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  • N.2 - Aprile-Giugno
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Negoziazione e repressione nella gestione dell'ordine pubblico

Mario Quinto


1. La prevenzione: intimidazione o persuasione?

L’Arma è da sempre molto impegnata nel dare maggiore valorizzazione operativa ai metodi non conflittuali di gestione dei conflitti. Si pensi alla funzione di mediatore del maresciallo comandante di stazione; si pensi alle missioni di pace nella ex Jugoslavia. Così “intervento” non significa più solo “repressione” e, parimenti, “prevenzione” non significa solo “dissuasione mediante esibizione di forza o intimidazione”: si sta facendo sempre più strada l’idea che, nel “fare polizia”, anche “persuasione e convincimento” possano portare a risultati altrettanto validi quanto quelli tradizionali: i carabinieri di quartiere dovranno essere dei maestri in questo modo di porgersi verso i cittadini.

Per “metodi non conflittuali” di gestione dei conflitti in generale si intende far riferimento a:

  • negoziazione: in cui le parti, da sole ed attraverso il dialogo diretto, mirano a soddisfare le rispettive esigenze (lecite, serie e costruttive) e pongono fine al “loro” conflitto mediante un accordo efficiente. Con tale termine si definisce quel tipo di accordo capace di affrontare le due componenti di qualsiasi conflitto: il rapporto interpersonale tra le parti compresa la collettività ed il problema oggettivo soddisfacendo i veri bisogni di fondo;
  • mediazione/conciliazione: in cui le parti, partendo dai principi e dalle tecniche di cui sopra, negoziano e raggiungono il “loro” accordo mediante la facilitazione operata da un terzo imparziale autorevole ma non autoritario.

Il patrimonio concettuale appena indicato costituisce la base della cultura negoziale. Esso non ha niente a che fare con i principi tradizionali (in quanto incapaci di partorire accordi realmente affidabili) quali la transazione (così come prevista dal nostro codice) la quale, in quanto basata sulle reciproche concessioni, ingenera spesso ripensamenti successivi o la imposizione (ordini, sentenze, lodi arbitrali ...) la quale ingenera desiderio di vendetta “contro il nemico” (la controparte, le forze dell’ordine ...).

In entrambi questi due approcci “tradizionali” il tasso di attendibilità e quindi della efficacia della soluzione è piuttosto basso poiché le parti tendono a non collaborare nella esecuzione dell’accordo per mancanza di interesse.

Quest’ultimo originale profilo sarà l’oggetto principale del presente articolo basato su una ovvia considerazione: è socialmente necessario e conveniente individuare ed affrontare i sintomi del conflitto così come percepiti dalle parti prima che esse lo portino alla sua esteriorizzazione violenta. Un esempio di base per tale forma di mediazione preventiva è dato dal rilancio che si dovrà dare alla “Bonaria composizione dei dissidi privati”: si potranno ottenere importanti risultati quando i principi NEG-MED entreranno in misura adeguata nei programmi di formazione dei sottufficiali (mediazione di quartiere) e degli ufficiali (situazioni di crisi, disordini di piazza o allo stadio, missioni di pace all’estero). Nella pratica quotidiana potrebbe essere utile un vademecum su come in concreto l’Ufficiale dell’Arma. possa favorire l’accordo tra le parti nei casi di litigiosità di basso allarme sociale (coniugi che litigano, automobilisti che si azzuffano dopo uno scontro, complimenti irriguardosi alla ragazza accompagnata dal fidanzato, vicini di casa troppo rumorosi o troppo “innaffiatori” ...). Tale azione di facilitazione dell’accordo altrui è più complessa di quanto abitualmente si pensi poiché le sole doti naturali, necessarie ma non sufficienti, quali l’istinto, il buon senso o l’esperienza potrebbero far partorire all’Ufficiale o sottufficiale CC consigli persino dannosi se non sorretti da criteri scientifici di riferimento (es. soluzioni troppo ovvie, troppo atecniche, troppo scontate). La stessa differenza tra soluzione giusta (scopo del processo secondo criteri astratti e generali) e soluzione adatta (scopo della conciliazione secondo criteri concreti e specifici, nel rispetto comunque delle norme) è un patrimonio culturale che si acquisisce lentamente sia attraverso lo studio dei principi scientifici sia attraverso la pratica quotidiana. Si precisa che con il termine “scientifico” si intende partire dal suo significato tradizionale (“riproducibilità in laboratorio”) per arrivare ad adattarlo alla gestione non conflittuale dei conflitti. In altri termini è stato accertato che per un negoziatore professionale, compatibilmente con la varietà della natura umana, il comportamento del soggetto con cui egli negozia è prevedibile in circa tre quarti dei casi.

