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Corte dei Conti


Corruzione fiscale - Danno patrimoniale e all’immagine della P.A. - percezione tangenti.

Corte dei conti - Sezione giurisdizionale della Liguria - Sentenza n. 928/2004 del 30 settembre 2004 - Pres. D’Antino - Rel. Salamone

Considerato in Diritto

Pregiudizialmente occorre esaminare la richiesta avanzata da tutti i convenuti di sospensione del giudizio fino all’esito del processo penale di appello pendente per gli stessi fatti su cui si fonda il presente giudizio di responsabilità amministrativa. Al riguardo, si osserva che nel nostro ordinamento vige ormai il principio della separatezza ed autonomia del giudizio contabile rispetto a quello penale, atteso che il nuovo codice di procedura penale del 1988 non ha riprodotto l’art. 3 del codice precedente, che, ispirandosi al diverso principio dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello contabile, prevedeva l’obbligo di sospensione di quest’ultimo ove la cognizione del reato influisse sulla definizione della controversia. Di conseguenza, esclusa la sussistenza di un obbligo di sospensione del processo contabile, ai sensi degli artt. 75, terzo comma, c.p.p. e 295 c.p.c. e non essendovi particolari esigenze istruttorie, che pure potrebbero giustificare la sospensione facoltativa del processo, la proposta istanza di sospensione del giudizio va respinta.

Passando al merito, il Requirente imputa ai convenuti di avere percepito, in occasione della verifica fiscale effettuata nei confronti della società Omissis S.p.a., una “tangente” di lire 50.000.000, al fine di favorire la stessa, così cagionando all’Erario sia un danno patrimoniale per minori entrate tributarie, quantificato in misura almeno pari a quella della tangente percepita, sia un danno “non patrimoniale” conseguente alla lesione dell’immagine della P.A., quantificato nella stessa misura in relazione al costo sostenuto o da sostenere per il ripristino del prestigio e dell’immagine dello Stato.

La pretesa risarcitoria fatta valere nel presente giudizio trae origine da uno degli episodi delittuosi oggetto del procedimento penale, definito in primo grado con la sentenza n. 1980/2001, depositata il 9 agosto 2001, per il quale il Tribunale di Genova, I Sezione Penale, ritenuta la corruzione e concesse le circostanze attenuanti generiche, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dei primi due per intervenuta prescrizione, mentre ha condannato il G. e il P. per lo stesso reato, non ritenendo concedibili le attenuanti generiche. La prova del fatto corruttivo la si rinviene innanzi tutto nelle dichiarazioni rese al Pubblico Ministero nel corso delle indagini preliminari dal signor L.I., amministratore unico e socio di maggioranza della “Omissis S.p.a”. Lo stesso dichiarava infatti al P.M., in data 19 marzo 1997 e in data 9 febbraio 1998, di aver provveduto, in epoca prossima alla conclusione della verifica che aveva riguardato la suddetta società nel periodo dal 3.7.1990 al 3.10.1990, a consegnare personalmente al C. una busta gialla contenente la somma di lire 50.000.000 in banconote da lire 100.000. L’accordo sull’importo della dazione venne raggiunto dopo una trattativa tra lo stesso ed il C., a seguito di una richiesta iniziale di quest’ultimo che il L. ricordava di lire 150.000.000, poi ridotta a lire 50.000.000.

Il medesimo precisava che evidentemente il C. si era accorto che l’Azienda “era floridissi- ma, aveva molto lavoro e finanziariamente era molto capitalizzata”; inoltre, “tra crediti e magazzino avrà avuto un attivo di sette miliardi”. Il L. sottolineava, altresì, che nel corso della verifica gli era stato detto che se voleva evitare che la verifica si protraesse a lungo e che fossero presi in considerazione anche altri anni precedenti, con ulteriori possibilità di rilievi avrebbe dovuto pagare, e proseguiva dichiarando che pur non avendo troppo da temere dalla verifica in questione decise di accettare la richiesta di pagamento sostanzialmente per quieto vivere. La somma consegnata di lire 50 milioni faceva parte di un maggiore prelievo di lire 130 milioni fatto dallo stesso da un conto corrente della società, a titolo di compenso aziendale (il prelievo e la dichiarazione nel 740 sono stati documentati in sede penale).

Il prelievo fu maggiore della somma poi consegnata per avere un margine di manovra nella trattativa; ricordava, infatti, di aver diviso i soldi in due buste, una di cinquanta milioni ed una di 80 milioni, sì che se non fosse riuscito a fargli accettare i 50 milioni avrebbe consegnato la busta con gli ottanta o anche tutte e due. Tali dichiarazioni molto circostanziate trovano riscontro quanto all’avvenuta dazione della somma in questione nelle dichiarazioni rese, nell’udienza dibattimentale del 13 dicembre 2000, dal C., il quale ammetteva di avere ricevuto verso la fine della verifica la somma di lire 50 milioni dal L., somma che fu divisa di comune accordo con il C. ed il P. in cinque parti, tre per loro sottufficiali e due per il colonnello R., comandante del Gruppo, e per il maggiore G., comandante della Sezione e direttore della verifica, provvedendo personalmente a consegnarla agli ultimi due.

