Europa. La sfida si chiama unità nella diversità

Giovanni Maria Flick (**)

La prima reazione al fallimento della Conferenza intergovernativa di Bruxelles è stata un senso di delusione tanto più forte e bruciante, quanto più i lavori e soprattutto i risultati della Convenzione che ha redatto il progetto di trattato costituzionale europeo - nata a sua volta dalle delusioni della Conferenza intergovernativa di Nizza del 2000 - avevano alimentato un ottimismo che, a posteriori, è troppo facile definire eccessivo ed utopico. In effetti, la Convenzione ha largamente superato i suoi limitati obiettivi originari: quelli cioè di formulare delle proposte per avvicinare i cittadini all’Europa; per dare una dimensione politica a quest’ultima; per fare di essa un global player nel nuovo contesto mondiale.

È riuscita a proporre (per dirla con le parole del suo presidente Giscard) un compromesso di buon livello, “imperfetto, ma insperato”: un progetto di costituzione che sottolinea in modo ragionevolmente accettabile (di più non era possibile fare, né realistico sperare) le caratteristiche e le aspirazioni di “unità nella diversità”, con cui si esprime l’idea europea. Ha contribuito a questo risultato positivo una serie di novità nella composizione, nel metodo e nell’oggetto dei lavori della Convenzione. Accanto ai rappresentanti dei governi dei paesi membri e della Commissione europea, partecipavano a quei lavori (ed erano anzi in maggioranza) i rappresentanti del Parlamento europeo e quelli dei parlamenti nazionali. E l’impronta parlamentare - pur senza arrivare ad una vera e propria legittimazione democratica - ha influito sulla dimensione politica e democratica delle soluzioni proposte; basta pensare a come si è cercato di valorizzare il ruolo del Parlamento europeo, il primo garante della legittimità democratica dell’Unione Europea, e il suo collegamento con i parlamenti nazionali.

La Convenzione ha lavorato con il massimo di trasparenza e di pubblicità; ed ha costantemente ricercato convergenze e unità nelle soluzioni, anziché accontentarsi di decidere a colpi di maggioranza. Ed anche questo metodo ha favorito una sorta di legittimazione e di consenso dell’opinione pubblica, che si sperava avrebbe condizionato in qualche modo i lavori della Conferenza intergovernativa. Infine, forse soprattutto, la novità di maggior rilievo è stata offerta dall’intreccio continuo ed indissolubile fra i temi di ingegneria istituzionale e quelli sottostanti dei valori e degli obiettivi dell’Unione. Si è discusso sia dei rapporti fra il Parlamento europeo, la Commissione ed il Consiglio, sia del c.d. Ministro degli esteri dell’Unione, sia del numero dei componenti la Commissione, sia del sistema di voto (la c.d. doppia maggioranza) e dell’alternativa fra decisioni a maggioranza o all’unanimità in Consiglio; ma si è anche, contemporaneamente, discusso di libertà, di diritti fondamentali, di radici comuni europee, di sviluppo democratico del processo di integrazione.

Il risultato finale dei lavori della Convenzione non ha risposto a tutte le istanze degli eurottimisti più esigenti, e non ha sciolto (né poteva farlo) tutti i nodi del processo di integrazione e di unificazione. Ma ha comunque rappresentato un salto di qualità nel cammino dell’integrazione europea, altrettanto significativo di quelli che, nei primi cinquanta anni, hanno condotto dal mercato comune del Trattato di Roma allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia del Trattato di Amsterdam e all’euro, in un contesto di pace europea. La Convenzione aveva registrato un accordo sulla Presidenza del consiglio dell’Unione (non più semestrale, come ora); sul Ministro degli esteri europeo con il doppio cappello di partecipe della Commissione e del Consiglio; sulla difesa comune; sulla introduzione nella Costituzione della Carta dei diritti fondamentali, proclamata a Nizza nel duemila, e sull’adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo; sulla rimozione del veto nelle questioni di politica interna; sul diritto di recesso di un singolo stato dall’Unione.

