Gen. B. Giuliano Ferrari


1. Premessa

Ritengo opportuno, dopo l’ampio intervento del dottor Intelisano, dedicato soprattutto alle specificità ed ai problemi posti dal diritto interno, soffermarmi sugli aspetti di diritto internazionale, peraltro non avulsi dal contesto strategico in cui le missioni di cui oggi trattiamo si pongono: non è infatti palesemente possibile in proposito alcuna seria riflessione giuridica che non tenga conto del contesto strategico, né alcuna seria analisi strategica che prescinda dagli aspetti giuridici. In proposito, tendo a pensarla come Carl Schmitt, o quanto meno ad aderire alla sua avversione ai tentativi di “giuridicizzare” la politica e la stessa strategia, cioè di subordinarla integralmente al diritto, trasformandola in una sorta di pubblica amministrazione delle relazioni internazionali. Articolerò pertanto il mio intervento in tre brevissime parti: anzitutto, esaminerò il fondamento giuridico delle missioni della MSU dal punto di vista del diritto internazionale, soprattutto nell’ottica di interpretare quella progressiva espansione dei compiti, dalla prima MSU all’ultima, cui oggi si è fatto già cenno; in secondo luogo, mi soffermerò su alcuni aspetti giuridici della multinazionalità, con particolare riferimento alle specificità dei reparti qui in esame; infine, concluderò cercando di trarre indicazioni dal contesto strategico internazionale, e di intravedere linee evolutive e punti critici sui quali ritengo più necessario un approfondimento dottrinale sia in termini giuridici, sia in termini strategici.


2. Fondamento giuridico

a. MSU Bosnia Il fondamento giuridico della missione della MSU in Bosnia non differisce sostanzialmente da quello delle altre Forze della NATO nel suo complesso, e deve dunque essere ricondotto, attraverso una successione storica, agli accordi di Dayton del dicembre 1995, recepiti nella UNSCR 1031 del 15 dicembre, che prescriveva altresì il TOA (transfer of authority) tra UNPROFOR e IFOR, nonché alla UNSCR 1088 del 12 dicembre 1996 che sanciva la successione legale tra IFOR e SFOR, dopo il pacifico svolgimento delle elezioni in Bosnia, che indubbiamente faceva in qualche modo mutare la natura legale della missione. Non dobbiamo dimenticare che SFOR aveva una Forza pressappoco dimezzata rispetto a quella di IFOR ed aveva quindi il compito essenziale di garantire la sicurezza interna secondo quanto fissato dagli Annessi 1A e 2 del Peace Agreement di Dayton. L’istituzione della MSU si inquadra in un’ulteriore riduzione di Forze, avviata dal NAC fin dal 20 febbraio 1998, in vista della scadenza nel giugno 1998 del mandato della SFOR, poi prorogato dalla UNSCR 1174 del 15 giugno 1998. 122 Il generale Leso e il colonnello Coppola ricorderanno che nel maggio 1998 fui coinvolto anch’io nella preparazione di questa prima MSU, che stava iniziando l’amalgama in Gorizia. Il comunicato del NAC del 28 maggio 1998 annuncia “the creation within SFOR of a MSU, with the same mandate of other SFOR elements, to enhance SFOR’s ability to support local authorities (…) without engaging in police functions”. Qui emerge un primo punto interessante che ci dice che le MSU hanno un mandato non dissimile da quello degli altri elementi della SFOR, dai quali si differenziano solo per la specializzazione, che li mette in condizione, in particolare, di essere più efficienti e più misurati nei compiti di crowd control e di riot control, mentre i compiti di polizia restano affidati alla IPTF: e tuttavia, non è un caso che molte risoluzioni di questo periodo facciano esplicito riferimento alla necessità di migliorare le prestazioni dell’IPFT dell’ONU, segno evidente, in qualche modo, del fatto che di queste si registrava una certa insufficienza, e mi piace qui ricollegarmi a quanto poco fa detto dal prof. Zaccaria sull’aspetto economico di tale missione, e sulla produttività economica delle relative spese.