Pur non ricordando “se era la prima, la seconda volta o la …”, precisava di non avere avuto timori che gli ufficiali lo potessero denunciare. Il C. ed il P. confermavano in dibattimento quanto asserito dal C. Anche il G., da parte sua, confermava di aver ricevuto nel proprio ufficio dopo la verifica dal maresciallo C. una somma sui dieci milioni. Dette dichiarazioni autoaccusatorie - rese nel contesto di più ampie ammissioni relative ad una pluralità di fatti delittuosi che hanno consentito di accertare in sede penale l’esistenza di diffusi e sistematici episodi di corruzione nell’attività del Gruppo di sezioni speciali incaricate delle verifiche fiscali - danno piena prova dell’avvenuta percezione da parte di tutti i convenuti di una “tangente”, la quale può fondatamente ritenersi accertata nella somma di lire 50.000.000.

Ciò posto, per quanto attiene al primo profilo di danno (da mancate entrate tributarie), che il Requirente ha contestato nella stessa misura della somma indebitamente percepita, il Collegio condivide le argomentazioni accusatorie svolte dal medesimo in ordine alla sussistenza di un danno patrimoniale per l’Amministrazione, rappresentato dalle minori entrate connesse all’avvenuta percezione della tangente. La prova di tale danno è “ictu oculi” rinvenibile nella struttura sinallagmatica del patto corruttivo, accertato in sede penale ed autonomamente riscontrato da questo giudice. Ai sensi dell’art. 319 c.p., la dazione del danaro o di altra utilità, rappresenta, infatti, per il pubblico ufficiale il corrispettivo della omissione o del ritardo di un atto del suo ufficio, ovvero del compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio. E nella specie, trattandosi di dazione illecita avvenuta in occasione di un controllo fiscale, la controprestazione non poteva che riguardare l’omissione di rilievi, con conseguente perdita di entrate di dimensioni realisticamente ben più elevate della somma percepita, perché solo la prospettiva di un consistente vantaggio indebito può indurre un imprenditore o chi agisce per suo conto - ad assumersi i rischi connessi con il compimento di atti delittuosi, che diversamente sarebbero privi non solo di giustificazione economica, ma anche di qualsiasi plausibile ragione.

Tale orientamento risulta peraltro seguito dalla quasi totalità della giurisprudenza delle Sezioni centrali di appello di questa Corte, e condiviso dalla stessa Corte di cassazione (Cass., Sezioni unite, sent. n. 98 del 4 aprile 2000). Né ritiene il Collegio di poter condividere l’af- fermata natura di mera liberalità della “dazione”, la quale non avrebbe minimamente condizionato l’esito della verifica. Anche a voler prescindere dalla considerazione che l’accoglimento di siffatta tesi neghe CORTE DEI CONTI rebbe l’esistenza del patto corruttivo, accertato dal giudice penale e riscontrato in questa sede (la corruzione fiscale è fonte di danno per l’Erario per definizione, ex art. 319 c.p.), quella che viene qualificata come semplice “regalia”- sollecitata, promessa o anche semplicemente attesa - per il corretto comportamento tenuto, per l’abbreviazione dei tempi della verifica..., come già diffusamente evidenziato da questa stessa Sezione, non può non rappresentare un gravissimo elemento di turbativa del regolare andamento della verifica fiscale, in quanto altera e distorce il normale sviluppo dell’attività di indagine e di controllo (Sez. Giurisd. Liguria, sent. n. 956 dell’11 dicembre 2001).

Non è, infatti, dubitabile che vi sia in chi ha ricevuto, sta per ricevere o comunque si aspetta un compenso, una compiacente predisposizione a tollerare o far finta di non vedere ciò che in una situazione di liceità noterebbe. La rappresentazione del funzionario che, sebbene solleciti o accetti regali (i quali, anche nei casi meno eclatanti, rappresentano comunque multipli del suo stipendio), pur tuttavia assolve ai propri doveri istituzionali senza alcun condizionamento e con particolare severità, per quanto ricorrente nelle argomentazioni difensive dei convenuti in processi come quello che ci occupa, non è altro che un artifizio difensivo assolutamente avulso dalla realtà ed in insanabile contrasto con i più elementari principi della logica prima ancora che del diritto. È comunque certo che, nel caso di specie, come pure in tutti gli altri episodi corruttivi oggetto della sentenza penale, la verifica riguardò soltanto due esercizi. I finanzieri non ritennero, infatti, in nessun caso di estendere i propri controlli agli ultimi cinque esercizi, relativamente ai quali veniva acquisita l’intera documentazione fiscale all’inizio della verifica proprio in vista di tale evenienza.

Appare significativo in merito quanto dichiarato dal L. al P.M. il 19 marzo 1987 “…mi è stato detto che se volevo evitare che la verifica si protraesse a lungo e che fossero presi in considerazione anche altri anni precedenti avrei dovuto pagare...”. Proprio sulla base di questa e di altre dichiarazioni di contenuto analogo nella sentenza penale si afferma che l’amministratore della società si determinò ad effettuare la dazione di danaro “…per realizzare il proprio personale interesse che nella specie era quello di avere una verifica addomesticata e veloce”, considerazione, quest’ultima, che ben esprime la connessione logica esistente tra rapidità della verifica ed attenuato rigore della stessa. In tale contesto, l’accoglimento del principio sotteso all’eccezione di mancanza della specifica prova dei rilievi omessi dai finanzieri finirebbe certamente per assicurare la totale irresponsabilità sotto il profilo patrimoniale a corrotti e concussori. Occorre, infatti, tener presente che la verifica fiscale generale, oltre a presentare aspetti di evidente discrezionalità in ordine alla sua conduzione, non consiste nel controllo di situazioni contabili ben circoscritte e verifica- bili con una procedura standardizzata che, se correttamente eseguita, non può che condurre ad un risultato certo ed univoco.

