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  • N.3 - Luglio-Settembre
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Giustizia Militare

a cura di Renato Maggiore


Diserzione - Permanenza - Cessazione - Acquisizione dello stato di “arruolamento con prole” - Determina la sospensione degli obblighi di leva - E importa la fine della permanenza delittuosa - Istanza di dispensa e deliberazione della P.A. - Non sono necessarie - Fatto nuovo - Fatto diverso - Differenza.

(C.p.m.p., art. 148 co. 2°; L. 24 dicembre 1986, n.958, art. 11, co. 2°; c.p.p., artt. 521 e 522 co.1°)

Corte di Cassazione, Sez. 1^ pen., 13 aprile 2000. Pres. Fazzioli, Rel. Gironi, P.M. mil. Garino (diff.), in c. M.

La permanenza del reato di diserzione va ritenuta cessata per effetto e alla data dell’acquisizione, da parte del militare, della condizione di arruolato con prole, la nascita di un figlio importando automaticamente la sospensione degli obblighi di leva, con l’invio in licenza illimitata senza assegni in attesa del congedo illimitato, stante la prevalenza dei doveri connessi alla paternità sull’interesse al servizio militare, e senza necessità dell’istanza di dispensa da parte dell’interessato né del previo formale provvedimento della P.A.
Nel tema poi di correlazione fra imputazione e sentenza, in una fattispecie c’è insussistenza di diversità del fatto se nell’udienza il P.M. anticipi la data relativa alla fine della permanenza delittuosa della diserzione (1).

(1) Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:
La sentenza in epigrafe ha confermato quella del Tribunale militare di Padova in data 21 ottobre 1998, che aveva assolto M. C. dall’imputazione di diserzione impropria di cui all’art. 148, co. 2, c.p.m.p. per la perdurante mancata presentazione del predetto al proprio reparto al termine di un permesso di 48 ore scaduto il 1 febbraio 1976 (accusa originariamente contestata per il periodo successivo al 4 maggio 1993 - data della sentenza di condanna emessa a carico dell’imputato per il medesimo reato, a sua volta preceduta da una prima condanna pronunziata il 28 maggio 1991 - e modificata in udienza dal P.M. nel senso della cessazione del reato alla data del 31 dicembre 1980, coincidente con quella in cui il M. era divenuto padre). Accogliendo la tesi del P.M., il primo giudice riteneva a quella data cessata l’assenza ingiustificata del militare dal servizio, considerando gli obblighi militari automaticamente sospesi all’atto dell’acquisizione dello “status” di arruolato con prole, ai sensi dell’art. 11, co. 2, l. 24 dicembre 1986, n. 958, posto che il susseguente provvedimento amministrativo non avrebbe potuto che essere ricognitivo di tale situazione, senza spazio per apprezzamenti discrezionali di sorta.
Il secondo giudice ha, preliminarmente, disatteso l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado sollevata dal P.G. ricorrente ex art. 522, co. 1, in riferimento all’art. 521 c.p.p., per asserita diversità del fatto (in realtà costituito dal protrarsi dell’assenza a far tempo dal 4 maggio 1993) rispetto alla contestazione come modificata in udienza, ritenendo inconfigurabile un difetto di correlazione tra imputazione contestata e sentenza in base all’assunto che il tribunale si era pronunziato sulla medesima “res iudicanda” formalizzata dall’accusa e che, pertanto, la prospettazione del ricorrente assumeva la connotazione di “fatto nuovo”, in ordine al quale il P.M., avrebbe potuto procedere in via ordinaria, piuttosto che di “fatto diverso”. Nel merito il giudice del gravame ha condiviso le conclusioni della sentenza appellata, argomentando che l’acquisizione della condizione di arruolato con prole determina automaticamente la sospensione degli obblighi di leva in attesa del congedo anticipato, in attesa del quale il militare deve essere immediatamente inviato in licenza illimitata senza assegni (vds. art. 11, co. 2, l. n. 958/1986), con evidente riconoscimento legale della prevalenza dell’interesse per l’adempimento dei doveri connessi alla paternità su quello relativo alla prestazione del servizio di leva.
Ha proposto ricorso il P.G.M., reiterando le censure di rito e di merito già formulate nei confronti della sentenza di primo grado e sindacando, in particolare, la ritenuta cessazione o sospensione automatica degli obblighi militari in forza del mero verificarsi della nascita di un figlio, in difetto di istanza di dispensa da parte dell’interessato ed a prescindere dal formale provvedimento in tal senso della P.A.

Il ricorso è infondato.