Tornando alla funzione del Carabiniere terzo imparziale nella Bonaria Composizione ed alla opportunità di inserirla nei programmi formativi, emblematicamente il regio legislatore del 1931 ebbe a collocarla all’art. 1 del T.U. delle leggi di Pubblica Sicurezza. Tra l’altro il recupero e la valorizzazione di tale procedura trovano oggi una nuova e moderna giustificazione istituzionale in quanto essa rientra nell’alveo di come concretizzare il concetto base di Polizia di prossimità e del Carabiniere di Quartiere.

Questa forma di “prevenzione” basata sulla persuasione offrirebbe di per sé una grande varietà di vantaggi per tutti: per i cittadini coinvolti, per il Carabiniere negoziatore o mediatore, per l’immagine dell’Arma e per la sua operatività (attraverso tale rapida chiusura del caso), per la gente comune non direttamente toccata dal “dissidio privato” a tutto vantaggio quindi anche della pace sociale nel suo complesso. Infatti l’applicazione concreta dell’art. 1 del T.U.L.P.S., quale forma più semplice e più diffusa tra i metodi di conciliazione, potrà far raggiungere quattro obiettivi concreti:

  • inculcare nella gente l’idea che le stazioni ed i comandi dei Carabinieri siano un luogo di incontro dove ricevere e dare informazioni sul controllo e sulle necessità del proprio quartiere ora verificate sul campo dai carabinieri di quartiere;
  • creare un punto di raccordo (informale o anche formale) con l’attività giudiziaria tenendo conto anche della attuale attenzione del parlamento sulla conciliazione preprocessuale;
  • determinare delle economie di scala nella gestione del personale dell’Arma che favorirebbe il progressivo utilizzo a tempo pieno del “nuovo” servizio;
  • creare nuove possibilità di lavoro per giovani volontari prendendo esempio dallo Stato Francese che in Aprile ha “assunto” 50.000 volontari impegnati da tempo quali mediatori di quartiere.


2. Crescita della domanda di corsi di formazione in tema NEG-MED

Probabilmente una delle cause dello scarso rendimento della mediazione in Italia è data dalla frettolosa conclusione, cui pervengono usualmente avvocati e magistrati, secondo cui essa “non funziona”. La risposta va ricercata, visto che nel resto del mondo “funziona”, non tanto nei principi (veri) di tale procedura, quanto nella preparazione (sugli stessi) dei conciliatori che operano in Italia - nei settori più disparati - per facilitare l’accordo finale delle parti in conflitto.

Contrariamente a quanto si crede, accordarsi è cosa diversa dal vincere: infatti se si “vincesse” in un accordo, ciò significherebbe rovinare i rapporti con l’interlocutore creando un nuovo conflitto.

In realtà i principi NEG-MED hanno fondamenti (scientifici) del tutto autonomi che marginalmente toccano talune altre scienze; il diritto in tale contesto svolge un ruolo marginale limitato agli aspetti formali poiché i suoi principi non insegnano tanto “come si fa” quanto “come non si deve fare” un accordo (se si vuol dare ad esso la veste contrattuale).

Il facilitatore terzo imparziale per preparare la base dell’accordo efficiente infatti dovrà preoccuparsi di soddisfare proprio gli interessi (sia di relazione che di merito).

