La comunicazione del rischio nell'attuale scenario internazionale

Roberto Riccardi(*) - Danilo Panico(**) - Barbara Vitale(***)

1. Introduzione

“La paura è il nostro nuovo habitat. Le attività più banali e ordinarie sono diventate avventure ad alto rischio. Ognuna sembra trovare la sua nemesi e una data o una località simbolo. Si faceva l’amore, è arrivato l’Aids. Si mangiavano bistecche sin quando la mucca pazza le ha tolte dal menù. Si andava in discoteca in allegria prima di Tel Aviv e Bali. Si prendeva la metropolitana senza pensare, poi è arrivato il gas sarin di Tokyo, i treni di Madrid, in ultimo Londra. Partire in vacanza era un premio, al netto di Sharm el Sheikh”. (Riccardo Staglianò) È nota a molti la leggendaria tortura inflitta a Damocle costretto a sedere, nel corso di una cena, sotto una spada appesa ad un crine di cavallo. Esistono molti modi per ferire e forse una lama può provocare danni abbastanza gravi anche senza colpire, ossia restando immobile, sospesa a mezz’aria. Sembra essere questa la condizione dell’uomo contemporaneo, in un tempo in cui l’allarme sociale per eventuali attacchi terroristici è particolarmente elevato.
 
I fatti accaduti, dei quali si svolgerà di seguito una breve disamina, hanno determinato un forte stato di allerta, che produce una continua tensione emotiva nelle persone che vivono nei Paesi colpiti e in quelli a rischio. Come diversi commentatori hanno osservato, il “punto di non ritorno” della spirale è rappresentato dagli attentati di New York e Washington del 2001. Con le Torri Gemelle, è crollata anche l’illusione di vivere in un mondo contraddistinto da un certo grado di sicurezza. Secondo il filosofo Galimberti (1999), con le loro gesta i terroristi hanno indotto “la paralisi dell’angoscia che svela la vulnerabilità della nostra tecnologia, arresta lo sviluppo della nostra economia, intimorisce il mondo della vita che si fa più prudente, più cauto, più riparato, meno espansivo, più contratto”. L’uso sistematico della violenza e della minaccia genera paura, minando alle basi uno dei bisogni fondamentali delle persone: quello della sicurezza(1). In questa direzione si sono mosse le strategie delle organizzazioni criminali del settore, tese a “…far smarrire le usuali certezze che garantiscono il senso di protezione, di cui ciascuno di noi ha bisogno, anche e soprattutto nelle piccole cose quotidiane” (Berretta, 2003). Un aspetto centrale del problema si lega all’impatto degli atti terroristici sulla popolazione conseguente all’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, che svolgono oggi un ruolo cruciale. Anche su questo vanno fatte delle considerazioni.

Con l’11 settembre i terroristi “…hanno dimostrato piena padronanza nell’uso dei media e della psicologia della comunicazione. La sfida è stata rivolta contro i simboli più pregnanti della ricchezza e del potere americano, quelli più conosciuti ai cittadini americani e al mondo intero” (Berretta, 2003). La domanda da porsi è dunque la seguente: date le premesse, quali contenuti e modalità risultano più idonei nella comunicazione del rischio, al fine di ridurre la paura collettiva? L’obiettivo di questo scritto è di formulare delle ipotesi di risposta. Rispetto al problema posto, abbiamo cercato di tracciare delle linee, dettate dallo studio delle scienze umane e sociali che compongono la dottrina in materia, ma con il necessario supporto dell’analisi esperienziale e della lettura critica degli avvenimenti. Abbiamo ritenuto che l’argomento fosse di diretto interesse per l’Arma dei Carabinieri per il collegamento immediato con il tema della sicurezza pubblica e per il fatto che, a fronte dell’esigenza di un intervento preventivo- repressivo, non meno pressante appare essere la necessità di informare e rassicurare l’opinione pubblica. Anche in tema di comunicazione, pensiamo sia particolarmente importante l’aspetto della prevenzione che, in questo campo, si traduce in un processo da intraprendere prima che un’emergenza si verifichi, attraverso una serie di attività che mirino da un lato a rendere la cittadinanza consapevole del rischio esistente e dall’altro a informarla sulle misure adottate a tutela, con l’obiettivo di ridurre il senso di incertezza che sempre si accompagna al difetto di conoscenza e di stabilire un clima di collaborazione e di fiducia. Il contributo di pensiero che abbiamo provato a fornire si è avvalso anche del confronto con modelli diversi. Segnatamente con quello britannico, che ci è sembrato particolarmente adatto ad illustrare alcuni concetti sui quali intendevamo richiamare l’attenzione.

2. Il terrorismo al tempo di Bin Laden

“Vittoria a tutti i costi, vittoria malgrado qualunque terrore, vittoria per quanto lunga e dura possa essere la strada, perché senza vittoria non c’è sopravvivenza”. (Winston Churchill) a. Cos’è il terrorismo? Allo stato attuale non esiste una nozione di terrorismo unanimemente accolta dagli Stati e dagli esperti, ma sono state formulate numerose definizioni. Per terrorismo si intende “qualunque azione compiuta da persone o gruppi organizzati, con violenza (...) o senza violenza (…), contro persone o cose, al fine di provocare una situazione permanente di terrore tra la popolazione civile, con l’obiettivo di destabilizzare il potere o di abbattere il potere democraticamente costituito, o di costringere le Istituzioni a scendere a patti e a fare determinate concessioni…” (Imposimato, 2002). Un’azione di violenza viene etichettata come terrorista “…quando i suoi effetti psicologici vanno ben oltre il suo puro risultato materiale…” (Aron, 2003). In ogni forma di terrorismo ricorrono i seguenti “schemi psicologici e sociologici: - la presenza di una guida, sia essa un partito, una religione o un capo carismatico; - il bisogno di martiri o di eroi; - la necessità di una organizzazione basata sulla fede assoluta e sulla più rigida disciplina; - un nemico da odiare e da distruggere; - la lotta continua, senza quartiere, senza riserve e senza esclusioni di colpi” (Berretta, 2003).

La dottrina prevalente concorda sull’esistenza di tre elementi che qualificano un’attività terroristica: il ricorso alla violenza, un movente politico e la clandestinità. Se fino a metà degli anni ottanta il movente era politico in senso stretto, da allora sono aumentate le matrici collegate: da quella religiosa a quella sociale, presente ad esempio nei gruppi che si richiamano al rispetto dei diritti umani o alle ideologie ambientaliste, animaliste e no global. Un altro fattore connesso è la presenza di una sottocultura radicale, che spinge a sovvertire l’ordine costituito con la forza. Questa spinta interviene sia che il gruppo agisca in un Paese dominato da un regime, sia che operi in uno Stato di diritto, nel quale le regole possono essere modificate con strumenti non violenti. La Costituzione italiana, all’art. 49, afferma che tutti i cittadini possono associarsi in partiti, per “…concorrere con metodo democratico…” a determinare la politica nazionale. È evidente che l’esistenza di un principio simile in un ordinamento rende difficile sostenere la tesi di una qualunque forma di legittimità del terrorismo. Il filosofo austriaco Karl Popper nel XX secolo ha teorizzato un modello di “società aperta”, che ponga al centro la discussione critica, permettendo a tutti di partecipare alle decisioni che riguardano la collettività.