La contabilità di un operatore economico, anche di medie dimensioni, è un documento composito, articolato in conti e sottoconti, rappresentativo di situazioni contabili atipiche e differenziate - riassuntivo di una notevole massa documentale - alla cui redazione partecipano uffici contabili, talora di notevoli dimensioni, sotto la direzione di professionisti esperti in materia ragionieristica, contabile e fiscale, e, come acutamente già rilevato (Corte dei conti, Sezione I di Appello n. 96 del 25 marzo 2002), “nelle sue pieghe la violazione di legge può annidarsi in atti non tipici, o essere mascherata sotto molteplici artifici”, per cui l’evasione e l’elusione possono essere scoperte solo grazie alle capacità professionali dei verificatori, alla loro correttezza, nonché all’intuizione ed alla sagacia degli stessi. Non è, pertanto, ipotizzabile che la ripetizione della verifica in un momento successivo possa consentire di evidenziare con attendibile valore probatorio le specifiche violazioni della legge fiscale dolosamente non rilevate dai militari infedeli; è anzi probabile che la stessa verifica compiuta in tempi diversi e in diverso contesto dai medesimi funzionari dia luogo a rilievi in tutto o in parte diversi, donde la rilevanza pregnante, ai fini che ci occupano, dell’effetto distorsivo conseguente al perseguimento di un interesse illecito personale, che solo in ipotesi di scuola o curialesche può non essere in conflitto con quello pubblico.

D’altra parte, la tesi della mancanza di danno risulta contrastare anche con gli accertamenti fatti e le decisioni prese in sede penale, atteso che quel giudice, nell’accertare l’intervenuta prescrizione, ha ritenuto la sussistenza del reato di corruzione propria, cioè per atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.). Neppure possono avere qualche valore, ai fini della decisione da assumere, i rilievi effettuati ed i recuperi operati, in quanto gli stessi, per le ragioni diffusamente suesposte, appaiono ininfluenti, rilevando, nella specie, non ciò che è stato scritto a verbale o accertato, ma ciò che è stato omesso. Di conseguenza, deve essere respinta la richiesta istruttoria di acquisizione dell’intera documentazione fiscale (verbali di verifica, accertamenti di imposte), nonché della contabilità dell’Azienda verificata, in quanto irrilevante ai fini del decidere.

Parimenti deve essere respinta la richiesta di indagini presso la Guardia di Finanza e presso l’INPDAP in considerazione del fatto che, ai fini dell’eventuale compensazione, l’accer- tamento delle somme trattenute rileva solo nella successiva fase dell’esecuzione. Alla luce delle considerazioni svolte, essendo impossibile e, comunque, estremamente difficoltoso pervenire alla esatta individuazione dell’ammontare del pregiudizio patrimoniale, certo solo nella sua ontologica esistenza, il Collegio, seguendo un criterio di massima moderazione e di “favor” verso i responsabili, ritiene che lo stesso possa essere determinato in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., nella somma di euro 25.823,00 (venticinquemilaottocentoventitre/00), pari a lire 50.000.000 (cinquantamilioni). In merito alle modalità seguite nella quantificazione di tale voce di danno, pur nella consapevolezza della inadeguatezza (per difetto) della tangente ad esprimerlo, questo giudice ritiene, comunque, di dover sottolineare che, in sede di determinazione equitativa dello stesso, la “tangente” non può non assumere una posizione centrale tra i parametri di riferimento, in quanto rappresenta il prezzo dei vantaggi che il corruttore si ripromette di ottenere e che il percettore è disposto a fargli conseguire. Passando, poi, alla richiesta del danno “non patrimoniale”, conseguente alla lesione del- l’immagine ed alla perdita di prestigio della Pubblica Amministrazione, che il Requirente, nella specie, configura come danno aggiuntivo prodotto dalla medesima condotta (percezione della “tangente”) causativa del danno patrimoniale, va sottolineato che la Suprema Corte di Cassazione ha ripetutamente chiarito che il danno risarcibile, rientrante nella giurisdizione della Corte dei conti, non è ravvisabile esclusivamente in una “diminuzione patrimoniale”, già verificatasi, ma comprende anche i maggiori costi che la pubblica amministrazione sia eventualmente chiamata a sopportare (Cass. Civ. SS.UU. sentenze n. 3970 del 1993, n. 5668 del 25.6.1997, n. 744 del 25.10.1999 e n. 98 del 4.4.2000). Sulla base del riferito orientamento della Suprema Corte, deve, pertanto, essere respinta l’eccezione difensiva circa la mancanza di prova di tale voce di danno per non essere stati provati gli esborsi in concreto effettuati dall’Amministrazione al fine di ripristinare la propria immagine.

La Cassazione, nel riconoscere la giurisdizione della Corte dei conti in materia di danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, ha, infatti, evidenziato che non vanno considerati esclusivamente i costi sostenuti ma anche quelli futuri ed eventuali, senza che sia necessario fornire la prova concreta delle spese effettuate (in tal senso, tra le tante, Sez. Giurisd. Piemonte n. 935 e 937/2000; Sez. Terza Giurisd. d’Appello n. 279-A/2001; Sez. Prima Giurisd. d’Appello n. 16-Ae 48-A/2002). D’altra parte, non sembra possa dubitarsi che qualsiasi danno inferto ad un bene, sia esso materiale che immateriale, abbia carattere di certezza, concretezza ed attualità anche se non prontamente riparato o ripristinato; diversamente opinando, dovrebbe, ad esempio, ritenersi che il grave danneggiamento subito da una autovettura diviene certo, concreto e attuale per il suo proprietario solo quando questo la ripara o la sostituisce (Corte Conti, Sez. Giurisd. Liguria n. 164/R del 28 aprile 2000). Per la stessa giurisprudenza civile è, peraltro, pacifico che la parte danneggiata non ha neppure l’obbligo di impiegare la somma avuta a titolo di risarcimento per effettuare le riparazioni necessarie (Cass. Civ., Sez. III, n. 2402 del 4.3.1998).