Invece, erano rimaste insolute le divergenze in materia di voto nel Consiglio, per il quale la Convenzione aveva proposto il sistema della doppia maggioranza anziché quello del voto ponderato (approvato a Nizza nel duemila), al fine di tener conto del rapporto fra stati e cittadini; quelle sulla distribuzione e sul numero dei commissari nella Commissione europea, di fronte alla richiesta (soprattutto dei paesi piccoli) di un commissario per ogni stato; quelle sul richiamo o meno, nella Costituzione, delle radici religiose e segnatamente di quelle cristiane; infine, le divergenze sul permanere di un diritto di veto in tema di fisco, di sicurezza sociale, di politica estera e di riforma costituzionale. Il bilancio della Convenzione era perciò ragionevolmente positivo; si può dire che in esso era prevalsa la spinta all’unità su quella alla diversità, nel confronto-scontro tra le due polarità che, nella loro sintesi - spesso contraddittoria - esprimono l’idea e la realtà di Europa.

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Nella Conferenza intergovernativa - composta dai capi di stato e di governo, e gestita dai diplomatici, che doveva decidere la sorte del progetto elaborato dalla Convenzione - sono prevalsi invece, almeno nella fase finale, la logica della collaborazione intergovernativa, il metodo della trattativa bilaterale, il criterio dei rapporti fra stati e della mediazione fra interessi nazionali: in parole semplici, è prevalsa la spinta alla diversità su quella all’unità. Ed è troppo presto per prevedere se il fallimento e il nulla di fatto con cui la Conferenza si è conclusa vanificheranno in toto i lavori della Convenzione (come qualcuno si augura); o se essi si risolveranno soltanto (come molti sperano) in una battuta d’arresto, più o meno lunga, ed in uno shock salutare per riprendere il cammino dell’unificazione. In effetti, numerosi erano i timori che hanno segnato i lavori della Conferenza, nel clima non facile del semestre di presidenza italiana, già di per sé travagliato da tensioni internazionali (soprattutto nel dopoguerra in Iraq e nella crisi mediorientale) ed interne (per il rischio di esportare in Europa polemiche nazionali).

V’era il timore che le istituzioni europee venissero viste e decise dagli stati solo in funzione di conservazione dell’esistente, ed in una prospettiva esclusivamente burocratica. V’era il timore che - nella segretezza e nella litigiosità dei negoziati di stampo tradizionale - si riaprisse il vaso di Pandora delle insoddisfazioni, delle istanze e degli egoismi nazionali, faticosamente sopiti nel compromesso della Convenzione. V’era, ancora, il timore che il negoziato della Conferenza non cogliesse a sufficienza l’esigenza di democratizzazione del processo di integrazione. V’era, infine, il timore che si accentuassero ancor di più il distacco e il disinteresse dell’opinione pubblica europea di fronte ad un’Europa fatta soltanto di discussioni elitarie e tecniche sull’ingegneria costituzionale, di burocrazia lontana (almeno così sembra) dai problemi della gente, di contrasti fra stati nazionali; un distacco ed un disinteresse già ora sin troppo marcati: basta pensare al disincanto e al malcontento di oggi verso l’euro, rispetto alle attese anche un po’ingenue di quando esso entrò in circolazione.

Due sono stati i momenti-clou di questi timori. Da un lato, lo scontro fra la maggioranza dei paesi membri, schierati a favore del voto a doppia maggioranza nel Consiglio europeo, e la posizione di Spagna e Polonia a favore invece del voto c.d. ponderato, per contare di più. Da un altro lato, la querelle sul patto di stabilità, la quale - per una percentuale di centesimi, e quindi per questioni di metodo più che di merito - ha visto la Francia e la Germania contrapporsi in Consiglio alla Commissione, ed ha evocato il timore del direttorio, dell’asse fra paesi più eguali degli altri, della contrapposizione fra un’Europa basata sui principi legali ed un’altra basata invece sui criteri politici. Ed ambedue i punti di attrito hanno evidenziato, sotto aspetti diversi, la ragione di fondo del fallimento della Conferenza intergovernativa: la mancanza, o quanto meno l’insufficienza di un’idea europea condivisa e di una volontà politica comune, capaci di superare gli antagonismi nazionali, così come invece si era verificato in passato, di fronte ad altre analoghe situazioni di difficoltà e di crisi.