Un sistema che renda possibile ai governati di sostituire i governanti qualora il loro operato sia giudicato insoddisfacente. Egli ha scritto che “in ogni rivoluzionario c’è un totalitario pronto a sacrificare i diritti della generazione presente in nome di mondi futuri che non verranno mai”. Il terrorismo è anche questo: voler cambiare il sistema senza confrontarsi su un piano dialettico. Agendo con il sopruso e la violenza. b. Le matrici religiose La cronaca pone grande enfasi sulla matrice islamica ritenuta alla base di molti degli atti terroristici più virulenti degli ultimi anni. Vi è del vero, ma è giusto dire che anche altre matrici religiose influenzano gruppi che seminano morte e distruzione nel mondo. Ad esempio, negli USA è attivo il movimento di ispirazione protestante “Christian Identity” che ha realizzato numerosi attentati, prevalentemente contro medici abortisti, a partire dal 1973(2). Il gruppo terroristico IRA (Irish Republican Army), che di recente ha deposto le armi, unisce alla rivendicazione territoriale sull’Irlanda del Nord sia la componente etnica sia quella religiosa, contrapponendo all’identità inglese anglicana quella irlandese cattolica. L’integralismo ebraico è fra le causali dell’assassinio del premier israeliano Ytzak Rabin, reo di aver sostenuto il processo di pace con i palestinesi. Erano appartenenti alla setta religiosa dei Sikh i sicari che uccisero il premier indiano Indira Gandhi. E l’elenco potrebbe continuare. Indubbiamente i gruppi che si richiamano al fondamentalismo islamico e alla peggiore interpretazione del concetto di jihad (guerra santa), specie dopo l’11 settembre, risultano essere i più pericolosi: in grado cioè di minacciare la pace e la sicurezza dell’intero pianeta. Contrariamente a quanto si creda, questa forma di terrorismo non è recente. Ha al contrario radici molto remote. I due movimenti più antichi sono quello dei Fratelli Musulmani, fondato nel 1928 in Egitto, che ha come obiettivo l’islamizzazione della società(3), e la Jamad islamica, costituita nell’India britannica, sostenitrice nel 1947 della scissione del Pakistan(4), in quanto Stato musulmano. Altre tappe significative di questa storia sono la disfatta militare dei Paesi arabi in Israele nel 1967, con la conseguente occupazione del Sinai e della Cisgiordania, e la riscossa fondamentalista della rivoluzione iraniana degli ayatollah, nel 1979, che si risolve in una sconfitta strategica per gli USA, di cui lo Scià deposto era un fedele alleato. Un altro spartiacque fondamentale è il 1992.

I mujaheddin afgani riescono a liberare Kabul dall’invasione dell’Armata rossa, grazie all’aiuto di volontari accorsi da ogni parte dell’Islam. In Algeria i membri del F.I.S. (Fronte Islamico di Salvezza), Partito legato a frange estremiste, vengono espulsi dopo aver vinto le elezioni e si riversano in tutto il mondo arabo, seminando il contagio del terrore. In Bosnia cristiani e musulmani si trovano su fronti contrapposti. Dopo tutti questi eventi, si ha una forte recrudescenza del fenomeno terroristico. Al Qaeda, che ha consolidato la propria organizzazione, realizza attacchi in ogni parte del mondo. Nel 1993 tenta per la prima volta di distruggere le Torri Gemelle, nel 1998 colpisce le ambasciate USA in Kenya e Tanzania, nel 2000 lancia un siluro contro lo scafo di un’unità navale americana in sosta al largo del porto di Aden, nello Yemen. E arriva l’11 settembre. Gli Stati Uniti reagiscono attaccando prima l’Afghanistan, poi l’Iraq. Si formano delle coalizioni internazionali, composte in prevalenza da Stati cristiani e occidentali. Il confronto si radicalizza. Con l’escalation del conflitto, tutto l’Occidente viene colpito in modo forte dal terrorismo. Madrid e Londra sono oggetto di gravissimi attentati, in un crescendo che mina alla base il senso di sicurezza di tutti i cittadini.

3. L’esperienza italiana

“Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare”. (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 18) L’Italia aveva già conosciuto il terrore. La più alta espressione si ha nei cosiddetti anni di piombo (’70-’80), con il dilagare dell’eversione interna di matrice politica, proveniente dalla sinistra e dalla destra extraparlamentari. Nel primo ambito, ha un ruolo predominante l’organizzazione delle Brigate Rosse (B.R.), che si ispira anche nel nome alle Brigate partigiane attive nella Resistenza. Il gruppo tocca il punto più alto nel 1978, con la strage di via Fani, il sequestro e il successivo omicidio del leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro. In seno alla destra, i Nuclei Armati Rivoluzionari (N.A.R.) si macchiano nel 1980 della strage di Bologna, che porta alla morte di 85 persone. L’emergenza è da tempo rientrata, grazie anche all’azione delle Forze dell’Ordine. Episodi più recenti, quali gli omicidi di Massimo D’Antona (Roma, maggio 1999) e di Marco Biagi (Bologna, marzo 2002), si presentano come casi isolati. Il gruppo responsabile, che ha rivendicato una continuità con l’organizzazione delle B.R., è stato smantellato. Da allora, pur essendo doveroso mantenere desta l’attenzione, non si sono più registrati segnali di pericolo. Un discorso opposto deve farsi quanto all’onda del terrorismo internazionale. In questo ambito i precedenti sono in prevalenza riconducibili alla questione israelo-palestinese.

Fra gli episodi più importanti, ricordiamo nel 1982 l’attacco alla scuola del ghetto di Roma, nel quale muore lo studente ebreo Stefano Tascè. Tre anni, dopo la strage dell’aeroporto di Fiumicino e il sequestro della Achille Lauro al largo delle coste egiziane. Nel 1988 a Napoli lo scoppio di un’autobomba, che provoca 5 morti. Ma l’escalation avviene dopo il crollo delle Torri Gemelle e la guerra in Iraq. A partire dalla strage di Nassirya, del 12 novembre 2003, nella quale muoiono 12 carabinieri, 5 militari dell’Esercito e 2 civili. Nella campagna dei sequestri, in Iraq e in un caso in Afghanistan, perdono la vita altri 5 connazionali. Due episodi di attentati suicidi, nel 2003 a Modena e nel 2004 a Brescia, si concludono con la morte dei soli kamikaze. Altre 2 perdite si contano nella strage di Taba in Egitto, nell’ottobre 2004, a cui si sommano nel luglio di quest’anno una vittima a Londra e 6 a Sharm el Sheikh. L’analisi degli avvenimenti storici recenti, le acquisizioni dell’intelligence nazionale e alleata, il ruolo giocato dall’Italia nello scacchiere internazionale, i messaggi di rivendicazione degli attentati lanciati dai terroristi… tutto indica che il nostro Paese è nel mirino e che potrebbe essere obiettivo di atti terroristici. Il che rende attuale e scottante la problematica trattata.

4. Definizione e teorie del rischio

“Vivere, è rischiare di morire... Sperare, è rischiare di disperare... Tentare, è rischiare di fallire... Il più grande pericolo nella vita è quello di non rischiare”. (Rudyard Kipling) Per quanto abbiamo finora detto, molta gente oggi sente di vivere in una situazione di pericolo. Ma di cosa si parla, esattamente, quando ci si riferisce ad un rischio? Etimologicamente la parola deriva da “risicare”, cioè doppiare un promontorio, e implica il binomio rischio-azione. Il termine compare in Francia nel XVI secolo con il significato di caso che può comportare una perdita. Alla fine del XVIII secolo, con la nascita delle assicurazioni e delle lotterie, inizia a configurarsi l’accezione attuale di rischio, come di qualcosa legato ad un evento negativo: malattia, perdita al gioco, etc. Un noto vocabolario della lingua italiana lo definisce come “la possibilità di conseguenze dannose o negative a seguito di circostanze non sempre prevedibili” (Zingarelli). Ancora, sul sito Internet di un famoso dizionario britannico (www.webster.com), esso è indicato come: a) qualcuno o qualcosa che crea o provoca un azzardo; b)la probabilità di perdite o di incorrere in qualche forma di pericolo previsti in un contratto assicurativo; c) il grado di probabilità di tale perdita; d)la condizione di non essere protetti da perdite o danni eventuali (per es., i bambini che vivono in povertà sono considerati a rischio riguardo all’insorgenza di problemi medici ed evolutivi in generale). Nello specifico, si distingue tra rischio individuale e collettivo. Il primo si ricollega all’ambito della Psicologia Sociale e della Teoria della Decisione, il secondo è riconducibile all’alveo di discipline come l’Epidemiologia, la Medicina Legale e la Psicologia dell’Emergenza.