Quanto alla censura in rito, si rileva che la modificazione dell’imputazione per asserita diversità del fatto formalmente compiuta dal P.M. nel giudizio di primo grado non può, in realtà, ritenersi tale, equivalendo essa, nella sostanza, ad un’anticipazione della tesi di merito circa la giustificazione dell’assenza del M. a far tempo dalla nascita del figlio, come desumibile dalla pronunzia assolutoria adottata dal tribunale, che avrebbe, altrimenti, dovuto emettere sentenza di proscioglimento ex art. 649 c.p.p., essendo l’imputato già stato giudicato ed irrevocabilmente condannato con due successive sentenze per il suo mancato rientro al reparto sino alla data 4 maggio 1993 e non potendo, pertanto, il medesimo essere nuovamente processato per il periodo di assenza: 1 febbraio 1976 (data del mancato rientro dal permesso) - 31 dicembre 1980 (data di nascita del figlio); la sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto, confermata in sede di gravame dalla sentenza oggetto di ricorso, non può, dunque, che riguardare l’imputazione come originariamente formulata, stante la palese assenza di senso di una contestazione a ritroso nel tempo dal 4 maggio 1993 (data della seconda sentenza di condanna) al 3 dicembre 1980.
Ciò premesso, va disatteso anche il motivo di merito, risultando dal foglio matricolare del prevenuto (vds. annotazione in data 16 giugno 1993) che l’Amministrazione militare ebbe, di fatto, a riconoscere come operante in favore del M. la causa di dispensa di cui all’art. 11, co. 2, l. n. 958/1986 quantomeno a far tempo dalla pronuncia della seconda sentenza di condanna, erroneamente interpretando come estensibile all’efficacia della dispensa la condizione della presentazione entro 30 giorni al Distretto militare di Torino cui il tribunale militare aveva subordinato la sola operatività del concesso beneficio della sospensione condizionale della pena; attese l’inequivoca manifestazione di volontà della P.A. di ritenere operante la causa di dispensa in questione a prescindere da una espressa richiesta dell’interessato e l’evidenza del fraintendimento del dispositivo della sentenza del Tribunale militare di Padova in data 4 maggio 1993, che condusse l’Amministrazione stessa a ritenere erroneamente la dispensa medesima subordinata alla presentazione del militare al Distretto, in realtà disposta dal Tribunale solo quale condizione per l’operatività del beneficio di cui all’art. 163 c.p., la soluzione adottata dai giudici del merito deve, in definitiva, ritenersi nel caso di specie esatta, anche a prescindere dalla condivisibilità della tesi - espressa nella sentenza impugnata - secondo cui la dispensa per l’arruolato con prole opererebbe automaticamente al verificarsi della situazione prevista dalla legge, ancor prima della definizione delle procedure per la sua ammissione al congedo anticipato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.



Legittima difesa - Schiaffo o pugno - Spinta anteriore alla grave violenza - Se quella sia atto iniziale di condotta violenta - Non lo è se data per allontanare l’avversario che si va avvicinando - Proporzione fra spinta e pugno - Non si configura - Ciò ancor più per il mancato risalto dell’attualità dello schiaffo o pugno rispetto alla spinta - Differenza della scriminante militare da quella comune - Per questa, non per quella, basta il pericolo della violenza.

(C.p., artt.52 e 583 co. 1°; C.p.m.p., artt. 42, 223 co.1°, 224 e 261; C.p.p., artt. 597, 602 e 605)

Corte Militare di Appello, 15 gennaio 2001. Pres. Nicolosi, Est. Ballo, P.M. Giordano (conf.), in c. I.

Non ricorre le legittima difesa nella fattispecie di un militare che colpisce il commilitone con un pugno (o schiaffo), dal quale deriva una malattia di durata superiore ai quaranta giorni, successivo a una “spinta” - che l’imputato considera una percossa -, poiché nell’accaduto fa difetto la proporzionalità, e non essendo la spinta, come si pretende, atto iniziale di una violenza dagli sviluppi imprevedibili, se risulta semplice atto di allontanamento dell’avversario che va avvicinandosi e tenuto conto dell’appena percettibile attualità della realizzata “violenza”, nonchè del requisito richiesto dalla legge penale militare per la non punibilità del reagente, che è costituito non dal semplice pericolo della violenza, cui si reagisce, ma dall’attualità della violenza del primo offensore (1).

