Amb. Dott. Riccardo Sessa

Grazie, generale Leso.

Un saluto particolare al Comandante generale e al Sottosegretario. Il Sottosegretario mi perdonerà se ho salutato prima il Comandante generale, ma in questa casa - anche per i rapporti, che il generale Leso ha voluto ricordare nella sua presentazione, che ho sempre avuti e che ho con l’Arma - il mio pensiero è andato ovviamente, istintivamente, subito all’Arma. Io ringrazio dell’invito che mi è stato rivolto a portare un contributo addirittura aprendo i lavori di questo seminario, nella prima fase, nel primo panel sulle lezioni apprese dall’esperienza delle MSU. Il Comandante generale, nel suo intervento, ha tracciato un po’ le linee storiche essenziali sulle origini della istituzione di queste Unità, sui compiti che esse sono state chiamate a svolgere e che certamente svolgeranno sempre di più in una futura collaborazione armonica e organica con rappresentanti di Forze di polizia o di Forze armate di vari altri Paesi, che saluto anch’io molto cordialmente.

Cercherò di aggiungere alcune riflessioni che sono basate certamente sulle lezioni apprese, come appunto è il titolo di questo primo panel, cercando di aggiungervi alcune considerazioni basate anche - e credo che questo sia poi quello che gli organizzatori si aspettano - sulle esperienze personali maturate attraverso i vari incarichi che ho ricoperto, ma soprattutto certamente durante il periodo in cui ho avuto il piacere e l’onore di servire al Ministero della difesa, come Consigliere diplomatico del Ministro, in un periodo in cui la partecipazione militare italiana ad operazioni militari internazionali non solo è cresciuta, ma si è andata arricchendo di quei contenuti che oggi consentono al nostro Paese di non essere secondo a nessuno nell’impiego di unità all’estero. In questo contesto certamente l’impiego dei militari dell’Arma è un po’ uno dei fiori all’occhiello: lo dico perché, ovviamente, all’estero non abbiamo soltanto i nostri Carabinieri, ma abbiamo anche tanti altri rappresentanti di tutte le Forze armate di cui dobbiamo giustamente essere orgogliosi.

Il Comandante generale ha ricordato un po’ i percorsi che, nella seconda metà degli anni ’90, portarono alla consapevolezza - nelle riflessioni che venivano effettuate nell’ambito degli Stati maggiori della difesa dei principali Paesi, in modo particolare dei Paesi della NATO e anche nel quartier generale della NATO a Bruxelles, sia sul versante civile sia sul versante militare -, alla opportunità di poter cominciare a concepire le operazioni militari internazionali sulla base delle esperienze di quelle che già si erano svolte, in maniera diversa, in maniera cioè che si tenesse maggiormente conto della natura che queste operazioni militari internazionali andavano assumendo. Lo scenario mondiale aveva cominciato già a spostare decisamente il baricentro della politica di sicurezza: prima, per un’infinità di anni, questo baricentro era ancorato esclusivamente alla difesa dello spazio nazionale; successivamente, e oggi in maniera ormai consolidata, questo baricentro si è proiettato all’esterno verso aree di crisi esterne dove lo richieda la sicurezza nazionale, la difesa degli interessi nazionali e soprattutto dove lo richiedano - il sottosegretario giustamente ha ricordato l’impegno in Iraq - gli obblighi di solidarietà derivanti dalle alleanze alle quali il nostro Paese partecipa. Intorno alla metà degli anni ’90 io ero al Ministero della difesa e quindi ho avuto anche l’opportunità e la possibilità di partecipare in prima persona alla elaborazione di un nuovo concetto strategico, relativo al modo più efficace per assicurare una presenza internazionale.

In quegli anni la complessità delle crisi internazionali che giustificavano e che rendevano necessario un intervento militare internazionale fecero balzare all’evidenza l’opportunità di affiancare ai reparti tradizionali militari, impiegati in questo tipo di missioni, nuove unità con compiti diversi in funzione di una esigenza diversa che si andava profilando. Cioè, lo scenario internazionale era mutato in maniera tale che non avevamo più l’esigenza di affrontare delle operazioni militari nel senso tradizionale: non c’erano - cioè - guerre vere e proprie da combattere. Non era richiesta soltanto o esclusivamente la presenza di unità estremamente professionali di militari e mezzi per fronteggiare un avversario militare. Bisognava, in realtà, prepararsi a stabilizzare delle aree, nelle quali ci veniva richiesto di intervenire, con la consapevolezza che il nemico da affrontare, la minaccia da combattere, non era costituita da reparti militari avversari ma da situazioni, da persone, da territorio da controllare.