Io non sono così ottimista da pensare che, grazie alle MSU, entro un anno l’entità dei contingenti si possa dimezzare ed entro due anni azzerare; e tuttavia, questo è un aspetto delle MSU, connesso proprio con la loro istituzione, che non va trascurato: la possibilità cioè, grazie alla specializzazione delle forze, di risparmiare nella quantità delle forze generiche, o provviste di altra specializzazione, di tutta la missione: è in questo senso che il Presidente Clinton, nel suo rapporto al Congresso USA del 5 febbraio 1999, parlava della MSU in Bosnia come di un “force multiplier”. b. MSU Kosovo Non tratterò della MSU inserita nell’Operazione Allied Harbour in Albania dall’aprile al settembre 1999, ritenendola non significativa. È invece interessante concentrarsi sulla MSU inserita fin dall’inizio nell’operazione Joint Guardian in Kosovo, iniziata il 12 giugno 1999 e legittimata dall’UNSCR 1244 del 10 giugno 1999.

L’interessante di questa risoluzione è che anzitutto essa recepisce e fa propri, come base della soluzione, i principi fissati a Petersberg il 6 maggio precedente dai Ministri degli Esteri del G-8, incorporati appunto quale annesso 1 della risoluzione. L’annesso 2 è anch’esso negoziato al di fuori dall’ONU, essendo in sintesi il documento convenuto il 2 giugno 1999 tra Milosevic ed il Presidente Ahtisaari in rappresentanza dell’UE. Tale annesso 2 ulteriormente specifica questi principi e adotta la consueta bipartizione tra international civil presence, gestita dall’ONU anche per generare l’interim administration della provincia, ed international security presence, affidata alla NATO, per assicurare il safe environment e garantire il safe return. È da notare che il presupposto della missione militare della NATO è costituito dal Military Technical Agreement firmato tra la NATO stessa e i Comandanti Jugoslavi il 9 giugno 1999: a questi accordi, tuttavia, la risoluzione ONU non fa esplicito riferimento, pur potendo essi considerarsi la vera e propria base giuridica della missione NATO. Rispetto alle risoluzioni adottate per la Bosnia, la UNSCR 1244 nel suo paragrafo 9 esplicitamente estendeva le funzioni di KFOR ad assicurare la sicurezza pubblica e l’ordine finché l’ONU fosse in grado di farsene carico. Ciò è chiara conseguenza della profonda differenza nelle situazioni concrete: in Bosnia esisteva comunque uno Stato Sovrano, ancorché in grave difficoltà. In Kosovo invece, pur esistendo uno Stato sovrano (la Repubblica Federativa di Jugoslavia), riconosciuto dall’ONU, la missione richiedeva appunto una sorta di sospensione di questa sovranità, e pertanto l’esercizio di poteri sostitutivi, ivi inclusa la possibilità, attribuita al Rappresentante del Segretario Generale dell’ONU, di emanare proprie Regulations, in pratica veri e propri atti legislativi.

Del resto, l’estensione dei compiti della MSU era di fatto già avvenuta anche in Bosnia: ma le regolamentazioni alleate prendono in genere atto con un certo ritardo di quanto avviene sul campo, tanto è che solo nel 2000 la pubblicazione AJP-01(B), ancora formalmente non in vigore per la necessità di attendere tutte le ratifiche degli Stati Membri, menziona esplicitamente questi compiti di supplenza che, a guardar bene, sono concettualmente impliciti in buona parte delle Crisis Response Operations.

c. MSU Iraq Rispetto a questi precedenti, la MSU in Iraq presenta delle significative differenze. Essa si accosta indubbiamente al caso del Kosovo per l’assenza di uno Stato sovrano, la cui operatività è stata sospesa da una sostanziale debellatio, e pertanto per la tendenziale espansione dei compiti sostitutivi. E tuttavia, a differenza del Kosovo la MSU in Iraq non si inquadra, almeno per ora, in una missione della NATO, talché potrebbe essere discussa l’opportunità di avere esteso a quel teatro, quanto meno nella denominazione, un concetto operativo che è un marchio di fabbrica NATO, sia pure a netta prevalenza italiana. In proposito, io sono propenso ad attribuire una certa importanza alle denominazioni e sono contrario a chiamare con lo stesso nome unità o missioni profondamente diverse. Gustave Le Bon diceva che “le parole e le formule formano la maggior parte delle nostre opinioni ”: ed è bene evitare perciò che sulle opinioni, e sulla percezione delle situazioni, si possano generare confusioni. Di fatto, stona un poco la presenza, nel contesto di un contingente nazionale, di un contingente multinazionale, reso tale dalla presenza di importanti contributi dei Paesi che oggi abbiamo ascoltato con grande interesse: normalmente, sono i contingenti nazionali che si inquadrano in più vasti contingenti multinazionali.