(1) Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:
««Nel procedimento penale a carico di: I.G., nato il 13 settembre 1979 a Cagliari, elettivamente domiciliato presso il difensore avv.to Francesco Macis, del foro di Cagliari, imputato del reato di lesione personale grave (artt. 583, co. 1°, n.1 c.p.; 223, co.1° e 224 C.p.m.p.) “perché marinaio in servizio al Gruppo La Maddalena, il 23 ottobre 1997, presso la sala TV di Reparto, colpiva con un pugno il commilitone S. E., cagionandogli “un’ampia perforazione post traumatica della membrana timpanica sinistra”, dalla quale è derivata una malattia durata più di quaranta giorni”.
Con sentenza in data 25 febbraio 2000 il Tribunale Militare di Cagliari condannava I.G., in epigrafe individuato, per l’ascritto reato di “lesione personale grave” (artt. 583 co.1°, n.1, c.p.; 223 co. 1° e 224 C.p.m.p.), alla pena di mesi 6 (sei) di reclusione militare, con i doppi benefici di legge.
Il giudice di prime cure, nella sua motivazione, rilevava come la responsabilità penale dell’imputato fosse ampiamente comprovata sia dalle deposizioni testimoniali, sia dalle prove documentali, sia dalle stesse ammissioni del medesimo; per cui non esisteva, a suo parere, alcun dubbio sulla sussistenza dell’elemento materiale e di quello psicologico del reato “de quo”.
L’imputato, infatti, sempre secondo il convincimento del primo giudice, dopo aver ricevuto una spinta aveva sferrato con “piena coscienza e volontà” un violento colpo all’orecchio del parigrado S. E., senza alcuna possibilità di configurare una ipotetica situazione di legittima difesa, difettando il requisito della proporzionalità tra la violenza della parte lesa (la leggera spinta) e quella dell’imputato (un “violentissimo pugno”) e senza, peraltro, neppure potersi configurare la sussistenza della circostanza attenuante della provocazione, in quanto lo stesso “fatto apparentemente ingiusto della vittima” (ovvero la citata “spinta”) era stato a sua volta determinato da altro comportamento precedente ingiusto dell’imputato che aveva forzato il suo armadietto, per prelevare una cassetta, senza il suo consenso. Riteneva, comunque, il primo Giudice di concedere le circostanze attenuanti generiche e quella speciale di cui all’art. 48 u. p. C.p.m.p. ritenute prevalenti sulla contestata aggravante.
Avverso tale sentenza proponeva appello il difensore dell’imputato. Nell’atto di impugnazione si lamenta, in punto di fatto, il mancato riconoscimento della situazione di legittima difesa in cui versava l’imputato, “aggredito dal S.” e colpito da lui con una spinta. Il requisito della proporzionalità sarebbe sussistente, secondo l’appellante, in quanto “l’I. non poteva certo prevedere” fin dove sarebbe arrivata l’azione della parte lesa; se, ovvero, limitata alla semplice spinta o se inizio di “un ben più grave attacco alla sua incolumità personale”. Inoltre, lamenta ancora l’appellante, l’imputato ha reagito solo con uno schiaffo, ben proporzionato alla spinta, “non potendo al momento prevederne” le conseguenze. Lamenta, infine, l’appellante, in punto di diritto, come la sentenza impugnata “vada inquadrata nell’ambito delle cause di giustificazione” sussistendone tutti i requisiti o, quantomeno, come vada riconosciuta e concessa la circostanza attenuante della provocazione perché l’imputato, quando aprì l’armadietto del S., “reagì a sua volta” contro il fatto ingiusto della parte lesa che si era appropriato della di lui cassetta. In conclusione delle proprie doglianze, invoca l’appellante, in riforma dell’impugnata sentenza, l’assoluzione dell’imputato per aver agito in presenza di una causa di giustificazione.
All’odierna udienza, l’I., invitato dal Presidente a rilasciare eventuali spontanee dichiarazioni, afferma di essere stato aggredito prima verbalmente dal S. e poi materialmente con una spinta, per cui era stato costretto a reagire con uno schiaffo. Richiesto dal Presidente di chiarire bene la natura del colpo inferto alla parte lesa ripete di “credere che fosse stato uno schiaffo”.
Le parti chiedono la utilizzazione di tutti gli atti del procedimento di primo grado. Quindi il P.G. chiede la conferma della sentenza, mentre la difesa insiste sulla carenza di elementi afferenti la grave violenza contestata all’imputato, che avrebbe, invece, ricevuto egli stesso un atto di tale violenza, quale è notoriamente una spinta. “Chi è passato alle vie di fatto” - continua la difesa - non è stato l’imputato, ma la parte lesa che con la citata spinta, che in realtà è una percossa, ha posto in essere l’atto iniziale di una violenza dagli sviluppi imprevedibili, cui l’imputato si è sottratto nel quadro di una legittima difesa, conclude il difensore invocando l’assoluzione dell’I. perché non punibile per aver agito in stato di legittima difesa.
L’appello del difensore dell’imputato appare infondato e, pertanto, va respinto. Non vi è dubbio alcuno, infatti, che tutti gli elementi raccolti ed acquisiti agli atti convergono nella chiara ed evidente responsabilità penale dell’imputato che con piena coscienza e volontà ha colpito duramente la parte lesa con le conseguenze di cui all’epigrafe. Come non vi è dubbio che l’asserita violenza consumata dalla parte lesa nei confronti dell’imputato - ovvero la spinta - non può assolutamente rivestire la natura di “atto iniziale di violenza” ma più verosimilmente di semplice atto di allontanamento di un avversario a distanza troppo ravvicinata e, comunque, non tale da determinare una reazione così grave e violenta. Significativa è la circostanza che l’imputato non ricordi bene la natura del suo atto di violenza -schiaffo o pugno - il che lascia intuire o una semplicistica tesi difensiva, o un impeto talmente repentino e violento da non ricordarne le modalità. In ogni caso, indipendentemente dal tipo di colpo inferto, quello che è certo ed inconfutabile è che l’imputato ne è stato sicuramente e dolosamente l’autore, con tutte le conseguenze gravi riportate. L’invocata causa di giustificazione della legittima difesa non è assolutamente configurabile, tenuto conto della enorme sproporzione tra offesa e difesa e della appena percettibile “attualità di violenza”, espressamente richiesta dall’art. 42 C.p.m.p., riferibile ad una semplice spinta. è noto, infatti, come l’ambito di applicabilità di tale scriminante nel campo penale militare, prevista e disciplinata dal citato art. 42 C.p.m.p., sia molto più ristretto del corrispondente istituto previsto e disciplinato dall’art. 52 C.p., in cui si fa riferimento non all’attualità della violenza, ma solo al semplice pericolo di essa.
Non rilevando, dunque, alcuna valenza ai motivi di doglianza contenuti nell’atto di impugnazione, questa Corte ritiene di dover confermare l’appellata sentenza.