Inoltre, in tema di danno c.d. “non patrimoniale” relativo alla lesione dell’immagine della Pubblica Amministrazione, la giurisprudenza più recente della Corte dei conti ha precisato che il danno all’immagine ed al prestigio nozione originariamente elaborata dal giudice civile con riferimento alla sfera giuridica della persona fisica e successivamente estesa alla persona giuridica privata ed ancor più alla persona giuridica pubblica - consiste nella lesione di beni immateriali inidonei a costituire oggetto di scambio e privi di valore di mercato, ma economicamente valutabili (Corte Conti, Sez. giurisd. Umbria 8.6.2001, n. 98; Sez. II d’appello n. 338/A del 6 novembre 2000; Sez. I n. 131/98/A del 12.5.1998). L’evento dannoso, si afferma, “non è più esclusivamente connesso ad una deminutio patrimonii ma piuttosto ad un fatto intrinsecamente dannoso proprio perché confliggente con interessi primari direttamente protetti dall’ordinamento costituzionale e finanziario contabile e che pertanto assurgono a beni giuridici la cui lesione può essere risarcibile se è suscettibile di valutazione economica” (Corte Conti, Sez. I d’Appello, n. 64/2002/A del 5.3.2002).

Ciò non vuol dire, però, che sia sufficiente la mera potenzialità lesiva del fatto, in quanto è necessario che sia provata l’effettiva lesione dell’immagine del soggetto pubblico che si assume danneggiato, ma, una volta accertata la lesione, il danno è comunque presente e deve essere risarcito in considerazione della concreta dimensione della lesione stessa, da valutare in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., non essendo possibile l’esatta determinazione dell’ammontare di un danno di tale natura. Ciò posto, nel caso di specie, non può revocarsi in dubbio che i comportamenti delittuosi tenuti dai convenuti abbiano prodotto, oltre che un danno da mancate entrate tributarie, anche un gravissimo pregiudizio all’immagine ed al prestigio del Corpo della Guardia di Finanza, in particolare, e dell’Amministrazione finanziaria, in generale. E la dimensione di tale danno è rinvenibile nella gravità in sé dell’episodio criminoso su cui la Sezione è chiamata a pronunciarsi; nel clamore suscitato dall’arresto di ufficiali e sottufficiali del Corpo della Guardia di Finanza, cui è istituzionalmente demandata la vigilanza sulla corretta osservanza degli obblighi tributari da parte dei cittadini (l’accusa ha prodotto ben 37 articoli di stampa); nel fatto che lo stesso si inseriva in un sistema di illegalità diffusa (come risulta dalla ripetitività degli episodi delittuosi oggetto dello stesso processo penale posto a base del presente giudizio e di altri casi di corruzione, di cui questo giudice si è occupato e dovrà occuparsi, essendo numerosi i giudizi pendenti).

Né appare rilevante, contrariamente a quanto eccepito dal G., quante volte la stampa abbia menzionato i singoli autori dell’illecito penale, in quanto ciò che viene in considerazione nel- l’ipotesi di danno considerata non è l’immagi- ne degli stessi, ma l’immagine ed il prestigio dell’Amministrazione, alla cui lesione ciascuno ha concorso con la propria condotta. È, dunque, certo che in presenza del grave episodio delittuoso di cui trattasi, l’Amministrazione ha dovuto e dovrà affrontare le spese necessarie per il ripristino della propria immagine; in particolare, ha dovuto procedere alla riorganizzazione del servizio, sostituendo i funzionari infedeli con i notevoli costi connessi alla formazione di nuove professionalità. Ma, soprattutto, ha sopportato e dovrà sopportare maggiori costi a causa delle accresciute esigenze di repressione: la propalazione nell’opinione pubblica di tali gravi fatti delittuosi, ha concorso certamente ad ingenerare nei cittadini il convincimento che si possa agevolmente “rimediare” ad eventuali inosservanze degli obblighi fiscali, grazie ad illeciti pagamenti ai funzionari chiamati a controllarne il rispetto. Infine, l’esistenza del danno collegato alla perdita di prestigio dell’Amministrazione, in un settore delicato ed essenziale per lo Stato, quale quello della fiscalità, in larga parte basato sull’autotassazione e, quindi, sul rapporto fiduciario con i cittadini, è facilmente intuibile nella sua gravità, anche se non esattamente quantificabile nel suo preciso ammontare.

Di conseguenza, il grave nocumento inferto all’immagine dell’Amministrazione, sulla base dei suindicati elementi di valutabilità economica dello stesso, viene determinato dalla Sezione equitativamente, ai sensi dell’art. 1226 c.c., in euro 12.911,50 (dodicimilanove- centoundici/50), - pari a lire 25.000.000 - comprensive di rivalutazione monetaria. Ciò posto, attesa la sussistenza di tutti i requisiti necessari per l’affermazione della responsabilità dei convenuti (rapporto di servizio, violazione dolosa degli obblighi relativi, danno, nesso di causalità tra condotta penalmente rilevante ed evento lesivo), e tenuto conto, altresì, dell’equivalenza del loro apporto causale alla produzione del danno, in parziale accoglimento della domanda attrice, i signori C. D., G. G., P. D. e C. N. vanno condannati, ciascuno in ragione di un quarto e in solido per l’intero (ex art. 1, comma quinquies, L. n. 20/1994), al pagamento in favore del Ministero dell’economia e delle finanze della somma di euro 25.823,00 (venticinque- milaottocentoventitre/00), pari a lire 50.000.000 (cinquantamilioni), oltre a rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT, a decorrere dal 3 ottobre 1990 fino al deposito della presente sentenza, a titolo di danno patrimoniale.