Cominciò in quegli anni ad affermarsi, fra gli addetti ai lavori, fra gli studiosi di questioni internazionali di impiego di unità all’estero, il concetto che quelle che fino allora erano state considerate delle operazioni militari internazionali in realtà stavano evolvendo verso un tipo diverso di operazioni. Si cominciò a parlare di operazioni di polizia internazionale, nel senso che lo scopo principale - come dicevo prima - non era quello di combattere un avversario militare ma quello di stabilizzare una regione, un’area, uno stato. E quindi, per rispondere a questo nuovo compito che i Governi avevano sentito l’esigenza di affidare a Forze armate internazionali, si cominciò ad avvertire questa esigenza di rivolgersi, di utilizzare - meglio - reparti, unità che fossero dotati di professionalità diversa rispetto a quella alla quale normalmente si era fatto ricorso fino allora, cioè reparti di grandi specialisti, di soldati particolarmente specializzati e professionisti. Fu così che si cominciò a pensare a queste unità di Forze che fossero al tempo stesso di polizia e militari. All’inizio i primi approfondimenti che vennero fatti all’interno delle Nazioni Unite non portarono a dei risultati soddisfacenti perché il sistema delle Nazioni Unite aveva istintivamente pensato a delle unità di polizia civile.

Nel caso, non soltanto riguardo all’Italia ma anche ad altri Paesi, ci si rese rapidamente conto che, in realtà, noi non disponevamo di unità di polizia civile sufficientemente professionali in grado di poter assicurare compiti di polizia in un ambiente esterno decisamente ostile e tale da richiedere anche una forza militarizzata, anche grosse capacità operative militari e un addestramento specifico militare. E questo fu il motivo per cui alla fine prevalsero alcune riflessioni che erano state avviate anche all’interno della NATO e che poi portarono - come il Comandante generale ha ricordato - alla prima decisione di utilizzare reparti in Bosnia in attuazione degli accordi di Dayton. Prevalse l’idea di utilizzare reparti militari veri e propri ma che avessero anche questa componente di polizia e, quindi, il ricorso a una struttura come l’Arma divenne a quel punto un fatto naturale tra gli esperti che dovevano decidere. Contemporaneamente all’Arma ci si rivolse - ovviamente - altrettanto istintivamente verso altre strutture di Paesi nei quali esistevano istituzioni con compiti, organizzazione, finalità più o meno analoghe a quelle dell’Arma, tipo la Gendarmeria francese, la Guardia Civil spagnola, la Guardia Repubblicana portoghese: istituzioni, peraltro, con le quali - neanche a farlo apposta - in quegli stessi anni l’Arma, proprio alla ricerca di affinità naturali, andò sviluppando i primi accordi di collaborazione che credo oggi siano pienamente operativi fra queste quattro unità. Fu così che si arrivò a quei percorsi - ricordati prima dal Comandante generale - in Bosnia, in Albania, in Kosovo e oggi in Iraq. L’esperienza del Kosovo fu probabilmente quella che meglio caratterizzò questa fase di crescita delle MSU.

Come sempre (è normale) si impara dalle esperienze precedenti e, quindi, dalle prime timide esperienze effettuate in Bosnia e in Albania, in Kosovo (anche perché ci trovammo allora di fronte a un intervento molto più articolato): l’Arma riuscì a schierare una unità che si conquistò rapidamente i consensi e gli apprezzamenti delle componenti civili della missione delle Nazioni Unite che aveva la responsabilità generale - civile e militare - della stabilizzazione del Kosovo, ma anche ovviamente dei reparti impegnati nella Forza di stabilizzazione KFOR.

Fu quella senz’altro una esperienza, per tutti coloro che vi parteciparono (e sicuramente qui fra di voi ci sono ufficiali che hanno vissuto in prima persona, sul terreno, quella esperienza) certamente esaltante e che diede un contributo notevole alla stabilizzazione di quella provincia. Ne ho dei ricordi diretti perché in quel periodo fui ambasciatore a Belgrado e, specialmente dopo le operazioni militari alleate del ’99, mi recavo in Kosovo in continuazione, nel tentativo di cercare di coordinare un po’ soprattutto anche i nostri aiuti alle popolazioni. Devo dire che l’azione svolta dalle MSU affiancò, tra l’altro, un’azione altrettanto energica svolta dai nostri militari nella Brigata multinazionale, di cui avevamo il comando, in una provincia estremamente difficile (quale la provincia di Petch che era a maggioranza serba e quindi una enclave all’interno della nazione albanese che certo non era l’ideale in termini di convivenza). I nostri reparti dell’ MSU piano piano, con un po’ di spirito d’iniziativa di cui credo l’ufficiale dell’Arma abbia sempre dato prova, si allargarono nelle loro competenze fino a coprire tutto il Kosovo con una soddisfazione enorme da parte dei comandanti KFOR e anche, superate alcune prime fasi di perplessità da parte dei singoli comandanti delle varie aree di responsabilità tra le quali era stata divisa, dal punto di vista militare, la provincia del Kosovo.