La realtà ha dimostrato la fondatezza di tutti quei timori; e certamente è stato saggio, di fronte al fallimento, non ostinarsi a voler concludere i lavori della Conferenza intergovernativa con un compromesso al ribasso, a tutti i costi (l’esperienza di Nizza, nel duemila, insegna). Ed è forse troppo presto per chiedersi se era meglio un rinvio puro e semplice, di fronte alla constatazione del mancato accordo, così come si è fatto; ovvero se sarebbe stata più utile (ammesso che ve ne fossero realmente le condizioni) un’approvazione parziale dei punti già acquisiti nelle trattative, o addirittura una prova di forza con l’approvazione della Costituzione soltanto da parte della maggioranza.

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Probabilmente, il processo di riforma istituzionale avviato dalla Convenzione - già di per sé complesso - è stato ulteriormente complicato da due profili fra loro strettamente connessi. Per un verso, l’entrata dei nuovi paesi membri e - per dirla con il loro linguaggio - la riunificazione (non già l’allargamento) dell’Europa, dopo la caduta del muro di Berlino, propone una serie di problemi di ordine politico, economico e sociale, derivanti dalla nuova dimensione europea, che sono sotto gli occhi di tutti; tanto da far nascere in molti il dubbio che, forse, sarebbe stato meglio completare il processo di riforma istituzionale, prima di affrontare quello dell’allargamento.

Tuttavia, per superare quel dubbio, è sufficiente forse ricordare che l’opposizione alla firma del Trattato costituzionale è venuta sia da un nuovo membro (la Polonia), sia da uno dei quindici attuali dell’Unione (la Spagna). Nonostante i problemi derivanti dall’entrata dei nuovi dieci membri nell’Unione, v’è la comune consapevolezza che l’Europa - proprio dopo la caduta del muro di Berlino ed in conseguenza di essa - non poteva più ridursi semplicemente al rafforzamento dei legami fra i vecchi soci e chiudersi di fronte ai nuovi, che ad essa appartengono sotto il profilo storico, culturale, ideale, esattamente come i primi. D’altronde, i nuovi membri sono portatori di una forte istanza all’unità e alla coesione europea; anche se per essi la guerra è finita soltanto nel 1989 e l’orgoglio nazionale come l’esigenza di sicurezza - legati alla loro memoria storica - li inducono a guardare al rapporto fra l’Europa e gli Stati Uniti con una attenzione ben maggiore di quella, un po’ insofferente, con cui a quel rapporto guardano alcuni fra i vecchi soci del club europeo. Per un altro verso, proprio il rapporto fra Europa e Stati Uniti è un altro aspetto essenziale del cammino verso l’unificazione europea.

La frattura - emersa con evidenza in occasione della guerra irachena - fra la posizione degli Stati Uniti e quelle, fra loro in contrasto, dei membri dell’Unione europea, non può certo considerarsi definitivamente superata; le vicende del dopoguerra dimostrano, d’altra parte, quanto era saggia la preoccupazione europea secondo cui non bastava vincere la guerra, per vincere poi anche la pace. Probabilmente, si è superato il rischio di una unità europea concepita esclusivamente in funzione antiamericana, come pure qualcuno vagheggiava; resta il problema - nel rapporto fra gli Stati Uniti e l’Unione - di individuare, nella comune dimensione occidentale, le matrici di diversità e di unità nel rispetto reciproco. Non ha senso liquidare quel rapporto con il semplicismo della contrapposizione fra il diritto della forza, per gli Stati Uniti, e la forza del diritto, per l’Unione Europea. Occorre però prendere atto del fatto che le diverse storie, esperienze, modi di comportamento, suggeriscono l’idea degli Stati Uniti e dell’Europa, rispettivamente come un punto esclamativo e come un punto interrogativo; ed occorre trovare - nella collaborazione reciproca, inevitabile fra i due - un equilibrio che renda un po’ meno assertiva, e un po’ più dubitativa, la posizione degli Stati Uniti; ed un po’ meno dubitativa, ed un po’ più assertiva, quella dell’Europa.

