Compatibilità dello Statuto della Corte Penale Internazionale con la Costituzione Italiana

Manlio Mazziotti di Celso
Lo statuto della corte penale internazionale è stato adottato dalla conferenza diplomatica delle Nazioni Unite di Roma il 17 luglio 1988 ed è entrato in vigore il 1 luglio 2002, ossia, conformemente a quanto dispone l’art. 126 dello statuto stesso, il primo giorno del mese successivo alla data del deposito del sessantesimo strumento di ratifica, accettazione, approvazione o accessione presso il segretario generale delle Nazioni Unite.
L’Italia è stata fra i primi a ratificare e rendere esecutivo il trattato istitutivo della corte penale internazionale, con la legge 12 luglio 1999, n. 232.

Durante la discussione in parlamento è stato rilevato che lo statuto non solo richiede una complessa opera di adattamento della nostra legislazione alle sue disposizioni, ma che alcune di esse contrastano con la costituzione. Così il principio che esso afferma della discrezionalità dell’azione penale e che si oppone a quello, costituzionalmente sancito della obbligatorietà (art. 112), e il principio della irrilevanza delle immunità, per cui non varrebbero, dinanzi alla corte internazionale, le immunità che la nostra costituzione o leggi costituzionali stabiliscono a favore del capo dello Stato, dei giudici costituzionali e dei parlamentari. Soprattutto grave è la disposizione dell’art. 20 dello statuto, secondo la quale, se una persona è stata processata da un altro tribunale con l’intento di esimerla da responsabilità penale per delitti rientranti nella competenza della corte internazionale, o se il processo non è stato condotto in modo indipendente e imparziale, in armonia con le norme del giusto processo riconosciute dal diritto internazionale e in maniera che, date le circostanze, sia incompatibile con l’intenzione di sottoporre la persona alla giustizia, non vale il principio ne bis in idem e la persona può quindi essere riprocessata dalla corte, la cui sentenza, si badi, gli Stati che hanno accettato lo statuto sono tenuti ad eseguire. Si tratta di una norma indubbiamente in contrasto con la nostra costituzione, perché lede il principio della intangibilità del giudicato, garanzia fondamentale della libertà e della sicurezza dei cittadini.
Vero è che la costituzione, all’art. 11, nella sua ormai consolidata interpretazione, consente all’Italia di partecipare ad organizzazioni internazionali miranti ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni, anche ove questa partecipazione richieda limitazioni di sovranità e deroghe alla costituzione, salvi i principi supremi.

Vale la pena di ricordare che, quando questo articolo fu approvato, i costituenti avevano in mente l’auspicata adesione dell’Italia alle Nazioni Unite e che esso si adatta con qualche difficoltà a certi ulteriori sviluppi dell’organizzazione internazionale, così come al fenomeno comunitario. Di qui le proposte di modificarlo nei sensi fatti propri dalle costituzioni di altri paesi, come la Francia e la Germania. Personalmente ritengo che non vi siano ragioni cogenti per una tale modifica e che l’art. 11 può, opportunamente interpretato, rendere piena ragione dell’adesione dell’Italia sia alle odierne organizzazioni internazionali, sia alle Comunità e all’Unione europea.
L’interpretazione dell’art. 11 è principalmente opera, com’è naturale, della Corte C ostituzionale e si è sviluppata specialmente per effetto della giurisprudenza della corte in tema di garanzia costituzionale dei patti lateranensi (art. 7 cost.), di adattamento del nostro ordinamento alle norme generali del diritto internazionale (art. 10) e del fenomeno comunitario. Così, in relazione al concordato, la corte ha affermato che le norme di esecuzione dei patti lateranensi, in virtù della “copertura costituzionale” risultante dall’art. 7 cost., sono idonee a derogare anche a singole norme di rango costituzionale, ma non possono incidere sui principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato. Non diversa è stata l’opinione del giudice delle leggi in ordine ai trattati comunitari: anche nei riguardi di questi la corte ha affermato che le relative norme di esecuzione non possono violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana (sent. 183/78).

Analogamente, a proposito delle norme di adattamento del nostro diritto interno alle consuetudini generali del diritto internazionale, posteriori all’entrata in vigore della costituzione, la corte ha affermato che il meccanismo di adeguamento automatico previsto dall’art. 10 cost. non potrà in alcun modo consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro sistema costituzionale che ha i suoi cardini nella sovranità popolare e nella rigidità della costituzione (sent. 48/79). Infine, per quanto concerne l’art. 11, che qui particolarmente interessa, nella sentenza 18/82 si legge che, in base a questo articolo, sono state consentite limitazioni alla sovranità per il conseguimento dei fini ivi indicati e che si deve escludere che queste limitazioni possano comunque comportare, per gli organi della comunità europea, un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale.
Pur nella diversità delle espressioni, sembra chiaro che la corte, parlando di principi supremi, ha voluto costantemente riferirsi a quelle somme valutazioni che dominano e qualificano il nostro ordinamento costituzionale. E che la sua giurisprudenza appare informata nell’insieme a un solo principio generale comune, in virtù del quale, quando la costituzione rinvia ad un ordinamento straniero (casi dell’art. 7, art. 10 e dell’art. 11), le norme costituzionali che dispongono il rinvio devono interpretarsi nel senso di escludere che le norme di esecuzione o di adattamento immesse nell’ordinamento interno, in virtù delle disposizioni anzidette, possano ritenersi valide, qualora incidano su principi inderogabili della costituzione.

