Prof. Maria Luisa Maniscalco


1. La stabilizzazione dopo il conflitto: il ruolo delle MSU in favore di una pace sostenibile

L’intervento presenta alcune riflessioni che individuano nelle MSU una tappa significativa nello sviluppo degli interventi pacificatori strutturati in missioni armate. Questi interventi vantano una prassi ormai consolidata, ma non certo un modello unico e indiscusso; presentano al contrario forme e assetti in continua trasformazione comprensibili solo alla luce della nuova concezione della pace ormai diffusa nella comunità internazionale. Le MSU - quale esempio di assunzione di compiti civili di sicurezza da parte di una Forza armata nell’ambito della gestione di una crisi complessa - rappresentano un’importante innovazione. Esse fungono da elemento di raccordo tra schieramenti puramente militari - non addestrati istituzionalmente al mantenimento dell’ordine pubblico - e missioni di polizia civile, costituite senza compiti operativi, solo per il monitoraggio e l’addestramento delle polizie locali.

In questo modo colmano un vuoto di competenze e cooperano alla stabilizzazione in favore di un assetto pacifico e sostenibile. Ampliano però ulteriormente i compiti delle Forze armate, affrontando sfide complesse, ponendo nuove domande di legittimazione anche sociale e culturale. L’arma dei Carabinieri può contare per questi suoi nuovi impegni all’estero su un patrimonio di esperienza accumulato in decenni di attività vicina e in favore della popolazione civile. MSU è un’importante strumento di politica internazionale e militare per la Nato, ma soprattutto per l’Italia, unico paese in grado a tutt’oggi di esprimere compiutamente tale capacità anche in autonomia.


2. Un concetto proattivo di pace

Non è possibile inquadrare concettualmente in maniera adeguata il tema che trattiamo se non considerando, sia pure con alcuni accenni, la trasformazione del concetto di pace. Il problema della pace si è posto in epoca moderna in modo del tutto nuovo rispetto al passato. Non solo assenza di guerra, ma esigenza di costruire ed organizzare rapporti pacificati, non violenti tra entità statali e tra popoli e gruppi. Come sostiene Howard, solo negli ultimi duecento anni la pace “è stata considerata dai leaders politici un fine praticabile o addirittura desiderabile”. Soltanto il Novecento però ha conosciuto la nascita di istituzioni internazionali votate alla promozione e alla tutela di rapporti pacifici tra stati, quali la Società delle Nazioni nel primo dopoguerra e l’Organizzazione delle Nazioni Unite nel secondo, e l’invenzione di un particolare utilizzo della forza armata a scopi pacificatori. La prassi delle operazioni di peacekeeping fu una significativa innovazione introdotta dalle Nazioni Unite in un periodo, quello della guerra fredda, in cui si temeva un’escalation di conflitti che avrebbero potuto coinvolgere le superpotenze, impegnate in un duro confronto egemonico, in uno scontro apocalittico.

Fin dall’inizio queste operazioni si sono presentate come una tecnica in continua evoluzione - non a caso si parla di diverse generazioni - sviluppandosi come un’importante “risposta” alle turbolenze del sistema internazionale e articolandosi in interventi complessi, coinvolgendo coalizioni a geometria variabile od organizzazioni regionali. Il peacekeeping in quanto fenomeno di natura essenzialmente consuetudinaria, si è rivelato particolarmente adattabile alle sfide rappresentate dalle diverse tipologie di conflitti. A fattore costante è rimasto però il significato di fondo cioè la possibilità/volontà di contenere i conflitti e di costruire la pace intesa come rapporti pacificati e non violenti. A partire dagli anni Novanta del secolo da poco concluso, il moltiplicarsi di una nuova tipologia di conflitti - di natura interetnica e intrastatale - ha prodotto un collasso delle istituzioni pubbliche in ampie regioni e gettato le popolazioni nella più totale anarchia, facilitando l’emergere di veri e propri contropoteri legati anche alla criminalità organizzata. È stato allora necessario accompagnare il processo di pace con il sostegno alla ricostruzione politico-amministrativa del paese.

