fasi del relativo procedimento può essere adeguatamente assicurata mediante la sua audizione davanti all’apposita commissione e la possibilità di presentare memorie e controdeduzioni.

T.A.R. Lazio - Roma, sez. I^ bis, sent. n. 6592/2006 (c.c.26 luglio 2006), Pres. De Lise, Est. Morabito, T. D. c. Ministero Difesa (1).

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“Considerato che parte ricorrente - appuntato CC nei cui confronti è stata disposta la cessazione del servizio per scarso rendimento ai sensi degli artt. 12 e 17 della legge n.1168 del 1961 con provvedimento del 12.4.2006 - si è gravato avverso il provvedimento de quo deducendo:
a.che esso ricorrente nonostante ne avesse fatta richiesta non è stato ascoltato a rapporto dal generale comandante della Regione Lazio;
b. che, di seguito alla pronuncia della C.C.le n.240 del 1997, al procedimento preordinato all’adozione del provvedimento impugnato deve riconoscersi natura disciplinare e dunque prevedersi, ai fini della sua legittimità, la nomina di un difensore di fiducia ovvero d’ufficio al militare nei cui confronti si procede: adempimento questo che è rimasto, nel caso di specie, non rispettato;
Considerato che la possibilità di conferire con l’autorità indicata nell’art.39 del R.D.M. (che il ricorrente ha chiesto unicamente in occasione della notifica dell’ammonizione in data 17.9.2004 e che è stata, inizialmente, prevista per il 17.3.2006 e successivamente rinviata in attesa dell’esito dell’avviato procedimento di cessazione dal servizio per scarso rendimento) attiene ad Istituto estraneo al citato procedimento e giuridicamente inidoneo ad influire sulle sorti dello stesso;
Considerato che - contrariamente alla tesi attorea - la Corte Costituzionale con la pronuncia n.240 del 1997 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’articolo 17 con la lett. c) del secondo comma dell’art. 12 della legge n.1168 del 1961, nella parte in cui si prevede la dispensa dal servizio permanente del sottufficiale dei carabinieri per scarso rendimento senza la partecipazione dell’interessato al procedimento, senza intervenire sulla natura del procedimento in questione; mentre nel panorama giurisprudenziale amministrativo è stato affermato (Tar Lombardia n.2850 del 1998) e confermato (Cons.St., IV^, n.8313 del 2003) che il provvedimento adottato nei confronti del ricorrente non ha natura disciplinare (cfr., anche Cons. St., IV^, n.3561 del 2004) e rinviene nell’ordinamento generale amministrativo il suo parallelo nell’istituto della dispensa per scarso rendimento di cui all’art.129 del T.U. n.3 del 1957 le cui disposizioni costituiscono principi generali dell’ordinamento: di talché è da escludersi che la mancata nomina di un difensore di fiducia o d’ufficio spenda alcuna sulla legittimità del provvedimento impugnato che è stato preceduto da una fase procedimentale connotata dalla partecipazione dell’interessato che è stato sentito dalla Commissione di valutazione ed avanzamento ed ha ivi prospettato le proprie deduzioni difensive;
Considerato che nel caso di specie, essendosi rivelato manifestamente infondato il gravame e accertata la completezza del contraddittorio, sussistono i presupposti richiesti dall’art.9 della legge n. 205 del 2000 per la sua definizione con una decisione in forma semplificata;
Liquidate come da dispositivo le spese del presente giudizio;
P.Q.M.
Il T.a.r. del Lazio, sez. I^ bis, pronunciando ai sensi dell’art.9 della legge n.205 del 2000, respinge il ricorso”.

