Il disarmo chimico e batteriologico nell'area del mediteraneo

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S.Ten. CC Alberto La Bella

“Il disarmo chimico e batteriologico nell’area del Mediterraneo”, è il titolo di un interessante libro edito dalla ESI (Edizioni Scientifiche Italiane) frutto di una rigorosa ricerca del Dott. Francesco Galtieri. Ad uno sguardo superficiale, il tema del disarmo Chimico e Batteriologico potrebbe, oggi, apparire secondario rispetto ai problemi più scottanti della sicurezza. Prevale, infatti, la preoccupazione per l’incombente minaccia terroristica e per i possibili, devastanti effetti d’improvvise esplosioni nel cuore delle nostre città. Tuttavia, anche se l’attenzione degli analisti è giustamente posta sugli aspetti strettamente operativi, d’intelligence e prevenzione, il problema della proliferazione delle armi chimiche e batteriologiche (due varietà della più ampia categoria delle armi di distruzione di massa), è strettamente connesso con la minaccia del terrorismo e ne rappresenta uno dei risvolti più inquietanti.

I casi dell’uso di gas nervino nella metropolitana di Tokyo e le lettere all’antrace al Senato americano subito dopo l’11 settembre stanno lì a ricordarcelo. Non possiamo dimenticare, poi, come il presunto possesso delle armi chimiche e batteriologiche da parte del regime iracheno ha rappresentato il cuore della partita diplomatica che ha poi condotto alla guerra. E non va dimenticato, infine, che l’attenzione era focalizzata in particolare sul timore che quelle armi potessero essere cedute ai gruppi terroristici. Ora, è innegabile che da quando la guerra è finita gli attentati in giro per il mondo hanno fatto registrare un preoccupante salto qualitativo; come non porsi, quindi, il problema che il mancato ritrovamento delle armi sul suolo iracheno possa in realtà nascondere che il loro paventato trasferimento a gruppi terroristici sia, in effetti, avvenuto?

La domanda non è peregrina se si presta orecchio a certe dichiarazioni secondo cui procurarsi armi di distruzione di massa sul mercato internazionale non è un grosso problema per chi possiede milioni di dollari da spendere. Una possibile chiusura del cerchio quantomeno preoccupante, che basta a chiarire come mai il tema della proliferazione e diffusione delle armi chimiche e biologiche non è affatto marginale. Detto di questo solido aggancio con i temi attuali della sicurezza internazionale, l’aspetto pregnante della ricerca del Dott. Galtieri è la prospettiva “istituzionale” da cui il disarmo chimico e batteriologico è affrontato. L’Autore, cioè, ha concentrato la propria analisi sugli specifici strumenti giuridici a disposizione della Comunità Internazionale per il perseguimento di vere politiche di disarmo.

Impostazione di indubbio interesse se solo si pensa all’odierna prevalenza di politiche “muscolari” riguardo i problemi della sicurezza. Il cuore dell’opera consiste in un’accurata analisi di due Convenzioni: la Convenzione sulla Proibizione dello Sviluppo, Produzione, e Stoccaggio delle Armi Batteriologiche e Tossiche e sulla loro Distruzione, adottata nel 1972 e la Convenzione per la Proibizione dello Sviluppo, Produzione, e Stoccaggio delle Armi Chimiche e loro Distruzione adottata il 13 gennaio 1992 (d’ora innanzi indicate, per brevità, con il loro acronimo inglese: CWC -Chemical Weapons Convention e BWC - Batteriological Weapons Convention). Un’importante sezione del libro contiene una serrata analisi testuale dei due Accordi. Tuttavia, anche se tale lavoro risulta di grande valore tecnico, altrettanto interessante appare evidenziarne gli aspetti sostanziali. Entrambe le Convenzioni appartengono alla categoria dei trattati di disarmo. Tali trattati ordinano il completo smantellamento di una particolare categoria di armi e dispongono misure per evitarne l’uso in guerra.

La chiave di tale proposito è la proibizione totale dello sviluppo, acquisizione, possesso e uso delle armi in questione. Uno degli aspetti più interessanti delle due Convenzioni è, in particolare, il fatto che vi siano delle norme che concernono il comportamento delle persone fisiche e giuridiche sottoposte all’autorità degli Stati parte. Gli Stati, infatti, si impegnano a garantire che sul loro territorio non venga svolta nessuna attività proibita; a tal fine, il testo impegna le parti ad emanare opportune norme nazionali. La CWC è più chiara a questo proposito e impone agli Stati di adottare non solo le misure necessarie all’ap-plicazione dei trattati rispetto alle persone fisiche e giuridiche ma anche misure penali per proibire qualunque attività posta in essere in qualsiasi luogo anche dai cittadini di un’altro Stato parte.