Del resto, la multinazionalità delle MSU in Bosnia e in Kosovo discendeva dal fatto che in questi Teatri esse erano un supporto operativo di comandi multinazionali NATO, destinato ad operare nei settori affidati ai contingenti nazionali di tutti i Paesi. L’UNSCR 1483 del 22 Maggio 2003, più tardi confermata nella UNSCR 1500 del 14 agosto, riconosce ed incoraggia il contributo degli Stati membri, che non sono Forze occupanti, alla stabilità ed alla sicurezza dell’Iraq sotto la responsabilità della “Coalition Provisional Authority” che non può non identificarsi nelle Potenze Occupanti. Il fondamento del potere-dovere delle Potenze Occupanti di assicurare la stabilità e la sicurezza del Paese è pertanto dalle stesse Nazioni Unite ricondotto alle Convenzioni vigenti in tema di Occupazione militare, ed in particolare al Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907 ed alla IV Convenzione di Ginevra del 1949.

Del resto, fin dalla UNSCR 1472 del 28 marzo 2003, ancora nel pieno delle operazioni di guerra, il Consiglio di Sicurezza ricordava agli USA ed al Regno Unito i doveri derivanti dalla qualità di Potenza Occupante, sia pure nello specifico e limitato campo dell’approvvigionamento di cibo e medicinali per la popolazione occupata. L’art. 43 del Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907 afferma in particolare che “Quando l’autorità del potere legale sia passata, di fatto, nelle mani dell’occupante, questo prenderà tutte le misure che dipendono da lui allo scopo di ristabilire e assicurare, per quanto possibile, l’ordine e la vita pubblica, rispettando, salvo impedimento assoluto, le leggi in vigore nel Paese”. È a questa norma-base che devono essere ricondotte le attività dei contingenti di occupazione USA ed UK, ma anche quelle dei contingenti nazionali che, senza essere Forze di occupazione (il che le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza esplicitamente riconoscono), contribuiscono per motivi umanitari al ristabilimento delle condizioni di ordinata convivenza civile, delle quali si realizza pertanto in questo modo una vera e propria delega.

Se dunque la legittimazione della MSU in Iraq sul piano del diritto interno va ricondotta all’art. 5 del D. Lgs. 297/2000, oltre che ovviamente agli atti legislativi che autorizzano la missione, sul piano internazionale, come le stesse Nazioni Unite affermano, la legittimazione va ricondotta alle norme vigenti in tema di diritto dei conflitti armati. Più compiutamente, l’UNSCR 1511 del 16 ottobre 2003, dopo aver sottolineato il carattere transizionale dei poteri e delle responsabilità della Coalition Provisional Authority, che dovranno al più presto passare al Governing Council irakeno, nel paragrafo 13 autorizza “una Forza multinazionale sotto comando unificato a prendere ogni necessaria misura per contribuire al mantenimento della sicurezza e della stabilità in Iraq”, ed invita con urgenza gli Stati Membri a contribuire con Forze militari a questa Forza, il cui mandato è fissato nel massimo di un anno, salvo (paragrafo 15) che sia completato prima il passaggio dei poteri. Il paragrafo 16 della stessa risoluzione sottolinea l’importanza di costituire efficienti polizie e Forze di sicurezza irakene per mantenere legge e ordine e combattere il terrorismo.

Infine, è notevole il riferimento della UNSCR 1483 alla tutela dell’immenso patrimonio culturale irakeno (“Stressing the need for respect for the archaeological, historical, cultural, and religious heritage of Iraq, and for the continued protection of archaeological, historical, cultural, and religious sites, museums, libraries, and monuments”): patrimonio la cui tutela, ai sensi degli art. 4 e 5 della Convenzione dell’Aja del 1954 sulla tutela dei Beni Culturali in caso di conflitto armato, rientra anch’essa tra le responsabilità della Potenza Occupante, e di cui infatti nel proprio settore di competenza la MSU dell’Arma in Iraq, anche avvalendosi di personale specializzato del Comando Tutela Patrimonio artistico, si fa attivamente carico.