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(1) - Per un’ampia e dettagliata analisi del tema: V. Poli, Assunzione di sostanze stupefacenti, in I procedimenti amministrativi tipici e il diritto di accesso nelle Forze armate (a cura di V. Poli - V. Tenore), Milano, Giuffrè, 2002, 445 ss.
(2) - Per una più ampia ricognizione di norme afferenti le sostanze stupefacenti e psicotrope di interesse delle Forze armate: V. Poli, Assunzione di sostanze stupefacenti, cit., 448 ss.; A. Simoncelli, Disciplina, in L’ordinamento militare (a cura di V. Poli - V. Tenore), II, Milano, Giuffrè, 2006, 630 ss.
(3) - Cfr.: A. Simoncelli, Disciplina, cit., 638.
(4) - Sulle condizioni di applicabilità del Regolamento di disciplina militare e sul connesso concetto di capacità disciplinare: D. Brunelli, Art. 8 - Condizioni di applicabilità, in S. Riondato (a cura di), Il nuovo ordinamento disciplinare delle Forze armate, Padova, Cedam, 19952, 91 ss.
(5) - Sulla delimitazione giuridica della disciplina militare di corpo: E. Boursier Niutta - A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare. Disciplina di corpo , Roma, Laurus Robuffo, 20043, 38 ss.
(6) - Sui doveri permanenti: D. Brunelli, Art. 8, cit., 100 ss.
(7) - Il militare, ai sensi dell’art. 36, comma 3, R.D.M., deve: astenersi dal compiere azioni o dal pronunciare imprecazioni, parole e discorsi non confacenti alla dignità e al decoro; prestare soccorso a chiunque versi in pericolo o abbisogni di aiuto; consegnare prontamente al superiore o alle autorità competenti denaro o cose che abbia trovato o che gli siano pervenute in errore; astenersi dagli eccessi nell’uso di bevande alcoliche ed evitare l’uso di sostanze che possano alterare l’equilibrio psichico; rispettare le religioni, i ministri del culto, le cose e i simboli sacri e astenersi, nei luoghi dedicati al culto, da azioni che possano costituire offesa al senso religioso dei partecipanti. Sul tema: F. Ufilugelli, Art. 36 - Contegno del militare, in S. Riondato (a cura di), Il Nuovo ordinamento disciplinare, cit., 265 ss.
(8) - Particolarmente critici su una ricostruzione interpretativa che, attraverso l’art. 10 R.D.M., consenta la possibilità di punire comportamenti privati: E. Boursier Niutta - A. Gentili, Codice di disciplina militare, Roma, Jasillo, 1991, 56. In senso ancor più drastico, si è anche affermato che “non rimane che prendere atto della singolare situazione venutasi a creare, per cui ai militari - i dipendenti dello Stato soggetti a più incisivi vincoli disciplinari - non sono applicabili sanzioni disciplinari di corpo per condotte irregolari nella vita privata …”: G. Mazzi, Art. 57- Infrazione disciplinare, in S. Riondato (a cura di), Il nuovo ordinamento disciplinare, cit., 378 ss. Per l’esatta comprensione della problematica, anche in relazione a spunti applicativi ed interpretativi di indubbio interesse: F. Caffio, Norme di comportamento del personale militare: aspetti etici e giuridici, in Informazioni Difesa, n. 6, 1994, 38 ss.
(9) - La legge n. 599/1954 è applicabile anche ai sottufficiali della Guardia di finanza in base all’art. 1, della legge 17 aprile 1957, n. 260, recante lo stato dei sottufficiali della Guardia di finanza.
(10) - Su questi doveri: M. G. Di Molfetta, Art. 9 - Doveri attinenti al giuramento, in S. Riondato (a cura di), Il Nuovo ordinamento disciplinare, cit., 103 ss.
(11) - Sulla violazione del dovere di fedeltà connesso con il giuramento prestato, vedi: T.A.R. Lazio, Sez. I-bis, sent. n.10954/2003 (c.c. 23 giugno 2003), Pres. Mastrocola, Est. Stanizzi. Sull’autonoma rilevanza disciplinare della violazione del giuramento prestato, vedi: Cons. Stato, Sez. IV, sent. n. 1319/2003 (c.c. 21 gennaio 2003), Pres. Salvatore, rel. Barberio Corsetti.
(12) - Autorevole dottrina ha sempre distinto tra il rapporto inerente al grado, qualificante lo stato di ufficiale, e il rapporto - eventuale - di impiego, definito “servizio permanente”: F. Breglia, Lo stato degli ufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica secondo la legge 10 aprile 1954, n. 113, Milano, Giuffrè, 5 ss. e 238 ss.
(13) - Bisogna sottolineare che l’effetto primario della perdita del grado per rimozione è il ridiscendere per intero la scala gerarchica dalla posizione sino allora acquisita a quella di base. L’effetto primario prescinde dalla circostanza che il militare di qualsiasi categoria e di qualsiasi grado sia in attività di servizio o sia in congedo. L’effetto ulteriore, che riguarda unicamente i militari in attività di servizio attivo (in servizio permanente, in ferma o in rafferma), è l’interruzione del rapporto di impiego o di servizio con conseguente collocazione in congedo. Non è corretto, allora, qualificare questa sanzione di stato come “rimozione dall’impiego”, come diretta traduzione nell’ordinamento militare della destituzione contemplata nel pubblico impiego civile. Per questo equivoco: A. Romeo - A. Bordignon, Le sanzioni disciplinari nei riguardi del personale militare ed il relativo procedimento amministrativo di accertamento, Padova, Cedam, 1999, 16 ss.
(14) - è bene precisare che esiste anche una rimozione, quale pena militare accessoria contemplata dall’art. 29 c.p.m.p., che consegue alla condanna per reclusione militare inflitta per durata superiore a tre anni. Questo tipo di rimozione comporta per il condannato la privazione perpetua del grado e lo fa discendere alla condizione di soldato semplice o di militare di ultima classe. In caso, quindi, di applicazione di questa pena accessoria, l’amministrazione è vincolata alle determinazioni del giudice penale che, in astratto, incidono esclusivamente sulla collocazione gerarchica del condannato, ma non comportano, di per sé, la cessazione dal servizio dello stesso (cfr.: Corte cost., sent. n. 363/1996). Quest’ultima, invece, è contemplata come effetto ulteriore della perdita del grado dalle varie leggi di stato giuridico dei militari, quindi può essere adottata esclusivamente a seguito di procedimento disciplinare instaurato dall’amministrazione competente. Sul punto: D. Brunelli - G. Mazzi, Diritto penale militare, Milano, Giuffrè, 19982, 177 ss.
(15) - Cfr.: artt. 70, 1° comma, numero 4, l. n. 113/1954 e 60, 1° comma, numero 6 l. n. 599/1954.
(16) - Cfr.: art. 34, 1° comma, numero 6, l. n. 1168/1961 (appuntati e carabinieri) e art. 40, comma 1, numero 6, l. n. 833/1961 (appuntati e finanzieri), così come modificati dalla l. n. 53/1989. Analogamente prevede l’art. 14-bis, comma 1, lett. e), d. lgs. n. 215/2001, relativo ai volontari di truppa in ferma.
(17) - Per questo filone giurisprudenziale, cfr.: T.A.R. Lazio, sez. I-bis, sent. n. 3021/2005 (c.c. 13 aprile 2005), Pres. Orciuolo, Est. Stanizzi; T.A.R. Lazio, sez. II, sent. n. 6309/2004 (c.c. 9 giugno 2004), Pres. La Medica, Est. Capuzzi; T.A.R. Lazio, sez. II, sent. n. 9980/2002 (c.c. 9 ottobre 2002), Pres. Giulia, Est. Giordano; T.A.R. Lazio, sez.II, sent. n. 13557/2004 (c.c. 20 ottobre 2004), Pres. ed Est. Capuzzi; T.A.R. Lazio, sez.II, sent. n. 1573/2005 (c.c. 12 gennaio 2005), Pres. La Medica, Est. Capuzzi; T.A.R. Lazio, sez. II, sent. n. 3171/2004 (c.c. 18 febbraio 2004), Pres. La Medica, Est. Riccio; T.A.R. Lazio, sez. I-bis, sent. n. 17184/2004 (c.c. 13 dicembre 2004), Pres. Mastrocola, Est. Morabito; T.A.R. Lazio,sez. II, sent. n. 3458/2002 (c.c. 24 marzo 2004), Pres. La Medica, Est. Riccio; T.A.R. Lazio, sez. II, sent. n. 7089(2004 (c.c. 7 aprile 2004), Pres. La Medica, Est. Sestini.
(18) - Si veda, in particolare: Cons. Stato, sez.IV, dec. 14 ottobre 2005, n. 5682 (c.c. 12 aprile 2005), Pres. Riccio, Est. Salvatore. Inoltre: Cons. Stato, sez. IV, dec. 7 giugno 2005, n. 2899 (c.c. 22 febbraio 2005), Pres. Salvatore, Est. Mollica; Cons. Stato, sez. IV, dec. n. 2259/2001 (c. c. 6 febbraio 2001), Pres. Trotta, Est. La Medica.