Fu quindi un’esperienza estremamente interessante che stiamo rivivendo adesso in Iraq con delle componenti che si vanno aggiungendo: il Comandante generale ha giustamente ricordato come il concetto strategico di queste unità sia poi per moduli e soprattutto si parta dall’esperienza precedente per modulare l’intervento in funzione delle varie esigenze. Oggi il personale dell’Arma che opera nelle MSU in Iraq (nel quadro che giustamente il Sottosegretario Bosi ha ricordato) si basa su una risoluzione delle Nazioni Unite, la 1511 che nel suo dispositivo, ai punti 13 e 15, ricorda esplicitamente che la Forza multinazionale è in Iraq per assicurare la fase di transizione fino alla data del suo completamento che oggi, purtroppo, non è più considerata il 30 giugno prossimo ma addirittura gennaio 2005, quando si svolgeranno le elezioni. Quindi direi che la base giuridica del nostro intervento, se qualcuno avesse delle perplessità, c’è ed è estremamente chiara e non è mai stata contestata da nessuno.

Diverso è il problema nel quale entreremo in una fase, successiva al 30 giugno, di un maggiore coinvolgimento delle Nazioni Unite che forse renderà necessaria un’altra risoluzione, non per giustificare la presenza di forze di stabilizzazione, ma per esplicitare i compiti che le Nazioni Unite dovranno svolgere nella successiva fase di stabilizzazione del Paese. Questo è il quadro giuridico e politico e la spiegazione per cui oggi tutti - nessuno escluso - sostengono che le Nazioni Unite devono essere più presenti, ma proprio per esplicitare questa ulteriore presenza delle Nazioni Unite si renderà probabilmente necessaria una risoluzione ad hoc su delle motivazioni. Detto questo, ritornando alle MSU, è evidente che, a partire dalle esperienze maturate in Albania, in Bosnia, in Kosovo, oggi in Iraq l’Arma ha potuto schierare al meglio tutte le professionalità e le esperienze maturate in queste precedenti missioni che, peraltro, non costituivano una novità perché chi conosce la storia dell’Arma sa che l’Arma all’estero non è che sia andata alla metà degli anni ’90: l’Arma all’estero è andata alla fine del 1800, già esportando in quegli anni, in paesi lontani o vicini - dalla Grecia al Cile - la propria professionalità per formare corpi di polizia, per aiutare quei Paesi a creare strumenti moderni e originali come erano quelli di cui l’Arma era dotata già alla fine del 1800.

Detto questo, oggi - lo ricordava il Comandante generale - in Iraq il personale dell’Arma (come dire: è normale ed era evidente) si avvale, all’interno delle MSU, di tutte le componenti, di tutte le specialità di cui l’Arma è dotata e, quindi, contribuisce a 360 gradi a questa attività di stabilizzazione nelle aree di responsabilità che il Comandante generale ha ricordato all’interno della provincia di Tickard dove è schierato il nostro contingente militare, in un’area di responsabilità inglese all’interno di unità al momento sotto comando polacco. Lì si pose il problema (lo ricordo solo storicamente) se consentire o meno la operatività dell’MSU su tutto il territorio iracheno e poi si decise per limitare l’impiego dell’MSU all’area di nostra responsabilità, per considerazioni di sicurezza. E quindi, effettivamente, il personale dell’MSU è intervenuto e sta intervenendo in Iraq in un’infinità di settori tipici delle varie professionalità e specialità dell’Arma, che il Comandante generale ha ricordato, ma io aggiungo molto volentieri che hanno fatto già in passato e stanno facendo oggi un lavoro estremamente encomiabile i militari del Comando per la Tutela del Patrimonio artistico. Direi che l’Italia in Iraq si è assunta la responsabilità di rimettere in piedi il sistema del patrimonio culturale iracheno con tutta una serie di interventi finanziati dal Ministero degli esteri e portati avanti - per una serie di aspetti - dal Ministero per i Beni culturali e peraltro, ovviamente, dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio artistico.