Nella prima accezione, il rischio si riferisce all’aspetto negativo della possibilità. Secondo il Galimberti (1999), ogni possibilità implica il poter essere e il poter non essere, e in ogni scelta gioca un ruolo decisivo la valutazione individuale delle circostanze. Essa è influenzata da fattori quali la forza della motivazione, gli argomenti persuasivi, la capacità di corrette comparazioni e il tasso di responsabilità che ciascuno si sente di assumere. Secondo la Teoria della Decisione (Blascovich e Ginsburg, 1978), ci si espone a un rischio quando si scommette su qualcosa; ovvero, ogni volta che si va incontro a possibili esiti positivi o negativi, si riconosce che qualcosa è in gioco o si intraprende un’azione che rende la scommessa irreversibile, con la consapevolezza che un esito comunque ci sarà (Blascovich e Ginsburg, 1978). L’Epidemiologia(5) studia i fattori di rischio potenzialmente responsabili dell’insorgenza e della diffusione di una determinata patologia. In questo ambito, essi sono considerati come condizioni associabili ad una malattia, ma non necessariamente ne sono la causa. Per esempio la bronchite cronica, pur risultando spesso associata al tumore del polmone, non è considerata come fattore di rischio nello sviluppo del tumore stesso (Signorelli, 1995). Questo induce a riflettere sul distinguo, non sempre chiaro nel ragionamento comune, tra relazione causaeffetto e semplice associazione di eventi legati da un nesso temporale. Nel settore della Medicina Legale, il rischio relativo ad infortuni sul lavoro e malattie professionali viene definito come il grado di probabilità del verificarsi di un evento dannoso, incerto sul se, sul come, sul quando e sul chi. Nel campo della sicurezza, l’O.L.A.F. (Office de Lutte Anti Fraude)(6) esamina le statistiche dei sequestri di sostanze stupefacenti effettuati e individua gli elementi ricorrenti nei vari casi quali fattori che rendono a rischio, ad esempio, la rotta di una nave da trasporto merci. In presenza di questi fattori, scattano le opportune segnalazioni e i controlli delle Autorità doganali e di polizia dei Paesi interessati. Il Codice Penale e il Codice della Strada prevedono una serie di condotte considerate rischiose di per sé: ci riferiamo, rispettivamente, ai cosiddetti reati di pericolo e ai casi di guida pericolosa. La cosa interessante è che tali condotte possono essere perseguite a prescindere dal verificarsi di un evento dannoso. Quanto alle dimensioni, il rischio varia in funzione di diversi parametri - tipo di evento, gravità degli effetti, percentuale della popolazione esposta - e può essere quindi più o meno elevato.
 
È importante, ma non facile, decidere qual è il livello che può essere considerato accettabile. La Psicologia dell’Emergenza classifica il rischio di una catastrofe(7), naturale o indotta dall’uomo, secondo 5 livelli di gravità (da 1 insignificante a 5 catastrofico), riferiti a quattro categorie di impatto, correlate con il tipo di conseguenze: sanitario, sociale (danni alle proprietà, perdita della casa, evacuazione e disordine pubblico), economico e ambientale. Nel recente caso del passaggio dell’uragano Katrina sulla costa sud degli Stati Uniti, alla catastrofe naturale è stato attribuito il livello di impatto 5, il che ha indotto le Autorità competenti ad ordinare l’evacuazione dell’area interessata. Le conseguenze dell’evento sono state comunque disastrose: migliaia di morti, almeno 10.000, intere città cancellate dalla mappa geografica e oltre un milione di persone senza più una casa e un lavoro. Storicamente gli orientamenti principali di studio del rischio (Ingrosso, 2001) prendono spunto da un atteggiamento, cosiddetto “ingenuo”, in auge negli anni ’50 e ’60, adottato per spiegare alla popolazione i pericoli connessi con l’utilizzo di nuove tecnologie che ponevano problemi di sicurezza. Secondo questo modello, la valutazione, effettuata da esperti in modo razionale sulla base di sofisticate procedure probabilistiche (la risk analysis), doveva essere comunicata alla popolazione con scopi educativi, evitando sensazionalismo mediatico e interferenze emotive. Questa prospettiva, “illuminista” e asettica, è stata successivamente integrata da un approccio economicista, basato sull’analisi costi/benefici, che ha concentrato l’attenzione sul processo di decisione, in rapporto alla valutazione che la probabilità di un evento dannoso sia sopportabile: “una qualsiasi cosa è sicura se i rischi che essa comporta sono giudicati come accettabili” (Lowrance, 1976). In questi termini l’analisi dei benefici attesi, raffrontata al costo degli interventi di sicurezza necessari, porta il pubblico a dare il proprio consenso più facilmente se può partecipare al godimento dei vantaggi (Ingrosso, 2001). Spesso però le persone esposte non sono le stesse che traggono beneficio dall’introduzione di una tecnologia a rischio. Nel caso di un impianto di smaltimento di rifiuti per la produzione di energia vicino ad un centro abitato, ad esempio, chi abita nei pressi dello stabilimento sopravvaluterà il pericolo di inquinamento rispetto all’opportunità di avere energia ad un costo più accessibile. Diversamente sarà per gli abitanti dei paesi vicini, che beneficeranno degli stessi vantaggi con un’esposizione minore al rischio.

5. Percezione e valutazione del rischio

“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro?”. (Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore) Di solito l’uomo comune non quantifica il rischio e adotta una scala di valutazione secondo la propria percezione, comportandosi di conseguenza. La deformazione psicologica della probabilità porta a sopravvalutare il rischio, come accade negli eventi che riguardano la salute umana. È il caso delle misure adottate per contenere la sindrome di Creutzfeldt-Jacob in relazione al consumo di carni bovine potenzialmente contaminate dalla BSE, quando allevamenti interi vennero destinati a macellazione. La valutazione del rischio fa parte di un processo decisionale in cui il criterio della massima utilità attesa(8) è solo uno degli aspetti che la gente prende in considerazione. Un modello più realistico, la teoria della prospettiva, considera anche le differenze individuali nel raccogliere e interpretare le informazioni sul rischio. Inoltre l’appartenenza ad un gruppo influisce sull’assunzione del rischio, nel senso che spesso i gruppi prendono delle decisioni più coraggiose di quanto farebbero i singoli membri. Ciò accade perché all’interno di un gruppo la responsabilità è ripartita e vi è la possibilità di confrontarsi con altri punti di vista. Tuttavia ci possono essere casi in cui le differenze di valutazione dividono una comunità sottoposta ad un identico rischio. Un esempio significativo è quello della cittadina statunitense Love Canal, edificata sopra un deposito di scorie chimiche altamente tossiche (Fowlkness e Miller, 1987). Di fronte alla prospettiva di un immediato trasferimento di residenza, gli anziani si mostrarono contrari, mentre le giovani coppie si dissero disposte a spostarsi, perché fortemente preoccupate dal possibile disastro ambientale (M. Ingrosso, 2001). È evidente che in un caso simile entrano in gioco le situazioni soggettive delle persone chiamate a una decisione.

Per gli anziani, in particolare, il rischio di un evento dannoso in un futuro non definibile era un problema relativo, in rapporto alla immediata necessità di trasferirsi e sconvolgere così la propria esistenza. Per i giovani, che avevano una diversa aspettativa di vita, il discorso era opposto. Vi sono poi differenze di percezione del rischio fra esperti e profani. Mentre gli addetti ai lavori usano frequenze statistiche come “uno su un milione” per riferirsi alla probabilità di esposizione, l’uomo della strada tende a identificare quella singola persona con se stesso o con un proprio familiare, personalizzando il rischio. Ricerche di psicologia della percezione hanno riscontrato una frequente sensazione di “immunità soggettiva”(9) da parte di coloro che hanno familiarità con una determinata situazione, ad esempio i tecnici di un impianto, o che ritengono di poter mantenere il controllo, come gli automobilisti che si sentono particolarmente abili nella guida (Ingrosso, 2001). Alla luce di ciò il “controllo percepito” appare strettamente correlato con la valutazione soggettiva del rischio e ai suoi rapporti con la variabile sicurezza (safety). Nella valutazione collettiva, hanno un ruolo anche i valori e le credenze condivise, che variano secondo il contesto storico e sociale. Per esempio, in una società industrializzata l’orientamento egemone impone l’assunzione del rischio quasi come una virtù civica, con scarsa attenzione ai possibili danni. Al contrario, sicurezza e previdenza diventano esigenze diffuse in altre epoche e per le classi meno abbienti, come i lavoratori dipendenti, stimolando la nascita di istituzioni pubbliche (Istituti di Previdenza) e di imprese private (Assicurazioni) orientate al controllo e alla minimizzazione dei rischi.