Infatti la violenza privata - tipica dei conflitti intrastatali - ha un carattere capillare, legato anche a condizioni emotive individuali; può essere combattuta solo riuscendo a ricostruire un tessuto sociale adeguato e un contesto di legittimazione e di fiducia verso le istituzioni pubbliche. L’emergente ruolo delle componenti civili (sia come vittime, sia come agenti del conflitto, sia infine come importante risorsa per superarlo) ha prodotto a livello operativo la diversificazione degli strumenti di intervento utilizzati nell’ambito delle attività di supporto della pace, con l’introduzione di misure atte a favorire non soltanto la cessazione della violenza, ma anche la riconciliazione sociale, il sostegno alle istituzioni democratiche, la tutela dei diritti umani, la promozione dei processi di sviluppo. D’altra parte una guerra civile ha bisogno di una ‘pace civile’ che nessun trattato può assicurare se le comunità interessate non sono d’accordo con la soluzione politica. La ricostruzione di un assetto istituzionale forte perché autorevole, legittimato e ispirato a valori condivisi è il primo passo per far rinascere una società civile pacificata.

I compiti delle missioni di pace si sono così ulteriormente ampliati, con un’enfasi sulle misure da adottare nella fase post conflitto. Il peacebuilding rappresenta la categoria sotto la quale vengono ricomprese una molteplicità di misure - politiche amministrative, sociali - tese a produrre nelle war-torn societies condizioni di vita migliori e pacifiche, tentando in tal modo di prevenire il riaccendersi del conflitto. Particolarmente importanti in questa fase sono le attività tese a rafforzare il ruolo della legge, ad assicurare il mantenimento dell’ordine pubblico e la tutela dei diritti e della dignità umana. I risvolti sulle Forze armate di questo nuovo indirizzo nelle politiche internazionali di gestione delle crisi è sintetizzabile nelle dichiarazioni dell’ambasciatore Brahimi nell’agosto del 2000 ad un ristretto numero di giornalisti europei “... I peacekeepers del futuro saranno sempre più poliziotti, giudici incaricati di restaurare legge ed ordine, ufficiali per la difesa dei diritti umani”.


3. Le MSU: caratteristiche e specificità

D’altronde già qualche anno prima della suddetta dichiarazione nel corso della crisi balcanica si era affermato un nuovo concetto operativo nell’impiego di contingenti multinazionali in aree di crisi, con particolare riferimento alla componente di polizia. La necessità di nuovi strumenti d’intervento è emersa dalle difficoltà incontrate nella stabilizzazione del processo di pace nell’area, anche a causa di una criminalità organizzata estremamente ramificata, capace di influenzare le vicende politiche e di inquinare profondamente il tessuto economico e sociale della popolazione. Per questo a fronte di sempre più pressanti esigenze di gestire l’ordine pubblico, turbato anche dalle numerose manifestazioni di piazza conseguenti alle operazioni di rientro dei profughi o alle commemorazioni dei massacri avvenuti nel recente conflitto, nel febbraio del 1998, in una riunione dei ministri degli esteri dei paesi della Nato, si giunse alla decisione di creare una forza di polizia professionale, ad ordinamento militare, particolarmente addestrata per operare in situazioni di grande instabilità.

Venne così autorizzata la costituzione di una Multinational Specialized Unit (MSU), cioè di una speciale Forza di polizia internazionale a status militare di concezione assolutamente nuova. Tra le principali novità che presentava la MSU si caratterizzava per la mobilità e la flessibilità; essa inoltre aveva poteri formali di raccolta di informazioni e di investigazioni, un addestramento antisommossa ed un equipaggiamento adeguato per intervenire nella gestione degli aspetti civili delle crisi. L’area di responsabilità di MSU SFOR fu identificata nell’intero teatro di operazioni bosniaco. L’unità ha rappresentato un elemento importante di raccordo tra schieramenti puramente militari e missioni di polizia civile costituite solo per il monitoraggio, l’addestramento e l’istruzione delle polizie locali, senza compiti operativi, colmando un pericoloso security gap. La raccolta delle informazioni e l’aspetto investigativo, insieme all’estrema duttilità di adattamento e di movimento, sono tra gli elementi più significativi che caratterizzano le MSU: dove la ripresa del funzionamento delle istituzioni e la stabilità e sicurezza locali e regionali sono messe a repentaglio da una criminalità organizzata, connotata anche da una grande violenza e da una diffusa conflittualità tra individui e gruppi, la lotta per il ristabilimento della piena legalità ha bisogno di strumenti particolari. Inoltre quando gli ex combattenti continuano o si trovano nuovamente a vivere assieme dopo il trattato di pace, quando si tratta di reintegrare nel tessuto sociale gruppi di rifugiati, la riconciliazione nazionale ha luogo solo gradualmente e con difficoltà. Quest’ultima va quindi sostenuta e monitorata attentamente anche attraverso un sistema giudiziario e di polizia efficace ed efficiente. Il fine è quello di lavorare per una pace sostenibile, una pace cioè riconosciuta e accettata dalle popolazioni interessate.