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Oggi - guardando al futuro, dopo l’esperienza della Convenzione e della Conferenza intergovernativa - sarebbe bene evitare sia la tentazione di una troppo facile santificazione della prima, sia quella di una altrettanto troppo facile demonizzazione della seconda. Ci si deve, piuttosto, chiedere realisticamente se l’Unione Europea vuole, ma prima ancora può proseguire - in una nuova dimensione politica e istituzionale - per la strada già percorsa con successo nei primi cinquanta anni della sua esperienza. È una strada che non ha ignorato ed anzi ha rispettato le differenze, nel perseguire l’integrazione; che ha assicurato ai partners una serie di vantaggi, dalla pace alle libertà economiche, a quelle civili e alla democrazia; che ha saggiamente seguito il metodo c.d. funzionalista di Monnet, nel costruire le istituzioni via via che si presentavano i problemi da risolvere, anziché viceversa; che ha cercato di coltivare i valori e gli ideali politici e sociali, sottostanti all’idea del mercato, sempre meno sotto traccia e con sempre maggior evidenza.

L’occasione di oggi per l’Europa è un mondo globalizzato, con i suoi problemi della sicurezza di fronte al terrorismo globale, ma anche e prima ancora con i problemi della sopravvivenza, dell’ambiente, della fame, dell’acqua, della salute e della povertà, nel nuovo bipolarismo fra Nord e Sud che ha sostituito quello fra Est ed Ovest. La possibilità per l’Europa di giocare un ruolo attivo e determinante, in questo nuovo contesto, dipende evidentemente dalla sua volontà e capacità di porsi come soggetto effettivo in esso. Dipende dalla capacità dell’Europa di raccogliere la sfida globale; e quindi dalla sua capacità di saper costruire l’unità nella diversità; di saper realizzare un’identità fatta di pluralismo, di rispetto reciproco, di dialogo, di solidarietà, di centralità della persona e di essenzialità dei diritti umani: un’identità che rappresenta il dato tipico e qualificante della storia e della cultura europee e delle sue radici greco-romane, cristiane ed illuministiche.

È una dimensione, questa dell’Europa, che va ben al di là sia di una semplice area di libero scambio e di mercato allargato, sia - al contrario - di un’Europa a due o più velocità, che rischia di risolversi, al pari della prima, in una negazione dell’unità e dell’identità europea, a tutto favore dell’esaltazione delle sole diversità, se le diverse velocità diventano strumento di emarginazione e di isolamento di alcuni. È una dimensione che può invece affermare l’unità nella diversità e farla crescere - attraverso l’esperienza delle cooperazioni rafforzate, aperte a tutti, e del loro potenziamento - soprattutto grazie alla posizione trainante che in esse può e deve assumere il nucleo dei Paesi fondatori (fra i quali, ci si augura, l’Italia), in un’Europa non semplicemente allargata, ma riunificata con la presenza dei nuovi membri; ed attraverso la consapevolezza, costantemente riaffermata e difesa, che l’identità comune - espressa appunto dall’unità nella diversità - non può esaurirsi in una dimensione economica, ed è un dato ineliminabile della storia e dell’esperienza europea.

Ed è una dimensione a realizzare la quale possono contribuire certamente - se li si sa vedere nella giusta luce, e se ne sa trarre una lezione positiva oltre che un augurio per le prossime scadenze europee - sia quello che sembrava ieri il successo della Convenzione di Lacken, sia quello che sembra oggi soltanto il fallimento della Conferenza intergovernativa di Bruxelles.


(*) - Conferenza tenuta presso la Scuola Ufficiali Carabinieri il 15 dicembre 2003.
(**) - Giudice della Corte costituzionale.