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  • Legislazione e Giurisprudenza
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Giustizia Amministrativa

Personale militare - Trasferimenti - Applicabilità delle previsioni della l. n. 241/1990 - Obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento e obbligo di motivazione del provvedimento - Si configurano.

T.A.R. Puglia - Lecce, sez. III, sent. 25 novembre 2005 (c.c. 27 ottobre 2005), n. 5374, Pres. Speranza, Est. Viola.

Ai provvedimenti di trasferimento dell’Amministrazione militare si applicano le previsioni della l. n. 241 del 1990, con particolare riguardo all’obbligo generale di motivazione, che concerne tutti indistintamente gli atti della Pubblica Amministrazione che abbiano natura provvedimentale, escludendo unicamente gli atti normativi e gli atti a contenuto generale. Il generico riferimento ad un trasferimento “d’autorità per esigenze di servizio” è assolutamente inidoneo ad integrare l’obbligo di esternare le ragioni del provvedimento previsto dall’articolo 3 della legge n. 241 del 1990 (1).

(1) Si legge quanto appresso in sentenza: “Diritto Il ricorso è fondato e deve pertanto essere accolto. In sostanza, le censure prospettate da parte ricorrente ruotano tutte intorno alla problematica più generale, costituita dall’applicabilità all’Amministrazione militare delle previsioni della legge 7 agosto 1990 n. 241 (ed in particolare, delle previsioni che riguardano la comunicazione di inizio procedimento e l’obbligo di motivazione degli atti amministrativi). Come noto, la problematica è caratterizza da un forte contrasto interpretativo tra un primo orientamento che ritiene di poter riportare i provvedimenti dell’Amministrazione militare in materia di trasferimento al «genus degli ordini, ricollegabili alla normativa della disciplina militare e sottratti quindi nell’ambito di applicazione della l. n. 241/90» (T.A.R. Toscana, sez. I, 9 giugno 2003, n. 2346; T.A.R. Campania Napoli, sez. I, 22 settembre 2003, n. 11545; nello stesso senso, ma con motivazione leggermente diversa, Consiglio Stato, sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3585) e un secondo orientamento che ha riaffermato con forza l’applicabilità delle previsioni della legge n. 241 del 1990 all’Amministrazione militare: «i provvedimenti di trasferimento del personale militare non si sottraggono al generale obbligo di motivazione di cui all’art. 3 l. 7 agosto 1990 n. 241, dato che l’amministrazione militare è tenuta ad esporre, succintamente ma compiutamente, le ragioni della scelta operata, non potendo esserle riconosciuta una discrezionalità assoluta ed insindacabile, per cui (come nella specie) il solo impiego della locuzione “d’autorità”, non consentendo di comprendere l’iter logico seguito dall’amministrazione militare per l’adozione del provvedimento, appare inidoneo a soddisfare l’esigenza sottesa all’obbligo di motivazione, mentre il riferimento (nella specie, contenuto nel preavviso d’inizio del procedimento) a “(...) sopraggiunte esigenze funzionali di ripianamento delle carenze organiche degli ufficiali del Genio in ambito Brigata Genio (...)” lascia, comunque, incomprensibili le ragioni per le quali la scelta relativa alla sede (nella specie, di Udine) sia caduta proprio sul soggetto de quo» (T.A.R. Emilia Romagna Parma, 20 ottobre 2004, n. 682; T.A.R. Sicilia Catania, sez. III, 25 maggio 2005, n. 900; ritengono che l’inquadramento dei provvedimenti dell’Amministrazione militare nella categoria degli ordini non possa comunque importare l’esclusione dell’applicabilità delle previsioni della l. n. 241/1990: Consiglio Stato, sez. III, 8 luglio 2003, n. 2346 e T.A.R. Abruzzo Pescara, 22 maggio 2003, n. 536). La Sezione condivide l’impianto motivazionale delle decisioni favorevoli all’applicabilità delle previsioni della l. n. 241 del 1990 anche ai provvedimenti dell’Amministrazione militare; in particolare, merita certamente adesione l’orientamento che ha radicato l’applicabilità delle previsioni della l. 241 del 1990 agli atti dell’Amministrazione militare sulle seguenti considerazioni: a) l’obbligo generale di motivazione introdotto