Principio di uguaglianza e tutela penale in tema di discriminazioni razziali ed etniche (*)

Paolo Pittaro (**)
1. Appare di scontata evidenza come comportamenti di discriminazione razziale ed etnica non solo si pongano in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 alinea della Costituzione, in forza del quale “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali dinanzi alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, ma richiamino altresì l’ordinamento al compito, affidatogli dal capoverso della medesima norma, di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Ed il tutto in quella concezione personalistica della Carta, ove la Repubblica non fonda ma “riconosce” (considerandoli, pertanto, preesistenti) quei diritti dell’uomo che definisce come “inviolabili”: di ogni uomo, quindi, non del solo cittadino, inteso “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, e richiedendo, al contempo, “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2).
Di fronte ad un bene di rango così elevato, sarebbe plausibile supporre che - pur tenendo conto dei principi di frammentarietà, di sussidiarietà e di extrema ratio che informano il diritto penale - un comportamento discriminatorio di tal tipo venga preveduto da una fattispecie criminale e sottoposto alla relativa sanzione.
Invero, il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, recante “Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica”, non contiene espressamente norme di carattere penale. Tuttavia, dopo avere disposto, all’art. 3, che “il principio di parità di trattamento senza distinzione di razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale”, e che il giudice (art. 4) accogliendo il ricorso in tal senso, “oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove sussistente, nonché la rimozione degli effetti”, afferma, all’art. 4 comma 1, che tale tutela giurisdizionale avverso gli atti ed i comportamenti discriminatori si svolge nelle forme previste dall’art. 44, commi da 1 a 6, 8 e 11 del “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286). Ebbene, il comma 8 dell’art. 44 (il quale prevede un’“Azione civile contro la discriminazione”) dispone che chiunque elude siffatti provvedimenti del giudice è punito ai sensi dell’art. 388, comma 1, del codice penale (“Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice”): ovverosia con la reclusione fino a tre anni o con la multa da 103 a 1.032 euro.
In definitiva, senza approfondire ulteriormente il tema, sia il citato testo unico del 1998, sia il decreto legislativo del 2003, di attuazione della direttiva europea, prevedono un meccanismo di ricorso al giudice civile o, per certi versi, a quello amministrativo (art. 4, comma 7 del decreto legislativo n. 215 del 2003), che impone la cessazione del comportamento discriminatorio, e solo la mancata osservanza di tale provvedimento assume rilevanza penale, con il richiamo, e solo quoad poenam, all’art. 388 cod.pen.
In altri termini, l’intervento del diritto penale nel contrasto alle discriminazioni razziali ed etniche sembrerebbe solamente marginale e meramente indiretto.

2. Le cose non stanno esattamente così: il diritto penale si è occupato della discriminazione razziale - ed in maniera diretta - con una legislazione più risa-lente nel tempo, mediante la legge 13 ottobre 1975, n. 654, in “Ratifica ed ese-cuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966”. L’impegno internazionale nasce, quindi, nell’ambito delle Nazioni Unite e la citata Convenzione, fra l’altro e per il profilo che qui ci interessa, impegna gli Stati contraenti a “vietare e por fine con tutti mezzi più opportuni, provvedi-menti legislativi compresi, alla discriminazione razziale praticata da singoli indi-vidui, gruppi od organizzazioni” (art. 2, lett. b) e, in particolare, “a dichiarare crimini punibili dalla legge, ogni diffusione di idee basate sulla superiorità o sul-l’odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonché ogni atto di violenza, od incitamento a tali atti diretti contro ogni razza o gruppo di indi-vidui di colore diverso o di diversa origine etnica, come ogni aiuto apportato ad attività razzistiche, compreso il loro finanziamento” (art. 4, lett. a); ed - ancora -“a dichiarare illegali e vietare le organizzazioni e le attività di propaganda orga-nizzate ed ogni altro tipo di attività di propaganda che incitino alla discrimina-zione razziale o che l’incoraggino, nonché a dichiarare reato punibile dalla legge la partecipazione a tali organizzazioni od a tali attività” (art. 4, lett. b).
Fondamentale rimane, dunque, la citata legge n. 654 del 1975, successiva-mente modificata dal decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, recante “ Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa”, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205, che a sua volta ha inte-grato il tema che ci occupa. Pertanto, ed in ultima istanza, i testi fondamentali della legislazione penale sulla discriminazione razziale ed etnica rimangono le due normative: quella del 1975 e quella del 1993, che vanno lette e coordinate fra loro. Vediamole in una scarna e schematica sintesi.