P.Q.M.

visti ed applicati gli artt. 261 C.p.m.p.; 3 L. 180/1981; 597, 602 e 605 C.p.p.

Conferma

l’impugnata sentenza e condanna l’appellante al pagamento delle ulteriori spese di giudizio»».



Violata consegna - Pattuglia CC senza compiti informativi - Interruzione dell’attività perlustrativa, propria del servizio, per fornire informazioni - Iniziativa personale del capo pattuglia, circa tale condotta, al domicilio di un cittadino - Realizza quell’interruzione - Errore nel ritenere tale attività come doverosa - Totale irrilevanza giuridica anche del dubbio su detta doverosità - Esimente putativa dell’errore sul fatto - Non si configura.

(C.p.m.p., artt. 39 e 120; C.p. artt. 51 co. 1° e 59 co. 3°)

Corte Militare di Appello, 21 febbraio 2001. Pres. Est. Monica, Proc. Gen. Giordano, app. in c. I.

L’appuntato dei Carabinieri, capo di una pattuglia in servizio perlustrativo, e senza compiti informativi, il quale interrompa per circa un’ora tale attività - lasciando l’altro militare, autista, nel mezzo di servizio - onde recarsi in un condominio presso un amico bisognoso di informazioni circa il “portare armi”, con sosta non annotata sull’ordine di servizio, commette allontanamento, per propria iniziativa, incompatibile con la consegna, e circa il quale non può dirsi sia viziato l’elemento soggettivo dall’erroneo convincimento di agire in adempimento di un dovere, né ritenersi giuridicamente valido un dubbio al riguardo, dovendosi invece concludere che non si configura nella specie l’errore di fatto sull’esistenza della scriminante (1).