4. Complessità dei processi di pace

MSU svolge una particolare e originale funzione militare che possiamo definire “di polizia ordinaria”: garantisce le condizioni di ordine e sicurezza del territorio in cui operano le Forze militari amiche prestando il proprio servizio anche a favore della popolazione civile. Contribuisce in tal modo alla rinascita del tessuto sociale e alla creazione delle condizioni all’interno delle quali è possibile far riemergere la fiducia reciproca. La pace, come processo complesso e variabile nel tempo, sottende una gradazione delle condizioni di stabilità che variano all’interno di un vasto spettro, alla cui base rimane una componente residuale di conflitto e al livello più elevato prevale l’armonia sociale. La messa in atto di un processo di pace deve quindi considerare le due polarità - conflitto e pace - quali elementi di un continuum; ciò vuol dire che la cessazione nella fase delle ostilità più violente, ottenuta attraverso accordi di cessate il fuoco o con trattati, non significa il raggiungimento della pace, ma solo un irrinunciabile punto di partenza.

Un processo di pace è come un puzzle che va composto tessera per tessera, con l’alea di non essere mai sicuri di poter completare il disegno. Solo agendo su una molteplicità di piani complementari è possibile costruire soluzioni capaci di sostenere progressi duraturi verso la pace. Al termine di conflitti lunghi e violenti il clima sociale resta surriscaldato; il livello di aggressività è elevato sia per l’abitudine alla violenza, sia per il frequente collasso delle istituzioni pubbliche, sia infine per il desiderio di vendetta e di rivalsa. Quando le occasioni della vita quotidiana restano per lungo tempo altamente rischiose, quando l’esposizione alla violenza fisica è elevata e frequente, quando essere aggrediti è un’esperienza normale, divengono altrettanto naturali l’aggressione, la tortura e l’uccisione degli altri. Anche quando si è trovato un accordo sugli aspetti principali del contrasto che aveva portato alla degenerazione conflittuale, possono permanere latenti nella popolazione attitudini e disposizioni conflittuali. Avvenimenti anche banali possono rappresentare scintille in grado di riaccendere le fiamme di nuovi devastanti incendi. I recenti eventi nel Kosovo e in tutta la regione balcanica offrono esempi significativi in tal senso. Un primo, fondamentale passo consiste allora nel ricreare la sicurezza per interrompere il circolo vizioso della paura reciproca e delle vendette incrociate.

In queste situazioni è importante offrire una sicurezza “sana”, che si pone come alternativa a quella assicurata dai diversi leaders locali emersi in seguito alle lotte o a quella che ciascuno cerca di assicurarsi in vari modi, attraverso la detenzione di armi, con un atteggiamento teso esclusivamente alla propria sopravvivenza, scendendo a compromessi e così via. Le Forze di pace, promuovendo una tutela imparziale e generalizzata della popolazione, operano lungo la direzione di interrompere le spirali della violenza, di raffreddare il conflitto, esonerando i cittadini dell’onere dell’autodifesa. Esse possono arrestare le spirali delle vendette private tanto più presenti quando l’amministrazione della giustizia e della pubblica sicurezza è carente o assente. Il ristabilimento di condizioni di sicurezza collettiva va ad incidere proprio su quei meccanismi che rinforzano le posizioni di potere dei war-lords: il pragmatismo morale, la violenza come strumento di sopravvivenza, la forza come misura delle capacità umane e sociali, la solidarietà ristretta e settaria come tutela dal pericolo, la Forza armata come mezzo per soggiogare gli avversari.