In questo caso le istituzioni divengono “… gli strumenti di cui gli individui dispongono per semplificare i problemi” (Douglas e Wildavsky, 1982). Quando vi sono divergenze di vedute tra esperti e opinione pubblica, “…sono proprio le istituzioni e le organizzazioni che, attraverso scelte politicoculturali, soprattutto mediante la gestione degli apparati di sicurezza, possono comporre questo conflitto attraverso un adeguato processo di espressione-negoziazione- consenso-decisione” (Ingrosso, 2001). Per sottolineare il ruolo dei fattori esperienziali, storici e socio-culturali nella percezione collettiva, si parla di “costruzione sociale del rischio”. Per esempio, il terremoto è un pericolo universalmente percepito; tuttavia i giapponesi, che abitano in una zona altamente sismica, non si spaventano più di tanto in caso di scosse telluriche e anzi continuano le loro attività, perché sono abituati ad avere sotto i piedi un territorio instabile. In Italia la recente scossa di terremoto (del 22 agosto 2005 scorso) con epicentro ad Anzio, anche se non ha prodotto danni di entità rilevante, ha spaventato molte persone, che hanno lasciato le loro abitazioni riversandosi per strada. Alcune ricerche inglesi hanno individuato i fattori (fright factors) che, destando un maggiore allarme sociale, rendono il rischio meno accettabile agli occhi del pubblico: - l’esposizione involontaria (l’inquinamento ambientale) piuttosto che volontaria (fare sport pericolosi o fumare); - l’ineguale distribuzione degli effetti dannosi e di eventuali benefici secondari; - l’inutilità del ricorso a personali precauzioni; - la provenienza sconosciuta o percepita come estranea (gli organismi geneticamente modificati - ogm); - il risultato di eventi causati dall’uomo (uso di pesticidi) rispetto ad una causa naturale (scossa sismica); - la durata a lungo termine di conseguenze gravi e irreversibili, come nel caso di insorgenza di patologie a distanza di anni dall’esposizione diretta (radiazioni ionizzanti); - l’essere fonte di conseguenze dannose per i bambini o per le donne in gravidanza, che colpisce l’incolumità delle generazioni future; - la minaccia di morte o di gravi patologie; - la mediocre conoscenza scientifica dell’evento; - la presenza di dichiarazioni contraddittorie provenienti da fonti ufficiali. Un altro aspetto centrale, rispetto alle differenti percezioni, è la soggettività della visione del mondo.

Le Scienze Sociali hanno tentato di definire e classificare i diversi atteggiamenti. In particolare, il modello della Cultural Theory (Douglas et al., 1980), che ha trovato parecchi consensi, individua quattro modalità di percezione del mondo esterno e quindi di interpretazione del rischio: - fatalisti: tendono a vedere la vita come un fluire capriccioso di circostanze in cui ogni tentativo di controllo risulta inutile. Possono non accettare di parlare di rischio, ma accetteranno quello che riserva loro; - individualisti: vedono le iniziative e le scelte personali come dominanti. Tendono a considerare i rischi sotto forma di opportunità, eccetto quelli che minacciano la libertà di scelta e l’attività entro liberi mercati; - gerarchici: pretendono di stabilire profili e procedure per regolare i rischi. Percepiscono la natura come un essere forte che mostra dei limiti; - egualitari: vedono la natura in un costante fragile equilibrio e sono timorosi per i rischi sull’ambiente, la collettività e le future generazioni. Non prendono in giusta considerazione le opinioni degli esperti e chiedono la partecipazione pubblica nelle decisioni di interesse collettivo. Reagiscono con determinazione contro ogni approccio ufficiale del tipo: “Government knows best” (il governo fa il meglio). Le diverse categorie descritte manifestano, di fronte ad analoghe situazioni di rischio, atteggiamenti differenti. In una strategia oculata e attenta alla complessità della situazione reale, bisogna tener conto di queste diverse prospettive, non per riconciliare a tutti i costi visioni contrapposte, ma per raggiungere un terreno comune di consenso e di reciproca fiducia e per incoraggiare il dialogo tra i diversi punti di vista. In sintesi, ogni individuo manifesta una percezione personale del rischio che dipende dall’atteggiamento che nutre nei confronti della realtà (fatalista, individualista, etc.), dal peso attribuito ai fattori analizzati e dalla situazione socio-politico-culturale in cui si trova. Pertanto, per realizzare una comunicazione del rischio efficace è opportuno, per quanto possibile, conoscere il ruolo dei singoli fattori e della loro interazione nel determinare il rifiuto o l’accettazione di un determinato rischio da parte del pubblico a cui ci si rivolge.

6. Gestione e comunicazione del rischio

“La parola è un potente sovrano, perché con un corpo piccolissimo e del tutto invisibile conduce a compimento opere profondamente divine, infatti essa ha la capacità di cancellare la paura, di rimuovere il dolore, di infondere gioia, di intensificare la compassione”. (Gorgia; Encomio di Elena) Alla luce della molteplicità dei fattori illustrati che intervengono nei processi di percezione e valutazione del rischio, si comprende come la strategia comunicativa non possa fondarsi sull’ambizione di informare il pubblico o convincerlo della bontà delle scelte compiute, ma debba far emergere il “non-detto” e le divergenze di posizione dei gruppi d’opinione e delle parti sociali in causa, considerando le aspettative e i bisogni collettivi. Secondo gli psicologi Osgood e Tannenbaum, chi comunica dovrebbe conoscere in anticipo la tesi che l’uditorio è disposto a condividere. Questa dovrebbe essere la base di partenza per l’individuazione di un messaggio adeguato. Ma vediamo quali sono gli orientamenti prevalenti nella materia. Nel corso del tempo si è venuta accreditando sempre più l’idea di una comunicazione del rischio intesa come trasferimento di informazioni finalizzato a rispondere alle concezioni e ai bisogni del pubblico relativamente ai rischi reali o percepiti (Dipartimento della Protezione Civile, 1995). La letteratura specialistica (Ingrosso, 2001) ha individuato le seguenti tre strategie principali di gestione del rischio, con altrettante modalità di comunicazione correlate.