3. Conclusioni preliminari

Da quanto sopra è agevole dedurre l’impossibilità di ravvisare fondamenti giuridici uniformi per le missioni tipo MSU, a parte ovviamente, sul piano del diritto interno, la necessità di specifiche deliberazioni parlamentari ed il riferimento comune all’art. 1 comma 1 della L. 14 novembre 2000, n. 331 ed all’art. 5 del D.Lgs. 5 ottobre 2000, n. 297, sul riordinamento dell’Arma dei Carabinieri.

Sul piano internazionale, ovviamente, al di là di ogni dibattito sulla natura delle Nazioni Unite o sulla liceità delle eventuali operazioni di guerra precedenti, una missione del tipo MSU, con accentuate competenze sul piano dell’ordine e della sicurezza pubblica sul territorio di un altro Stato, sembrerebbe richiedere in alternativa il consenso dello Stato sovrano (peraltro guardato con molto sospetto dalla dottrina internazionalista), ovvero una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, che infatti nei tre casi esaminati c’è sempre stata. Circa la natura del mandato delle MSU, esso non sembra differire in alcun modo da quello degli altri reparti militari, salvo che per la specializzazione: e del resto, pare evidente che nel contesto di una Forza militare ad ogni specialità si faccia fare ciò che sa più fare: agli elicotteristi volare, ai genieri lo sminamento, ai gendarmi ed ai carabinieri fare ciò che fanno usualmente anche sul territorio nazionale.

Il problema è che questa specializzazione pone, sul piano concreto, delle specifiche esigenze che raccordano direttamente le attività tattiche più propriamente “di polizia”, quali i pattugliamenti, i posti di blocco, il controllo del territorio, e la stessa formazione dei corpi di polizia locali, con una appropriata e completa conoscenza della situazione, e quindi con l’intelligence locale. In sintesi, il lavoro della MSU non è possibile ove non vi sia completa disponibilità di informazioni, ed anche la piena libertà d’azione per procurarle, nonché un pieno raccordo tra l’intelligence campale e quella strategica: punto, peraltro, che accomuna molte missioni di PK, e sul quale infatti persino il rapporto Brahimi del 2000 si sofferma ampiamente. Recentemente, una fonte autorevolissima, il generale Cucchi, in una conferenza al CASD ha affermato che le missioni di peace-keeping richiedono potenza e conoscenza. Condivido pienamente. È del tutto evidente che sul piano della potenza la componente MSU può aggiungere veramente poco: ma sul piano della conoscenza, il contributo che essa può fornire è incalcolabile. Ma è altresì evidente che un simile valore aggiunto in termini di conoscenza non può certo essere improvvisato.


4. Aspetti giuridici della Multinazionalità

“Multinazionale è bello”, soprattutto nell’immaginario popolare. In parte, ciò è vero, nella misura in cui la multinazionalità aumenta in qualche modo la legittimazione di una missione, proprio per il fatto che questa è condivisa, e nella misura concreta in cui ogni contingente nazionale è in condizione di apportare il contribuito di una sua specificità, che può senza dubbio essere un valore aggiunto, in termini di competenze, conoscenze, capacità. E tuttavia, non possono tacersi tutte le difficoltà tipiche di ogni contingente multinazionale, sulle quali l’opinione pubblica è purtroppo poco informata, a cominciare dalle difficoltà linguistiche, dalla interoperabilità dei sistemi d’arma e dei sistemi di comunicazioni radio, alle differenze di dottrina e di addestramento, alla diversa percezione politica delle situazioni, alla stessa, possibile differenza delle ROE.

A queste difficoltà possono a buon diritto aggiungersi quelle di natura giuridica che, tipiche di ogni contingente militare multinazionale, nel caso delle MSU acquisiscono ancora maggiore rilevanza: come, del resto, ha appena messo in luce il dottor Intelisano. Un primo aspetto meritevole di approfondimento è che tutto il diritto applicabile alle situazioni di conflitto armato in generale va perdendo quella vocazione universale che aveva in passato rivestito, sia attraverso il recepimento di numerose fonti nell’ambito del diritto consuetudinario, e quindi dello jus cogens, sia attraverso la ratifica di varie Convenzioni, in particolare le 4 Convenzioni del 1949, praticamente da parte di tutti gli Stati. A partire dal I e II Protocollo Aggiuntivo del 1977, per arrivare alla Convenzione di Ottawa sulla messa al bando delle mine antipersona ed allo stesso Trattato di Roma istitutivo della CPI, numerose sono le fonti che non sono state ratificate da molti Paesi che poi, in termini di popolazione, superficie, esposizione ad essere teatro di conflitti, costituiscono sicuramente la maggior parte del pianeta.