In situazioni di disgregazione e di degrado del tessuto sociale la presenza di strumenti particolari, come per l’appunto le MSU, dovrebbe contribuire alla creazione di fiducia nelle istituzioni e nella comunità e a rimettere in moto meccanismi socio-economici di tipo cooperativo. Ma nessun intervento esterno può sostituirsi alla volontà delle parti e soprattutto si tratta di agire con particolare accortezza. Infatti l’interruzione di una fase conflittuale, sia pure voluta o comunque accettata, rappresenta una crisi per le popolazioni, crisi tanto più grande quanto maggiore era stato l’investimento emotivo e di risorse nel conflitto e quanto più duraturo esso è stato; si tratta di ristrutturare e di riconvertire un assetto sociale che, per quanto distruttivo potesse essere (anche per il progressivo impoverimento sul piano economico e culturale) aveva comunque un suo equilibrio. Si pensi per esempio al problema del disarmo e del reintegro dei combattenti e delle Forze paramilitari, cioè di una rilevante parte della popolazione che dal conflitto ricavava i mezzi di sussistenza materiale e le ricompense in termini di status; si pensi ancora al problema di riconvertire le economie belliche e i diversi indotti ad esse collegate.


5. L’Arma dei Carabinieri e le MSU

La particolarità delle crisi interne e tra stati hanno indicato tra gli obiettivi prioritari degli interventi internazionali lo sviluppo dell’assistenza e della ricostruzione istituzionale. Conseguentemente negli ultimi anni l’Arma dei Carabinieri è stata richiesta per una partecipazione sempre più qualificata con riguardo alla sua professionalità nella duplice identità di Forza armata e di Forza di polizia ad ordinamento militare. A tal fine l’Arma ha sviluppato le Unità Multinazionali Specializzate (MSU), forza di polizia ad ordinamento militare, integrata nello strumento militare tradizionale e in possesso delle capacità professionali tipiche delle forze di polizia. La costituzione di MSU all’interno di un ambito istituzionale militare - che apparentemente non ha legami diretti con la funzione di polizia ordinaria - non è stata agevolmente recepita da tutti (i paesi anglosassoni fino a poco tempo fa hanno considerato MSU come un’unità specializzata di polizia militare). Coloro che non conoscono il sistema napoleonico della Gendarmeria, cioè della forza di polizia a status militare, possono restare confusi e allarmati; sul campo queste difficoltà di natura essenzialmente culturali sono state superate fin dal primo utilizzo in SFOR con i primi impieghi operativi e con l’elaborazione di appropriate procedure tecnico-operative. Seguendo la linea di sviluppo tipica degli interventi in aree di crisi (a partire dal peacekeeping di prima generazione) anche le MSU si sono affermate inizialmente come un’esperienza pratica, nata da una concreta esigenza operativa avvertita in teatro di operazioni. Per questi motivi la realizzazione delle procedure tecnico-tattiche, necessarie per l’impiego delle unità, ha anticipato e ha posto le basi per una dottrina MSU che si è formata (ai diversi livelli) solo successivamente e, in un processo dal basso verso l’alto, sulla base delle esperienze maturate.

Tralasciando gli aspetti più prettamente tecnici e giuridici che sono oggetto di altre relazioni, la dottrina per l’impiego di MSU recentemente elaborata dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri prevede che MSU assicuri - attraverso operazioni e attività preventive - un ambiente sicuro per le Forze schierate nel teatro delle operazioni. Qualora previsto dal mandato internazionale potrà inoltre: a) espletare compiti esecutivi di polizia ( incluse le indagini criminali) in supporto o in sostituzione della polizia locale in attesa del trasferimento delle responsabilità dalle autorità militari alle autorità civili locali; b)monitorare ed assistere la polizia locale nella sua ricostituzione e riorganizzazione in conformità degli standard democratici internazionali di polizia; c) assistere il rientro dei rifugiati. Compiti quali quelli di imposizione della legge, di intelligence criminale e di controterrorismo nel corso di operazioni in risposta alle crisi necessitano di particolari competenze e di un’attitudine a mantenere collegamenti non soltanto con la polizia locale, ma anche con le altre autorità civili e con le organizzazioni governative e non governative operanti sul territorio. Se già per ogni Forza di pace è sempre stato fondamentale intrattenere buoni rapporti con la popolazione, questo è tanto più vero per MSU: i contatti con la popolazione locale sono un fattore essenziale per la buona riuscita della missione.