3. Tre sono i delitti previsti, “anche ai fini dell’attuazione dell’art 4 della convenzione” (delle Nazioni Unite) e sempre con la clausola iniziale di salva-guardia “salvo che il fatto costituisca più grave reato”:
a. è punito con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a com-mettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali
o religiosi (art. 3, comma 1, lett. a, della legge n. 654 del 1975, come modifica-to dall’art. 1 del decreto-legge n. 122 del 1993):
b.è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza od atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (art. 3, comma 1, lett. b, della legge n. 654 del 1975, come modificato dall’art. 1 del d.l. n. 122 del 1993);
c. è vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associa-zioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associa-zioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni (art. 3, comma 3, della legge n. 654 del 1975, come modificato dall’art. 1 del d.l. n. 122 del 1993).
Non è questa la sede per commentare i profili e le questioni tecnico-giuri-diche poste da tali disposizioni: già è stato fatto dalla più attenta dottrina ed egregiamente. Ci basti rimarcare tre profili. In primo luogo, alla discriminazio-ne razziale sono state aggiunte quella etnica, quella nazionale e quella religiosa, nella consapevolezza, da parte del legislatore, che, come in cerchi concentrici, pur nella stessa razza, vi possono essere discriminazioni etniche; pur nella stessa etnia, discriminazioni per nazionalità; pur nella stessa nazionalità, discrimina-zioni per motivi religiosi. In secondo luogo, vengono puniti non solo gli atti di discriminazione, ma anche l’istigazione a commetterli e la stessa diffusione delle idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, e con una pena mag-giore se il tutto è accompagnato dalla violenza.
In terzo luogo, è punito il reato associativo, ed in qualsiasi forma di espli-cazione, legato a tali scopi per il semplice e solo fatto della partecipazione, e con una pena ancor maggiore per chi vi rivesta posizioni apicali.
A tale proposito, non appare fuori luogo ricordare, seppur fugacemente, come la legislazione penale tedesca e quella francese puniscano penalmente il
c.d. “negazionismo”, ovverosia chi nega la storicità dell’Olocausto, sostenendo che la Shoà è un falso storico propagandato da interessi israeliti e/o israeliani e sostenuto dai Paesi loro amici ed alleati.

4. Interessanti gli artt. da 1-bis ad 1-sexies del d.l. n. 122 del 1993, che pre-vedono una serie di pene accessorie, che possono (e non: devono) essere dispo-ste, singolarmente o cumulativamente, con la sentenza di condanna per i citati reati di cui all’art. 3 della legge n. 654 del 1975. Accanto alle prescrizioni già note, magari sotto diverso nomen juris che qui non rileva, quali l’obbligo di rien-trare nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora entro un’ora determinata e di non uscirne prima di altra ora prefissata, per un periodo non superiore ad un anno (art. 1-bis, lett. b), ovvero ancora la sospensione della patente di guida, del passaporto o di documenti di identificazione validi per l’espatrio per un periodo non superiore ad un anno, nonché il divieto di deten-zione di armi proprie di ogni genere (art. 1-bis, lett. c), spicca il divieto di parte-cipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche o amministrative successive alla condanna, e comunque per un perio-do non inferiore a tre anni (art. 1-bis, lett. d), e, soprattutto, l’obbligo di presta-re un’attività non retribuita a favore della collettività per finalità sociali o di pub-blica utilità (art. 1-bis, lett. a).
Quest’ultimo dato è di particolare rilievo. Vero che il lavoro di pubblica utilità non era figura del tutto sconosciuta al nostro ordinamento, anche se affatto marginale, in quanto esso costituisce (a richiesta del condannato ed al posto della libertà controllata) una delle misure sostitutive della pena pecuniaria non eseguita per l’insolvibilità del condannato, ai sensi degli artt. 102, 103 e 105 della legge 24 novembre 1981, n. 689, recante “Modifiche al sistema penale”. Parimenti siffatta previsione viene quasi ad anticipare un trend di recente attuazione, posto che ora il c.d. lavoro di pubblica utilità costituisce, assieme all’obbligo di permanenza domiciliare, una delle nuove pene “principali” per i reati di cui alla competenza penale del giudice di pace (artt. 52 e segg. del decre-to legislativo 28 agosto 2000, n. 274, recante “Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999 n. 468”).
Tale pena accessoria, nel contesto che qui ci occupa, deve svolgersi al ter-mine della espiazione della pena detentiva per un periodo massimo di dodici settimane, determinata dal giudice con modalità tali da non pregiudicare le esi-genze lavorative, di studio o di reinserimento sociale del condannato (art. 1-quater del d.l. n. 122 del 1993) ed anche a favore di strutture pubbliche o di enti ed organizzazioni privati (art. 1-sexies). Il dato di maggior rilievo è, in ogni caso, costituito dall’art. 1-quinquies del d.l. n. 122 del 1993, laddove afferma che “possono costituire oggetto dell’attività non retribuita a favore della colletti-vità: la prestazione di attività lavorativa per opere di bonifica e restauro di edifi-ci danneggiati, con scritte, emblemi o simboli propri o usuali delle organizza-zioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui al comma 3 dell’art. 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654; lo svolgimento di lavoro a favore di organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, quali quelle nei confronti delle persone han-dicappate, dei tossicodipendenti, degli anziani o degli extracomunitari; la pre-stazione di lavoro per finalità di protezione civile, di tutela del patrimonio ambientale e culturale, e per altre finalità pubbliche da determinarsi”, assieme alle altre modalità esecutive, con apposito decreto del ministro della giustizia (poi puntualmente emanato: d.m. 4 agosto 1994, n. 569).
Il novum non ci sembra di poco conto, consistendo non solo nell’elimina-re le conseguenze concrete e visibili della propaganda discriminatoria, ma postulando un’adoperarsi gratuito proprio a favore di quelle categorie usual-mente oggetto di discriminazione o di odio nel nome di una supposta superio-rità razziale, etnica, nazionale e via dicendo. Certo ci si può interrogare, come si sta facendo, se questo lavoro a favore della comunità, non richiedendo il con-senso dell’interessato (come, invece avviene nelle ricordate fattispecie del c.d. lavoro sostitutivo e di quello irrogabile come sanzione dal giudice di pace) si ponga in contrasto con l’art. 4, par. 3, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (la c.d. Convenzione europea dei diritti dell’uomo - CEDU - ratificata con la legge 4 agosto 1955, n. 848), in forza del quale “nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio”. Ovvero ancora se questa attività coatta di solidarietà sociale, net-tamente antitetica a quanto professato, possa realisticamente costituire un per-corso di rieducazione, ovvero venga recepita come pura retribuzione, che si aggiunge alla pena detentiva, con il pericolo, ben presente, non solo di inasprire il condannato, ma - altresì e paradossalmente - di consolidarlo vieppiù nelle sue convinzioni anti-razziali ed anti-etniche. Dubbi che registriamo e non possiamo qui sciogliere, specie in ordine all’ultimo, la cui matrice è connessa con le impo-stazioni di politica criminale proprie dell’interprete.