I medesimi debbono anche essere condannati, ciascuno per un quarto e in solido tra loro per l’intero, al pagamento di euro 12.911,50 (dodicimilanovecentoundici/50), pari a lire 25.000.000 (venticinquemilioni), per il danno all’immagine. In sede di esecuzione della presente sentenza, l’Amministrazione terrà conto di quanto da ciascuno già rifuso - ed alla medesima pervenuto a titolo di risarcimento del danno - con riferimento all’episodio oggetto del presente giudizio, considerando, ove i risarcimenti siano stati effettuati indistintamente con riferimento a più episodi delittuosi, anche le eventuali altre condanne con cui sono stati o saranno definiti i relativi giudizi di responsabilità amministrativo-contabile. Le spese seguono la soccombenza.

Per questi motivi

La Corte dei conti - Sezione giurisdizionale regionale della Liguria, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, in parziale accogli- mento della domanda attrice, condanna i signori C. D, G. G., P. D. e C. N. al pagamento in favore del Ministero dell’economia e delle finanze, ciascuno in ragione di un quarto e in solido tra loro per l’intero, delle seguenti somme: -euro 25.823,00 (venticinquemilaottocento- ventitre/00), a titolo di danno patrimoniale, oltre a rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT, a decorrere dal 3 ottobre 1990 fino al deposito della presente sentenza; - euro 12.911,50 (dodicimilanovecentoundi- ci/50), comprensivi di rivalutazione monetaria per il danno all’immagine. In sede di esecuzione, l’Amministrazione terrà conto di quanto da ciascuno già rifuso alla stessa con riferimento all’episodio oggetto del presente giudizio. Dalla data di deposito della presente sentenza sulle somme risultanti saranno dovuti gli interessi legali fino al pagamento. Condanna, inoltre, i medesimi al pagamento, in solido e nella stessa misura, delle spese di giudizio che vengono liquidate in euro 286,68 (duecentottantasei/68). Così deciso in Genova, nella camera di consiglio del 18 giugno 2004.



Danno patrimoniale della P.A. cagionato da sottufficiali dei Carabinieri per falsificazione di documentazioni contabili concernenti forniture di beni o servizi per le esigenze dell’Arma.

Corte dei conti - Sezione giurisdizionale della Basilicata - Sentenza n. 203/2004 del 6 luglio 2004 - Pres. Nottola - Rel. Pergola.

Fatto

Con nota del 6 luglio 2001 la Procura militare della Repubblica presso il Tribunale militare di Napoli comunicava alla Procura regionale della Corte dei Conti presso questa Sezione Giurisdizionale di avere iniziato l’azione penale nei confronti di C. M., vice brigadiere dei Carabinieri, in servizio presso il Servizio amministrativo del Comando Regione Carabinieri, per peculato militare. Da ulteriori notizie acquisite dalla Procura contabile risultava che per gli stessi fatti, qualificati come reati comuni, la Procura ordinaria presso il Tribunale di Potenza stava procedendo per truffa e falso a carico del suindicato nonché del coindagato V. A., vice brigadiere dei Carabinieri, in servizio presso la Compagnia Carabinieri di Policoro con le funzioni di contabile.

Riferisce l’atto introduttivo del presente giudizio che dagli atti relativi ai due procedimenti penali citati è emerso che sono state contraffatte numerose fatture aventi ad oggetto inesistenti forniture a favore dell’Arma, fatture sulle quali veniva apposta la firma apocrifa dei sottufficiali comandanti di varie stazioni dei Carabinieri e che venivano trasmesse agli uffici del Comando Regione Carabinieri essere poi liquidate. Ritenendo, quindi, la Procura che i falsi di cui sopra sono stati compiuti dal C. in concorso col V. al fine di effettuare acquisti di beni di consumo per uso personale, ha citato nel presente giudizio i summenzionati militari, per sentirsi condannare, ciascuno per la parte che vi ha preso, al risarcimento del danno procurato all’Erario, quantificato in euro 11.717,37 (£.22.688.400), a cui va aggiunto il “danno all’immagine” dell’Amministrazione, rimesso alla valutazione equitativa del Collegio giudicante; il tutto aumentato degli interessi, rivalutazione e spese di giudizio.

In difesa del C. si è costituito l’avv. P. che, con memoria depositata in Segreteria il 24.5.2004, ha innanzitutto rappresentato l’op- portunità di “attendere la definizione delle due istruttorie penali” per un più completo accertamento dei fatti per cui è causa. Ha, inoltre, evidenziato che nessun elemento di prova è stato fornito dall’attore in merito al richiesto risarcimento del danno non patrimoniale, concludendo: “affinché codesto Collegio: -in via principale rigetti la pretesa attorea in quanto infondata e comunque non provata; -in subordine, la contenga nel minimo secondo giustizia ed equità, con compensazione delle spese”. In difesa del V. si è costituito l’avv. L. che, con memoria depositata in Segreteria il 25 maggio 2004, ha innanzitutto escluso l’esistenza di un comportamento doloso da parte del suo assistito, considerato che “così come dallo stesso dichiarato sin dal primo atto di indagine, è sempre rimasto nella consapevolezza di agire nell’interesse della Regione Carabinieri, che aveva difficoltà di approvvigionamento di materiali, a causa della mancanza di copertura di alcuni capitoli di spesa”.