La natura giuridica dello scarso rendimento e le sue conseguenze

1. Premessa.

La recente pronuncia del TAR Lazio ripropone la questione della natura giuridica del provvedimento di cessazione dal servizio per scarso rendimento. Lo scarso rendimento è normativamente sistemato, nelle varie leggi di stato giuridico dei militari che lo contemplano, tra gli istituti che riguardano la cessazione dal servizio, essendo una causa tipica che può determinare l’interruzione del rapporto di impiego o di servizio del dipendente militare. La cessazione dal servizio per scarso rendimento è, quindi, un provvedimento unilaterale dell’amministrazione adottato per specifiche esigenze di autotutela che consegue ad una attività di valutazione del dipendente, protratta per un determinato periodo di tempo, il cui esito è un giudizio di insufficienza. Questo giudizio viene espresso in sede di documentazione caratteristica e costituisce il presupposto necessario (ma non sufficiente, poiché il militare interessato deve essere stato anche opportunamente ammonito), affinché l’amministrazione possa attivare un apposito procedimento di accertamento dello scarso rendimento, procedimento che può condurre all’emanazione di un provvedimento d’autorità di cessazione dal servizio. Le gravi conseguenze alle quali può portare un simile procedimento hanno da sempre indotto la giurisprudenza a verificare la corretta ed efficace partecipazione dell’interessato alle diverse fasi procedimentali. L’esigenza di tutela del destinatario del provvedimento finale è prepotentemente emersa anche a causa di una scarna disciplina normativa che, almeno sino alla legge 7 agosto 1990, n. 241, non assicurava all’interessato incisive garanzie di partecipazione e di contraddittorio. D’altra parte, i presupposti di questo particolare provvedimento di cessazione dal servizio d’autorità, cioè il protratto insufficiente rendimento in servizio, e il procedimento tipico di accertamento della fattispecie in argomento, non consentono di inquadrare lo scarso rendimento nella sfera del diritto disciplinare e, a maggior ragione, di considerare questo istituto una vera e propria sanzione disciplinare(1).
In realtà a complicare la sistemazione giuridica dello scarso rendimento è intervenuta un’attività di interpretazione giurisprudenziale della Corte costituzionale che più volte si è occupata dell’istituto de quo.

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(1) - Per ulteriori approfondimenti sia consentito rinviare a: F. Bassetta, L’istituto dello scarso rendimento in ambito militare, in Il Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, fasc. 1, 2005 (VIII), 224 ss. Si veda, inoltre: A. Baldanza, Ruoli e posizioni di stato, in L’ordinamento militare (a cura di V. Poli - V. Tenore), II, Milano, Giuffrè, 2006, 143 ss.
 
2. La giurisprudenza della Corte costituzionale.

Nel caso in esame il ricorrente lamenta proprio la mancata applicazione delle garanzie del procedimento disciplinare al procedimento preordinato all’adozione del provvedimento impugnato, al quale - secondo parte ricorrente - deve riconoscersi natura disciplinare e dunque prevedersi, ai fini della sua legittimità, la nomina di un difensore di fiducia ovvero d’ufficio al militare nei cui confronti si procede. Tale argomentazione fa leva su quanto deciso dalla Corte costituzionale con sentenza 18 luglio 1997, n. 240, relativa alla legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 12, 2° comma, lett. c) e dell’art. 17 della l. n. 1168/1961. La norma disciplina proprio l’istituto dello scarso rendimento per la categoria degli appuntati e carabinieri. Prima di procedere all’analisi della predetta sentenza è necessario ripercorrere brevemente gli orientamenti giurisprudenziali della Corte costituzionale in materia. In effetti, prima della sent. n. 240/1997, incontriamo la sentenza 5-14 aprile 1995, n. 126.
La Corte costituzionale è stata chiamata ad intervenire sul tema, poiché la giurisprudenza amministrativa più sensibile ha sempre sottolineato l’esistenza di un quadro normativo disarmonico, confrontando sul punto la legislazione sugli impiegati civili dello Stato con quella riguardante i militari, non più giustificabile sul piano della ragionevolezza e della sostanziale uguaglianza delle relative posizioni giuridiche soggettive. Una simile presa di posizione non poteva non comportare la sollevazione di questioni di legittimità costituzionale, puntualmente poste all’attenzione del Giudice delle leggi. In particolare, l’intervento della Corte è stato sollecitato con un’apposita ordinanza di un Tribunale Amministrativo Regionale, in merito alla non manifesta infondatezza della legittimità costituzionale dell’art. 33, legge 31 luglio 1954, n. 599 (norma che contempla l’istituto dello scarso rendimento per i sottufficiali), emersa in un giudizio riguardante un provvedimento di dispensa d’autorità per scarso rendimento, adottato dall’amministrazione della difesa nei confronti di un sottufficiale dipendente. La Corte, nel dichiarare fondata la questione e, quindi, l’illegittimità costituzionale dell’art. 33 l. n. 599/1954, nella parte in cui non prevede che al sottufficiale proposto per la dispensa dal servizio sia assegnato un termine per presentare, ove creda, le proprie osservazioni e sia data la possibilità di essere sentito personalmente (in sostanza, il profilo di incostituzionalità riguarda proprio la mancata estensione ai militari delle garanzie previste dall’art. 129, d.P.R. n. 3/1957, relativo agli impiegati civili dello Stato), argomenta la sentenza, prendendo anche spunto dell’entrata in vigore della l. n. 241/1990. Anche se l’illegittimità costituzionale della normativa di legge viene dichiarata per insanabile contrasto con i principi di ragionevolezza ed uguaglianza, introdotti dall’art. 3 Cost., e con il canone di buon andamento dell’amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., non è senza significato il fatto che la Corte affermi che la discriminazione tra dipendenti civili e militari dello Stato, in merito all’istituto della dispensa (che in concreto si sostanzia nel deteriore trattamento di questi ultimi), sia venuta meno proprio in virtù della l. n. 241/1990. La sent. n. 126 del 1995 non rimane un caso isolato, ma viene seguita qualche anno più tardi proprio dalla sentenza n. 240 del 1997, che conclude un procedimento di legittimità costituzionale con il quale viene posta all’attenzione della Corte costituzionale un caso analogo. In questa occasione viene in discussione la legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 12, 2° comma, lett. c) e dell’art. 17 della l. n. 1168/1961 e le conclusioni sono le medesime della precedente sentenza, anche se nel dispositivo la Corte sintetizza dichiarando l’illegittimità della normativa in questione nella parte in cui prevede la dispensa dal servizio permanente per scarso rendimento senza la partecipazione dell’interessato al procedimento, definito esplicitamente “disciplinare”. In questa circostanza, la Corte ritiene violato il fondamentale canone di razionalità normativa, laddove vengano ancora previsti meccanismi di dispensa automatica dal servizio e, comunque, tali da non consentire la partecipazione dell’interessato al procedimento, vulnerando così le garanzie procedurali a presidio della difesa del destinatario dl provvedimento e ledendo il buon andamento dell’amministrazione militare sotto il profilo della migliore utilizzazione delle risorse professionali. In sostanza, le sentenze della Corte costituzionale danno precise indicazioni inerenti all’istituto dello scarso rendimento in ambito militare, con l’affermazione che il relativo procedimento amministrativo di accertamento ha natura disciplinare (sarebbe meglio parlare di natura paradisciplinare), prevedendo - perciò - necessariamente, la partecipazione in contraddittorio dell’interessato.