Di più: a parte lo Statuto di Roma, che non ammette riserve, le ratifiche al I e II Protocollo sono piene di riserve, il che attribuisce al diritto applicabile ed applicato dai diversi contingenti una “geometria variabile” che non può non essere foriera di conseguenze, perché ogni contingente si trova davanti a diversi limiti giuridici circa ciò che può fare e ciò che non può fare. Queste difficoltà sono ancora più gravi laddove si tratti di svolgere un’attività che comunque può essere assimilata a un’attività di polizia: settore, questo, che risente ancor più di altri delle diverse formazioni e delle diverse sensibilità giuridiche. Vi sono differenze abissali, e non solo tra Paesi di common law e Paesi di civil law, ma anche tra i Paesi giuridicamente più simili, quali l’Italia e la Francia, sul modo concreto in cui l’attività di polizia può essere svolta, ed i riferimenti comuni sono veramente pochi: tra questi, il “Codice di condotta ONU per i responsabili dell’applicazione delle leggi”, e pochi altri, inclusi i principali strumenti in tema di diritti umani. A proposito di questi ultimi, si apre il delicato problema di stabilire limiti ed estensione dell’applicabilità di tali strumenti in caso di conflitto armato.

Com’è noto, nel recente passato era nettamente ravvisabile una linea di tendenza verso la confluenza e l’unificazione finale dei due campi, Human Rights Law ed International Humanitarian Law. A tale argomento, nello scorso settembre l’Istituto Internazionale di Diritto Umanitario di Sanremo ha dedicato un apposito Congresso. Oggi, vi sono indicazioni di una tendenza a ridistinguerli, come a me pare più proprio, attraverso quella che un giurista definirebbe una quaestio finium regundorum, che peraltro non può fondarsi semplicisticamente sulla sola esistenza o meno di una situazione di conflitto armato. Comunque, i riferimenti normativi comuni per le attività di polizia restano sostanzialmente pochi; per tale motivo, due cose sono indispensabili, a parte l’ovvio auspicio che si giunga al più presto ad una certa armonizzazione, quanto meno in ambito europeo: anzitutto, che riferimenti comuni vengano stabiliti, ad un livello minimale, negli accordi tra i Paesi che concorrono alla MSU, ed in secondo luogo che la MSU nel suo complesso conservi sempre la netta prevalenza di un Paese, come finora è stato per l’Italia, pena il rischio di renderla ingovernabile. In proposito, sarebbe assai istruttiva una seria analisi delle modalità di funzionamento dei vari contingenti di polizia civile internazionale, per esempio dell’IPTF.

Anche il Rapporto Brahimi, sull’argomento, sia pure in una diversa ottica, sostiene la necessità di cambiamenti dottrinali, cioè di “doctrinal shifts”, nell’impiego delle unità di polizia civile delle missioni ONU: ma il rapporto Brahimi continua a distinguere dicotomicamente tra contingenti militari e contingenti di polizia civile e, pertanto, sembra non recepire (siamo nel 2000) il valore aggiunto che unità tipo MSU, proprio per la loro piena integrazione nei contingenti militari, possono fornire. Comunque, le diversità negli approcci giuridici ai singoli problemi che una MSU può fronteggiare sono di gran lunga inferiori nell’ambito dell’Unione Europea ed in proposito, rientrando essi pienamente nelle Crisis Response Operations, così come concepite negli artt. 40 e 210 del Draft Constitutional Treaty, non si può che auspicare il successo della recente proposta francese, tuttora in via di negoziazione, di istituire una Forza di Gendarmeria Europea, che non potrebbe che innestarsi sull’esperienza della MSU.