In altri termini c’è da chiedersi quindi cosa si sia fatto finora in Italia per operativamente “far funzionare la mediazione” visto che in linea di principio tutti sono d’accordo sui suoi vantaggi diretti per le parti ed indiretti per la collettività.

Sotto il profilo culturale, in questo panorama complessivo piuttosto piatto in tema di formazione su NEG-MED, il Ministero dell’Interno nella sua Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno infatti indice annualmente un master che prevede la partecipazione a tempo pieno per una settimana al mese per oltre settanta persone appartenenti sia alla carriera prefettizia sia a tutte le Forze di Polizia. Anche la Scuola di Perfezionamento Interforze di Polizia ha immesso una giornata sul tema in tutti i suoi corsi.

Questa lodevole curiosità culturale ora trova nuova giustificazione anche nel fatto che il Prefetto, con l’ultima riforma del sistema che lo ha qualificato rappresentante provinciale di tutti i ministri e non più del solo Ministro dell’Interno (v. Uffici territoriali del Governo), è formalmente definito “mediatore dei conflitti sociali” e quindi sarà suo compito operativo anche divenire l’organizzatore della sopra citata Bonaria Composizione che ne costituisce la manifestazione di base. Anzi verrebbe logico pensare ad una strutturazione istituzionale della mediazione accentrata nel Ministero per la standardizzazione della procedura.

Nel consequenziale sviluppo della mediazione nelle Scuole dell’Arma si darebbe luogo ad un prodotto formativo che sarebbe utile soprattutto nei casi di gravi conflitti perturbatori dell’ordine pubblico che sono fenomeni molto più complessi rispetto ai casi affrontabili attraverso la “Bonaria Composizione” di cui si è parlato finora. In quest’ultimi l’Ufficiale dei CC è terzo imparziale.

Invece nei casi di grave (minaccia di) turbativa dell’ordine pubblico la particolare complessità deriva da due circostanze:

  • l’Arma è parte diretta del conflitto o, auspicabilmente, del potenziale conflitto;
  • i Carabinieri sono chiamati a negoziare con interlocutori particolarmente difficili che spesso si propongono e traggono soddisfazione esclusivamente dalla distruzione dei beni (se non delle persone) dei “propri avversari”.

Il teorema che si intende affrontare qui di seguito si basa sul principio “più è difficile l’interlocutore/i, più è conveniente per i Carabinieri negoziare per quattro scopi:

  • per arrivare pacificamente alla soluzione soddisfacente per tutti;
  • per minimizzare i rischi per chiunque;
  • per facilitare l’eventuale l’intervento “di forza”;
  • per ri-creare i presupposti per il mantenimento della pace sociale.



3. La presunta inconciliabilità tra metodi negoziali e metodi repressivi

Spesso si sente dire che tra la gente (come del resto anche all’interno di ciascuno di noi) sia normale individuare una parte “colomba” ed una “falco”, una parte progressista ed una conservatrice dando luogo a quei due partiti “naturali” che propendono “geneticamente” o per il dialogo o per l’intervento di forza. Tale semplificazione risulta doppiamente pericolosa qualora tali strategie istintive siano utilizzate anche in tema di gestione dell’ordine pubblico poiché tendono ad estremizzarne solo i difetti. Tale dicotomia, così drasticamente concepita, infatti potrebbe portare ad assimilare gli Ufficiali dell’Arma propensi al dialogo come persone deboli, incerte, votate al compromesso, inclini alle mezze verità, disposte ad accettare soluzioni parziali e mai impopolari.

Di converso, quelli propensi all’intervento di forza sarebbero dei decisionisti, strateghi sopraffini, capaci di piegare gli oppositori con la forza scaturente dalla consapevolezza di combattere per una causa giusta, pronti ad affrontare anche la impopolarità pur di tutelare la vita ed i beni della gente indifesa.