dall’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 (recante nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) concerne tutti indistintamente gli atti della Pubblica Amministrazione che abbiano natura provvedimentale, escludendo unicamente gli atti normativi e gli atti a contenuto generale; b) L’esistenza di un potere ampiamente discrezionale ed il contestuale obbligo del militare di eseguire gli ordini ricevuti con prontezza, senso di responsabilità ed esattezza (articolo 25, comma 1, del Regolamento di disciplina militare, approvato con D.P.R. 18 luglio 1986 n. 545) non escludono l’interesse del sottoposto ad attivare i rimedi giustiziali e giurisdizionali approntati dall’ordinamento. Infatti anche ai militari vanno sicuramente riconosciuti i diritti costituzionali previsti dall’art. 24 (“Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”) e dall’art. 113 (“Contro gli atti della Pubblica amministrazione è sempre ammesso alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli o organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”). Ma per aversi una tutela reale, occorre che i provvedimenti dell’Autorità militare siano motivati. Infatti è proprio grazie all’esame della motivazione che il Giudice della legittimità ricostruisce l’iter logico seguito dall’Autorità emanante e verifica il corretto esercizio del potere, garantendo effettivamente la tutela che gli viene richiesta. c) Il Collegio non ignora che nei confronti dei provvedimenti dell’Autorità militare possono sussistere particolari esigenze di riservatezza (per ragioni di difesa della Patria, per ragioni di tutela del segreto militare, per la salvaguardia dell’ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità) che attenuano l’obbligo di motivazione. In tal caso l’obbligo della motivazione (che sussiste anche in questo caso) potrà essere adempiuto mediante il generico richiamo a documenti e atti di carattere interno, il cui contenuto dovrà essere esternato nel momento in cui saranno venute meno le esigenze del segreto (T.A.R. Sicilia Catania, sez. III, 25 maggio 2005, n. 900). La rilevata applicabilità delle previsioni della legge n. 241 del 1990 anche agli atti dell’Amministrazione militare, porta all’accoglimento del ricorso; nel caso di specie, infatti, l’Amministrazione procedente ha sicuramente violato le previsioni dell’art. 7 (è mancata del tutto la comunicazione di inizio procedimento e, comunque, una qualche forma di contraddittorio in ordine all’adottando provvedimento di trasferimento) e dell’art. 3 (il generico riferimento ad un trasferimento «d’autorità per esigenze di servizio » è assolutamente inidoneo ad integrare l’obbligo di esternare le ragioni del provvedimento previsto dall’articolo citato) della legge n. 241 del 1990. Del resto, nessuna rilevanza può essere attribuita alle argomentazioni contenute nella memoria conclusionale dell’Avvocatura dello Stato in ordine alla presunta sussistenza di una situazione di incompatibilità ambientale che avrebbe legittimato, in particolare, l’omissione della comunicazione di inizio procedimento, in virtù delle «particolari esigenze di celerità connesse all’adozione della misura». Come già rilevato, infatti, il provvedimento impugnato reca solo un generico riferimento alle «esigenze di servizio» che avrebbero imposto il trasferimento; manca, quindi, del tutto una qualsiasi enunciazione nell’atto impugnato che possa portare a concludere per la necessità di riportare l’intera vicenda all’istituto del trasferimento per incompatibilità ambientale. Deve pertanto concludersi per la necessità di riportare l’intera fattispecie alla “normale” ipotesi del trasferimento per esigenze di servizio; fattispecie, come già visto, che soggiace al rispetto delle previsioni degli artt. 7 e 3 della legge n. 241 del 1990. In definitiva, il ricorso deve pertanto essere accolto”.


Personale militare - Sottufficiali - Sospensione precauzionale dal servizio - Sospensione facoltativa - Obbligo di motivazione - Sussiste. Personale militare - Sottufficiali - Sospensione precauzionale dal servizio - Sospensione facoltativa - Presupposti - Procedimento penale da cui possa derivare la perdita del grado.