Questo è un po’ il quadro che volevo ricordare. Volevo aggiungere alcune cose, sempre ritornando alle lezioni apprese, che sottopongo poi alle future discussioni che seguiranno. Non è un segreto che l’MSU è il modello di cui l’Arma ha saputo dotarsi e che l’Arma ha saputo esportare. L’MSU gode della massima considerazione. Credo che nessuno debba essere geloso: non soltanto noi italiani siamo orgogliosi dei nostri Carabinieri, signor Sottosegretario, Signor Comandante generale, ma anche gli stranieri. Io ho avuto la possibilità di essere presente a numerose riunioni del Ministero della difesa, ma più recentemente anche del Ministro degli esteri con personalità straniere: quando si evoca la necessità di poter disporre di reparti particolari che, come abbiamo detto, sappiano coniugare la professionalità di una Forza di polizia con la professionalità di una Forza militare, istintivo e immediato è il menzionare i Carabinieri. Gli americani ne sono i primi sostenitori entusiasti, gli inglesi anche, sia sul canale militare sia su quello politico. L’anno scorso, a fine settembre, in occasione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, con il Ministro degli esteri abbiamo incontrato, insieme ai ministri degli esteri degli altri 24 Paesi dell’Unione Europea, una folta rappresentanza del Consiglio di Governo provvisorio iracheno, con il presidente di turno e numerosi ministri fra cui anche il ministro degli esteri. Il presidente di turno ha lanciato un appello, che ovviamente ha rivolto in primo luogo a noi perché l’Italia in quel momento deteneva la presidenza di turno dell’UE, invitandoci (e invitando tutti gli altri Stati membri) ad aumentare le unità di uomini destinati alla sicurezza dell’Iraq facendo ricorso ai Carabinieri che ha esplicitamente menzionato: “Noi vogliamo più Carabinieri in Iraq”.

E soprattutto ci ha chiesto (e qui entriamo nell’altra componente che sta diventando sempre più importante nello svolgimento di questa missione) di aiutarli (cosa che peraltro noi già stiamo facendo, ma probabilmente non come potremmo) a formare, ad addestrare la nuova, ricostituenda polizia irachena. Aggiungo piccole cose, molto brevi, prima di concludere. L’esperienza è, quindi, positiva. Gli apprezzamenti sono unanimi. Quali sono le lezioni da trarre? Certamente - parlo adesso come diplomatico e quindi nelle vesti di chi deve contribuire con la propria professionalità alle scelte che il Governo deve effettuare in materia di politica estera - un modello come quello delle MSU è un modello che deve continuare ad affermarsi e, anzi, deve certamente svilupparsi ancora di più. Ho affermato prima che le questioni militari internazionali ormai stanno diventando sempre di più operazioni di polizia internazionale per tutti quei motivi che ho ricordato, ma che il Comandante generale ha illustrato molto più efficacemente. Questo certamente richiede unità specializzate multinazionali, cioè richiede più MSU.

Questo richiede, quindi, anche una attenzione maggiore dell’Arma (ma anche del complesso sistema difesa) nei confronti del contributo che questo tipo di unità potrà dare. Non facciamoci illusioni: io credo che noi stiamo già andando verso un sistema di relazioni internazionali all’interno del quale questo tipo di missioni è destinato - purtroppo - ad aumentare. Dico “purtroppo” per tutti i costi, non solo - disgraziatamente - in termini di vite umane, di risorse umane da utilizzare, di risorse finanziarie da reperire e anche di costi politici per gestire questo tipo di operazioni; andiamo inevitabilmente verso un ricorso sempre maggiore a questo tipo di impegno militare all’estero. D’altra parte è essenziale, in una concezione che vede lo strumento militare come uno degli strumenti (se non lo strumento per eccellenza) di accompagnamento dell’azione di politica internazionale dei governi.

In questo quadro, quindi, l’Arma bene fa a dedicare due giornate di riflessione a questo argomento; bene fa a prepararsi sempre meglio, in raccordo con Paesi con i quali già ha operato, già ha stabilito modelli di interoperabilità e con i quali sempre più potrà lavorare. Ovviamente (e quindi termino con una domanda che certamente verrà dibattuta) c’è un problema obiettivo di rapporti con le altre componenti di uno schieramento militare nazionale. Qui è evidente il riferimento che ho in mente: cioè, c’è un problema di confrontarsi con altre componenti terrestri che certamente continueranno ad essere impiegate in operazioni internazionali, con la domanda che, se queste operazioni militari internazionali diventeranno sempre più delle operazioni di polizia internazionale e richiederanno, quindi, professionalità particolari, del tipo di quelle delle MSU, effettivamente ci sarà un problema di equilibri che dovranno essere creati. È un problema che certamente non è solo italiano ma è universale, con le altre componenti da impiegare in teatro, perché certamente il rischio che si può profilare (e che vedo) è che chi non indossa un’uniforme nera dica: “Beh!, ma allora qual è lo spazio che rimane a chi non opera all’interno delle MSU?”. Non rispondo, perché non è il mio compito: mi accontento di stimolare una riflessione. Io sono sicuro che l’Arma, con la saggezza che l’ha sempre caratterizzata, saprà certamente trovare una risposta equilibrata e pacata che non alteri alcun equilibrio anche in questa risposta.

Grazie.


(*) - Trascrizione da registrazione audio corretta dall’autore.
(**) - Ambasciatore, Direttore Generale per i Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente.