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Lineamenti generali del diritto penale internazionale

Ida Caracciolo (*)

Lineamenti generali del diritto penale internazionale

Grazie Presidente. Io ho il compito di illustrare i lineamenti generali del diritto penale internazionale, espressione questa molto generica dato che è spesso utilizzata per intendere norme diverse quanto a fonti ed obbiettivi. Nell’eseguire questo compito non potrò non essere inizialmente un po’ dogmatica, dovendo trattare di profili definitori. Nella seconda parte della mia relazione sarò invece più pratica e mi concentrerò sul profilo più scottante che è quello della Corte penale internazionale, della sua giurisdizione e del rapporto della sua giurisdizione con le giurisdizioni nazionali perché sono questi i profili rispetto ai quali spesso vi è il rischio di incorrere in equivoci. Iniziamo con il profilo dogmatico. L’espressione diritto penale internazionale è un’espressione molto antica: fu infatti utilizzata per la prima volta alla fine del ’700 da Jeremy Bentham al quale si deve anche l’espressione diritto internazionale privato.

Bentham affrontò, tra l’altro, anche il problema, che cominciava allora a farsi sentire, del rapporto tra i diversi ambiti giurisdizionali penali nel caso in cui vi è una fattispecie penale che presenta un elemento di estraneità, nella quale, cioè, l’autore o la vittima o il locus di commissione del reato sono stranieri. Per la verità, la questione di come esercitare l’azione penale quando la fattispecie penale non si esaurisce nell’ambito soggettivo ed oggettivo di uno stesso ordinamento, era ben conosciuta ed antichissima. Gli studiosi della materia citano addirittura l’istituto romano della noxae dedictio, ossia la consegna dell’autore di un fatto dannoso commesso a danno di un membro di un’altra famiglia, da parte del suo pater familias all’altra famiglia per la sua punizione. La prassi della consegna del colpevole al gruppo diverso da quello di appartenenza si sviluppò poi nel mondo medievale e nel diritto intermedio, dove il reato, commesso all’interno di un gruppo, veniva perseguito nel gruppo, mentre nel momento in cui il reato era intergruppo, cioè colpiva un altro gruppo, si procedeva alla consegna del reo all’altro gruppo. Da questa pratica nasce e poi si sviluppa, con tutte le garanzie giuridiche sostanziali e procedurali, l’istituto dell’estradizione.

Originariamente, infatti, l’estradizione era costruita su basi di reciprocità per cui la restituzione del colpevole al suo gruppo si fondava sulla previsione che, nel caso opposto, sarebbe stata tenuta la medesima condotta. Con la nascita (dopo la pace di Vestfalia, nella seconda metà del ’600) dello Stato moderno, quindi dello Stato sovrano, dello Stato che esercita il suo potere coercitivo in un ambito territoriale determinato e che comincia a sviluppare un suo apparato giurisdizionale penale, il problema del rapporto con gli altri Stati sovrani e con le altre giurisdizioni penali diventa fondamentale e centrale. Ai tempi di Bentham e per tutto l’800 si trattò di un problema teorico più che pratico, visto che, evidentemente, per la limitatezza dei mezzi di trasporto, i contatti tra soggetti appartenenti a ordinamenti giuridici diversi erano particolarmente circoscritti, così come gli spostamenti da uno Stato all’altro.

L’aumento della circolazione transnazionale delle persone rese, invece, nei primi anni del ’900, sostanziale la questione del rapporto tra i diversi ambiti giurisdizionali penali e non per niente è del 1924 la nascita in Francia dell’associazione internazionale di diritto penale ad opera di giuristi quali De Fabre, Pella, i grandi penalisti internazionalisti di quegli anni. Si sviluppa così un ramo del diritto che è sicuramente penale per i suoi contenuti e i suoi obiettivi ma meno per le fonti che sono accordi internazionali: il diritto penale internazionale in senso stretto. Un diritto cioè che ha come suo scopo unico la tutela dell’ordine pubblico dell’ordinamento statale e che, al fine di raggiungere questo obiettivo, cioè il mantenimento di una vita civile sicura, nonché l’obiettivo di tutelare i valori fondamentali di quell’ordinamento giuridico, disciplina i rapporti tra le diverse giurisdizioni penali per il tramite di diversi criteri di collegamento: quello del luogo di commissione del reato (criterio di collegamento territoriale); quello soggettivo attivo, che incardina la giurisdizione nello Stato di cittadinanza dell’autore del reato; quello soggettivo passivo, che incardina la giurisdizione nello Stato di cittadinanza della vittima oppure nello Stato in cui si trova il bene colpito dall’illecito; e da ultimo, il criterio, nato più per impulso del diritto internazionale che della normativa interna, della universalità della giurisdizione.