T.A.R. Abruzzo - L’Aquila, sent. 16 dicembre 2005 (c.c. 26 ottobre 2005), n. 1483, Pres. Balba, Est. Rasola.

Il provvedimento di sospensione cautelare facoltativa di un sottufficiale deve essere motivato, attraverso l’indicazione delle ragioni ostative alla permanenza dello stesso in servizio, tenendo conto della qualifica dell’interessato, dei compiti da lui svolti, nonché del turbamento che la permanenza in servizio potrebbe arrecare all’attività e all’affidabilità dell’Amministrazione. L’art. 20 della l. 599/1954 stabilisce tra i presupposti necessari per l’adozione della sospensione precauzionale facoltativa dall’impiego del sottufficiale, l’eventualità che quest’ultimo sia sottoposto ad un procedimento penale da cui possa derivare la perdita del grado, la quale, ai sensi del successivo art. 60, consegue, tra l’altro, ad una condanna che, secondo la legge penale militare, importi la pena accessoria della rimozione ovvero ad una condanna per delitto non colposo che importi l’interdizione temporanea dai pubblici uffici (1).

(1) Si legge quanto appresso in sentenza: “Diritto Oggetto del ricorso principale è la nota, datata 12.4.2005, del Comando Provinciale (…) con cui al ricorrente si comunicava che con provvedimento del Comando Generale (che sarebbe seguito di lì a poco e che in effetti è stato notificato il 22.4.2005) era stato sospeso precauzionalmente dal servizio a titolo discrezionale a decorrere dal 10.4.2005; il ricorso si rivolge anche contro il radiomessaggio del Comando Generale (…) del giorno 11.4.2005. Le censure rivolte avverso dette note, ad avviso del Collegio, sono inammissibili poiché investono note di comunicazione che preavvertono il contenuto del provvedimento che successivamente è stato notificato. Trattandosi di meri atti di comunicazione non hanno di per sé natura lesiva, dovendosi riconoscere tale carattere al provvedimento formale, avverso il quale il ricorrente reitera in buona sostanza con l’atto di motivi aggiunti le doglianze già prospettate con l’atto introduttivo del giudizio. Con la prima censura dell’atto di motivi aggiunti ci si duole del difetto di motivazione che connota la valutazione relativa alla condotta ascritta all’interessato, considerata di estrema gravità, perché posta in essere da un militare, senza che siano addotte specifiche ragioni che diano concretamente conto del giudizio espresso, in base al quale poi il ricorrente è stato sospeso cautelarmene dal servizio. Il reato contestato al ricorrente di cui agli artt. 110 e 326 c.p. (rivelazione di segreto d’ufficio, in concorso), punibile con una pena compresa tra i sei mesi e i tre anni, è sicuramente in astratto un reato che può essere valutato di estrema gravità, soprattutto se responsabile è un militare. Il giudizio, tuttavia, contenuto nell’atto impugnato appare espresso in termini astratti e apodittici perché non tiene conto del tenore complessivo della vicenda che: a) non ha avuto alcuna risonanza pubblica; b) non ha arrecato alcun turbamento al prestigio dell’Amministrazione, né ne ha diminuito l’affidabilità; c) non considera la misura alternativa adottata, in base alla quale il militare è stato destinato ad un impiego non operativo, facendo venir meno l’esigenza di qualsiasi misura cautelare. Si tratta di circostanze che, ove fossero state presenti nella vicenda, avrebbero sicuramente contribuito ad aggravare la posizione del ricorrente, mentre la loro assenza attenua il fatto privandolo di ogni conseguenza negativa e ulteriore. La giurisprudenza ha da tempo affermato il principio che impone all’Amministrazione l’obbligo di motivare il provvedimento di sospensione cautelare facoltativa con l’esternazione delle ragioni ostative alla sua permanenza in servizio del dipendente, tenendo conto della qualifica dell’interessato, dei compiti da lui svolti, nonché del turbamento che la permanenza in servizio potrebbe arrecare all’attività e all’affidabilità dell’Amministrazione (Csi. 11.2.2000, n. 56). Il provvedimento assunto appare anche contraddittorio e comunque insufficientemente motivato in relazione alle ampie, argomentate e puntuali motivazioni espresse dal Comandante provinciale (…), da cui il militare dipende, secondo il quale non sussistevano i presupposti per l’adozione della misura cautelare in argomento. Il carattere di gravità della condotta ascrivibile al militare viene escluso “anche perché non correlata sinallagmaticamente alla ordinaria prestazione del servizio, né all’incarico rivestito”. Si legge infatti in detto parere, per quanto emerge dal fascicolo del procedimento penale che il Comando ha acquisito, che il reato contestato “sarebbe stato commesso unicamente a seguito della volontà del militare di comunicare in modo formale al proprio