La giurisprudenza della corte appare tanto più plausibile, se si pone mente all’elemento di estraneità che, per effetto del rinvio all’ordinamento canonico, internazionale o comunitario, viene così a introdursi nell’ordinamento dello Stato italiano (sicché è naturale che questo ponga dei limiti alla sfera di efficacia, al suo interno, degli ordinamenti anzidetti) e se si pone mente, inoltre, al fatto che le norme di esecuzione dei trattati sono - secondo l’opinione che appare preferibile, pur dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale 3/2001 - leggi atipiche, cioè emanate secondo le normali regole del procedimento legislativo, sicché alla loro efficacia derogatrice, in questi casi, anche a norme di rango costituzionale, ineriscono necessariamente dei limiti.
Occorre precisare che il limite dei principi supremi è stato inteso dalla corte nel senso di riferirsi al contenuto essenziale di questi. Così, nella sentenza 18/82, dove la corte ha dichiarato principio supremo e intimamente connesso con il principio di democrazia il diritto inviolabile dell’uomo alla tutela giurisdizionale, cioè a che sia assicurato “a tutti e sempre un giudice e un giudizio”. Ciò suscita - occorre dirlo - il problema, irresolubile senza ricorrere a criteri valutativi necessariamente metagiuridici, di definire quale sia la natura, cioè l’essenza, del contenuto essenziale.

La fondamentale sentenza 1146/88 della corte costituzionale si distingue nettamente da quelle sinora ricordate e costituisce un decisivo e importantissimo passo innanzi sulla via dell’affermazione della valenza dei principi supremi nonché della estensione delle competenze della corte. In questa sentenza infatti, confermata da altre successive, la corte, come è ben noto, ha esplicitamente affermato che “la costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti nel loro nucleo essenziale neppure da leggi di revisione o da altre leggi costituzionali” e che “non si può dubitare” della competenza della corte stessa a giudicare della conformità delle leggi di revisione e delle altre leggi costituzionali, anche nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento.
Le conseguenze e l’importanza di queste affermazioni sono ovvie: da una parte si afferma l’esistenza di un complesso di principi costituzionali prevalenti anche sulle leggi di rango costituzionale, un nucleo duro, come si è detto, di valori, irrivedibile e irrinunciabile; dall’altra si estende la competenza della corte dal controllo - sinora pacificamente ammesso - sulla legittimità formale di queste leggi (cioè sul procedimento che ha messo capo alla loro emanazione) a quello sulla loro legittimità sostanziale (cioè sul contenuto di esse) in rapporto ai principi supremi.
Gli argomenti che la corte ha addotto a sostegno della sua decisione sono di un duplice ordine: da una parte essa si è riferita alla sua precedente giurisprudenza; dall’altra ha affermato che, a non ammettere la sua giurisdizione assumendo a parametro i principi supremi, “si perverrebbe all’assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della costituzione come difettoso e non effettivo, proprio in relazione alle sue norme di più alto valore”.
Quali siano, secondo la giurisprudenza della corte, i principi supremi, cioè immutabili se non per opera del potere costituente - ammesso che questo si distingua dal potere di revisione costituzionale e sia quindi concepito come un potere extra ordinem - non è facile dire, anche perché la corte non ha usato sempre un linguaggio univoco, parlando ora espressamente di principio supremo, ora usando espressioni diverse, ma equivalenti, come valore primario, rilievo costituzionale primario, diritto fondamentale della persona umana.