Ha poi evidenziato elementi utili ad escludere anche la colpa grave, quali la convinzione di agire nell’interesse dell’Arma, l’essere stata la sua volontà coartata dalle minacce del C. nonché dalla circostanza che il collega era il suo diretto controllore nello svolgimento dell’attività contabile, l’inesperienza e l’inadeguatezza culturale (in possesso del titolo di studio di quinta elementare) rispetto alle mansioni a cui era adibito. Il difensore ha concluso per il rigetto della domanda attorea per insussistenza della colpa grave, ed in via subordinata perché sia condannato “comunque il responsabile diretto all’intero e, solo in caso di sua insolvenza, disporre, per la parte che vi ha preso il V., la sua condanna in via accessoria e sussidiaria”, chiedendo anche l’uso del c.d. “potere riduttivo”. Con memoria integrativa, depositata in udienza, il difensore ha sottolineato che in considerazione del comportamento eventualmente ritenuto colposo del suo assistito, l’obbligato principale che ha agito con dolo deve essere chiamato a rispondere dell’intero danno ed in via ulteriormente gradata ha chiesto “il vincolo di sussidiarietà limitatamente alla quota che il Collegio avrà l’onere di individuare e quantificare, cosicché al V. dovrebbe far carico l’obbligo ascrittogli solo in caso di insolvenza dell’autore del danno alla P.A.”, confermando le richieste avanzate in via principale con la precedente memoria. Nell’intervento in udienza, sia i difensori, sia il rappresentante del P.M., hanno confermato le conclusioni formulate negli atti scritti.

Considerato in Diritto

Preliminarmente va esaminata la richiesta di sospensione del presente giudizio, in attesa dell’esito dei giudizi penali pendenti per gli stessi fatti. Al riguardo, va innanzitutto richiamata la costante giurisprudenza sulla piena autonomia tra i due giudizi, per cui l’art. 295 c.p.c. esclude la necessità di una sospensione di quello contabile in attesa della conclusione del procedimento penale (ex plurimis: Sez. I centrale n. 336/2002). Pertanto l’istituto della sospensione non riveste carattere obbligatorio ma riposa su una valutazione facoltativa del giudice contabile. Nel caso all’odierno esame, considerata l’acquisizione di elementi sufficienti al fine della decisione, non si ravvisano validi motivi per disporre la sospensione. Passando all’esame del merito, va preliminarmente evidenziato che l’attività di contraffazione delle firme del personale dei Carabinieri sugli atti dei procedimenti riguardanti le forniture di beni o servizi per le esigenze dell’Arma, trova pacifico riscontro nei numerosi verbali di assunzione di informazioni, relativi ai procedimenti penali in corso, acquisiti al fascicolo del presente giudizio. Infatti i militari hanno disconosciuto le firme apposte sugli atti mostrati nell’occasione.

Le dichiarazioni rese dai Comandanti di numerose stazioni Carabinieri hanno altresì escluso che le forniture indicate nelle fatture siano state effettivamente rese (ex plurimis vedansi: dichiarazioni agli atti del Maresciallo G., del Maresciallo L., del Maresciallo F., del Maresciallo D.). D’altro canto la circostanza che le forniture di beni o servizi erano “fittizie” emerge anche dalle dichiarazioni rese dai commercianti coinvolti nella vicenda; ad esempio il sig. S., titolare dell’esercizio commerciale omissis, riferisce di aver fatturato una “fornitura di cancelleria che ovviamente non consegnai, sapevo che dovevo solo recuperare i soldi dell’iva”, di analogo tenore sono le dichiarazioni del commerciante M. (cfr: verbale di assunzioni d’informazione - d’ora innanzi v.a.i. - del 10 ottobre 2000). Insomma, la ricostruzione dei fatti offerta dall’attore, sia pure inizialmente basata sulle ammissioni fatte in occasione del procedimento penale militare dal convenuto V. (verbale di interrogatorio di persona sottoposta ad indagini del 28 settembre 2000), trova puntuale conferma nelle dichiarazioni rese dal personale dell’Arma sentito sulla vicenda, ed in quelle dei commercianti coinvolti. Passando ad esaminare la posizione di ciascun convenuto, con particolare riferimento all’elemento soggettivo della responsabilità, dal rapporto della Sezione di Polizia Giudiziaria Carabinieri n. 228/1-11 del 14 settembre 2000, si apprende che il giorno 23 luglio 2000 il C. “dichiarò spontaneamente di aver apposto innumerevoli firme apocrife sulle documentazioni contabili, su richiesta di vari partitari, e di averlo fatto al solo scopo di mettere a posto le pratiche”. Incontestata ed incontestabile (visti anche i suaccennati riscontri) l’attività di falsificazione, la “giustificazione” del C., tesa ad escludere di aver tratto profitto personale da tale illecita attività, viene inequivocabilmente smentita dal commerciante V., che nel verbale di sommarie informazioni del 7 giugno 2000 afferma “Il carabiniere di Potenza effettuava le sue scelte acquistando per certo un televisore, forse di marca Mivar, un impianto stereo compatto, la cui marca non rammento, nonchè altri beni che non so meglio indicare dato il lungo tempo trascorso e forse consistenti in un ferro da stiro oppure in un carrello porta televisori”.