superiore gerarchico notizie relative ad un evento che lo vedeva coinvolto, con ciò agendo in osservanza dell’art.52.5, lett. b) della L. n. 382/1978 (Regolamento di Disciplina militare)”. La esigenza di misure cautelari a carico del ricorrente viene esclusa, in detto parere, sulla base di una valutazione di scarsa consistenza delle prove a carico dell’interessato (che infatti è stato assolto con formula piena in data 16.9.2005) oltre che per l’assenza di quegli elementi sopra descritti alle lettere a), b) e c). Conclude il Comandante provinciale che l’adozione di un provvedimento cautelare di sospensione “al momento non assolva ad un’effettiva esigenza di cautela, appalesandosi, invece, quale eccessivo provvedimento in violazione del generale principio di gradualità”, anche tenuto conto dell’impiego non operativo cui il militare è stato destinato. A quest’ultimo proposito la circolare n. 1/2004 prevede che ove si ritenga di non proporre la sospensione, deve essere esplicitato se siano state assunte misure alternative, stimate sufficienti a salvaguardare l’interesse dell’Amministrazione, il che nel parere del Comando provinciale è stato appunto rappresentato. Vero che il parere di cui sopra non è vincolante e che da parte del Comando regionale (…) e del Comando Interregionale (…) è stato espresso un avviso diverso, ma è altresì vero che, a fronte di pareri divergenti, l’Amministrazione avrebbe dovuto essere molto più puntuale nelle sue valutazioni e motivazioni. Non può tacersi l’avviso che la misura adottata appare oggettivamente del tutto sproporzionata non essendosi verificato alcun nocumento all’immagine e al prestigio del Corpo, nocumento che non può essersi verificato perché la vicenda è venuta a conoscenza dell’Autorità giudiziaria, sia perché detta conoscenza è intervenuta molto tempo prima (quindici mesi) della misura adottata, sia perché appare fuori luogo parlare di “risonanza” o “strepitus” per la conoscenza che ne ha avuto l’A.G.. Sotto il profilo della valutazione relativa alla gravità del fatto, destituita di fondamento è poi l’affermazione, invero generica, per cui il reato attribuito al militare sarebbe in astratto idoneo a determinare la perdita del grado per rimozione. Ciò non risponde al vero. L’art. 20 della L. 599/1954 prevede la possibilità di sospendere precauzionalmente dall’impiego il sottufficiale sottoposto ad un procedimento penale da cui possa derivare la perdita del grado, che, ai sensi del successivo art. 60, consegue, tra l’altro, ad una condanna che, secondo la legge penale militare, importi la pena accessoria della rimozione (punto 7, lett. a)) ovvero ad una condanna per delitto non colposo che importi l’interdizione temporanea dai pubblici uffici (punto 7, lett. b)). Giova precisare inoltre che l’art. 60 citato è stato modificato dall’art. 9 della L. 7 febbraio 1990, n. 19 nel senso che non è più ammessa la perdita del grado senza previo procedimento disciplinare, come conseguenza automatica della condanna per determinati reati (C.S., sez. IV, 29.1.1993, n. 116; TAR Lazio, Latina, 26 febbraio 2004, n. 76), per cui detta perdita presuppone una sentenza di condanna e l’avvio di un procedimento disciplinare. L’art. 29 del Codice penale militare di pace prevede inoltre che la rimozione consegue ad una condanna a pena detentiva superiore a tre anni, mentre l’art. 326 c.p., che riguarda il ricorrente, prevede la reclusione da sei mesi a tre anni, per cui non sussistono i presupposti né della perdita del grado, né della rimozione. I presupposti mancano anche per l’ipotesi della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici che, per il combinato disposto degli artt. 20, 28 e 31 c.p., potrebbe in astratto essere applicata ove il ricorrente fosse condannato. Senonché il reato contestato al ricorrente è commesso in concorso, ex art. 110 c.p., atteso che per aversi rivelazione di segreti d’ufficio, deve esserci un destinatario, che nella specie è il ricorrente che è terzo “estraneo”, mentre la pena dell’interdizione riguarda il soggetto c.d. “intraneo”, il soggetto cioè che abbia violato il dovere di tenere il segreto. I fatti oggetto d’imputazione in sede penale, dunque, non sono idonei a determinare la perdita del grado e la rimozione ai sensi dell’art. 60 L. 599/1954, n. 7), lett. a) e b). L’intervenuta sentenza di assoluzione del ricorrente in data 16 settembre 2005 con la formula più ampia dal reato ascrittogli in quanto “il fatto non sussiste”, dimostra ex post l’inconsistenza delle prove a carico dell’esponente, correttamente apprezzata dal Comando provinciale. Per le ragioni tutte che precedono, l’atto di motivi aggiunti può essere accolto, con equitativa compensazione delle spese, assorbendo le ulteriori censure dedotte.”