L’universalità della giurisdizione può essere intesa in un senso più stretto e in un senso più ampio. In senso più stretto, quando l’esercizio della giurisdizione penale, indipendentemente da dove sia stato commesso il reato, indipendentemente da chi sia l’autore, da chi sia la vittima, da quale sia il bene colpito, si basa sulla circostanza che nel territorio dello Stato vi è il soggetto che si ritiene colpevole del reato e che, dunque, è sottoposto al potere coercitivo dello Stato. In senso più ampio, quando il criterio di universalità è completamente svincolato da qualsiasi collegamento territoriale indiretto: la giurisdizione penale sussiste nei confronti di un certo reato indipendentemente da qualsiasi collegamento tra Stato e reato, essendo quest’ultimo talmente grave da esigere comunque l’esercizio della potestà punitiva dello Stato “terzo”.

Ma questo diritto penale internazionale in senso stretto non si limita a coordinare le giurisdizioni penali nazionali, a risolvere i conflitti di leggi tra queste giurisdizioni ma anche, e questo forse è il profilo oggi più interessante, a fissare meccanismi di cooperazione tra i diversi ambiti giurisdizionali, sulla base di un dato di fatto: lo sviluppo della criminalità transnazionale. A fronte di una sorta di “globalizzazione” di alcune forme di criminalità non è più sufficiente individuare la legge penale applicabile e quindi il giudice penale che la dovrà applicare ma anche fare in modo che le giurisdizioni nazionali collaborino attraverso procedimenti standardizzati che permettano di evitare che la mancanza di comunicazione renda difficile, se non impossibile, la repressione dei reati. Contemporaneamente, si assiste a un tentativo di uniformizzazione dei diritti penali interni, anche se tramite accordi quadro volti ad eliminare le differenze tra ordinamenti penali, differenze che favoriscono lo sviluppo della criminalità transnazionale. Moltissime convenzioni sono state concluse in questa materia, alcune risalgono addirittura agli anni ’20-’30, come quella sulla tratta di donne e bambini o le prime convenzioni sulla lotta al traffico illecito di stupefacenti, anche se le grandi convenzioni sulla criminalità transnazionale sono state favorite dalle Nazioni Unite, come quella sulla lotta al traffico illecito di sostanze stupefacenti del 1988 in cui, per esempio, vengono definite le fattispecie penali, che concretano questo traffico illecito, vengono qualificate le sostanze stupefacenti e vengono sviluppate forme di cooperazione, anche di polizia (accesso ai conti correnti bancari, scambio di informazioni, le possibilità di indagini in loco), e poi vengono fissati i meccanismi di assistenza giudiziaria in modo più lineare rispetto alle convenzioni precedenti.

Questo ramo del diritto raggiunge la sua massima espressione nel grande sforzo negoziale che ha portato a Palermo, nel 2000, all’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sulla lotta alla criminalità organizzata transnazionale. È una grande convenzione quadro, generica nei contenuti proprio perché riguarda fattispecie penali molto diverse, che cerca di abbracciare tutta la produzione convenzionale preesistente ma che ha la stessa struttura delle convenzioni precedenti, contenendo: norme di uniformazione od armonizzazione della legislazione penale nazionale, norme di cooperazione di polizia, norme di cooperazione giudiziaria, tutte completate da protocolli allegati che trattano, invece, di specifici aspetti di criminalità organizzata, particolarmente rilevanti nel mondo di oggi, ossia, la tratta degli esseri umani, la tratta delle piccole armi e il traffico illecito di migranti clandestini. Un ultimo profilo del diritto penale internazionale sta cominciando a svilupparsi, meno operativo ma di grande rilievo per gli Stati, come l’Italia, di storica civiltà giuridica: quello della tutela dei diritti umani. Si tratta, cioè, di fare in modo che tutti questi meccanismi di cooperazione di polizia e giudiziaria, così come l’uniformizzazione normativa, focalizzata alla tutela dell’ordine pubblico nazionale, siano, comunque e sempre, rispettose degli standard di tutela dei diritti umani, pur trattandosi di convenzioni tendenzialmente universali e quindi aperte naturalmente all’adesione di Stati di assai diverse civiltà giuridiche.