In realtà si cercherà di dimostrare in questo paragrafo come invece il coordinamento integrato di tali due strategie possa dare risultati più efficienti e più efficaci, come già detto, rispetto alla somma dei due tipi di interventi isolatamente presi e che, quindi, le abituali istintive conclusioni sopra indicate, in tema di mantenimento dell’ordine pubblico, siano errate due volte:

  • una prima volta nel senso che non è vero né che i negoziatori debbano essere ritenuti dei deboli che fanno perdere tempo a chi ricerca “in concreto” la soluzione che ristabilisca l’ordine;
  • una seconda volta nel senso che non è vero che esista tra queste due strategie una contrapposizione funzionale ma al contrario va individuata una complementarietà dei due tipi di intervento che aumentano ciascuno la propria efficacia proprio dalla integrazione con l’altro verso lo scopo comune.

Anche a fini esemplificativi, sarà utile portare il discorso subito sul terreno più delicato che è quello del coordinamento tra il GIS e la squadra dei negoziatori.

In uno scenario di riferimento quale la rapina in banca fallita che si trasforma in un sequestro di persona in danno dei dipendenti e dei clienti della banca stessa la complementarietà dei due metodi di intervento fa sì che la squadra di negoziatori si sente dotata di maggiore potere sapendo che dei loro colleghi pronti per l’assalto sono nascosti dietro l’angolo e, nel contempo, la squadra di intervento speciale si sente meno stressata sapendo che sarà chiamata solo come ultima risorsa in quanto dei loro colleghi specialisti stanno facendo di tutto per facilitare una soluzione pacifica del conflitto.

Concetti similari possono trovare attuazione anche in casi di maggiore clamore e complessità quali la guerriglia urbana, sequestri di persona in luoghi segreti, sommosse agli stadi di calcio, minacce di suicidio, barricate nelle scuole, nelle università o nelle carceri per arrivare anche alla loro applicazione in campo diplomatico e militare in caso di minaccia di conflitto bellico tra nazioni (v. ora la missione di peace keeping nella ex Jugoslavia).

Purtroppo la casistica recente dimostra come non tanto il numero degli incidenti di questo tipo sia preoccupante, quanto la specifica violenza che può scoppiare in fattispecie del genere quando il coinvolgimento emotivo e collettivo faccia perdere il controllo di sé quale individuo (effetto branco della folla indistinta nei disordini di piazza).


4. Due esempi concreti di approccio negoziale di tipo integrativo nella tutela dell’ordine pubblico in sinergia con l’approccio repressivo: disordini in piazza ed allo stadio

Sopra si accennava alle due eterni componenti di qualsiasi conflitto (rapporto interpersonale e problema oggettivo): ora appare necessario aggiungere che, soprattutto in un tema molto delicato quale è la tutela dell’ordine pubblico, tali due componenti vanno sempre gestite separatamente per facilitare la soluzione accettabile per entrambe le parti.

In altri termini i Carabinieri, nel negoziare con interlocutori molto difficili (non essendo possibile selezionare in anticipo con chi negoziare ...), devono evitare la trappola della provocazione confondendo istintivamente il tipo delle persone “interlocutrici” con il problema da risolvere (il c.d. “processo di identificazione” secondo la quale qualsiasi dichiarazione dell’interlocutore viene interpretata come un attacco personale): in altri termini è possibile ed è opportuno negoziare quando il problema è costituito proprio dalle persone? Si negozia anche con i casseurs e con gli ultràs? E se la risposta è positiva, quali comportamenti deve tenere l’ufficiale dei Carabinieri e quando metterli in atto?