Disciplina militare - Norma di comportamento e di servizio - Relazioni con i superiori - Violazioni di particolari obblighi di inoltro di istanze - Responsabilità disciplinare - Sussiste.

T.A.R. Sicilia - Catania, sez. III, sent. 21 dicembre 2005 (c.c. 8 novembre 2005), n. 2480, Pres. Salamone, Est. Neri.

L’obbligo di trasmettere un’istanza, tramite il comandante di corpo o altra autorità superiore, non si configura come lesivo di alcun diritto spettante al militare. L’art. 39, comma 5, d.P.R., invero, nel prescrivere particolari modalità per relazionarsi con i superiori, non limita la possibilità per i militari di inoltrare istanze, ma semplicemente indica, in ragione dello specifico status degli stessi, una particolare procedura da seguire nell’invio di domande che riguardano questioni personali di particolare gravità e delicatezza, attinenti al rapporto di impiego o di servizio. (1)

(1) Si legge quanto appresso in sentenza: “Diritto Dagli atti di causa è emerso che il 22-23 gennaio 2004 il maresciallo (…) ha inviato degli scritti direttamente al Ministro (…) e al Comandante Generale (…) e che, successivamente, il 12 marzo 2004, ha inoltrato alle stesse autorità una memoria. Risulta, altresì, che l’odierno ricorrente in precedenza, aveva inviato ad Autorità centrali degli scritti senza rispettare la prescrizione prevista dal regolamento di disciplina. Con provvedimento del 30 giugno 2004, al ricorrente è stata inflitta la sanzione del rimprovero con la seguente motivazione: militare in forza al Comando (…) non si atteneva alla procedura prescritta dall’art. 39 del Regolamento di Disciplina Militare, che impone di inviare tramite superiore gerarchico scritti diretti al Ministero (…) e al Comandante Generale (…). Con successivo provvedimento del 23 settembre 2004, il Comandante provinciale (…) ha respinto il ricorso gerarchico, rilevando, tra l’altro, che l’art. 39, comma quinto, del regolamento di disciplina militare prevede la possibilità per il militare di far pervenire al Ministro, tramite il comandante di corpo o altra autorità superiore, un plico chiuso nel quale siano trattate questioni di carattere personale; veniva evidenziato altresì che il ricorrente, in considerazione del contenuto degli scritti inviati direttamente al Ministro, era tenuto all’osservanza del citato art. 39 e che, nonostante in passato non fossero state sollevate censure per fatti anche astrattamente compatibili, non doveva considerarsi preclusa la possibilità di una diversa valutazione dei fatti (con conseguente apprezzamento sotto il profilo sanzionatorio). Il ricorso deve essere respinto. L’art. 39 d.P.R. 18 luglio 1986 n. 545 testualmente recita: «1. Ogni militare può chiedere, per via gerarchica, di conferire con il Ministro della difesa o con un superiore, precisando il motivo della richiesta per le questioni di servizio, oppure dichiarandone il carattere privato, nel caso di questioni non riguardanti il servizio e la disciplina. 2. Il Ministro della difesa può delegare altra autorità civile o militare a ricevere il richiedente. 3. La richiesta di conferire con dette autorità deve essere trasmessa con la massima sollecitudine. 4. Il superiore che la inoltra, nel caso si tratti di questioni di servizio, deve esprimere il proprio motivato parere in merito all’oggetto della richiesta. 