5. Infine, come ulteriore dato normativo di rilievo, ricordiamo l’art. 3 del citato d.l. n. 122 del 1993, il quale stabilisce, al primo comma, che “per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi con finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà”. Viene introdotta, pertanto, una aggravante comune ad effetto speciale e, come tale, applicabile a qualsiasi reato (quindi, anche alle contravvenzioni) commesso per le predette finalità.
Siffatto rigore normativo viene accentuato - ed è questo l’elemento che ci sembra più significativo - dal secondo comma del medesimo art. 3, laddove sta-bilisce che “le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’art. 98 del codice penale (e relativa alla minore età), concorrenti con l’aggravante di cui al comma 1, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumen-to conseguente all’aggravante”. In altri termini, la citata aggravante sfugge alla regola generale di cui all’art. 69 del codice penale, in forza del quale tutte le cir-costanze eterogenee, e di qualsiasi tipo, entrano nel giudizio di bilanciamento fra le stesse, potendo essere dichiarate equivalenti, prevalenti, o soccombere rispetto alle altre di diverso segno.
Nel nostro caso, invece, la citata aggravante deve applicarsi sempre e comunque, e solo dopo tale aumento potranno applicarsi le rimanenti attenuanti.
Ovviamente, trascuriamo i profili tecnico-giuridici di tale meccanismo, invero già presente nel nostro ordinamento: ad esempio, in ordine all’aggravan-te della finalità mafiosa, di cui all’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (“Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di traspa-renza e di buon andamento dell’attività amministrativa”, convertito, con modi-ficazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203), ora modificato dall’art. 5 della legge 14 febbraio 2003 n. 34, ovvero ancora l’aggravante della finalità terroristi-ca od eversiva dell’ordine democratico, di cui all’art. 7 del d.l. 15 dicembre 1979, n. 625 (“Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicu-rezza pubblica”, convertito dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15).