(1) Si legge quanto appreso nel testo della sentenza:
Con sentenza del 4 maggio 2000 il Tribunale militare della Spezia assolveva I.E. e C.V. dal reato di violata consegna aggravata in concorso a ciascuno di loro ascritto, “il primo perché il fatto non costituisce reato, il secondo perché il fatto non sussiste”. Quanto allo I., l’imputazione - ricondotta al disposto dagli artt. 110 C.p., 120 2° co. e 58 1° co. - era stata così formulata: “perché Appuntato dei Carabinieri in servizio presso la Compagnia Carabinieri di Salsomaggiore (PR), il giorno 07 marzo 1997, in concorso con il Carabiniere scelto C.V., comandati in servizio perlustrativo con turno dalle 19,00 alle ore 01.00, interrompeva alle 20.50 per circa un’ora tale servizio per recarsi presso l’abitazione di un suo amico dove vi sostava per circa un’ora. … Con l’aggravante … dell’aver concorso nel reato con un inferiore e… l’aggravante del servizio armato”. Nella motivazione della sentenza, richiamate le prove acquisite nell’istruzione dibattimentale - tra cui, segnatamente, l’ordine di servizio n. 31 per il 7 marzo 1997 relativo al fatto in questione e l’estratto del regolamento generale dell’Arma dei Carabinieri relativo ai compiti dei militari in servizio di pattuglia - si rileva che “dall’ordine di servizio acquisito, risulta che entrambi gli imputati, in servizio presso la stazione Carabinieri di Salsomaggiore Terme, erano stati comandati, ad opera del Comandante dell’Aliquota Radiomobile, a svolgere il servizio armato di perlustrazione dalle ore 19.00 del 7 marzo 1997, fino alle successive ore 01.00. Detto servizio imponeva la loro vigilanza su obiettivi sensibili, il controllo di esercizi pubblici e della circolazione stradale, nonché l’assolvimento del servizio coordinato dalla Questura di Parma, con specifico riferimento ai posti di controllo volanti”.
A fronte di ciò, vengono, quindi, dettagliatamente riportate le discolpe al riguardo rese, sempre in dibattimento, da entrambi gli imputati. In particolare:
- che “il carabiniere C. ha riferito di avere svolto il servizio in qualità di autista e che la pattuglia fece rientro in caserma, sostandovi per pochi minuti, affinché egli stesso potesse soddisfare bisogni fisiologici. Sempre secondo C., appena la pattuglia uscì nuovamente dalla caserma e quando ancora si trovava nella medesima via in cui questa era ubicata, il carabiniere scelto I., capo pattuglia, chiese all’autista di fermarsi presso un condominio e, sceso dalla vettura, gli disse di attenderlo un attimo. Subito dopo I. si recò all’interno del condominio, dove abitavano numerose famiglie, dal quale fece ritorno circa un’ora dopo (intorno alle ore 21.50), scusandosi con il C. dicendogli semplicemente di avere fatto tardi; quindi la pattuglia riprese il servizio di perlustrazione. Il successivo 9 marzo 1997 il C. ebbe modo di parlare con il Comandante del Nucleo Radiomobile, al quale riferì l’accaduto, chiedendo di non metterlo più in servizio di pattuglia con I.. Infine, C. ha precisato che durante l’assenza dello I. egli rimase sempre in auto e non ricevette alcuna richiesta d’intervento via radio”;
che “l’imputato I. non ha negato in radice l’episodio riferito dal coimputato, salvo quantificare nell’ordine di 20-30 minuti il periodo di tempo in cui egli rimase assente dall’auto. Circa i motivi della sua condotta, I. ha affermato che presso il condominio abitava un suo amico il quale in precedenza gli aveva chiesto informazioni circa la possibilità di portare armi e i necessari adempimenti. I. sapendo che quella sera il suo amico si trovava a casa, evento non frequente a causa dell’attività di autotrasportatore, decise di cogliere l’occasione che l’imprevisto rientro in caserma gli aveva offerto, per fornire le indicazioni richiestegli. I. ha inoltre riferito che nella circostanza gli fu offerto il caffè e che egli approfittò dell’occasione per chiedere notizie confidenziali sugli abitanti del paese; circa I rapporti con C., il prevenuto ha affermato che tra loro c’erano divergenze di carattere. Infine, il capo pattuglia ha giustificato la mancata annotazione di tale sosta sull’ordine di servizio, affermando di non averla ritenuta significativa (“guai se dovessi annotare tutto”).
In ordine alle deposizioni rese dai testimoni al riguardo ritualmente escussi, si evidenzia, sempre in sentenza:
- che il M.llo comandante la Stazione CC. di Salsomaggiore “ha dichiarato, come appare ovvio, che la pattuglia non aveva compiti informativi, quali quelli che I. avrebbe perseguito (il condizionale è d’obbligo), pur precisando che la pattuglia deve mostrarsi disponibile di fronte ad eventuali richieste del cittadino”;