5. Contesto internazionale.

Il terrorismo Gli aspetti più interessanti del dibattito odierno, peraltro, investono le indicazioni che possono essere tratte dal contesto internazionale, da leggere sia nei suoi aspetti strategici sia in quelli giuridici: aspetti che non possono in alcun modo essere scissi, poiché il mutato contesto strategico influisce necessariamente anche sulla lettura giuridica degli avvenimenti del nostro tempo. Il crollo del Muro di Berlino e, 12 anni dopo, l’11 settembre hanno tragicamente messo in luce la crisi della deterrenza, intesa nei suoi termini più tradizionali. Il decennio intercorrente tra questi due grandi fatti aveva visto un fermento di tentativi di interpretazione strategica, in chiave modellistica, sostitutivi del modello bipolare che fino ad allora aveva non solo garantito la pace nel mondo, ma anche consentito una serie di costruzioni giuridiche che sul mondo bipolare si fondavano e che, infatti, proprio da allora sono entrate in crisi: dall’utopia della fine della storia di Fukuyama, al contrapposto “Clash of civilizations” di Huntington, allo State Chaos preconizzato da Brezinski in un volume del 1993 dal titolo emblematico: “Out of Control”. Una crisi di governance mondiale, del tipo preconizzato già decenni fa da Carl Schmitt, è davanti ai nostri occhi.

Davanti ad essa i tradizionali strumenti di interpretazione, anche e soprattutto strategici e giuridici, sembrano inadeguati: ed infatti una grande confusione regna sia nel campo della strategia, ove si registra sicuramente un deficit (qualitativo, non certo quantitativo) di analisi e si procede sostanzialmente per tentativi, sia nel campo giuridico, ove assistiamo ad articolati dibattiti che investono sia lo jus ad bellum (valga per tutti il dibattito sull’attacco preventivo, alla luce del paragrafo 5° della National Security Strategy USA del 20 settembre 2002), sia lo jus in bello, persino nei suoi aspetti più consolidati, quali per esempio il riconoscimento dello status di legittimo combattente. Instabilità e terrorismo internazionale sono i due aspetti cardine della situazione attuale, spesso strettamente correlati fra loro e concatenati causalmente. In questo contesto, le missioni di peacekeeping e stabilizzazione post-conflitto non possono non fare i conti sia con l’uno, sia con l’altro.

Lo stesso art. 40 del Draft Constitutional Treaty europeo lo riconosce esplicitamente, laddove afferma che tali missioni contribuiscono alla lotta contro il terrorismo. Non è solo la tragica esperienza di Nassiryia a confermarci che le MSU dovranno fare sempre più i conti col terrorismo. Nelle situazioni post-conflict una certa dose di terrorismo appare sostanzialmente strutturale e pone sempre il delicato problema giuridico di distinguere il terrorista dal legittimo combattente, nella sua accezione più estesa introdotta, non pacificamente, dall’art. 44 del I Protocollo, da leggere in sistema con l’art. 1 paragrafo 4. In realtà tutte queste fonti sono obsolete, perché non tengono conto della fondamentale evoluzione che il terrorismo internazionale, o transnazionale, ha avuto negli ultimi anni, e che ha avuto il suo coronamento nell’11 settembre newyorkese. Se è in astratto vero, come la recente, tragica esperienza spagnola ci conferma, che la partecipazione a Crisis Response Operations, o a Peace Support Operations in determinati teatri può aumentare l’esposizione di un Paese all’intimidazione e all’aggressione terroristica, è altresì vero che la presenza militare, negli stessi Teatri, se opportunamente modulata, può anche essere un formidabile strumento nella lotta internazionale contro il terrorismo stesso.

Ciò per due motivi, dei quali il primo, valido in genere per gli Stati che usualmente mantengano un elevato profilo internazionale, non è che la trasposizione, con i dovuti adattamenti, della classica strategia britannica di combattere guerre sul continente europeo, od anche più lontano, proprio per tenere le guerre distanti dall’isola: strategia che sicuramente in qualche modo ha influenzato lo spiccato approccio proactive adottato dagli angloamericani dopo l’11 settembre. Il secondo motivo è che oggi le ramificazioni del terrorismo internazionale, e specie di un’organizzazione reticolare come quella costituita da Al Qaeda e dai suoi affiliati, possono essere rintracciate anche molto lontano, e specialmente in determinati contesti. In altri termini, quelli che abbiamo in casa nostra in genere sono solo terminali, e spesso solo logistici, di rami terroristici che proprio in questi Teatri acquistano una consistenza ben superiore e che devono essere sicuramente investigati con strumenti di intelligence, che hanno ben altre possibilità di successo se supportati dalla presenza militare in luogo.