3. Le garanzie procedimentali.

Al di là della terminologia utilizzata, è chiaro che il problema principale rimane la corretta ed efficace partecipazione dell’interessato alle diverse fasi procedimentali, onde garantire che le ragioni del medesimo siano portate all’attenzione dell’autorità responsabile del procedimento e costituiscano valido elemento di ponderazione e di valutazione nella fase decisoria.
In tale contesto, in mancanza di una regolamentazione di dettaglio, per esaminare il procedimento di accertamento dello scarso rendimento risulta particolarmente utile far riferimento alla circolare n. DGPM/II/5/30001/C42 del 22 maggio 2000 della Direzione Generale per il Personale Militare del Ministero della difesa. La circolare in argomento è frutto non solo della necessità di dare concretezza alle disposizioni di legge in materia, con riguardo altresì alle disposizioni dettate dalla l. n. 241/1990, ma anche della necessità di acquisire e tradurre in un quadro organico e compiuto i principi giurisprudenziali, elaborati nel tempo, che hanno notevolmente contribuito a dare una certa fisionomia al procedimento amministrativo in questione e a scandirne i tempi e le fasi. Le disposizioni introdotte da una circolare amministrativa, come è noto, non hanno rilevanza esterna, ma assumono un particolare valore interno per un ordinamento gerarchico, poiché esprimono la volontà di autolimitazione del potere discrezionale e devono essere rigorosamente rispettate dagli organi dipendenti, costituendo precisi vincoli d’azione. Tenendo presente questa notazione, e la sua peculiare valenza in ambito amministrativo-militare, veniamo alle modalità di disciplina del procedimento con riguardo alla partecipazione dell’interessato. In particolare, il comando o ente che inoltra la proposta di scarso rendimento, in quanto - appunto - unità organizzativa responsabile, ha l’obbligo di dare comunicazione dell’avvio del procedimento al militare interessato, ai sensi degli artt. 7 e 8 l. n. 241/1990. è bene evidenziare che la comunicazione di avvio del procedimento non è assimilabile ad un atto di contestazione di mancanza disciplinare, poiché ha la finalità di dare notizia soltanto dell’oggetto del procedimento promosso e non anche dell’analitica esposizione dei fatti posti dall’amministrazione a base del procedimento; questi ultimi, infatti, possono essere adeguatamente conosciuti dall’interessato con lo strumento dell’accesso agli atti(2).
Dalla proposta, quale atto propulsivo del procedimento, decorrono i termini previsti per la conclusione dello stesso procedimento, fissati in un massimo di 180 giorni. Anche la fissazione di un termine costituisce una garanzia per il militare interessato, il quale non è esposto sine die ad una negativa valutazione del proprio operato. La proposta in argomento, corredata dai pareri gerarchici giunge sino alle commissioni di avanzamento che devono emettere un apposito parere in merito allo scarso rendimento del dipendente. La commissione di avanzamento, qualora ne venga fatta richiesta dall’interessato nel termine di 60 giorni dall’inizio del procedimento, sente direttamente quest’ultimo, che avrà un’ulteriore occasione per far valere la sue ragioni, potendo - comunque - entro 120 giorni dall’inizio del procedimento (o meglio, i due terzi del termine massimo di conclusione del procedimento) presentare proprie memorie e controdeduzioni relative alla proposta di scarso rendimento. Su questo punto, la circolare, recependo le indicazioni della giurisprudenza, ha configurato un tipo di procedimento amministrativo che ha la stessa fisionomia di quelli disciplinari, nei quali il destinatario del provvedimento finale ha ampie e garantite possibilità di far valere le proprie ragioni a difesa e, quindi, di intervenire fattivamente nel procedimento, partecipandovi e contribuendo alla definizione della fase decisoria. Ciò che non è previsto è la possibilità che il militare interessato possa farsi assistere da un difensore. Ed è proprio la mancanza di un difensore che viene contestata nel caso in esame e motivo posto a base della lamentata illegittimità del provvedimento impugnato.

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(2) - Cfr.: TAR Campania - Salerno, sez. I, sent. n. 1617 del 2002.

4. Il difensore nei procedimenti amministrativi tipici delle Forze armate e la sua necessità.

Nei procedimenti amministrativi tipici delle Forze armate, con particolare riguardo ai procedimenti disciplinari, la presenza di un difensore, scelto dall’interessato o nominato d’ufficio, non è assolutamente un dato connotativo. Si tenga, infatti, presente che il difensore non è previsto nel procedimento disciplinare di cui all’art. 59 R.D.M., procedimento necessario per l’eventuale irrogazione delle sanzioni di corpo del richiamo, del rimprovero e della consegna. Inoltre, non è prevista l’assistenza di un difensore nei procedimenti disciplinari di stato, relativamente alle fasi dell’inchiesta formale (sottufficiali) e dell’accertamento disciplinare (appuntati e carabinieri), fasi di per sé sufficienti per poter irrogare la sanzione di stato della sospensione disciplinare dall’impiego o dal servizio. Infine, non è prevista l’assistenza di un difensore nel procedimento disciplinare di stato riguardante gli ufficiali, non solo nella fase dell’inchiesta formale, ma anche nella fase dinanzi al consiglio di disciplina. Insomma, il difensore non è un dato indefettibile dei procedimenti disciplinari militari.
Si tenga, inoltre, presente che lo scarso rendimento si basa sostanzialmente su atti amministrativi che hanno di per sé autonoma valenza (ammonimenti, documenti caratteristici), oltre ai pareri gerarchici espressi da tutti i superiori dell’interessato e il parere finale della competente commissione d’avanzamento. In realtà, i pareri in argomento esprimono una valutazione di concordanza tra presupposti richiesti e provvedimento emanando, potendo influire concretamente soltanto in favore dell’interessato. Un parere di discordanza non consentirebbe al procedimento di proseguire oltre e comunque costituirebbe valido motivo ostativo per l’adozione di un provvedimento di scarso rendimento, poiché una valutazione in pejus dell’autorità competente alla decisione finale sarebbe difficilmente configurabile. D’altra parte, gli atti amministrativi prodromici al provvedimento di scarso rendimento, qualora giungano validamente a costituire presupposto del procedimento de quo, sono sicuramente atti definitivi (non è consigliabile attivare un procedimento di scarso rendimento in presenza di documenti caratteristici impugnati in sede di ricorso amministrativo o giurisdizionale). In sostanza, nel procedimento di scarso rendimento non si tratta di valutare la responsabilità di un militare in relazione ad un determinato comportamento, ma di verificare la sussistenza di tutti i presupposti di fatto e di diritto che giustificano l’adozione di un provvedimento di cessazione dal servizio d’autorità. Che il giudizio negativo sia già stato espresso in precedenza è circostanza facilmente desumibile dai documenti caratteristici posti a base dell’attivazione dello speciale procedimento e dall’attività di ammonizione del superiore gerarchico. D’altronde, la convocazione - peraltro sollecitata dall’interessato - dinanzi alla commissione di avanzamento non ha la finalità di consentire al militare di controbattere ad eventuali contestazioni (che d’altra parte non ci sono), ma soltanto di permettergli di rappresentare le ragioni a proprio favore e, di converso, di mettere in condizione la competente commissione di conoscere ed apprezzare ulteriormente il militare interessato, in modo da delineare - qualora ve ne fosse bisogno - un quadro ancor più completo della situazione soggettiva di quest’ultimo. Si tratta, in effetti, non di svolgere proprie considerazioni giuridiche in merito alla sussistenza o meno di fattispecie di diritto o di responsabilità, ma di allegare fatti concreti e, soprattutto, di manifestare propositi di maggior impegno e di ravvedimento. In tutto ciò e nella considerazione dell’economia generale del procedimento amministrativo de quo non si saprebbe quale ruolo assegnare ad un difensore e quale sia la sua utilità, se non quella di accompagnare l’interessato dinanzi alla competente commissione di disciplina e garantirgli un sostegno morale.