La prima, denominata strategia dell’evitamento, è centrata sul comportamento individuale e sulla possibilità di controllo e cautela messi in atto per minimizzare le conseguenze di esposizione al rischio. Il soggetto cambia il suo stile di vita perché fa parte di un gruppo cd. a rischio per particolari caratteristiche individuali o situazionali che condivide con altri soggetti. Per controllare costantemente la situazione, dispone di informazioni aggiornate e di specifiche procedure di valutazione razionale del rischio. Questa strategia potrebbe essere riassunta nello slogan “Se lo conosci … lo eviti” utilizzata nella campagna di prevenzione dell’Aids. La seconda, chiamata strategia della tutela, è orientata alla prevenzione e alla messa in atto di procedure appropriate e trasparenti di controllo delle misure e degli apparati di sicurezza a tutela dei lavoratori e del pubblico. I destinatari vengono informati delle misure attuate e chiamati in causa per l’individuazione e il controllo delle situazioni di rischio e per l’intervento in caso di emergenza. Questa strategia mira alla rassicurazione e al contenimento di eventuali emozioni negative (paura, angoscia, panico), puntando l’accento sulla sicurezza delle procedure di controllo e fidando nell’obiettivo di giungere ad un patto negoziale o a uno scambio tra rischio e benefici. La strategia della corresponsabilizzazione è tipica delle comunità ed è centrata sul comportamento collettivo. In questo caso i soggetti fanno parte di un tessuto sociale condiviso, in cui i singoli si sentono responsabilizzati al mantenimento e alla promozione del benessere collettivo. Si tende ad un incremento di attenzione e prevenzione diffusi, basato su una rete sociale rivolta verso una gestione responsabile del benessere sociale in relazione ai fini e ai valori collettivi. Secondo questo approccio la manifestazione emotiva del pubblico gioca un ruolo essenziale per l’attivazione di forme di attenzione collettiva e partecipazione personale. Anche in caso di aggregazioni di gruppi d’opinione su posizioni contrastanti, si giunge comunque alla condivisione di una base comune. Il confronto dialettico porterà alla formazione di voci fuori dal coro, che potranno essere parzialmente accolte nelle revisioni periodiche della situazione. Secondo Ingrosso (2001): “… di fronte a una variazione quantitativo-qualitativa dell’esposizione al rischio o alla decisione politica di una nuova partenza nella sua gestione è necessario prevedere una fase iniziale di legittimazione in cui far emergere le premesse implicite, il non-detto, talvolta il contrasto, per arrivare infine ad un patto negoziale esplicito o implicito.

È bene inoltre prevedere una forma di controllo della sicurezza che sia in grado di mantenere il consenso, diffondendo nella popolazione una sensazione-convinzione di controllo e corresponsabilizzazione nei confronti della gestione del rischio”. In sintesi, la comunicazione del rischio dovrebbe soddisfare i seguenti obiettivi: Informazione: - sulla natura del rischio e sulle sue potenziali conseguenze; - riguardo all’attendibilità delle fonti di valutazione del rischio; - sull’identificazione di un responsabile nella gestione del rischio; - sulla scelta e sul controllo delle alternative di esposizione al rischio. Assicurazione: - che consigli e decisioni si basano su informazioni sicure e analisi complesse dei dati per ridurre l’incertezza; - che sono poste in essere procedure per la gestione del rischio; - che i responsabili della valutazione e gestione del rischio agiscono con competenza nel pubblico interesse. Coinvolgimento : - come opportunità di essere coinvolti nel processo di valutazione del rischio e nella presa di decisione delle azioni da intraprendere. Alla luce degli elementi emersi, nella programmazione di una strategia della comunicazione del rischio efficace ed efficiente, bisognerebbe tenere in considerazione i seguenti elementi: - la veridicità del messaggio, la credibilità e l’autenticità della fonte e dell’emittente (che individua il destinatario, prepara il messaggio, sceglie i mezzi da utilizzare per veicolare l’informazione e verifica la ricezione del messaggio); - la coerenza del messaggio e la stretta interdipendenza tra l’informazione distribuita in situazione di normalità (preventiva) e quella diffusa durante l’emergenza e nel post-emergenza(10); - la chiarezza, semplicità ed affidabilità dei contenuti, che dovrebbero essere costantemente aggiornati e il più possibile scevri da forme di distorsione del messaggio(11); - l’adattabilità del messaggio alle caratteristiche del ricevente; - le modifiche da apportare in itinere in base all’evoluzione della situazione e alle risposte dei destinatari.

7. Il rischio e la comunicazione istituzionale

“Il mezzo è il messaggio”. (Marshall Mc Luhan) Quanto detto nel paragrafo precedente vale in generale per tutti gli attori della comunicazione del rischio. Vi sono però aspetti peculiari che riguardano direttamente le istituzioni. Cercheremo di esaminare brevemente i più importanti. a. Il quadro normativo L’obbligo di informare l’opinione pubblica e di comunicare con tutti i cittadini, in uno Stato di diritto, rientra fra i doveri più importanti di un’istituzione. Questo essenziale principio è recepito dal nostro ordinamento al livello normativo più alto. L’articolo 97 della Costituzione, infatti, prevede che gli uffici pubblici siano organizzati in modo da assicurare “…il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. A tale prescrizione di ordine generale danno attuazione una serie di provvedimenti, adottati nel tempo dal Legislatore, tesi a rendere l’attività amministrativa sempre più efficace e partecipata. Ne sono esempi la legge 241 del 1990 sulla trasparenza dell’attività amministrativa, il d.l. 29 del 1993 istitutivo degli uffici di relazione con il pubblico e la legge 150 del 2000. Quest’ultima, che prevede per le amministrazioni la facoltà di dotarsi di uffici stampa e di portavoce, ha definito in modo completo ed esplicito le attività di informazione e comunicazione istituzionali(12). Fra le relative finalità, l’art. 1 della legge ha contemplato quella di “promuovere conoscenze allargate e approfondite su temi di rilevante interesse pubblico e sociale”.

L’ambito nel quale ci muoviamo è certamente questo. b. Uno sguardo d’insieme Per diversi ambiti di rischi, gli obblighi di informare e comunicare, per le Autorità preposte alla prevenzione e alla cura dei vari settori, sono codificati da norme precise. È il caso delle Direttive comunitarie “Seveso”(13) (1982, 1996 e 2003), che stabiliscono che gli Stati membri dell’UE devono informare le popolazioni esposte ad un rischio industriale sulla sua esistenza, sulle misure adottate per minimizzarlo e sulla condotta da tenere al verificarsi di un incidente. Viene in mente la bella interpretazione di Julia Roberts, che nel film “Erin Brockovich” conduce una battaglia legale in favore degli abitanti di una zona vicina ad una fabbrica inquinante, ai quali era stato nascosto il pericolo che li riguardava. Il soggetto è ispirato a una storia vera. Nel campo del rischio alimentare, spesso al centro della cronaca come nel caso del già citato morbo BSE, l’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA - European Food Safety Authority) ha elaborato uno specifico progetto, denominato Analisi del Rischio (Risk Analysis), che prevede - in linea con la dottrina generale - i tre processi di valutazione, gestione e comunicazione. Per quanto attiene al rischio sanitario, vi sono norme di indubbio significato, come la legge 428 del 1990 che ha imposto la pubblicità negativa sul tabacco. Ci riferiamo a quelle terribili frasi scritte sulle confezioni di sigarette, del tipo: “Il fumo uccide”, che forse avrebbero costretto a una svolta perfino il signor Cosini che, nel romanzo La coscienza di Zeno di Italo Svevo, lotta inutilmente contro il vizio. Sono note inoltre le campagne informative realizzate nei Paesi europei sul virus HIV o su altri temi inerenti alla salute pubblica. In ambito nazionale, tali campagne ricadono nel più ampio settore dei messaggi di utilità sociale e di pubblico interesse che, in base all’art. 3 della legge 150 del 2000, vengono determinati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri “anche ai fini della loro trasmissione a titolo gratuito da parte della concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo” (RAI).

La determinazione viene effettuata su base annua dal Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria. Un esempio vicino, infine, riguarda il personale che presta servizio nelle missioni di peacekeeping all’estero, in zone nelle quali sono stati utilizzati armamenti inquinanti: il famigerato uranio impoverito, ma non solo. L’Amministrazione militare ha il compito di informare i propri appartenenti al riguardo e di dar corso agli accertamenti sanitari previsti dal noto “protocollo Mandelli”. c. Aspetti peculiari dell’argomento sicurezza Informare e comunicare, prima che un dovere imposto da norme giuridiche, sono anche uno strumento indispensabile, specie in materie non di diretta conoscenza per il cittadino, per colmare il gap esistente fra la realtà e la sua percezione. Un esempio lampante di questo gap, ben noto agli addetti ai lavori, è la diffusa sensazione di insicurezza che si registra anche in tempi nei quali vi è un calo statistico dei reati. Il fenomeno assume particolare rilevanza nell’attuale contesto, nel quale la minaccia terroristica si pone come una variabile difficile da misurare e travalica nell’immaginario collettivo le proprie dimensioni. Nel delicato ambito della sicurezza, è difficile anche dire cose assolutamente vere. Per esempio, è evidente che non si può controllare tutto il territorio nazionale in misura tale da prevenire il rischio di attentati. Ma una verità simile non si può affermare; o meglio, non si può consegnare tout court, senza fare aggiunte, precisazioni, distinzioni. E senza concludere con un messaggio positivo, del tipo: “Si è verificato un fatto grave. In ogni caso, stiamo facendo tutto il possibile per risolvere il problema. Abbiamo attivato dei controlli…”, etc. Anche gli appelli alla popolazione sono uno strumento da maneggiare con cura, affinché non appaiano essere l’ultima carta che lo Stato gioca quando non ha più risorse da mettere in campo. Le procedure da seguire nei casi di emergenza, pur nella difficoltà di prevedere i singoli eventi, possono in qualche misura essere codificate. E si possono pianificare forme di informazione preventiva, che creino nell’ordinario un clima di fiducia diffusa.
 