Essi dovranno essere ricercati e mantenuti con imparzialità ed equilibrio, dal momento che non si tratta solamente di ottenere una pacifica accettazione della propria presenza, ma di produrre un comportamento collaborativo basato sulla fiducia. Senza questo tipo di relazione è pressoché impossibile acquisire le informazioni necessarie. Infine solo un legame con il tessuto sociale può assicurare non solo la piena realizzazione dei compiti operativi, ma anche il consenso sociale e culturale indispensabile per qualificarsi come operatori di pace. Grande importanza assume l’attività di pubblica informazione da condurre in trasparenza e correttezza. Per la funzione che svolgono, le MSU sono uno strumento rilevante di politica internazionale e militare per la Nato, ma soprattutto per l’Italia, unico paese in grado a tutt’oggi, grazie all’esperienza e alla professionalità sviluppate dall’Arma dei Carabinieri, di esprimere compiutamente tale capacità anche in autonomia.


6. Nuove sfide per le MSU

Per concludere vorrei dedicare alcune brevissime considerazioni alle più recenti esperienze che indicano una linea di tendenza con il ricorso alle MSU in ogni tipo di presenza armata in territori extranazionali. Ne è un esempio l’istituzione di una MSU nell’ambito delle operazioni di ristabilimento della pace nel teatro irakeno a seguito delle operazioni militari alleate. Il reggimento MSU Iraq costituisce un’ulteriore evoluzione delle precedenti similari unità. Esso infatti ha visto la presenza al suo interno di unità specializzate dell’Arma (tra cui in particolare ufficiali e sottufficiali del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, del Comando Carabinieri per la Sanità e del Comando Carabinieri Tutela dell’Ambiente) con il compito di attuare già nella prima fase di intervento, unitamente ai funzionari dei Ministeri italiani da cui tali comandi funzionalmente dipendono, programmi di ricostruzione.

L’anticipazione delle attività di peacebuilding sin dalla prima fase di dispiegamento delle Forze di stabilizzazione nel teatro di conflitto dovrebbe consentire un significativo vantaggio nell’avvio del processo di pace. Gli interventi in situazioni siffatte sono però molto problematici. Le operazioni militari di sicurezza provocano, nei paesi in cui avvengono, processi molto simili a quelli che si osservano nelle società attraversate da divisioni interne. Questi interventi hanno come fine principale la rimozione delle élite politiche ritenute fonti di instabilità e di rischio a livello internazionale; pur cercando di coinvolgere il meno possibile il tessuto sociale producono comunque una profonda alterazione degli equilibri e della pace interna. La società nel suo insieme ne risulta profondamente coinvolta, dal momento che viene azzerato il quadro istituzionale precedente e con esso viene meno la regolamentazione dei comportamenti e quindi la prevedibilità, l’integrazione e l’efficienza. Si produce inoltre un’alterazione della stratificazione sociale su basi etniche, religiose, economico-professionali e persino dei rapporti di genere. In questa situazione l’adempimento della propria missione da parte delle MSU diventa ancora più delicato e complesso, proprio per le difficoltà di ottenere un consenso generalizzato da parte della popolazione e dei diversi gruppi e sottogruppi in cui questa si articola.

Ancora più che per i tradizionali interventi di supporto alla pace di qualunque tipo e livello, le attività sul territorio che seguono le operazioni militari di sicurezza appaiono legate alla dimensione della politica dei singoli stati, delle coalizioni e così via. Conseguentemente ogni valutazione di efficacia e di efficienza di questi raffinati strumenti, quali le MSU, ogni eventuale lezione appresa va situata in un’analisi più ampia che tenga conto anche dei complessi mutevoli equilibri della politica internazionale.


(*) - Professore Ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi “Roma Tre”.