Dal diritto penale internazionale deve distinguersi il diritto internazionale penale che se ne differenzia per scopo, per oggetto e per i suoi fondamenti giuridici e naturalmente per la sua evoluzione storica che ha portato da ultimo all’adozione dello Statuto di Roma sulla Corte penale internazionale nel 1998. Il diritto internazionale penale è un diritto che ha come scopo diretto ed immediato di tutelare l’ordine pubblico, la coesistenza pacifica della Comunità internazionale in quanto tale, cioè, di tutelare alcuni valori fondamentali indispensabili per la sopravvivenza della Comunità degli Stati globalmente intesi. Si tratta, in altri termini, del valore del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e della tutela dei fondamentali valori umanitari, che si concretizza nel divieto di violazioni massicce e generalizzate dei diritti umani.

Direi che, utilizzando un’espressione molto frequente nello Statuto di Roma, vi è una soglia, al di sopra della quale determinate fattispecie penali non colpiscono solo l’ordine pubblico dello Stato in cui sono commesse o di quegli Stati di cui sono cittadini i soggetti coinvolti dal reato. Al di sopra di una certa soglia determinate fattispecie penali si qualificano come lesive anche degli interessi della Comunità internazionale perché sono generalizzate, perché si inseriscono in un quadro sistematico, perché assumono una gravità superiore; allora ecco che questi comportamenti sono direttamente incriminati dalla norma penale internazionale, indipendentemente dalla circostanza che gli stessi siano considerati reati negli ordinamenti interni e quindi incriminati da una norma penale statale.

Lo scopo del diritto internazionale penale è, quindi, quello di tutelare gli interessi fondamentali dell’ordinamento internazionale, della Comunità degli Stati, e perciò ha come suo oggetto, soltanto ed esclusivamente, i crimini internazionali dell’individuo che sono incriminati da norme consuetudinarie codificate nello Statuto di Roma. Quest’ultimo, allo stesso tempo, esclude tassativamente dall’ambito della giurisdizione della Corte (e quindi dall’ambito della categoria dei crimini internazionali) i cosiddetti reati previsti da convenzioni internazionali che non si sono ancora consolidati secondo la prassi costante e generalizzata degli Stati in crimini internazionali ai sensi del diritto internazionale vigente. In particolare, il dibattito durante la conferenza di Roma, istitutiva della Corte penale internazionale, ha riguardato la lotta al traffico illecito di stupefacenti ed il terrorismo che furono poi espressamente esclusi dal catalogo dei crimini. In conclusione, sono crimini internazionali, ad oggi, i crimini di guerra, il genocidio, i crimini contro l’umanità (e qui forse lo Statuto della Corte penale internazionale è più di sviluppo progressivo), l’aggressione (prevedendo l’aggressione quale crimine rientrante nella sua competenza ma non definendola).

Ed i lavori, in Assemblea degli Stati parte, sono tuttora ad uno stadio preliminare. Le fonti del diritto internazionale penale sono fonti di natura internazionale, sono consuetudini per quanto riguarda l’incriminazione del comportamento, spesso sviluppatesi a partire da convenzioni internazionali od in esse codificate. Si pensi alla Convenzione sul genocidio del 1948, alle quattro convenzioni di Ginevra sul diritto umanitario del 1949 ed ai due protocolli aggiuntivi del 1977 con la definizione di violazione grave del diritto umanitario, alla convenzione sull’aparthaid del 1975, alla convenzione sulla tortura del 1985 e poi agli Statuti dei tribunali ad hoc per la ex Jugoslavia e per il Ruanda che hanno un articolo sui crimini internazionali e poi la grande codificazione, negli articoli da 5 a 8, di cui allo Statuto di Roma. Naturalmente la norma penale internazionale deve essere poi recepita e riformulata negli ordinamenti interni, che sono tutti improntati al principio di legalità, pur se in diverse accezioni. Su tali basi lo Statuto di Roma crea, a livello tendenzialmente universale, un sistema misto di repressione dei crimini internazionali, un sistema che vede una competenza giurisdizionale primaria degli Stati, perché solo gli Stati hanno quella effettività sovrana e, quindi, quel potere coattivo che permette nel modo migliore la repressione di un comportamento penalmente illecito.

La giurisdizione della Corte, invece, è complementare. Essa, infatti, potrà giudicare un crimine internazionale solo se lo Stato competente, ai termini di quei criteri di collegamento. menzionati prima, non istruisce un processo, pur essendoci i presupposti, o dà luogo a una decisione “simulata”, in cui la condanna o l’assoluzione non corrispondono alla gravità del fatto sottoposto a valutazione dell’autorità giudiziaria, o non può procedere all’azione penale perché non esiste più un sistema giudiziario. Certo è che la Corte, come ogni giudice internazionale, ha la cosiddetta “competenzcompetenz”, ossia è competente a decidere sulla sua giurisdizione, ma lo Statuto prevede tali e tante tappe valutative prima di arrivare alla determinazione finale della giurisdizione della Corte, che è presumibile, là dove essa la sancisca, che questa sia effettivamente fondata e non risponda a scopi pubblicitari o persecutori. D’altronde, che lo scopo della istituzione della Corte penale internazionale non sia assolutamente quello di esautorare gli organi giurisdizionali internazionali discende da altre due circostanze. In primo luogo, è da sottolineare che i crimini che rientrano nella giurisdizione della Corte sono crimini particolarmente gravi, inseriti in un’azione generalizzata e sistematica, attuata con dolo specifico. Ne può conseguire che taluni comportamenti, anche se qualificati come crimini di guerra o contro l’umanità dagli ordinamenti interni, non lo siano poi ai sensi dello Statuto di Roma, non superando la citata soglia, tanto da non poter essere sottoposti alla giurisdizione della Corte stessa.