Certamente nelle attività di informazione, dirette erga omnes, non si possono lanciare messaggi differenziati. Quindi il loro tenore dovrà tendere ad un bilanciamento fra le caratteristiche e le istanze delle varie categorie di destinatari. Ma si potrà scegliere il mezzo di informazione più adatto alla tipologia di soggetti che si vogliono raggiungere. In compenso sarà possibile predisporre dei contenuti personalizzati nelle attività di comunicazione, dirette ad interlocutori ben definiti. d. Alcune regole essenziali Una prima esigenza, specie in materia di informazione, è la tempestività. Per fare alcuni esempi concreti, dopo gli scontri del G-8 di Genova del luglio 2001, a pochi minuti dalla morte di Carlo Giuliani, le foto dell’evento venivano diffuse da siti Internet vicini alle aree della contestazione violenta, che presentavano il fatto come un vero e proprio assassinio di Stato(14). Ancora, immediatamente dopo la strage di Nassirya, una versione proposta da alcuni media sosteneva che un’autobomba fosse esplosa all’interno della base. Far passare la notizia avrebbe comportato una serie di attacchi che potevano estendersi dalle condizioni di sicurezza alla preparazione dei militari destinati alle missioni all’estero, fino all’opportunità di tali missioni, con transito dall’ambito tecnico a quello politico, in una escalation che sarebbe stato poi impossibile controllare. In casi simili è importante che vi siano dichiarazioni e prese di posizione immediate. Pur nei limiti imposti dalle norme (segreto d’indagine, tutela della privacy) o dal dovuto riserbo istituzionale, è necessario predisporre subito delle linee di linguaggio, per dare risposta alla domanda di informazione.

Tornando all’esempio di Nassirya, la tempestiva diffusione di immagini che mostravano il cratere all’esterno della base è servito ad arginare il flusso informativo scorretto e a riaffermare la verità. Un esempio di “effetto alone” di un’informazione errata risale al luglio scorso, quando a Roma si diffuse la falsa notizia di un inquinamento delle condutture dell’acquedotto. Pur essendo priva del minimo grado di verifica, la notizia portò a una vera e propria onda di panico. Un aspetto da tener presente è che, in materia di terrorismo, un eccesso di informazione su un delitto commesso fa il gioco dei criminali, poiché ha un effetto di amplificazione dell’evento, che è esattamente ciò che essi desiderano. Nel suo romanzo più conosciuto, Il ritratto di Dorian Gray, Oscar Wilde ha scritto che un fatto è davvero avvenuto solo se qualcuno ne parla. Parafrasando il testo, si può dire che parlar troppo di un attentato compiuto è come farlo accadere più volte, intendendo con questo una moltiplicazione della portata e degli effetti dell’evento. È necessario il massimo equilibrio, per garantire una corretta informazione e al tempo stesso non concedere vantaggi alla controparte. In questo senso può essere valutata positivamente la linea seguita dalle Autorità del Regno Unito, fin dai primi momenti, dopo le stragi di Londra del 7 luglio scorso. Le notizie trapelate sono apparse improntate a sobrietà e senso della misura, denotando la presenza di un’attenta regia. L’overdose informativa, nel senso di campagne prolungate nel tempo, va evitata anche per un altro motivo importante: essa porta nel medio-lungo termine all’indifferenza, specie quando gli eventi appaiono lontani (si pensi alle recenti tragedie dello tsunami, o di New Orleans). In casi simili può prodursi una sorta di assuefazione all’orrore, certamente deleteria. L’informazione relativa a possibili attacchi va centellinata, evitando di spegnere del tutto un’eco che può essere utile tenere in vita. L’esperienza insegna che spesso i media portano l’opinione pubblica ad una continua altalena fra crescita e calo della tensione, con l’effetto di farla sorprendere ogni volta dagli eventi.

e. Elementi essenziali del linguaggio

La Scuola californiana di Palo Alto, che negli anni sessanta si prefiggeva di rendere più coese e forti le organizzazioni attraverso il miglioramento individuale, distingueva la comunicazione in contenuto (i dati) e relazione (i ruoli). Una distinzione parallela era stata tracciata dal sociologo tedesco Max Weber, fra la descrizione di un fatto e il corrispettivo giudizio di valore. Informazione e comunicazione si avvalgono essenzialmente di un linguaggio. Esso è fatto di termini che non vanno usati con leggerezza, specie se si affrontano temi delicati come le cause, le ideologie retrostanti e gli effetti del terrorismo. Le parole devono essere sempre le più neutre possibili, ponendo attenzione a quali possano essere le considerazioni oggettive su un fatto, tratte da ogni prospettiva possibile. Distinguendo appunto i dati dai ruoli e dai giudizi. Parlare di terrorismo islamico, ad esempio, è una descrizione neutra o e già una connotazione? Tutti i gruppi che provengono da Paesi di religione musulmana hanno le stesse motivazioni? Agiscono nello stesso modo? Sono… la stessa cosa? Una delle opere più discusse degli ultimi anni è il saggio di Samuel Huntington in cui la situazione attuale viene descritta come clash of civilisation, ovvero “conflitto di civiltà”.

Quante insidie si nascondono in una simile definizione, se pensiamo che le civiltà in asserito conflitto comprendono più di un miliardo di persone ciascuna? … Pensiamo all’omicidio del regista olandese Theo Van Gogh che, nella pellicola “Submission”, aveva mostrato la schiena nuda di una donna con impressi, insieme ai segni delle frustate ricevute, questi versi del Corano: “… all’uomo e alla donna colpevoli di adulterio e di fornicazione siano imposte cento frustate…”. Submission è la traduzione esatta del termine Islam, che indica la sottomissione dell’uomo a Dio. L’esemplificazione è che le frustate siano da attribuire alla fede. In realtà la barbara usanza deriva da tradizioni tribali molto più antiche, che la religione musulmana ha teso a temperare. Naturalmente chi ha ucciso resta un assassino(15).Ma un attacco diretto ad una religione, proveniente da un soggetto istituzionale invece che da un artista o un privato in genere, sarebbe un errore imperdonabile. Un esempio di altro tipo è quello del recente rinvio a giudizio della nota scrittrice Oriana Fallaci, imputata di vilipendio della religione, che nel suo libro “La forza della ragione” avrebbe usato espressioni lesive nei riguardi della fede islamica. In generale, si può dire che il linguaggio non deve alimentare i pregiudizi (i cosiddetti bias). Nel libro “L’orda - quando gli albanesi eravamo noi”, Gian Antonio Stella, editorialista del Corriere della Sera, stigmatizza gli stereotipi affibbiati dalla seconda metà dell’Ottocento agli italiani, dovuti ai comportamenti non corretti di un’esigua minoranza dei 4 milioni di compatrioti emigrati alla ricerca di un futuro migliore. Grande attenzione nei riguardi dei termini ha mostrato di recente l’Amministrazione USA.