Sembra, ad ogni modo, che, dalle sentenze in tema di norme di esecuzione del concordato lateranense, dei trattati comunitari e di adattamento alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, si possa ricavare con sicurezza che sono principi supremi la sovranità dello Stato esercitata dal popolo (sent. 18/82), la rigidità della costituzione (sent. 49/79), l’ordinamento democratico (sent. 30/71), il principio di eguaglianza (sent. 101/65 e 49/66), l’unità della giurisdizione (sent. 30/71), il diritto alla tutela giurisdizionale (sent. 18/82 e 232/89). Altre decisioni hanno attribuito lo stesso carattere al principio dell’ordine pubblico (sent. 120/57, 19/62, 187/82), alla laicità dello Stato (sent. 203/89 e 259/90), alla libertà personale (sent. 238/96), al diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni (sent. 366/81), al diritto alla salute (sent. 307/90 e 455/90), al diritto all’identità personale (sent. 166/88) e sessuale (sent. 161/85), al diritto al lavoro (sent. 45/65 e 108/94), alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, della libera determinazione degli organi elettivi, della pubblicità della gestione delle pubbliche amministrazioni (sent. 29/95), alla protezione della famiglia (sent. 181/76), dell’ambiente (sent. 459/89) e in genere ai diritti inalienabili della persona umana (sent. 183/73, 170/89).
Particolare interesse suscita la sentenza 366/91 sulla libertà e segretezza delle comunicazioni, dove si dichiara che questo diritto rientra fra i valori supremi e si precisa il significato dell’inviolabilità. Secondo la corte, il contenuto essenziale del diritto non può essere oggetto di revisione costituzionale, perché incorpora un valore della personalità avente carattere “fondante” rispetto al sistema democratico voluto dal costituente; esso è quindi inviolabile, nel senso che il suo contenuto di valore non può subire costrizioni o limitazioni, se non in ragione “di un interesse pubblico costituzionalmente rilevante”, rimanendo in ogni caso salve riserva di legge e riserva di giurisdizione. Poiché questa intangibilità del contenuto essenziale, anche rispetto al potere di revisione costituzionale, viene dalla corte dedotta dall’art. 2 cost., secondo il quale la repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, può ritenersi fondata la conclusione che tutti questi diritti, sia quelli deducibili dai principi fondamentali (art. 1-12), sia quelli enunciati nella prima parte di essa (art. 13-54), costituiscano principi supremi.
Dalle osservazioni che precedono appare quanto fossero gravi i problemi che si ponevano all’atto della ratifica del trattato istitutivo della corte penale internazionale.

È infatti ben fondato il dubbio che l’art. 20 dello statuto, consentendo alla corte penale internazionale di riprocessare, nelle condizioni ivi indicate, persone già definitivamente giudicate da tribunali italiani, sia contrario a un principio supremo del nostro ordinamento e non possa quindi ricevere esecuzione in Italia, essendo evidente che esso è in grado di turbare profondamente la vita costituzionale dello Stato, poiché può avere per conseguenza che siano sottoposti a processo e al limite privati della libertà i titolari dei suoi organi, anche costituzionali. Come pure si può dubitare se non violi un principio supremo il modo nel quale è formulato l’art. 66.1 dello statuto sulla presunzione di innocenza, ove non si dice che questa viene meno (solo) con sentenza irrevocabile di condanna.
Minori dubbi suscita invece la discrezionalità dell’azione penale, che non parrebbe in contrasto con alcun principio supremo del nostro ordinamento.
Tuttavia la questione se l’approvazione del trattato istitutivo dello statuto implicasse il ricorso all’art. 11 e se talune disposizioni di esso contrastino con principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o addirittura con principi costituzionali supremi e quindi intangibili, non sembra essersi formalmente posta durante la discussione della legge di autorizzazione alla ratifica del trattato istitutivo in parlamento. Altre nazioni - e per ragioni assai meno giustificabili - hanno preteso l’inserzione nel trattato di quell’articolo 124 che dà agli Stati il diritto, nelle condizioni e nei limiti ivi indicati, di non accettare la competenza della corte internazionale. Da noi il problema di porre una riserva, almeno nei confronti dell’applicazione dell’art. 20, non è stato neppure discusso.

Né questo problema appare nelle proposte di legge attualmente all’esame del parlamento (camera dei deputati n. 2724 e senato della repubblica 1638). Si tratta di testi ampi (oltre cento articoli) che si propongono di introdurre nella nostra legislazione gli adattamenti necessari, dopo la ratifica del trattato istitutivo dello statuto della corte penale internazionale, e cioè, in primo luogo, di introdurvi i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra, che, insieme con il delitto di genocidio e in attesa che sia definito il crimine di aggressione, costituiscono l’oggetto della competenza della corte; in secondo luogo, di adattare il nostro diritto in modo da consentire una efficace collaborazione con la corte, qualora questa eserciti la sua giurisdizione. Iniziativa senza dubbio opportuna, ma che non tocca i problemi di legittimità costituzionale che, come abbiamo accennato, l’operatività dello statuto potrebbe suscitare.


(*) - Intervento al Convegno di studi sulla “Corte penale internazionale e problematiche di diritto interno”, tenutosi a Roma presso il C.A.S.D. il 23 gennaio 2003.
(**) - Professore emerito di Diritto Costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza “La Sapienza” di Roma.