Ten. Col. CC Fausto Bassetta



Accertamenti preliminari - Constatazione della trasgressione disciplinare - Necessità.

Il superiore che rileva una mancanza disciplinare deve far constatare la stessa al trasgressore e qualora ciò non avvenga ben può ravvisarsi l’illegittimità di questa fase preliminare che si riverbera su tutti i successivi atti procedimentali, compreso il provvedimento finale.


Procedimento disciplinare - Sospensione - Condizioni necessarie - Preclusione possibilità di difesa - Legittimità.

Stante la perentorietà del termine di conclusione del procedimento disciplinare, quest’ultimo può essere interrotto o sospeso per periodi di convalescenza o di assenza legittima dal servizio, solo se tale condizioni precludono all’incolpato la possibilità di provvedere appieno alla sua difesa.


Provvedimento sanzionatorio - Motivazione - Indicazione dell’iter logico giuridico seguito - Necessità.

La motivazione del provvedimento deve contenere l’indicazione dell’iter logico giuridico seguito dall’amministrazione per giungere all’adozione dell’atto finale, con particolare riferimento agli elementi che sono stati ritenuti rilevanti e alle valutazioni espresse a fondamento della decisione.


Procedimento disciplinare - Termine a difesa - Eccessiva brevità - Violazione diritto di difesa - Sussistenza.

Il responsabile del procedimento che disattende una norma di procedura e concede un termine a difesa troppo breve realizza una violazione del diritto di difesa dell’incolpato, con conseguente illegittimità dell’intero procedimento.

T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sent. 30 agosto 2006, n. 580 (c.c. 26 luglio2006), Pres. Borea, Est. Farina, D. F. c. Ministero Difesa.