Come ha rilevato il quotidiano Financial Times lo scorso 1° agosto, gli esperti di comunicazione del Pentagono hanno rifatto il look ai messaggi governativi, convertendo la sigla iniziale G.W.O.T., Global War On Terror (Guerra Globale al Terrore), in S.A.V.E., Struggle Against Violent Extremism (Lotta Contro l’Estremismo RadicaleViolento). È una svolta in direzione del politically correct: la parola war, guerra, viene corretta in struggle, lotta, per sottolineare il passaggio dall’opzione militare ad un’azione politica più ampia. f. Il ruolo dei Media Le reazioni sociali al rischio vengono influenzate in modo forte dai mezzi di comunicazione. Al riguardo va tenuto presente che quello dell’informazione non è un ambito asettico, che gestisce in modo automatico e lineare l’avvento di una notizia. Il settore risente di logiche trasversali, collegate con le convenienze dei gruppi di potere che influenzano gli editori e i direttori delle varie testate. Un esempio cinematografico illuminante è il cult “Quarto potere”, di Orson Welles (1941), che mostra la forza dirompente di un colosso dell’editoria americana. Va considerato inoltre che una “storia da copertina” allarmistica viene costruita soprattutto quando esistono taluni fattori, denominati Media Triggers(16), che costituiscono per i fruitori dell’informazione motivo di particolare - e spesso morbosa - attrazione. Secondo la dottrina prevalente, i principali fattori di questo tipo sono i seguenti: - problemi di responsabilità; - segreti e tentativi di copertura; - interessi secondari; - legami con obiettivi politici o personalità di rilievo; - conflitti; - prevedibilità di nuovi eventi dannosi; - esposizione al rischio della maggior parte della popolazione, - potente impatto visivo sugli effetti (con foto di vittime e feriti); - legami con sesso e crimine.

La presenza di uno o più di questi elementi deve far suonare per il comunicatore istituzionale un campanello d’allarme. Un ruolo di primo piano ha infine nell’universo mediatico l’immagine, determinante per raccontare un fatto ai fruitori dell’informazione. No picture, no story (Nessuna immagine, nessuna storia), è il motto lanciato dal network televisivo statunitense “CNN”. Non è una novità. Nel 1937 il re di Spagna, volendo ottenere consenso nella guerra civile in corso, commissionò a Pablo Picasso un dipinto che rappresentasse efficacemente gli orrori commessi dalla parte avversa. L’artista realizzò “Guernica”, che raffigurava la popolazione dell’omonimo villaggio basco, colpita dai bombardamenti dell’aviazione tedesca che appoggiava i franchisti. Allo stesso conflitto si riferisce un’altra delle icone più rappresentative della guerra e dei suoi orrori. È la fotografia “L’istante della morte”, di Robert Capa, che ritrae un miliziano spagnolo nell’atto di essere raggiunto da un proiettile mortale. Da ultimo, l’11 settembre ci ha ricordato quanto può essere forte l’impatto provocato dalle immagini. Esse raggiungono e scuotono le coscienze, lasciando nella memoria un solco profondo(17). Il cinema e la televisione sono gli strumenti più potenti attraverso i quali si manifesta oggi la loro forza.

8. Al centro la pianificazione: l’esempio britannico

“La saggezza richiede previdenza”. (Napoleone Bonaparte) Pur nella considerazione delle differenze culturali e sociali esistenti tra lo scenario nazionale e quello del Regno Unito, ci è sembrato che una sintetica analisi del modello britannico potesse offrire un utile esempio di applicazione di una strategia comunicativa del rischio. Per preparare la popolazione ad una situazione di emergenza, il Governo britannico ha pubblicato sul sito ufficiale: http://www.ukresilience.info/home.htm delle linee guida, sulla comunicazione del rischio in situazioni di emergenza, utili per: - aiutare a pianificare strategie comunicative efficaci; - sviluppare una comprensione adeguata del rischio; - migliorare la conoscenza sui suoi probabili effetti; - offrire una “base sicura” da cui affrontare una situazione di emergenza. In particolare, nel suddetto sito è stata messa a punto una strategia istituzionale di comunicazione del rischio per migliorare la resilienza(18) collettiva, che si sostanzia nelle seguenti attività: - gestire il rischio; - progettare in anticipo un percorso chiaro e definito che indichi dove si vuole arrivare, che cosa si vuole raggiungere e come; - anticipare problemi futuri in modo da essere preparati ad affrontarli; - identificare chi deve comunicare con chi, coinvolgere e consultare le parti; - definire quali contenuti è necessario trovare e cosa deve essere detto in merito; - definire come si vuole raggiungere il pubblico e individuare i canali di comunicazione; - identificare e gestire le risorse necessarie; - preparare uno schema di lavoro con dei parametri in grado di misurare i progressi e di valutare gli effetti della comunicazione nel corso del tempo. L’orientamento descritto pone la comunicazione del rischio come un’azione in continuo divenire, come indica il presente schema:

Figura 1

Come si vede nel diagramma, la comunicazione costituisce il cuore del processo di gestione del rischio ed è presente in ogni fase, con gli obiettivi di seguito elencati:

Figura 2

Il modello inglese ha proposto una strategia di comunicazione del rischio suddivisa nelle sette fasi che seguono: Organizzare un gruppo di lavoro: per pianificare una strategia comunicativa utile ed efficace è importante confrontarsi con rappresentanti di diverse categorie di pubblico, esperti, specialisti dell’informazione e della comunicazione e con quanti possano dare un effettivo contributo al dibattito. Decidere che cosa si vuole raggiungere: è necessario stabilire prima di tutto scopi, obiettivi e direzione che si intende perseguire. La cura meticolosa di questo aspetto è essenziale, altrimenti si rischia di fallire perché si incontrano difficoltà non pianificate che appaiono insormontabili. Identificare il target di pubblico a cui sono diretti i messaggi: dividere il pubblico in categorie e analizzarne gli interessi, i bisogni e la percezione del rischio, includendo anche gruppi minoritari. Individuare la forma di consultazione collettiva più idonea: occorre avere in merito obiettivi chiari e specifici: per es. circostanziare i problemi, trovare delle soluzioni, creare le basi per costruire consenso, ecc. Catturare l’attenzione collettiva e coinvolgere il pubblico: non tutte le modalità di coinvolgimento risultano appropriate in ogni circostanza. La proposta o gli obiettivi comunicativi fissati dovrebbero indirizzare la scelta dei metodi più appropriati (questionari, interviste, focus group, workshop, etc.). Monitorare e verificare la strategia in atto: verificare costantemente il livello di raggiungimento degli obiettivi prefissati, apportare le modifiche e i correttivi che risultano necessari in itinere e valutare il feedback del pubblico nelle varie fasi del processo. Mantenere una politica della comunicazione: rivedere costantemente la strategia è un buon sistema per apportare i correttivi necessari in base ai dati e ai cambiamenti di opinione e d’interessi che si verificano nel tempo.