- e che il Maggiore all’epoca comandante la Compagnia CC di Salsomaggiore “ha rilevato che la sosta in esame non era prevista dall’ordine di servizio, che di essa non fu effettuata nessuna annotazione sull’ordine di servizio tra gli interventi ad iniziativa e che l’allontanamento in parola era compatibile con le consegne (anche se quest’ultima risulta essere una valutazione di cui il Collegio non deve tenere conto). L’ufficiale, infine, ha riferito che I. era un buon elemento e che il capopattuglia poteva anche assumere l’iniziativa di fornire informazioni. Il Maggiore, circa le evidenti correzioni degli orari dei servizi svolti, originariamente annotati sull’ordine di servizio ad opera dello stesso I. non ha saputo fornire spiegazioni, nonostate egli stesso avesse evidenziato tale anomalia nell’informativa di reato da cui è disceso il presente giudizio”.
Alla stregua di tali risultanze il Tribunale, quindi, osserva che, nel comportamento tenuto nelle circostanze di interesse dall’imputato C., semplice militare autista che non aveva abbandonato il mezzo assicurando il collegamento radio con la centrale operativa, non emergono estremi di un comportamento penalmente rilevante essendo costui stato in sostanza chiamato a rispondere di una situazione da altri irresponsabilmente causata e che egli non era in grado di prevedere ed impedire, e tanto più che non aveva fatto altro che attenersi proprio alle modalità esecutive del proprio servizio di semplice autista indicate nel Regolamento anzidetto.
Quanto allo I., il Tribunale giunge parimenti ad escludere la responsabilità penale, ma soltanto ritenendo “…insufficiente la prova circa l’elemento soggettivo del reato verosimilmente viziato dall’erroneo convincimento del prevenuto di agire in adempimento di un suo dovere”, mentre “la condotta di questi integra gli elementi materiali del reato contestatogli” poiché “in ogni caso l’attività perlustrativa… fu interrotta ad opera del prevenuto I. con conseguente violazione della consegna, pur se in presenza del potenziale contatto con la centrale operativa” grazie al C. rimasto in servizio a bordo dell’autovettura di servizio.
Più specificamente, ed a quest’ultimo proposito, sempre il Tribunale e sempre così come leggesi in sentenza osserva: che il servizio in questione aveva natura perlustrativa “assolutamente incompatibile con la bislacca iniziativa che I. asserisce di aver posto in essere”; che, pur essendo logico che i militari in servizio di pattuglia possano e debbano fornire indicazioni al cittadino, ben altra cosa è il “servizio a domicilio” attuato dall’“intraprendente I. perché esso contrasta visibilmente con le finalità generali e particolari del servizio svolto”; che, altresì, le informazioni sul porto d’armi costituiscono materia per specifici e diversi uffici di polizia, onde “appare ancor più insipiente l’atteggiamento dello I”.; che, ancor più, quest’ultimo ha poi omesso di indicare la rilevante anzidetta sosta nell’ordine di servizio, senza darne né preventiva né successiva spiegazione all’autista C.; e che, conseguentemente, “tali circostanze non giovino alla trasparenza della condotta del graduato e si prestano alla formulazione di ipotesi alternative circa i veri motivi dell’assenza in esame. A ben vedere, non sono note neppure le generalità dell’amico e della di lui moglie, così genericamente nominato dallo I. Tale riservatezza, forse dovuta al desiderio di non coinvolgere una famiglia in una vicenda processuale, si presta pur anche ad essere intesa come sintomatica di un comportamento ben poco commendevole”.
Sennonché il Tribunale perviene ad assolvere anche tale prevenuto esplicitamente dichiarando di trovarsi “nel dubbio che il carabiniere I. abbia agito nell’erroneo convincimento che la sua fosse una doverosa attività d’informazione del cittadino, tale anche se conosciuto ed amico” per le seguenti considerazioni ulteriori:
- poiché “non si può escludere la veridicità delle affermazioni dell’imputato che è pur sempre un tutore dell’ordine e che è stato indicato come un buon elemento dallo stesso Maggiore”, e tanto più che “in alternativa si dovrebbe ritenere che l’imputato …, sia stato così incosciente da assentarsi lungamente per motivi non meglio chiariti, ma comunque del tutto estranei al servizio”;
- essendo “più verosimile che l’imputato abbia agito secondo quanto da lui riferito, magari perdendo la precisa cognizione del tempo, nell’erroneo presupposto di svolgere un’attività di servizio in quel momento consentita e, più in generale doverosa”;
- ed infine, poiché la relativa autonomia al medesimo attribuita in quanto “capo pattuglia” ben può essere stata fraintesa dall’imputato, il cui poco elevato grado di Carabiniere scelto può autorizzare a ritenere che egli sia fornito di un ben modesto grado di conoscenze in materia militare, non potendosi, d’altronde, “escludere che I. abbia posto sullo stesso piano il servizio cui era comandato e quello “estemporaneo” che aveva ritenuto di adempiere proprio in quella infelice circostanza, ritenendo che la presenza in auto del C. garantisse il contatto con la centrale e, quindi, il servizio … confidando nell’iniziativa del collega che, ad esempio, avrebbe potuto azionare il clacson o la sirena con buona pace della quiete pubblica”.