Combattere il terrorismo è dunque un compito naturale delle MSU, anche a prescindere dal fatto, incontestabile, che la sconfitta del terrorismo nei teatri da stabilizzare è una condicio sine qua non perché la stabilizzazione stessa abbia successo. E che il contro-terrorismo nei Teatri di operazione debba essere compito primario, ancorché non esclusivo, delle MSU sembra suggerito proprio dal fatto che in ogni contingente nazionale ad ogni componente deve essere affidato il compito che più gli è proprio; e che il controterrorismo in teatro competa anzitutto ai carabinieri sembra ovvio, sia perché essi già lo fanno in Italia sul fronte interno, sia perché sono sempre probabili i ritorni investigativi, che possono innescare nuove indagini, o collegarsi ad altre indagini in corso in Europa e nella stessa Italia, delle quali il nostro ROS è maestro.


6. Contesto internazionale.

L’instabilità Il secondo fattore è l’instabilità. Questa, per conto suo, vuol dire anzitutto che di MSU ci sarà crescente bisogno, a fronte del non elevato numero di Stati in grado di esprimerle: come recentemente ha osservato anche l’ambasciatore USA alla NATO, Burns.

Ciò dovrebbe comunque orientare l’Arma a studiare un ordinamento che consenta, all’emergenza, la proiezione di un maggior volume di Forze in Teatro, cioè un ordinamento che, senza nulla togliere alla copertura di casa nostra, risenta di meno dei vincoli posti dall’ancoramento al territorio nazionale: fermo restando poi che la decisione di aumentare di volta in volta in concreto questa proiezione, a scapito della Homeland, non può che essere assunta in sede politica. Ma dovrà essere una decisione tra due opzioni rese entrambe possibili da un ordinamento che lo consenta, e non una nondecisione resa senza alternative da un ordinamento che tale maggiore proiezione non consente. Visto poi che probabilmente le MSU, specie in determinati Teatri, sono destinate a proliferare, a ciò si aggiunge, come corollario, la necessità di specifici investimenti in termini di armi, equipaggiamenti, veicoli speciali, magari appositamente concepiti, affinché i nostri uomini abbiano il meglio e non mezzi adattati dalle ben diverse necessità del servizio istituzionale sul territorio nazionale: in proposito, mi ha molto impressionato l’osservazione della professoressa Pasqualini sulla scarsa idoneità del nostro automezzo sanitario speciale per le indagini diagnostiche.

Ma l’instabilità sarà un fattore da tenere vieppiù presente anche all’interno delle missioni già in atto, delle quali si registrerà una crescente, estrema volatilità. La situazione può evolvere in Teatro, anche rapidamente, e ciò può di fatto comportare l’evoluzione non delle sole tecniche operative, ma anche delle ROE e dello stesso mandato. Il cambiamento della natura delle missioni sul campo, che ha dato luogo alla nutrita letteratura esistente sul mission creep, è un fattore da tenere sempre presente e che richiede due fondamentali condizioni politico-militari: da un lato, la rapidità e l’aderenza dei tempi decisionali per le deliberazioni di natura politica puramente nazionali; sotto un altro aspetto, data la multinazionalità delle MSU, la stretta e rapida concertazione internazionale per ottenere gli stessi adeguamenti da parte delle Autorità politiche degli altri Paesi partecipanti. Infine, deve essere opportunamente considerata la crescente attenzione della dottrina militare e strategica internazionale per l’istituzione di reparti tipo MSU anche nel contesto non di PSO o CROs, bensì di operazioni che in ambito NATO sarebbero definite “di art.5”, ove in qualche misura tali operazioni includano l’occupazione militare, sia pure per breve periodo, di territori ostili: ed infatti, il non aver adeguatamente pianificato l’occupazione militare in Iraq è una delle principali critiche che vanno emergendo nei confronti dell’Amministrazione USA, od anche al suo interno, od in ambienti ad essa contigui.