Si legge quanto appresso in sentenza:
“Il ricorso è fondato.
Colgono nel segno le censure con le quali il ricorrente deduce la violazione dell’art. 58 del D.P.R. 18 luglio 1986, n. 54, dell’art. 1, comma 3 del D.M. 8 agosto 1996, n. 690 ed il difetto di motivazione.
E’ d’uopo prendere le mosse dal quadro normativo di riferimento.
Il D.P.R. 18 luglio 1986, n. 545 (recante la: ”Approvazione del regolamento di disciplina militare, ai sensi dell’art. 5, primo comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382) stabilisce, all’art. 57 (Infrazione disciplinare) che: “1. Costituisce infrazione disciplinare punibile con una delle sanzioni disciplinari di corpo, salva l’applicabilità di una sanzione disciplinare prevista dalla legge di Stato, ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina indicati dalla legge, dai regolamenti militari, o conseguenti all’emanazione di un ordine. 2. Nel rilevare l’infrazione il superiore deve attenersi alla procedura di cui al successivo art. 58”.
Il menzionato art. 58 (Procedura da seguire nel rilevare l’infrazione), così recita: “1. Ogni superiore che rilevi l’infrazione disciplinare, per la quale non sia egli stesso competente ad infliggere la sanzione, deve far constatare la mancanza al trasgressore, procedere alla sua identificazione e fare rapporto senza ritardo allo scopo di consentire una tempestiva instaurazione del procedimento disciplinare. 2. Il rapporto deve indicare con chiarezza e concisione ogni elemento di fatto obiettivo, utile a configurare esattamente l’infrazione. Il rapporto non deve contenere proposte relative alla specie ed alla entità della sanzione.
3. Se il superiore che ha rilevato l’infrazione ed il militare che l’ha commessa appartengono allo stesso corpo, il rapporto è inviato:
a) direttamente al comandante di reparto, se comune ad entrambi i militari;
b) per via gerarchica al comandante del corpo, se trattasi di militare di altro reparto.
4. Per il personale imbarcato il rapporto viene inviato al comando della nave.
5. Negli altri casi il superiore, tramite il proprio comando di corpo o ente, invia il rapporto al comando di corpo da cui il trasgressore dipende; qualora egli si trovi fuori dalla propria sede il rapporto deve essere presentato, per l’inoltro, al locale comando presidio...”.
Come si è visto, il comma 1 dell’ art. 58 dispone che “1. Ogni superiore che rilevi l’infrazione disciplinare, per la quale non sia egli stesso competente ad infliggere la sanzione, deve far constatare la mancanza al trasgressore, procedere alla sua identificazione e fare rapporto senza ritardo allo scopo di consentire una tempestiva instaurazione del procedimento disciplinare”.
Nel caso di cui alla attuale controversia, l’infrazione disciplinare è stata rilevata dal Comandante Provinciale dei Carabinieri di ..., che aveva effettuato la ispezione nella sede della Banca d’Italia, cioè dall’ organo non competente ad infliggere la sanzione (che è stata, poi, inflitta dall’organo competente, cioè dal Comandante della Compagnia Carabinieri di ...): pertanto, il Comandante Provinciale dei Carabinieri di ...avrebbe dovuto far constatare, a mente del citato art. 58, la mancanza al trasgressore.
Ciò non è avvenuto e tanto basta per ravvisare l’illegittimità di questa fase preliminare del procedimento disciplinare, che si riverbera su tutti i successivi atti procedimentali - compreso il provvedimento finale - inficiandoli.
Inutile dire della inconsistenza della tesi esposta dalla resistente Amministrazione in sede di ricorso gerarchico, per cui il Comandante Provinciale dei Carabinieri di ...non avrebbe fatto constatare la mancanza al trasgressore, non essendo egli a conoscenza di eventuali provvedimenti che avessero autorizzato il D. a non indossare la divisa: la mancanza, infatti, era immediatamente riscontrabile, eppertanto era obbligo del superiore procedere in forza del prefato art. 58. La sussistenza di eventuali provvedimenti che autorizzassero il ricorrente a non indossare la divisa era infatti circostanza che poteva essere acclarata anche in un momento successivo; quel che rileva, però, è che l’incertezza sull’esistenza di detti provvedimenti non poteva certamente legittimare l’omissione in parola, che ha piuttosto arrecato un evidente nocumento alle guarentigie difensive del D., di fatto impossibilitato a spiegare un’autonoma difesa delle proprie ragioni nel momento stesso della commissione del presunto illecito disciplinare.
Sotto altro profilo, merita condivisione il rilievo attoreo incentrato sull’elusione del termine massimo di novanta giorni per la conclusione del procedimento disciplinare, stabilito dall’art. 1, comma 3 del D.M. 8 agosto 1996, n. 690.
La giurisprudenza ha chiarito che il suddetto termine è da ritenersi perentorio (Cfr., ex pluribus, Csi, 2 marzo 1991, n. 62 e Cons. St., IV, 18 settembre 1991, n. 726) e - ritiene il Collegio - può essere interrotto o sospeso per periodi di convalescenza o di assenza legittima dal servizio, se tali condizioni precludono all’incolpato la possibilità di provvedere appieno alla sua difesa (Cfr., sul punto, T.A.R. Toscana, 7 aprile 2003, n. 1301 e T.A.R. Sardegna, 24 gennaio 2000, n. 71).
Nel caso di specie non risulta - e il provvedimento finale nulla dice in proposito - che ricorressero le suddette condizioni ostative.
Di qui - anche - una insufficienza motivazionale che inficia il provvedimento conclusivo.
è d’uopo precisare che il termine di novanta giorni per la conclusione del procedimento disciplinare è evidentemente posto a salvaguardia della certezza del diritto ed a tutela del dipendente assoggettato ad una procedura che può condurre ad esiti sfavorevoli per la propria posizione giuridica.
Ne discende che la durata del procedimento de quo non rientra nella disponibilità dell’Autorità procedente, non potendo quest’ultima sospendere l’iter procedurale se non in ragione di un’acclarata impossibilità del dipendente a parteciparvi o per cause espressamente indicate dalla legge (cfr. Cons. St., IV, 18 settembre 1991, n. 726).
Orbene, nel caso di specie il Collegio non ravvisa ragione per discostarsi dall’orientamento richiamato; ne consegue che è da ravvisarsi la violazione del termine fissato dal summenzionato art. 1, comma 3 del D.M. 8 agosto 1996, n. 690: infatti, il procedimento disciplinare ha preso l’abbrivio con la contestazione degli addebiti di cui alla comunicazione del 11.11.2002 e si è concluso con l’irrogazione della sanzione disciplinare, quivi avversata, del 18.2.2003, allorquando era ormai spirato il termine di novanta giorni imposto dalla normativa vigente.
Non osta a tale conclusione la circostanza che l’Amministrazione abbia sospeso il procedimento disciplinare nel periodo di convalescenza dell’incolpato (17.1.2003-30.1.2003), ed abbia, pertanto, ritenuto che il termine di conclusione del procedimento fosse conseguentemente differito.
Come si è detto, il termine in parola è posto a tutela della posizione dell’incolpato e può essere ragionevolmente sospeso allorché quest’ultimo versi nell’impossibilità materiale di partecipare al procedimento che lo interessi e di tutelare le proprie ragioni.
Nel caso che ci occupa, invece, la patologia da cui era affetto il D. non escludeva la possibilità di una sua attiva partecipazione all’iter procedimentale, potendo comunque egli comunicare “a distanza” con l’Autorità procedente, mediante produzione di memorie scritte o documenti.
Illegittimamente, quindi, l’Amministrazione ha disposto la sospensione del procedimento, in assenza di una causa che autorizzasse la sospensione, né, tampoco, ha dato atto di questa causa in sede di riscontri provvedimentali.
Oltre alle evidenti violazioni di norme procedimentali, il provvedimento gravato non appare immune nemmeno dalle denunciate carenze motivazionali.
Invero, come correttamente osservato dalla difesa del ricorrente, nel provvedimento finale non v’è traccia dell’iter logico-giuridico seguito dall’Amministrazione, essendosi limitata l’Autorità procedente a dichiarare di aver ritenuto equo comminare la predetta sanzione in ragione del comportamento dell’incolpato, contrario all’art. 63 del Regolamento Generale dell’Arma dei Carabinieri.
è evidente che il potere di irrogare sanzioni disciplinari è espressione di valutazioni caratterizzate da ampia discrezionalità ed è legittimamente esercitato allorché sia sorretto da un solido apparato giustificativo; in particolare, il referto motivazionale deve rendere pienamente intelligibile l’iter logico seguito dall’Autorità procedente ed indicare gli elementi di fatto e di diritto ritenuti rilevanti per la determinazione finale, in ossequio ai principi, elaborati prima da giurisprudenza e dottrina, che hanno poi trovato puntuale codificazione nell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
Nella fattispecie la sanzione disciplinare, il cui contenuto, secondo quanto dichiarato dall’Autorità procedente, troverebbe fondamento in valutazioni di natura equitativa, non reca però alcun riferimento agli elementi che sono stati ritenuti rilevanti, né al procedimento logico che avrebbe condotto ad una determinazione di stampo equitativo; né, tampoco, in assenza di qualsiasi indicazione delle circostanze ritenute favorevoli alla posizione del ricorrente, si è resa così possibile una qualsiasi delibazione sulla conformità della soluzione adottata ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità.
Tanto basta per affermare il difetto di motivazione del provvedimento finale.
A rigore, coglie, altresì, nel segno la censura incentrata sulla circostanza che al ricorrente è stato assegnato un termine a difesa di appena quattordici giorni, quando, ai sensi dell’art. 6 del D.M. 8 agosto 1996, n. 690 (”Regolamento recante disposizioni di attuazione degli articoli 2 e 4 della L. 7 agosto 1990, n. 241, nell’ambito degli enti, dei distaccamenti, dei reparti dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica nonché di quelli a carattere Interforze”) l’Autorità procedente, cioè il Comandante della Compagnia Carabinieri di ..., gli avrebbe dovuto assegnare un termine di almeno sessanta giorni.
Il citato art. 6 (Partecipazione al procedimento: visione degli atti; atti di intervento) dispone, al comma 2, che: “2. I soggetti che hanno titolo a prendere parte al procedimento, ai sensi degli articoli 7 e 9 della legge, possono presentare memorie scritte e documenti, entro un termine pari a due terzi di quello stabilito per la durata del procedimento, sempre che questo non sia già concluso. […]”.
Il termine “stabilito per la durata del procedimento” è quello di novanta giorni fissato dall’art. 1, comma 3 del D.M. n. 690 del 1996.
Nel caso di specie, con la contestazione degli addebiti di cui al foglio n. 244/2 di prot. in data 11.11.2002, il Comandante della Compagnia Carabinieri di ..., rappresentava all’incolpato la possibilità di produrre eventuali “memorie difensive scritte ovvero orali” in occasione del rapporto fissato con il Comandante per il giorno 25.11.2002, oppure in una data successiva, stabilita lo stesso giorno del rapporto, “nel caso in cui tali memorie non fossero pronte” per quella data.
Come si vede, il Comandante ha formalmente disatteso il disposto dell’art. 6, comma 2 del D.M. n. 690 del 1996, posto che - di fatto - ha assegnato all’incolpato un termine di soli quattordici giorni, concretando così una violazione del diritto di difesa dell’incolpato, tutelato dalla normativa vigente.
Va, in ogni caso, doverosamente riconosciuto che la violazione in parola non si è tradotta in una lesione effettiva delle garanzie difensive del ricorrente, atteso che il procedimento amministrativo si è concluso, come sopra ricordato, il 18.2.2003, e nulla vietava al D. di presentare comunque, in tale torno temporale, memorie ed osservazioni all’Autorità procedente.
In conclusione, per le complessive considerazioni che precedono - assorbiti gli altri mezzi - il ricorso va accolto ed i provvedimenti impugnati vanno conseguentemente annullati”.