L’episodio riferito dal V. trova riscontro nelle dichiarazioni rese non solo dal V. ma anche dal commerciante M. (cfr: v.a.i. del 10 ottobre 2000). Le spese per l’acquisto degli elettrodomestici (che smentisce l’assunto di aver soltanto voluto “mettere a posto le pratiche” rispetto ad atti che si riferivano a materiale di cancelleria o informatico o simile, e di cui risalta evidente l’estraneità alle esigenze degli uffici dell’Arma che, naturalmente, mai hanno ricevuto tali beni) sono state poi “coperte” dalle fatture per materiale di cancelleria emesse dalla ditta omissis. La surriferita ricostruzione dei fatti, che trova negli atti di causa puntuali riscontri, come innanzi evidenziato, mentre nessun elemento utile a confutarla viene indicato dalla parte convenuta, permette al Collegio di qualificare come doloso il comportamento del C., per cui deve rispondere del danno conseguentemente prodotto all’erario, che sarà evidenziato nel prosieguo della trattazione.

Passando all’esame della posizione dell’altro convenuto, va preliminarmente evidenziato che, sia nel verbale di spontanee dichiarazioni del 23 giugno 2000, sia nel verbale di interrogatorio di persona sottoposta ad indagini n. 535 del 28 settembre 2000, il V. ammette pacificamente l’attività di contraffazione degli atti relativi ai procedimenti di spesa giustificati con le fatture emesse dalle ditte omissis e M. senza alcuna fornitura o servizio effettivamente resi. A giustificazione delle “irregolarità” compiute, il V. sostiene di aver creduto a quanto rappresentatogli dal C. al momento in cui gli aveva fatto la richiesta, cioè che si trattava di procedere all’acquisto di beni necessari ai Comandi dell’Arma, i cui pertinenti capitoli di spesa non avevano la sufficiente disponibilità, per cui era necessario procurarsi i necessari fondi con imputazione a differenti capitoli di spesa che avevano ancora fondi sufficienti allo scopo (cfr: anche pag. 3 della relazione di servizio del Comando Provinciale Carabinieri di Matera n. 561/10 del 26 giugno 2000). Ciò premesso il Collegio ritiene di poter “superare” la formula dubitativa usata dall’attore per qualificare la condotta del V.: “connotata se non da dolo sicuramente da colpa grave” al fine di evidenziare comunque la presenza dell’elemento soggettivo utile per affermare la responsabilità del convenuto ex art.1 della l. n. 20/1994, ritenendo il comportamento delpredetto doloso, in quanto il danno per l’erario era “preveduto e voluto come conseguenza della propria azione” (art. 43 c.p.). Infatti, a smentire la giustificazione addotta dal V., tesa a smentire la consapevolezza dell’evento dannoso in quanto le disponibilità finanziarie irregolarmente create erano comunque impiegate con utilità per l’Amministrazione, concorrono diversi elementi “indiziari” nonché una circostanza determinante ad avviso del Collegio.

Circa i primi elementi, che si rinvengono nei succitati verbali delle dichiarazioni dello stesso convenuto, assumono rilievo i seguenti fatti: - gli inviti del C. al V. di usare per i loro accordi utenze telefoniche private e non quelle di servizio; - gli inviti a non farsi vedere insieme negli Uffici dell’Arma (“quelli, dopo avermi redarguito affinché non mi facessi vedere negli uffici, prendeva la pratica e mi invitava a seguirlo fuori dalla caserma nei pressi di un distributore IP...”; - la pretesa del C. di ricevere dal V. solo denaro contante, atteggiamento proprio di chi non vuole lasciare tracce del proprio illecito operato (“gli esibivo un assegno rilasciato dalla ditta omissis per altri due o tre milioni che però non accettava pretendendo di ricevere solo denaro contante”); -il perdurare di un atteggiamento di “complicità” per nascondere i falsi, anche quando l’Amministrazione aveva avuto sentore delle irregolarità ed un sottufficiale dell’Arma indagava sulla vicenda (“Il Vicebrigadiere C. mi invitava, laddove fossi stato contattato da quel maresciallo, a dire di non essere a conoscenza degli atti dispositivi ed autorizzativi; al che rispondevo che mi sarei regolato in tal senso” ed ancora “invitandomi a distruggere i vecchi atti cosa questa che facevo”).

Orbene, ad avviso del Collegio, si tratta di plurimi comportamenti da parte del C. che avrebbero destato ovvi sospetti anche in una persona di media diligenza, mentre il Carabiniere V. sostiene la propria buona fede circa l’impiego dei fondi illecitamente procurati (l’attività di falsificazione dei documenti da nessuno è messa in dubbio). Risulta dagli atti che i primi sospetti da parte dell’Amministrazione con inizio delle relative indagini risalgono almeno a gennaio 2000, mentre il V. si decide a rendere “confessione” soltanto il 22 giugno successivo. A tali plurimi e concordanti elementi indiziari se ne aggiunge uno ulteriore e decisivo, a riprova della consapevolezza del V. circa l’impiego del danaro per fini non certo istituzionali da parte del C. Riferisce il V. nel verbale di interrogatorio: “ Nel mese di novembre 1988 il C. mi chiamò a casa e mi disse se era possibile imputare delle fatture sul capitolo dei fotoriproduttori per acquistare merce di cancelleria in carico ad altri capitoli di spesa” e poi: “Non ho assistito personalmente ad alcuna contrattazione di materiale tra V. e C. Successivamente ho appreso dal C. che aveva acquistato la merce e di recarmi presso la predetta ditta, di farmi dire a quanto ammontava l’importo dell’acqui- sto degli elettrodomestici e di stornare l’importo facendo emettere più fatture, all’ordine delle varie Stazioni”.