9. Conclusioni

“La verità vi renderà liberi” (Vangelo di Giovanni) Il percorso che ci eravamo prefissi di seguire è giunto al termine. Riteniamo di aver detto molto, forse troppo, su quelle che potrebbero essere le linee di comunicazione da seguire nell’attuale scenario. Ci siamo dilungati sulle teorie che presiedono alla materia e sulle tecniche attraverso le quali si possono mettere in pratica i concetti espressi. Abbiamo sottolineato a più riprese l’importanza di comunicare e di informare preventivamente, nell’ordinario, per seminare ciò che potrebbe essere raccolto nel momento dell’emergenza vera e propria. Che ci auguriamo non si verifichi mai… L’idea di fondo che ci ha guidati è che l’Arma è un formidabile attore nel campo della comunicazione. L’attività viene svolta con tutti gli strumenti oggi disponibili: mediante le strutture preposte alle relazioni con il pubblico a livello centrale e locale, il web, l’editoria istituzionale, i media che propongono quotidianamente la nostra immagine e perfino attraverso la fiction, che da tempo ha assunto un ruolo predominante fra le varie forme di espressione artistica che illustrano, portandoli in tutte le case, il ruolo e i valori che i carabinieri rappresentano nell’immaginario collettivo. Ma ogni singolo appartenente all’Istituzione è un veicolo di comunicazione. Lo sono i centralinisti che rispondono alle chiamate dei cittadini, i militari di servizio alle caserme che per primi ricevono il pubblico, i carabinieri di quartiere, i comandanti di stazione, gli ufficiali che abitualmente dialogano con le autorità di pubblica sicurezza e i magistrati. L’elenco potrebbe continuare, andando a comprendere praticamente tutti i militari dell’Arma, che assumono un ruolo pubblico nel momento stesso in cui indossano l’uniforme. Con questa idea abbiamo sviluppato il nostro discorso, sperando di lasciare un piccolo segno. Forse però manca ancora la cosa più importante. Il fondamento di ogni principio, che riteniamo sia questo: perché un messaggio funzioni, perché una strategia di comunicazione sia efficace, è necessario che il contenuto sia, molto semplicemente, vero. Le bugie hanno le gambe corte, lo insegnavano i nostri Padri in tempi nei quali non era facile come adesso smascherare una versione ufficiale addomesticata. Questa regola, che riguarda tutti, vale a maggior ragione per un soggetto pubblico. Un’istituzione dice la verità. Sempre, comunque. Nel modo migliore, più adatto, mediando fra i dati da comunicare e la capacità di reagire dei destinatari dell’informazione. Ma avendo ben presente che all’obbligo di dire il vero non è lecito, né possibile, sottrarsi. Mai. Il riflesso per i cittadini è diretto, immediato. Nulla può far paura, se a proteggerci c’è uno Stato - inteso come patto sociale al quale tutti apparteniamo, ciascuno nel proprio ruolo - che è con noi. Che non ci inganna. In questo sta l’essenza ultima del discorso, perché la consapevolezza di essere parte di qualcosa di più grande può essere esattamente, per tornare ad un pensiero già formulato, ciò che rende accettabile il rischio. Il terrorismo internazionale fa paura. È in grado di procurarsi armi micidiali, di mietere vittime, di portare l’attacco al cuore della nostra civiltà. Ma se siamo uniti, consapevoli di quello che accade e disponibili ad offrire ciascuno il proprio contributo, saremo più forti e ci metteremo sulla strada giusta per controllare le nostre paure. Perché, per dirla con Pericle: “Non c’è libertà senza la verità. E non c’è verità senza il coraggio”.


(*) - Tenente Colonnello dei Carabinieri in servizio presso l’Ufficio Pubblica Informazione del Comando Generale dell’Arma dei Carabiniei. (**) -Maggiore dei Carabinieri in servizio presso la Scuola Ufficiali Carabinieri. (***) - Capitano dei Carabinieri in servizio presso l’Ufficio Sanità del Raggruppamento T.L.A. “Pogdora”. (1) - Maslow organizza i bisogni in cinque gruppi secondo una gerarchia piramidale. Partendo dalla base si individuano bisogni: fisiologici, di sicurezza, di appartenenza (amicizia, amore), di stima e di autorealizzazione. Secondo l’autore, i bisogni ai livelli più elevati del sistema si attivano solo quando quelli dei livelli inferiori sono soddisfatti. (2) - In quell’anno gli Stati Uniti hanno ammesso l’aborto. (3) - Da una costola del movimento si formò il gruppo terroristico al Jihad, responsabile nel 1981 dell’assassinio del presidente egiziano Sadat, colpito in quanto promotore degli accordi di pace con Israele. (4) - Il termine Pakistan significa, letteralmente, terra dei puri. (5) - È la disciplina che si occupa dello studio delle malattie e dei fenomeni connessi, attraverso l’osservazione della distribuzione e dell’andamento delle patologie nella popolazione, allo scopo di individuare i fattori che ne possono indurre l’insorgenza e condizionare la diffusione (Signorelli, 1995). (6) - Ufficio Europeo per la Lotta AntiFrode. (7) - Gli esperti della materia dividono le catastrofi in: . naturali: geologiche, climatiche, batteriologiche e zoologiche; . tecnologiche: incidenti da trasporto di sostanze pericolose, della circolazione, dell’industria chimica e nucleare, crolli e cedimenti di strutture, esplosioni; . sociali: carestie, disordini pubblici, panico diffuso, terrorismo, incidenti dolosi, presa di ostaggi; . di guerra: attacchi, azioni di sabotaggio, bombardamenti aerei, siluramento navi. (8) - Modello E.U. (expected utility): è la considerazione complessiva dei vantaggi possibili all’esito di una decisione. (9) - Essa è definibile come la convinzione che le cose negative debbano capitare sempre e solo agli altri. (10) - Il Dipartimento della Protezione Civile ha proposto delle linee guida sull’informazione del rischio (1995), distinguendo tre momenti temporali: . Informazione preventiva: finalizzata a diffondere la conoscenza collettiva sul rischio a cui si è esposti, sui segnali di allertamento e sui comportamenti da assumere durante l’emergenza; . Informazione in emergenza: con lo scopo di attuare ogni procedura utile ad allertare la popolazione interessata e ad aggiornarla costantemente; . Informazione post-emergenza: per ripristinare lo stato di normalità mediante l’utilizzo di segnali di cessato allarme. (11) - Le principali forme di distorsione del messaggio sono le seguenti: . Effetto volume o filtro: un’informazione a forte tonalità emotiva intensifica o riduce l’impatto del messaggio sul pubblico ricevente; . Effetto di sopravvalutazione e di sottovalutazione: dipende dalla lunghezza del messaggio (un’informazione sintetica tende a minimizzare il pericolo, viceversa un messaggio troppo dettagliato finisce per allarmare il ricevente); . Effetto di posizionamento: il contesto influenza il senso del messaggio (un medesimo contenuto comunicato in situazione di normalità o di emergenza sortisce effetti completamente differenti); . Effetto di combinazione: l’organizzazione del messaggio influenza la percezione del ricevente (privilegiare le problematiche del rischio rispetto a quelle della prevenzione allarma di più); . Effetto stereo: il mezzo (mass media) può influenzare il senso del messaggio. (12) - Si intendono per attività di informazione quelle che promanano da un soggetto titolare di competenze (un’amministrazione, un Ente, ecc.) e sono dirette verso il pubblico, in modo unilaterale. Rientrano in questo alveo i comunicati e le conferenze stampa e, in generale, le notizie diffuse attraverso i media. La comunicazione è invece un processo a due vie, nel quale l’amministrazione dialoga con i destinatari del servizio pubblico, ad esempio tramite gli uffici di relazione con il pubblico, gli strumenti di community di un sito Internet (forum, chat) o i propri presidi sul territorio. (13) - Seveso è il nome di una località della Lombardia ove nel luglio 1976 l’inquinamento prodotto da uno stabilimento chimico portò alla formazione di una nube contenente diossina e altre sostanze tossiche, che cagionò intossicazioni a 130 persone residenti nella zona e numerosi decessi di animali, richiedendo lo sgombero dell’area e ingenti opere di decontaminazione. (14) - Il procedimento a carico del Carabiniere Mario Placanica, che ha esploso il colpo che ha provocato la morte di Giuliani, è stato definito con l’archiviazione per aver egli fatto uso legittimo delle armi. (15) - L’omicida, Mohammed Bouyeri, 26enne originario del Marocco, è stato condannato all’ergastolo il 26 luglio scorso. (16) - Trigger è il grilletto di una pistola e quindi rende il senso dei fattori innescanti o scatenanti. (17) - È stato studiato che, mentre gli effetti sonori vengono registrati nella Memoria a Breve Termine (MBT), quelli visivi rimangono impressi, grazie alla forza delle emozioni che inducono, nella Memoria a Lungo Termine (MLT). (18) - La resilienza si riferisce alla capacità di superare una grave situazione di crisi e di ricostruire il futuro con ottimismo. Nel sito britannico ukresilience il termine si sostanzia nell’abilità ad ogni livello, nazionale, regionale e locale, di scoprire, prevenire e se necessario fronteggiare gravi situazioni di crisi, conseguenti per esempio ad attacchi terroristici.