5. Qualunque militare può far pervenire al Ministro della difesa, tramite il comandante di corpo o altra autorità superiore, un plico chiuso nel quale siano trattate solo questioni personali di particolare gravità e delicatezza attinenti al rapporto di impiego o di servizio. 6. Qualunque militare può presentarsi direttamente: a) ai propri superiori fino al comandante di compagnia o reparto corrispondente per giustificati motivi; b) a qualsiasi superiore fino al comandante di corpo per gravi ed urgenti motivi; c) all’autorità competente o a qualsiasi superiore in casi di urgenza che interessino la sicurezza del reparto o quando si tratti di questioni attinenti alla sicurezza dello Stato o alla salvaguardia di vite umane. 7. In ogni caso l’inferiore deve informare, appena possibile, il superiore per il cui tramite avrebbe dovuto corrispondere in via normale. 8. Ogni militare può conferire direttamente con l’autorità incaricata di una ispezione, sempre che ciò sia consentito mediante apposita comunicazione nell’ordine del giorno del corpo ispezionato». Con riferimento al primo motivo di censura, non vi è dubbio che l’istanza presentata al Ministro e al Comandante generale (…) riguardava circostanze relative a fatti di servizio risalenti agli anni 1982- 1983. Nel caso di specie, dunque, doveva essere osservato il citato art. 39 e l’obbligo di trasmettere l’istanza, tramite il comandante di corpo o altra autorità superiore, non si configura come lesivo di alcun diritto spettante al ricorrente. Ed invero l’art. 39, comma 5, d.P.R. cit. nel prescrivere quelle modalità di invio non limita la possibilità per i militari di inoltrare istanze ma semplicemente indica, in ragione dello specifico status dei militari, una particolare procedura da seguire nell’invio di domande che riguardano questioni personali di particolare gravità e delicatezza attinenti al rapporto di impiego o di servizio (procedura, peraltro, non in contrasto con la legge 7 agosto 1990 n. 241, non risultando compresse la possibilità di chiedere l’avvio di un procedimento, la fase di carattere istruttorio né, infine, le garanzie partecipative ). Con riferimento al secondo motivo di censura, l’onere procedurale imposto dall’art. 39 appare, come già precisato, del tutto coerente con il particolare status rivestito dal ricorrente e non in contrasto con i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini e agli appartenenti alle forze armate. Dal ricorso, inoltre, non sono emersi elementi dai quali potere desumere uno sviamento del provvedimento rispetto al fine previsto dalla legge. La circostanza (richiamata anche nel primo motivo di censura) che il ricorrente, in passato, aveva inviato degli scritti direttamente al Ministro, senza inoltrarli per via gerarchica, non esclude la rilevanza disciplinare dei comportamenti contestati con l’atto impugnato e non determina l’illegittimità della sanzione irrogata. Se si ragionasse diversamente all’Amministrazione sarebbe sempre preclusa la contestazione di addebiti di tipo disciplinare qualora in altre occasioni, per le più diverse ragioni, non abbia proceduto a rilevarle nei confronti dello stesso, o di altro, dipendente. Con riferimento al terzo motivo di ricorso, va rilevato che la sanzione è stata applicata dopo aver contestato determinate e specifiche infrazioni. Il provvedimento impugnato, infatti, indica gli addebiti comunicati al ricorrente, esamina i fatti emersi durante