Avverso tale sentenza hanno interposto appello sia il Procuratore militare che il Procuratore generale militare in sede limitatamente all’assoluzione del solo I. e chiedendo, in riforma della sentenza anzidetta, la condanna di quest’ultimo:
- il Procuratore militare, motivando che il dubbio sull’elemento soggettivo del reato “de quo” come sopra nutrito dal Tribunale è totalmente privo di fondamento, essendo pacifico che quest’ultimo elemento deve essere “accertato sulla scorta di circostanze esteriori al fatto, che in qualche modo possano essere espressione dell’atteggiamento psicologico dell’agente” ed, in tanto meritevoli di apprezzamento secondo l’“id quod plerumque accidit”, in quanto possa inferirsene l’esistenza di una determinata rappresentazione/volizione, con la conseguenza che, proprio per essere nella fattispecie di interesse le circostanze esteriori tutte quelle come sopra diffusamente evidenziate dal Tribunale, le stesse depongono, univocamente e viceversa, per la sussistenza del relativo dolo in capo allo I.
- il Procuratore generale, dapprima osservando, sempre a tale specifico riguardo, che tale dubbio sul dolo appare ingiustificato ed incoerente con le risultanze dibattimentali, tanto più che lo “I. non era un militare di leva appena uscito dall’adolescenza; era, al contrario, un militare professionale trentenne dell’Arma dei Carabinieri, la quale, notoriamente dedica particolari cure ed attenzioni (attesi i suoi rilevanti compiti militari e di polizia) all’istruzione ed all’addestramento dei suoi uomini per l’espletamento dei servizi d’istituto. Pertanto è veramente arduo ipotizzare che l’imputato reputasse suo dovere giuridico interrompere il servizio perlustrativo per dare informazioni a domicilio ad un suo amico. D’altra parte, la scriminante putativa di cui all’art. 59, 3° c., C.p., implicando l’errore di fatto sull’esistenza di una scriminante, dà luogo ad un errore sul fatto, mentre nel caso concreto I. avrebbe creduto esistente una scriminante non prevista dalla legge (il preteso dovere dei Carabinieri di dare ai cittadini informazioni a domicilio)”. E, quindi, concludendo che le spiegazioni fornite dall’imputato quanto all’interruzione del servizio affidatogli sono “ictu oculi un evanescente espediente difensivo” non avendo, fra l’altro, lo I. né annotato la sosta sull’ordine di servizio, né chiarito al C. le ragioni della sosta stessa, né, infine, dichiarato in dibattimento a chi avrebbe dato informazioni onde consentire un eventuale riscontro probatorio, risultando, viceversa, “pasticciate le annotazioni degli orari di servizio svolti sull’ordine di servizio”.
All’odierna udienza l’imputato I. non si è presentato, onde, nella riscontrata ricorrenza dei relativi presupposti e nulla avendo eccepito i Difensori presenti, il medesimo è stato dichiarato contumace.
Il Procuratore generale ha concluso chiedendo che questa Corte, in riforma della sentenza appellata, dichiari la colpevolezza del sunnominato in ordine al reato ascrittogli, condannandolo alla pena finale di mesi quattro di reclusione militare con i doppi benefici di legge. I Difensori, chiedendo la conferma della sentenza di primo grado ed, in subordine, il minimo della pena e la concessione della sospensione condizionale della pena.
L’appello merita accoglimento.
Tutti i rilievi come sopra correlativamente eccepiti ed a cui integralmente si rimanda, non possono, infatti, se non meritare integrale accoglimento, anche poiché, in definitiva, essi risultano tutti riconducibili alla prima e fondamentale circostanza che la soluzione “dubitativa” in ordine alla sussistenza in capo allo I. della previsione e volizione del comportamento criminoso contestatogli risulta inequivocabilmente adottata dal Giudice di prime cure con il semplice postulare, in primo luogo, la rispondenza a verità delle circostanze dal medesimo asserite a propria discolpa nonostante che esse già a livello di prospettazione si presentassero, per un verso, prive di un sia pur minimo connotato concreto, ed a tal punto da rendere logicamente impossibile un qualche riscontro in merito, e, per altro verso, intimamente incoerenti e contraddittorie per le stesse ragioni e considerazioni alla cui stregua, e così come leggesi in sentenza ed innanzi riportato, lo stesso Tribunale perviene contestualmente, a ritenere sussistente l’elemento oggettivo del reato contestato in termini, oltre che il comportamento omissivo fenomenicamente posto in essere, di diverso comportamento attivo corrispondentemente tenuto dallo stesso I. e del tutto privo di legittimazione o titolo.