Ancora, la giurisdizione della Corte penale non è, come si voleva all’inizio soprattutto da parte tedesca ed anche italiana, una giurisdizione inerente ed universale, che esiste per il fatto stesso che esiste la Corte; essa cioè non è svincolata dall’adesione allo Statuto o dalla manifestazione di volontà dello Stato aderente di accettare la giurisdizione della Corte, ma è una giurisdizione che sussiste soltanto se lo Stato dell’autore del fatto o lo Stato del locus commissi delicti la accettano. In più, come poi dirà il Comandante Caffio, lo Statuto della Corte contiene una serie di articoli che prevedono meccanismi “di garanzia” della sovranità statale. Uno di essi è rinvenibile nell’art. 98, mentre l’altro consiste nella clausola di esclusione della giurisdizione che lo Stato può utilizzare al momento della ratifica o adesione allo Statuto nei confronti dei crimini di guerra. Ma, comunque, è il principio di complementarità della Corte che la pone come un giudice di seconda battuta, laddove i sistemi penali nazionali non siano in grado di reprimere i crimini internazionali. Questo rende la Corte totalmente differente dai Tribunali ad hoc per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, che hanno, invece, una giurisdizione di primazia sostituendosi a quella nazionale.

Scelta questa che si poté fare perché si tratta di Tribunali ad hoc, temporalmente, soggettivamente e oggettivamente delimitati e, tra l’altro, nati con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, non con un accordo tra stati. Un ultimo profilo è meritevole di rilievo: la Corte non si contrappone agli altri meccanismi previsti dall’ordinamento internazionale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Essa, perseguendo analoghi obiettivi, non è un’alternativa alle azioni di mantenimento della pace o della sicurezza internazionali o un organo di controllo su queste azioni ma le completa e le integra, se necessario, e ne garantisce la legalità. Un ultimo accenno allo stato del recepimento dello Statuto del 1998 nel nostro ordinamento interno.

L’Italia è stato uno dei Paesi leader tra quelli che volevano la Corte (cd. Likeminded States), cioè tutti i Paesi dell’Unione Europea, qualche Paese dell’America Latina, l’Australia e gli altri Stati dell’Africa sud sahariana. Proprio per questa nostra attitudine favorevole noi ratificammo lo Statuto senza aver predisposto l’adattamento dell’ordinamento interno, ritenendo che, comunque, lo Statuto non sarebbe entrato in vigore così velocemente come poi in effetti è stato e che quindi avremmo avuto davanti a noi un certo numero di anni nel corso dei quali superare le difficoltà anche costituzionali del recepimento, cogliendo anche il destro per rivedere globalmente tutta la normativa italiana in materia di diritto internazionale penale e quindi le norme penali in materia, militari e non. Furono allo scopo istituite due commissioni, una competente appunto sui profili penalistici e sostanziali, una sui profili processuali.

Queste commissioni hanno completato i loro lavori e sono state sostituite da un’altra commissione, presso il Ministero della Giustizia, che inglobava tutte e due le componenti e che in più si poneva anche il problema del recepimento della Convenzione di Palermo e dei protocolli sulla lotta alla criminalità organizzata transnazionale. Anche questa commissione ha esaurito i suoi lavori ed è stata sostituita da un’ultima commissione, sempre presso il ministero della Giustizia, che ha esaminato specificatamentee l’adattamento dell’ordinamento interno allo statuto della Corte penale, giungendo alla sue conclusioni. L’iter di recepimento è ancora in corso ma, dall’11 marzo 2003, la Corte è operativa e l’Italia potrebbe essere in qualsiasi momento chiamata ad adempiere agli obblighi assunti con la ratifica dello Statuto. Il rischio dunque di una responsabilità internazionale del nostro Paese per violazione degli obblighi contenuti nello Statuto di Roma è purtroppo oggi concreto.

Approfondimenti:

(*) - Docente di diritto internazionale nella II Università di Napoli.