l’istruttoria (considerando analiticamente le giustificazioni fornite), ricorda la norma violata (art. 39) e manifesta le ragioni per cui ritiene congrua la sanzione del “rimprovero” («alla luce dell’anzianità di servizio e del grado rivestito al momento dei fatti, nonché dei precedenti disciplinari e di servizio del medesimo …»). L’indicazione completa dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche poste alla base della decisione amministrativa, dunque, escludono l’esistenza di elementi dai quali potere desumere il difetto di motivazione e lo sviamento di potere del provvedimento rispetto al fine previsto dalla legge. Relativamente al quarto motivo di ricorso, va rilevato che gli artt. 14 e 15 d.P.R. 545/1986 riguardano rispettivamente il senso di responsabilità e la formazione militare. Gli artt. 14 e 15 l. 11 luglio 1978 n. 382 si riferiscono, invece, alle sanzioni disciplinari di corpo (richiamo, rimprovero, consegna e consegna di rigore), all’Autorità che le può irrogare e alle modalità procedurali da seguire. Nel caso di specie, l’adozione del provvedimento da parte del Comandante interinale (…) non configura alcuna violazione delle norme sulla competenza. Il riferimento all’art. 14, comma 6, non appare conducente perché la norma individua l’autorità che può irrogare le sanzioni della consegna e della consegna di rigore, ma non si riferisce alla sanzione specificamente applicata all’odierno ricorrente (“rimprovero”). L’art. 15, comma 3, poi, disciplina l’adozione, in caso di necessità e urgenza, di provvedimenti provvisori a titolo precauzionale e non può trovare applicazione nella fattispecie sottoposta all’attenzione del Collegio. Anche il quinto motivo di ricorso e la dedotta eccezione di illegittimità costituzionale, devono essere respinti. Giova ricordare, infatti, che l’appartenenza ad un corpo militare, anche in altri settori, giustifica un trattamento diversificato rispetto ai comuni cittadini. Così, ad esempio, l’art. 98, comma 2, Cost. prevede la possibilità per la legge di stabilire “limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero” in considerazione della delicatezza delle funzioni svolte al servizio della Nazione. La questione di legittimità costituzionale è, dunque, manifestamente infondata perché non si rilevano né la violazione dell’art. 52, comma 3, Cost. né la violazione degli artt. 3, 24, 25, 76, 97, 103 e 113 Cost. Sotto il primo profilo basti considerare che al ricorrente non è stato impedito di esercitare diritti di alcun genere ma che gli è stato richiesto, in ragione del suo particolare status, di rispettare determinati oneri procedurali, peraltro non particolarmente complessi e non limitativi della sua sfera giuridica. Sotto il secondo profilo non si evidenziano ragioni per ritenere violato il diritto del ricorrente di agire in giudizio o per ritenere eluso il principio del giudice naturale precostituito per legge. La disposizione applicata, infatti, non esclude che possa essere proposto ricorso giurisdizionale né deroga alle normali regole sulla competenza del giudice; non emergono, infine, elementi per sospettare un eccesso di delega nell’emanazione del regolamento in questione. In conclusione il ricorso va rigettato per le ragioni indicate nella motivazione; sussistono, nondimeno, giuste ragioni per compensare integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio”.