Come sopra già accennato quindi, un criterio di riferimento specifico per l’Arma (mirato ad applicare strategicamente la sinergia tra negoziazione e repressione) potrebbe essere quello di separare le persone che vogliono realmente manifestare il dissenso (facendo in modo di favorire tale esteriorizzazione civile in luoghi controllabili) dal problema costituito dalle persone che vogliono la distruzione di cose pubbliche e private (mirando a ridurne il numero ed isolandole rispetto alla folla indistinta). In altri termini si intende dire che, per indurre a negoziare nel merito chi sia propenso al dissenso civile, in genere risulta opportuno creare un sistema premiante ed attraente proprio per costoro. Nel contempo va creato pure un sistema isolante sia per proteggere quest’ultimi (auspicabilmente la maggioranza) sia per individuare più facilmente chi non voglia affatto negoziare ed abbia solo propositivi distruttivi (la minoranza). In tal modo l’utilizzo del sistema repressivo sarebbe visto come ulteriormente giustificato dalla collettività (che percepirebbe lo scopo di tutela derivante da tale intervento) e creerebbe consenso sui Carabinieri “costretti a tale ultima mossa”.

1° es.: la prevenzione negoziata delle sommosse in piazza

Come primo esempio concreto sulla applicazione successiva dei tre sistemi (separante, premiante e punitivo) sulla strategia negoziale per prevenire le sommosse, la guerriglia urbana o le barricate nelle carceri si potrebbe pensare a facilitare la protesta civile in un luogo delimitato (sarebbe da studiare caso per caso se lasciare delle vie di fuga in caso di cambiamento di atteggiamento dei dimostranti da pacifico in distruttivo) che accolga la (auspicata) maggioranza dei dimostranti ed organizzare la repressione contro la minoranza che non vuol “negoziare” ma solo distruggere. In pratica un percorso standard potrebbe essere sostituire al corteo un comizio e quindi:

  • concordare e chiarire con adeguato anticipo lo scopo (lecito) della protesta e favorire di conseguenza i motivi apparenti o vantati dal comitato promotore (es. creare un palco dentro uno stadio o altro spazio delimitato di cui sia agevole mantenerne il controllo anche all’ingresso ed invitare i mass media a diffondere le ragioni della protesta per aumentare la visibilità della “protesta”);
  • isolare in tal modo dentro lo stadio le persone disposte a tenere i comportamenti concordati con i promotori con l’intesa di porre fine alla visibilità a mezzo stampa e TV in caso di non rispetto dei patti (essendo i varchi controllati, chi rimane fuori lo stadio e fuori controllo chiarifica le proprie intenzioni distruttive);
  • provvedere in via tradizionale alla repressione delle devianze con il vantaggio di bloccare alla radice la creazione di alibi artificiosi, di restringere il numero delle persone da fronteggiare, di proteggere chi vuole “negoziare” all’interno dello stadio, di tutelare la comunità più agevolmente, di favorire i motivi “proclamati” della manifestazione dando loro speciale visibilità, di prevenire i “fuori programma”.
Un’altra delle applicazioni classiche del “separare le persone dal problema” nella negoziazione sta nel non effettuare mai una concessione nella speranza che l’interlocutore si accontenti e per questo mantenga buono il rapporto: è proprio vero il contrario nel senso che quest’ultimo si convincerà del proprio potere e proverà a dare “un altro morso alla mela” (v. lo scoppio della seconda guerra mondiale dovuta ad una “gentilezza” di Chamberlain ad ...Hitler).

2° es.: la prevenzione negoziata dei disordini nel calcio

Un secondo esempio sui vantaggi strategici derivanti dalla sinergia tra negoziazione e repressione potrebbe riguardare la tutela dell’ordine pubblico nel calcio fuori e dentro gli stadi. Infatti sottostare a ricatti di tipo morale del tipo “o ci date i biglietti (anche del treno) o scassiamo tutto” oppure “se volete continuare ad avere rapporti con noi ultràs per la organizzazione del tifo siamo noi a stabilire che ...”. Come sopra detto, questo modo di negoziare significherebbe intrecciare il rapporto personale con il problema oggettivo e convincere gli ultràs stessi ad essere ancora più aggressivi e più pretenziosi. Cominciando con delle affermazioni di tipo assertivo sugli scopi “dichiarati” da perseguire che interessano la maggioranza dei tifosi (facilitare la possibilità di seguire la squadra in trasferta, fare tifo organizzato, allargare il numero dei tifosi sostenitori…) si dovrebbe cercare in modo concertato di creare un sistema premiante per chi vuole perseguire gli scopi concordati sopracitati ed uno punitivo che appaia auspicabile anche per la maggioranza dei tifosi che desiderano effettivamente fare “solo” il tifo.