Pertanto il V. era consapevole sin dalla prima “operazione irregolare” che il C. impiegava i fondi per l’acquisto di merce di tutt’altra natura rispetto alla cancelleria che asse- riva necessaria alle esigenze di servizio dell’Arma. Tale consapevolezza dell’evento dannoso per l’erario permette al Collegio di qualificare come doloso anche il comportamento del V., anche se a differenziare la sua posizione rispetto a quella dell’altro convenuto, indubbiamente ideatore e regista delle operazioni, ricorre anche la mancanza di prova agli atti di un profitto economico personale. Emerge comunque una forma di consapevole accondiscendenza alle proposte del C. Gli elementi di differenziazione tra i comportamenti dei due convenuti sopra evidenziati, insieme ad altri quali una certa forma di sudditanza psicologica tra il V. “controllato” ed il C. “controllore” nei procedimenti di spesa di competenza dei Comandi dell’Arma, nonché il timore per le minacce ricevute da parte del C., invocate dal difensore per escludere la responsabilità del proprio assistito, sono invece utili, ad avviso del Collegio, per differenziare la parte di danno ascrivibile al V. che, conseguentemente viene determinata nella misura del 30% del danno specificato nel prosieguo della trattazione, mentre il restante 70% va posto a carico del C., fermo restando il vincolo della solidarietà che deriva, ex art. 1 quinquies della l. n. 20/1994, dall’aver agito entrambi con dolo.

Passando all’esame dell’elemento oggettivo della fattispecie di responsabilità all’esame, si concorda sulla quantificazione complessiva indicata dall’attore in euro 11.717,37, che trova puntuale riscontro nell’elencazione analitica dei titoli di pagamento, la cui documentazione giustificativa è stata formata con firme apocrife, fatta dalla Procura della Repubblica di Potenza nella richiesta di rinvio a giudizio n. 3539/2000 (e 827/01) RGNR, depositata dal Requirente agli atti di causa. Occorre, quindi, procedere alla determinazione del quantum da addebitare a ciascuno dei convenuti “per la parte che vi ha preso”, tenendo presente che il difensore ha sottolineato l’estraneità del V. ad alcuni procedimenti “irregolari”, in particolare a quelli che non riguardavano i Comandi-Stazione collegati al Comando di Policoro. Elementi utili per individuare i procedimenti in cui vi è stato concorso anche del V., si rinvengono non solo nei verbali di spontanee dichiarazioni e di interrogatorio del predetto, ma anche nella relazione di servizio del Comando Carabinieri di Matera n. 561/10 del 26 giugno 2000, che riporta la prima spontanea “confessione” del V. (effettuata il giorno 22 dello stesso mese), in cui indica specificamente i procedimenti irregolari in cui è intervenuto (si vedano in particolare pagg. 3 e ss.), consegnando anche copia degli atti “a riprova di quanto sostenuto”. Sulla base di tali atti risulta il concorso del V. ai procedimenti di spesa giustificati con le fatture emesse dalla ditta omissis (n. 7 fatture per un importo complessivo di £. 5.670.000 - pari ad euro 2.928,31-) ed a quelli giustificati con le fatture emesse dalla ditta omissis (n. 13 fatture per un importo complessivo di £ 10.118.400 - pari ad euro 5.225,72-). Pertanto applicando al danno complessivo di euro 8.154,03 i criteri di riparto dell’addebito tra i due convenuti precedentemente esposto, al C. deve essere ascritto il 70% del predetto importo, pari ad euro 5.707,82, mentre al V. il restante 30%, pari ad euro 2.446,21, il tutto aumentato degli interessi e rivalutazione monetaria, fermo restando il vincolo di solidarietà ex art. 1 della l. n. 20/1994 in considerazione del comportamento doloso di entrambi. La restante parte, pari a euro 3.563,55 (£. 6.900.000), aumentata degli interessi e rivalutazione monetaria, relativa ai procedimenti di spesa giustificati con le fatture emesse dalla ditta omissis (£. 5.600.000 pari ad euro 2.892,16) e dalla ditta omissis (£. 1.300.000 pari ad euro 671,39) deve essere addebitata esclusivamente al convenuto C. La domanda attorea relativa all’ulteriore nocumento subito dall’Amministrazione per “il danno all’immagine” deve essere respinta, poiché il Requirente non ha fornito alcun elemento di prova circa l’an ed il quantum del danno (cfr: Sezioni Riunite n. 10/QM/2003, Sezione II Centrale n. 149/A/2003). Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Basilicata, ogni contraria domanda ed eccezione respinte: a) condanna i convenuti C. M. e V. A. al risarcimento del danno provocato all’Erario di euro 8.154,03, imputandolo, per la parte che ciascuno vi ha preso, per euro 5.707,82 a carico del C., e per euro 2.446,21 a carico del V., con vincolo di solidarietà ai sensi dell’art.1 quinquies della l. n. 20/1994. Le predette somme vanno aumentate della rivalutazione monetaria ed interessi legali. b) Condanna, altresì, il convenuto C. M. al risarcimento del danno provocato all’Erario di euro 3.563,55, aumentato della rivalutazione monetaria ed interessi legali. c) Condanna, infine, entrambi i convenuti al pagamento delle spese di giudizio, che seguono la soccombenza, e che vengono determinate nella misura di euro 137,68 (Euro centotrentasette /68). Così deciso in Potenza, nella Camera di Consiglio del 15 giugno 2004.