Questo particolare aspetto delle due Convenzioni di disarmo merita una riflessione un po’ più attenta. L’emanazione di un’efficace legislazione nazionale è, infatti, il più delle volte il presupposto indispensabile per far sì che le norme del diritto internazionale trovino concreta attuazione. Ci si riferisce qui a quello che, con terminologia presa a prestito dagli addetti ai lavori, è definito l’aspetto patologico del diritto internazionale, ossia la mancanza di un sistema accentrato di sanzioni che assicuri il rispetto delle norme (il fatto che, in altri termini, nell’ordinamento giuridico internazionale non esista nulla di paragonabile al meccanismo “violazione della norma/punizione” vigente negli ordinamenti interni). Immediata conseguenza di questa situazione è che, ove la natura delle norme lo consenta, il rispetto di quanto stabilito dai trattati, può essere assicurato solo dalla vigilanza degli operatori interni.

Nel caso di norme, come quelle contenute nella CWC, che impongono comportamenti ben precisi anche a soggetti privati, è evidente che l’assenza di corrispondenti fattispecie nella legge penale nazionale rende, per ciò stesso, inoperanti le previsioni dei trattati. In tutti gli Stati di diritto vige infatti il principio nullum crimen sine lege. Va detto però che l’adeguamento normativo degli Stati su questo fronte resta ancora deficitario. I due trattati presentano un altro aspetto innovativo legato alla medesima “patologia” del diritto internazionale ma affrontata dal lato della responsabilità diretta degli Stati. Anche in questo caso, tra le due Convenzioni, la CWC è quella che contiene le disposizioni più incisive. Infatti, a parte le misure cosiddette di confidence building, quali sono gli obblighi d’informazione reciproca tesi ad evitare quel gap informativo che spesso determina atteggiamenti non cooperativi, la Convenzione affronta in modo del tutto originale il nodo del rispetto degli obblighi assunti dagli Stati.

Mentre la BWC si limita ad una declamazione di principi senza che specifici strumenti siano stabiliti per garantirne il rispetto, la CWC introduce l’innovativo sistema delle cosiddette “ispezioni ingiuntive a sfida” (challenge inspections). Si tratta, cioè, della possibilità per uno Stato parte di chiedere, con breve preavviso e sulla base di un fondato sospetto, che siano disposte ispezioni all’interno del territorio di un altro Stato parte al fine di verificare il rispetto degli obblighi. La combinazione dei due principi (distruzione delle armi e verifica del rispetto degli impegni assunti) fa della CWC uno strumento giuridico multilaterale inedito e dotato di meccanismi “neutrali” (le ispezioni sono gestite dall’apposita Organizzazione creata dalla Convenzione) idonei a garantire un controllo effettivo sullo stato del disarmo chimico e sull’attività delle industrie civili e militari.

È questo, in sostanza, il risvolto principale della CWC in tema di controproliferazione. Il regime di verifica può, quindi, funzionare nel senso di bloccare all’origine il rischio che gruppi al di fuori del controllo delle stesse autorità statuali possano entrare in possesso di tecnologie o materiali chimici e biologici. In un contesto geopolitico caratterizzato dalla predominanza di logiche preventive/repressive, il recupero della dimensione multilaterale può costituire un importante strumento per rendere praticabili soluzioni altrimenti non condivise dalla Comunità Internazionale perché al di fuori di un quadro normativo tradizionale. Tra le attività più controverse (ma anche più pregnanti) in questo senso, vi sono ad esempio quelle di contrasto al trasferimento di materiali sensibili in ambito internazionale. Materia in cui non esiste un quadro normativo specifico di riferimento né una prassi abbastanza consolidata.

A completamento della ricerca, sono state inserite: un’interessante analisi delle possibilità concrete che il terrorismo faccia uso delle armi chimiche e biologiche (valutandone, dall’interno della logica terroristica, tutti i pro e i contro) ed un’esposizione esaustiva dell’attuale quadro geopolitico nell’area del Mediterraneo. Non sfugge a nessuno, infatti, come il Mediterraneo (insieme all’area asiatica) sia oggi più che mai il fulcro geo-strategico della sicurezza occidentale: tanto dal punto di vista della provenienza della minaccia quanto sotto il profilo dei soggetti destinatari delle politiche occidentali. Il recente progetto politico americano (una vera e propria “offensiva diplomatica”) chiamato “Grande Medio Oriente” (recentemente esposto ai vertici politici italiani dal vice Presidente degli Stati Uniti Dick Cheney) è l’enne-sima riprova di tale centralità. Il libro del Dott. Francesco Galtieri fornisce, dunque, un’illustra-zione quanto mai utile sotto diversi profili.

Tra tutti, mi è sembrato particolarmente meritevole di attenzione l’idea di inquadrare la tematica della proliferazione delle armi di distruzione di massa in un progetto di costruzione di concetti giuridico-politici multilaterali. A questa idea di fondo mi pare si possa aggiungere la considerazione che l’opportunità di tale progetto multilaterale risiede, oggi, soprattutto nella necessità politica che regimi giuridici condivisi siano posti a completamento delle “azioni” concretamente poste in essere. Oggi, d’altra parte, assolutamente necessarie per contrastare efficacemente la minaccia terroristica nelle sue diverse sfaccettature. In definitiva, non più l’opposizione di presunti unilateralisti e multilateralisti ma una sintesi efficace dei due approcci.