Utilizzando i soliti criteri già esposti, potrebbe essere utile creare, con largo anticipo rispetto all’inizio del campionato di calcio, una grande convenzione cui far partecipare ministero dell’economia, associazioni dei tifosi, dei calciatori, degli arbitri, gestori dello stadio, federazione gioco calcio, società e/o lega, forze di polizia, ferrovie dello stato, emittenti pubbliche e private e tutti gli altri enti più o meno direttamente coinvolti con la buona riuscita dello spettacolo calcistico.

Il sistema premiante capace di interessare gli spettatori “normali” potrebbe funzionare sulla base del Bonus-Malus delle assicurazioni: ogni tot partite senza alcun incidente, sia in casa sia in trasferta, viene concessa una riduzione sul prezzo del biglietto da porre quale bonus a carico dell’erario. Settimanalmente le emittenti effettuerebbero una “finestra” sul grado di civiltà delle varie tifoserie e su quello di dannosità al patrimonio ed alle persone delle squadre avversarie. Questa “finestra” sul tasso di civiltà dovrebbe avere anche una azione di sensibilizzazione positiva sui tifosi e negativa sugli ultràs incivili.

Qualora si scoprissero degli “infiltrati traditori” intenzionati a provocare incidenti per danneggiare la immagine della squadra avversaria, gli effetti negativi, raddoppiati, si attuerebbero sulla loro squadra di provenienza.

Il costo fiscale dell’intervento del pubblico erario sarebbe ampiamente compensato dalle economie che scaturirebbero quando si cominciasse a non dovere sopportare i costi spaventosi dell’impiego delle forze dell’ordine allo stadio. Questa sembra una strada alternativa praticabile rispetto alla audace richiesta di stato di crisi del settore vantata a fine agosto dalle squadre di calcio. In ogni caso si creerebbe un circolo virtuoso in cui anche i tifosi “normali” sarebbero interessati a controllare la situazione per ottenere il vantaggio dello sconto e favorire il risanamento della propria squadra. Anche questa sarebbe una forma di polizia di prossimità e di comunità.


5. Proposta per la creazione di una specializzazione in NEG-MED a due livelli

Lo scopo non celato di questo articolo è anche quello di spingere le competenti autorità a creare definitivamente anche in tutte le Forze di Polizia italiane una specializzazione NEG-MED a due livelli:

  • uno di tipo ordinario e sicuramente part-time definibile mediatore di quartiere per la attuazione operativa della “Bonaria composizione dei dissidi privati” in cui l’ufficiale dei carabinieri operi come terzo imparziale nel favorire l’accordo delle parti;
  • uno di tipo straordinario definibile negoziatore in situazioni di crisi rapportabile ad una sorta di GIS che usi, quale parte interessata, il dialogo al posto delle armi. Anche la saggezza popolare dice che “talvolta ferisce più la lingua della spada”.

Forse potrebbe essere utile che, durante l’attuazione di quest’ultimo incarico speciale, gli ufficiali siano anche visivamente riconoscibili attraverso un berretto o un basco bianco quasi da contrapporre ideologicamente al mefisto. In tal modo si eliminerebbero tre possibili ambiguità sulla funzione dei negoziatori in situazioni di crisi e si chiarirebbero:

  • i loro intenti “pacifici” verso il soggetto perturbatore e nel contempo anche la loro contiguità operativa e finalistica con la squadra di intervento speciale;
  • i loro doveri di ufficio “limitati al negoziare” e la loro incapacità di prendere decisioni importanti che possono spettare solo a magistrati o a politici (i quali non dovrebbero mai scendere in campo e si gioverebbero comunque dei consigli e della azione dei negoziatori);
  • i loro poteri a negoziare in una situazione classificata di crisi in quanto, essendo stata istituita formalmente questa specializzazione e quindi questa funzione, si eviterebbe che questo tipo di negoziazioni così “tecniche” siano effettuate da altre persone “improvvisate” siano essi funzionari pubblici che consulenti privati.