Su alcune questioni controverse del procedimento disciplinare

1. Premessa.

La sentenza del T.A.R. Friuli Venezia Giulia, n. 580/2006, pone all’attenzione dell’interprete alcune interessanti questioni che riguardano lo svolgimento del procedimento disciplinare militare. L’occasione è propizia per uno sguardo d’insieme sui principi che regolano questo particolare procedimento amministrativo, le sue speciali regole e le finalità alle quali è preposto. Prima ancora, conviene accennare al tema del contendere ed illustrare sinteticamente il concreto svolgimento del procedimento de quo. Il giudizio amministrativo trae origine dal ricorso giurisdizionale presentato da un militare, dopo il non favorevole esito di quello gerarchico, avverso la sanzione disciplinare di corpo del rimprovero scritto. In particolare al militare venivano formulate precise contestazioni in data 11.11.2002, per una mancanza commessa il precedente 19.10.2002(1), e veniva invitato a recarsi a rapporto il 25.11.2002 per chiarire la vicenda e produrre eventuali memorie difensive, scritte od orali. Nella circostanza l’autorità procedente si riservava di stabilire un termine entro il quale ammettere l’incolpato a produrre ulteriori giustificazioni, ma non risulta dagli atti che questo stesso termine sia stato in qualche modo indicato. Successivamente, e prima della conclusione del procedimento disciplinare, il militare in questione veniva collocato in licenza di convalescenza dal 17.01.2003 al 30.01.2003, pertanto il responsabile del procedimento comunicava all’interessato di aver disposto la sospensione dello stesso per il periodo in questione. Infine, il 18.02.2003, a riacquisita idoneità fisica dell’interessato, veniva irrogata allo stesso la sanzione disciplinare di corpo del rimprovero scritto, ritenuta equa in ragione del comportamento tenuto dal manchevole.
Il militare punito impugna il provvedimento sanzionatorio, deducendo alcuni vizi di legittimità, tra i quali trovano fondamento, a giudizio del T.A.R. Friuli Venezia Giulia, la violazione delle norme di cui all’art. 58 R.D.M. (d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545), di cui all’art. 1, comma 3, d. m. 8 agosto 1996, n. 690 (recante il regolamento di attuazione della normativa sui termini del procedimento, in relazione agli enti periferici dell’amministrazione della difesa), e il difetto di motivazione. Interessanti anche le considerazioni del T.A.R. concernenti il diritto alla difesa, con particolare riguardo alle disposizioni dettate dall’art. 6, d. m. n. 690/1996.

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(1) - La mancanza sarebbe consistita nell’espletamento del servizio in abiti civili, in violazione della norma sull’autorizzazione a vestire l’abito civile in servizio, stabilita dall’art. 63 del Regolamento Generale dell’Arma dei Carabinieri. La stessa è stata accertata da altro superiore dell’incolpato che ha riferito il fatto all’autorità competente mediante rapporto disciplinare.