Disciplina militare - Procedimento disciplinare - Contestazione degli addebiti - Precisi riferimenti ad un’azione o ad un’omissione - Idoneità.

Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 28 dicembre 2005 (c.c. 12 luglio 2005), n. 7460, Pres. Salvatore, Est. Leoni.

La contestazione di addebiti, in sede di procedimento disciplinare militare, è idonea alla finalità per la quale è preordinata (cioè, permettere all’interessato di addurre ogni possibile elemento di discolpa), quando, mediante precisi riferimenti ad un’azione od omissione e con espressa dichiarazione che la stessa è effettuata a titolo disciplinare, consenta all’interessato l’esatta individuazione del fatto addebitatogli. Inoltre, è da riconoscere legittima la contestazione che faccia solo riferimento alla obiettività dei fatti punibili senza alcuna qualificazione del nomen juris, essendo solo necessario e sufficiente individuare ed indicare i fatti medesimi e manifestare in maniera non equivoca la volontà dell’amministrazione di far derivare da essi un’eventuale responsabilità disciplinare del dipendente. (1)

(1) Si legge quanto appresso in sentenza: “Diritto 1. L’appello, diretto avverso la sentenza che ha respinto il ricorso proposto contro il provvedimento con il quale veniva rigettato il ricorso gerarchico proposto dal maresciallo (…) avverso la sanzione disciplinare del rimprovero è infondato e va respinto. 2. Invero, considerato che la prima censura, tendente a dimostrare l’assenza, nella fattispecie, di una formale contestazione di addebiti e la conseguente violazione del diritto di difesa dell’inquisito, come pure l’assenza di comunicazione di avvio del procedimento, va ritenuta infondata in quanto costituisce consolidato orientamento giurisprudenziale quello secondo cui la contestazione di addebiti, in sede di procedimento disciplinare, è idonea alla finalità per la quale è preordinata quando, mediante precisi riferimenti ad un’azione od omissione e con espressa dichiarazione che è effettuata a titolo disciplinare, consenta all’interessato l’esatta individuazione del fatto addebitatogli, al fine di consentirgli ogni possibile discolpa; in quanto nessuna norma prescrive di precisare, nell’atto di contestazione di addebiti, le responsabilità che dai fatti possono risultare a carico dell’inquisito, essendo solo necessario e sufficiente individuare ed indicare i fatti medesimi e manifestare in maniera in equivoca la volontà dell’amministrazione di far derivare da essi un’eventuale responsabilità disciplinare del dipendente, per cui è da riconoscere legittima la contestazione che faccia solo riferimento alla obiettività dei fatti punibili senza alcuna qualificazione del nomen juris (cfr. in termini, Cons. Stato, VI sez., n. 82/93); in quanto detti elementi appaiono tutti sussistenti nella nota del Comando (…) del 18 agosto 2000, recante n. prot. 222/1 SP, avente ad oggetto “Richiesta di chiarimenti”; in quanto la contestazione di addebiti è da ritenere equivalente alla comunicazione dell’avvio del procedimento e, come tale, in linea con la previsione di cui all’art. 8 della L. n. 241 del 1990; considerato che la seconda censura, riguardante una pretesa mancata valutazione dei chiarimenti forniti dall’incolpato, in considerazione dell’esiguità dell’intervallo temporale fra la contestazione di addebiti, l’acquisizione delle relative giustificazioni e l’irrogazione della sanzione, appare destituita di fondamento, sia perché l’art. 59 del Regolamento di disciplina militare prevede, quanto alla sanzioni disciplinari di corpo ed, in particolare, del rimprovero, una procedura rapida e semplificata, che deve svolgersi oralmente attraverso la sollecita contestazione degli addebiti e l’acquisizione delle giustificazioni, per giungere in breve tempo all’adozione della decisione e della relativa comunicazione; sia perché nel provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare del rimprovero sono ben evidenziate le giustificazioni offerte dal sottufficiale e le ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a disattenderle; sia, infine, perché dette motivazioni sono rifluite nel provvedimento, qui, impugnato, di reiezione del ricorso gerarchico; considerato, da ultimo, che anche la terza censura, con cui si denuncia lo sviamento di potere in quanto la sanzione del rimprovero sarebbe stata adottata al solo scopo di giustificare il trasferimento del ricorrente, tenuto conto che una precedente proposta in tal senso era stata respinta, non sussistendone i presupposti, non appare meritevole di accoglimento, in quanto, come correttamente rilevato dal primo giudice, la proposta di trasferimento cui il ricorrente ha fatto riferimento risaliva a due anni prima dell’adozione del provvedimento impugnato e che successivamente a tale proposta, nonostante i periodi di convalescenza per “sindrome ansiosodepressiva” il Comando si era attivato per consentire al ricorrente di continuare a prestare servizio presso il (reparto di appartenenza), cercando di comprenderne le motivazioni e di trovare riferimento al comportamento del (ricorrente) in precedenti rapporti familiari e personali (cfr. la nota del 28/10/00, in atti); ritenuto, pertanto, che il ricorso in appello vada respinto, siccome infondato, con conseguente conferma della sentenza impugnata, ma che sussistano giusti motivi per compensare tra le parti le spese del presente grado di giudizio”.

Sentenze tratte dal sito www.giustizia-amministrativa.it (massime a cura della Redazione)