Per esempio, un recente articolo di James Glassmann apparso sul sito dell’American Enterprise Institute ci dice in proposito che qualcuno al Pentagono aveva in realtà ben pianificato, ma è stato messo in minoranza. Analogamente, rammento uno studio dell’aprile 2003 dell’USIP (United States Institute for Peace) in cui, proprio traendo spunto dall’esperienza delle MSU e dei Carabinieri, si proponeva per l’Iraq una SCPU (Special Constabulary Police Unit) di circa 2.000 unità ed una Civil Police di 4.000 unità, per un complesso di 6.000 uomini ed un costo (per il solo personale) di 600 milioni di dollari annui.


7. Considerazioni conclusive

Per valutare compiutamente il ruolo, anche in prospettiva, di missioni quali quella delle MSU occorre riflettere sulla crescente evanescenza della distinzione tra sicurezza interna e sicurezza internazionale: fenomeno, questo, epocale, del quale peraltro finora né la dottrina strategica, né la dottrina giuridica hanno preso piena coscienza. È vero che sempre, nel passato, le due forme di sicurezza furono inscindibili e che anche nei conflitti internazionali più simmetrici il fronte interno acquisiva importanza, davanti ai frequenti tentativi di ciascuna Parte in conflitto di conseguire l’asimmetria proprio generando o sfruttando cleavages, disordini e altre minacce all’interno del fronte opposto. Ciò che si verifica oggi è però un fenomeno completamente nuovo: a fronte di una contestuale, progressiva evanescenza di quasi tutte le sovranità nazionali, abbiamo la sostanziale globalizzazione delle minacce alla sicurezza intesa nel suo complesso di sicurezza interna ed esterna, quella sorta di “guerra civile mondiale” che già Schmitt aveva intravisto quale conseguenza ultima della progressiva deterritorializzazione tanto delle strategie quanto degli ordinamenti giuridici.

È un discorso ancora difficile da far comprendere, ma dagli sviluppi in prospettiva sono ancora tutti da esplorare. La distinzione tra soldato e poliziotto non è sempre esistita: essa è frutto di quella specializzazione funzionale, o differenziazione istituzionale, intorno alla quale nel sedicesimo e diciassettesimo secolo si sono formati gli Stati moderni, e che ha trovato poi la sua più matura espressione, sul piano internazionale, nel trattato di Westfalia. È una differenziazione frutto di evoluzioni sociali, economiche, giuridiche e, soprattutto, nell’arte della guerra: ma ancora alcuni ordinamenti europei, in particolare quelli segnati dall’esperienza napoleonica, conservano traccia di questa originaria indistinzione nell’istituto delle Gendarmerie, cioè di corpi militari, in genere composti da veterani, ovvero da soldati “per condotta e saviezza distinti”, incaricati dell’ordine e della sicurezza sul piano interno. Orbene, forse è il caso di chiedersi se questo ciclo evolutivo non si sia ormai concluso e se non se ne sia avviato invece un altro, in cui anche le operazioni militari e persino quelle di guerra assumono i connotati di operazioni di polizia, e spesso vengono così anche definite, e molte operazioni di polizia assumono i connotati di vere e proprie operazioni belliche.

Non voglio qui certo sostenere che i mestieri di poliziotto e di soldato siano destinati a confondersi e riconvergere verso l’unità: oltre tutto, la crescente specializzazione tecnica di entrambi i mestieri lo impedirebbe. Tuttavia, la sostanziale indistinzione della minaccia alla sicurezza interna ed a quella esterna rende probabile che si affermi sempre più, tra i due mestieri, un’area grigia in cui confluiscono entrambe le competenze. Tale area grigia è suscettibile di attribuire un ruolo particolarmente incisivo alle Istituzioni, come l’Arma dei Carabinieri, che conservano entrambe le capacità e che quindi si prospettano come l’anello di congiunzione ideale tra le organizzazioni deputate all’un tipo di sicurezza e all’altro: e ciò tanto sul territorio nazionale, quanto in Teatri di operazione lontani, anche attraverso l’esperienza che in questi anni si sta faticosamente costruendo intorno alle MSU. Vi ringrazio per l’attenzione.


(*) - Generale di Divisione dei Carabinieri, Direttore Coadiutore presso lo I.A.S.D.