2. La constatazione della mancanza disciplinare.

Per quanto concerne la violazione dell’art. 58 R.D.M., il T.A.R., nell’accertare che il superiore che ha rilevato l’infrazione disciplinare non ha proceduto a far constatare la mancanza all’interessato, ha ravvisato in questo difetto procedurale un sintomo sufficiente per affermare l’illegittimità di questa fase, con il conseguente negativo riverbero sulle fasi successive. Sul punto l’assunto del giudice amministrativo non sembra pienamente condivisibile. Ma procediamo con ordine, vediamo innanzitutto la portata e la finalità della norma di cui all’art. 58 R.D.M., con riguardo agli obblighi del superiore che rilevi una mancanza disciplinare, per la quale non sia egli stesso competente ad instaurare il relativo procedimento disciplinare.
In base alla espressa enunciazione dell’art. 58 R.D.M., il superiore che rilevi la commissione di una mancanza disciplinare per la quale sia incompetente ad infliggere le relativa sanzione deve procedere secondo precise modalità. In particolare, ai sensi dell’art. 58, comma 1, R.D.M., deve:
- far rilevare la mancanza all’interessato;
- procedere alla sua identificazione, qualora quest’ultimo non sia conosciuto;
- infine, redigere ed inoltrare il rapporto disciplinare senza ritardo, allo scopo di consentire una tempestiva instaurazione del procedimento disciplinare.
Per quanto riguarda il primo adempimento, cioè il far constatare la mancanza al trasgressore, nonostante qualche affinità lessicale (più fonica che logica) con l’obbligo delle contestazioni, con le quali il superiore titolare della potestà sanzionatoria instaura un procedimento disciplinare, dobbiamo decisamente affermare che con la constatazione e con la contestazione siamo su due piani strutturalmente differenti. In sostanza, la norma di cui all’art. 58 R.D.M. prevede che il militare manchevole deve essere immediatamente reso edotto dell’infrazione da lui commessa, non solo (e non tanto) in funzione di garanzia procedimentale, rendendolo partecipe di un accertamento disciplinare nei suoi confronti(2), ma soprattutto per stabilire (o meglio per ribadire) un obbligo di intervento immediato da parte di qualsiasi superiore in presenza di un’infrazione disciplinare. La fase di accertamento di una infrazione disciplinare può anche prescindere da un diretto ed immediato confronto con l’interessato, perché l’autorità militare può venire a conoscenza di infrazioni disciplinari avvenute non alla sua presenza, ma di cui si ha contezza attraverso modalità differenti dalla percezione diretta o dal rapporto disciplinare(3).
Ciò sta a significare che tra le attività procedimentali, che portano alla comminazione di una sanzione disciplinare, quelle contemplate dall’art. 58, comma 1, R.D.M., sono meramente eventuali e più che alla validità e regolarità procedurale attengono ai doveri propri di superiori gerarchici.
Infatti, se il superiore gerarchico ha tra gli altri doveri quello di curare il rispetto e l’osservanza delle regole disciplinari(4), in caso di illecito disciplinare, commesso alla sua presenza, o comunque nel suo ambito di percezione sensoriale, è evidente che debba intervenire non solo per rilevare, ma anche - eventualmente - per interrompere il comportamento illecito od evitare che lo stesso possa condurre a violazioni più gravi.
L’obbligo di far constatare la mancanza, allora, è una norma di garanzia dell’ordinamento militare, non uno strumento di garanzia dell’incolpato, e il mancato rispetto dello stesso non può riverberarsi negativamente sul procedimento disciplinare, ma semmai può comportare responsabilità disciplinari per chi ha disatteso il precetto normativo.
Il punto è particolarmente importante, proprio per evitare confusione tra diverse fasi del procedimento. In particolare, la fase preliminare al procedimento disciplinare vero e proprio, il quale inizia con le contestazioni degli addebiti(5), è finalizzata all’accertamento del fatto storico, al di là della sua valutazione e qualificazione normativa(6).
A tal fine, il superiore che rileva un’infrazione e non è competente ad irrogare la relativa sanzione, nel riferire quanto verificato direttamente, deve indicare esclusivamente ogni elemento di fatto obiettivo, utile a configurare esattamente l’infrazione, senza formulare proposte relative alla specie ed all’entità della sanzione(7).
Quel superiore, cioè, non può formulare alcun tipo di valutazione che non sia riferibile al fatto storico.
Allora, il volere quasi anticipare alcune fasi del procedimento disciplinare all’atto dell’accertamento della mancanza, quando non si ha competenza a contestare alcun addebito disciplinare, appare una forzatura della lettura del testo regolamentare.
In sostanza, non può condividersi l’affermazione contenuta nella sentenza secondo la quale l’omissione in argomento “ha piuttosto arrecato un evidente nocumento alle guarentigie difensive del D., di fatto impossibilitato a spiegare un’autonoma difesa delle proprie ragioni nel momento stesso della commissione del presunto illecito disciplinare”.
Innanzitutto, il superiore che ha rilevato la mancanza non era competente a valutare la responsabilità disciplinare dell’interessato (in caso contrario l’art. 58 R.D.M. non trovava applicazione), quindi non poteva legittimamente “contestare” e così instaurare un vero e proprio procedimento disciplinare(8). In secondo luogo, le garanzie difensive non sono state violate, come affermato nella stessa sentenza in un passo successivo, secondo una corretta valutazione sostanzialistica, di cui - invece - non si ha traccia in questa parte motiva. In effetti, se, come si è riconosciuto, l’interessato ha avuto comunque la possibilità di produrre memorie ed osservazioni, quindi di esporre le proprie ragioni difensive, prima dell’adozione del provvedimento sfavorevole, non si capisce quale sia stato l’“evidente nocumento alle guarentigie difensive” conseguente all’omissione del superiore che ha rilevato l’infrazione. Il non aver fatto constatare la mancanza all’interessato, nulla toglie alla validità degli atti successivi e certamente non costituisce motivo di grave e irreparabile nocumento alle ragioni difensive di quest’ultimo, semmai - come già notato - potrebbe rappresentare il sintomo di una carente azione di controllo disciplinare del superiore che ha rilevato la mancanza; ma questa è un’altra storia, di cui si può solo ipotizzare un’autonoma rilevanza disciplinare.

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(2) - Questo aspetto risulta estremamente enfatizzato da chi coglie nell’obbligo di far constatare la mancanza al trasgressore una duplice finalità, quella di consentire a quest’ultimo di predisporre la propria difesa e quella di consentire una migliore valutazione sulla sussistenza di un infrazione disciplinare rilevata dal superiore, a seguito di tempestive valide giustificazioni fornite dall’incolpato: G. Mazzi, Art. 58. Procedura da seguire nel rilevare l’infrazione, in Il nuovo ordinamento disciplinare delle Forze armate (a cura di S. Riondato), Padova, Cedam, 19952, 382.
(3) - È stato osservato come tra le diverse modalità attraverso le quali l’autorità competente può venire a conoscenza della commissione di un’infrazione disciplinare esistano quelle dell’acquisizione mediata e dell’acquisizione a seguito di denuncia: E. Boursier Niutta - A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare. La disciplina di corpo, Roma, Laurus Robuffo, 20043, 130 ss.. Entrambe le modalità presuppongono che l’infrazione disciplinare sia commessa al di fuori dell’ambito di percezione di un superiore gerarchico, per cui viene meno l’intera fase contemplata dall’art. 58, comma 1, R.D.M. e, in particolare, non può avere in alcun modo luogo la possibilità di far constatare la mancanza al trasgressore.
(4) - Lo specifico dovere è contemplato dall’art. 21, comma 2, R.D.M., dove viene stabilito che il superiore deve mantenere salda la disciplina dei militari dipendenti.
(5) - Cfr.: P. Iovino - M. Mormando, Sanzioni disciplinari di corpo: l’esame di legittimità in sede contenziosa, in Riv. G.d.F., n. 2, 2005, 434 ss; S. Bruno, Il termine per gli accertamenti preliminari prodromici al procedimento disciplinare militare di corpo, in Rass. Arma CC., n. 1, gennaio-marzo 2003 (LI), 29 ss.; S. Russo, Modalità di avvio del procedimento disciplinare militare, in Diritto Militare, n. 1, 2001, 5 ss.
(6) - È stato correttamente osservato che “[q]uando si parla di accertamento del fatto, dunque, si fa riferi