6. Se questo è il quadro, molto schematico sia pur nella sua complessità, della legislazione penale in ordine alla repressione dei comportamenti di discri-minazione razziale, etnica e quant’altro, si imporrebbe ora una ricognizione in ordine alla giurisprudenza sul tema, in modo da individuarne, attraverso le fat-tispecie concrete ed il relativo supporto motivazionale, le relative problematiche di ordine dogmatico.
Ebbene, dobbiamo rilevare, non senza sconcerto, che siffatta giurispruden-za è estremamente ridotta, per non dire sparuta. Ed in quella presente ben pochi sono i temi di interesse, limitandosi a ribadire, ripetutamente, che tali compor-tamenti discriminatori possono essere perpetrati anche nei confronti dello stra-niero, oppure interrogandosi sui rapporti (concorso di norme ovvero concorso di reati?) fra la normativa citata e le fattispecie criminose di cui alla legge 20 giu-gno 1952, n. 645 (recante “Norme di attuazione della XII disposizione transi-toria e finale - comma primo - della Costituzione”), che vieta la riorganizzazio-ne del disciolto partito fascista, a sua volta caratterizzato da connotazioni anti-razziali, ovvero ancora, in un paio di decisioni, distinguere da quali parametri dedursi l’aggravante della motivazione razziale in un delitto contro la persona nei confronti di un extracomunitario.
A questo punto, due possono essere le ipotesi formulabili in merito. Prima ipotesi: i reati di cui alla disciplina penale sulla discriminazione razziale, così come delineati anche nell’ipotesi del reato comune commesso con tali finalità, sono effettivamente molto pochi; segno, forse, della civiltà e del sereno assetto sociale delle nostre comunità o, ancora, della efficacia deterrente e preventiva di tali interventi legislativi. Una conclusione certamente gratificante e consolato-ria, ma probabilmente superficiale. Seconda ipotesi: i reati di tal fatta sono molto più numerosi, ma il loro “numero oscuro” è elevato. In altri termini, molti di essi restano nel sommerso, non vengono mai alla luce, in quanto mai denunciati, mai portati a conoscenza della pubblica autorità, mai iscritti nel registro delle notizie di reato, mai oggetto di un procedimento penale comunque conclusosi, mai contemplati in una statistica ufficiale.
Questa seconda linea interpretativa si presenta con una maggiore plausibi-lità. Sebbene, proprio per la sua essenza occulta, non determinabile nel quan-tum, il numero oscuro di tali reati sembra più compatibile anche con l’aumento considerevole dei flussi migratori che hanno investito il nostro Paese. Fenomeno, da un lato, specie se clandestino, connesso con la illegalità, mano-vrata anche da associazioni criminali a raggio internazionale, per quanto riguar-da la stessa immigrazione e l’attività di sopravvivenza, a tal punto da far anche rivivere in nuove forme reati che sembravano irrimediabilmente datati e scom-parsi, quali, ad esempio, le nuove schiavitù (e ricordiamo, neutralmente, che la percentuale degli extracomunitari nella complessiva popolazione carceraria è molto pronunciata). Fenomeno, dall’altro lato, connesso con il rischio che la diversità possa fungere da capro espiatorio ovvero vittima di un sistema con lar-ghe falde di intolleranza e con garanzie formalmente affermate, ma sostanzial-mente ridotte nei confronti di tali soggetti. In altri termini, per usare un’espres-sione desueta, ma nitida, la maestà della legge, specie penale, se, da un profilo, vin-cola tutti i cittadini, stranieri ed apolidi legati al suo territorio (art. 3 cod. pen.), anche la tutela offerta dalla stessa deve rivolgersi a ciascheduno, senza discrimi-nazione alcuna, in pieno ossequio al citato art. 3 della Costituzione.

7. A questo punto, allora, si presenta necessario un monitoraggio, un’indagine sul fenomeno della discriminazione razziale ed etnica.
Ed è qui che si inserisce l’attività dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), istituito nell’ambito del Ministero per le pari opportunità con decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, e disciplinato con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 11 dicembre 2003, che altri illustreranno in dettaglio.
Personalmente, vorremmo mettere in luce come non solo l’UNAR possa adempiere a tale funzione conoscitiva, ma come esso abbia istituito un call cen-ter, ove le vittime di una ritenuta discriminazione razziale od etnica possano tro-vare sì informazione sui loro diritti, ma anche aiuto e tutela, risolvendo in via stragiudiziale la situazione critica; ed il tutto su due livelli: quello, immediato, degli stessi operatori e quello, più graduato, di una seconda linea di esperti.
In tale contesto, ed in definitiva, l’UNAR dovrebbe anche essere in grado di offrire a Governo e Parlamento una valutazione meditata e critica sull’effica-cia della legislazione - anche penale, che qui ci interessa - magari in riferimento a modifiche od innovazioni ritenute necessarie, in ordine alla sua efficacia, che -parimenti - si vorrebbe anche tempestiva.
Ma senza dimenticare, come rimarcato nell’incipit del nostro dire, quelle caratteristiche di frammentarietà, sussidiarietà, tipicità ed extrema ratio, che caratterizzano il diritto penale di un ordinamento giuridico democratico, quale il nostro, ed a Costituzione rigida.



(*) -Relazione tenuta al Seminario L’uguaglianza nelle diversità. Nuovi strumenti per il contrasto delle discriminazioni razziali ed etniche (Trieste, 16 marzo 2005), a cura dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni razziali (UNAR) del Ministero per le pari opportunità e della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trieste.
(**) -Professore associato di Diritto penale nell’Università di Trieste.