Aspetto, quest’ultimo, tanto più evidente laddove si pretenda, così come avvenuto in sentenza, di ricondurre la motivazione dell’assoluzione corrispondente adottata (incentrata, come si è detto, sul dubbio sostanzialmente insuperabile in ordine al dolo generico richiesto dall’art. 20 C.p.m.p. per la sussistenza del reato ivi previsto e della fattispecie contestato) persino al possibile erroneo convincimento del prevenuto di agire nell’adempimento di un suo dovere, e, quindi, alla possibile sussistenza a suo favore della corrispondente scriminante putativa di cui al combinato disposto dagli artt. 51,1° c. e 59,3° c. C.p.
Infatti, il presupposto dell’esimente putativa dell’adempimento di un dovere è, pur sempre, l’errore incolpevole dell’agente sull’esistenza e sulla legittimità di quest’ultimo e sul suo conseguente dovere di ottemperanza, presupposto, però, nella fattispecie, non soltanto non sussistente, ma neppure … astrattamente ipotizzabile alla stregua sia dell’inequivocabile ordine di servizio in base al quale lo stesso I. aveva già iniziato a prestare con turno 19,00 - 01,00 uno specifico servizio perlustrativo comportante l’osservanza, in comportante l’osservanza, in tutto il relativo arco temporale, di consegne assolutamente incompatibili con un suo allontanamento per cause private o comunque diverse da quelle - tassative - in cui lo stesso servizio perlustrativo si identificava (vedasi l’“indicazione sintetica di compiti da assolvere” sullo stesso ordine di servizio n.31 in atti); sia di tutto quant’altro come sopra specificamente richiamato dal Giudice di prime cure a sostegno di un suo autonomo dubbio in merito e risolventesi esclusivamente nelle valutazioni anzidette, più che astratte, del tutto soggettive e che, oltre a postulare gratuitamente la rispondenza a verità delle fantasiose circostanze asserite a propria discolpa dal prevenuto, si pongono persino in palese contraddizione con il disposto normativo di cui all’art. 39 C.p.m.p. a causa dell’evidente ulteriore impossibilità di ricondurre, comunque, le circostanze stesse ad una ignoranza inevitabile del prevenuto medesimo.
Ne consegue la più che evidente comprova in capo allo I. della previsione e volontà del comportamento criminoso contestatogli e, pertanto, della corrispondente realizzazione da parte dello stesso del reato di violata consegna aggravata, soltanto impropriamente già contestatogli in termini di concorso, e con esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 58, 1° c. C.p.m.p. in conseguenza dell’anzidetta intervenuta assoluzione, già nel primo grado del giudizio, del C. con la più ampia formula.
Passando alla determinazione della pena corrispondente da infliggere, questa Corte, avuto riguardo, per un verso, alle specifiche circostanze del fatto così come diffusamente esposto nella sentenza di primo grado ed innanzi richiamate e, per altro verso, ai criteri fattuali di commisurazione della pena di cui all’art. 133 C.p., ritiene di dover determinare la pena base nella misura di un mese e giorni quindici di reclusione militare poiché nelle circostanze di interesse, la contemporanea permanenza in servizio, e pur se come semplice autista, del C. rimasto in contatto radio con la centrale operativa nonché l’estrema vicinanza della caserma rispetto al punto dove lo I., assentandosi, aveva lasciato l’autovettura di servizio, inducono a ritenere il reato di modesta gravità e non sintomatico di una più accentuata capacità a delinquere da parte dello I.
Né, d’altronde, sussistono ragioni ostative alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, soprattutto in considerazione dei buoni rapporti informativi acquisiti sull’attività di servizio svolta, o per non corrispondentemente ritenere come più adeguato, sempre nella presente fattispecie, un giudizio di prevalenza di quest’ultime sulla circostanza aggravante contestata, onde la pena base anzidetta si riduce a quella di un mese di reclusione militare.
In ulteriore considerazione dell’incensuratezza del prevenuto e dovendosi presumere, avuto sempre riguardo alle circostanze di cui all’art. 133 C.p., che il medesimo si asterrà dal commettere ulteriori reati, questa Corte ritiene, altresì, di dover concedere al medesimo entrambi i benefici di cui agli artt. 163 e 175 C.p.

P.Q.M.

Visti ed applicati gli artt. 261 C.p.m.p.; 3 L. 180/1981; 597, 605, 533 e 592 C.p.p.,
in riforma dell’appellata sentenza

dichiara

I.E. responsabile del reato di violata consegna aggravata (art. 120, 1° e 2° c. C.p.m.p.), così rubricata la relativa imputazione, e, previa concessione e giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, lo

condanna

ad un mese di reclusione militare, con la concessione della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna sotto le comminatoria di legge; lo

condanna

altresì, al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio. Deposito della sentenza entro 30 giorni»».