Questi ultimi godrebbero dello “schermo personale” e della “preparazione della decisione finale” effettuata dai negoziatori i quali, quand’anche non riescano a risolvere il conflitto, per definizione potrebbero comunque ottimizzare la strategia globale. Quest’ultima rimarrebbe di competenza di chi abbia gli adeguati poteri. In merito separare il momento preparatorio da quello decisorio, in uno scenario politicamente ed emotivamente complesso, può essere molto utile.

Lo F.B.I. sostiene da sempre che “Chi comanda non negozia. Chi negozia non comanda”. Il compito primario (i) della squadra dei negoziatori rimane di natura tecnica ed è quello, previsto per legge, di evitare che il fatto delittuoso in atto si aggravi ulteriormente: essi ad esempio sono particolarmente addestrati a non emettere alcuna valutazione di natura giuridico-formale che possa esasperare il soggetto e compromettere la vita degli ostaggi.

Il compito secondario (ii) della squadra dei negoziatori è di favorire la soluzione integralmente pacifica dell’incidente e, in caso di impossibilità, in terza battuta (iii) essi devono cooperare e facilitare l’opera della squadra di intervento speciale offrendole le conoscenze tattico-logistiche apprese durante la fase negoziale. Non mancano episodi storici italiani avvenuti nell’ultimo decennio a sostegno dei vantaggi delle tesi sinergiche qui sostenute.



6. Utilità della sinergia della negoziazione e della repressione

La manualistica americana ed in particolare quella dello F.B.I., Federal Bureau of Investigation, è già prodiga di principi preziosi per le nostre Forze di Polizia che tuttavia dovranno essere molto caute nel non cadere nella facile ed attraente trappola del recepimento tel quel di procedure operative che in Italia devono essere metabolizzate ed adattate al nostro sistema giuridico e culturale.

Un esempio del tutto ovvio è dato dal fatto che a condurre le indagini in Italia sia un giudice e non un appartenente alle Forze di Polizia: la tentazione per il magistrato di giocare il ruolo del negoziatore in situazioni di crisi può essere molto forte sia nel senso di sentirsi obbligato a tale ruolo per essere il responsabile delle indagini sia per contribuire a dare una forte immagine del sistema giudiziario nei confronti dei mass media.

Purtroppo per interpretare tale ruolo egli incontra due notevoli difficoltà:

  • nessuno gli ha insegnato come si fa (poiché la cultura appresa alla facoltà di giurisprudenza non insegna molto sulle differenze tra emettere una sentenza e facilitare la creazione di un accordo efficiente, soprattutto in questo genere di accordi dove l’aspetto socio-psicologico è fondamentale mentre quello giuridico è... ovvio e rilevante solo dopo la conclusione dell’incidente conflittuale). Di converso mi auguro che questo articolo possa tornare utile come sprone per il CSM affinché anche i magistrati requirenti ricevano una adeguata formazione in tema di negoziazione in situazioni di crisi;
  • egli gode di notevoli poteri decisionali che lo costringono a rispondere in modo adeguato alle richieste del soggetto. Come è noto, in generale, le trattative (non vincolanti) sono solo preparatorie agli atti vincolanti che creano l’accordo (quali come noto la proposta e la accettazione). Un negoziatore può eludere una decisione di fronte ad un ultimatum; un giudice si trova in maggiori difficoltà e rischia di far degenerare la situazione già precaria.

In particolare, poi, una delle prime regole della negoziazione in situazioni di crisi suggerisce di non dire mai di no per non esasperare il soggetto (o i suoi parenti, amici, complici anche dopo la conclusione dell’incidente conflittuale soprattutto in caso di necessità della squadra di intervento speciale) e di non dire mai di …sì per non accedere ad eventuali richieste illecite o, quanto meno, per non accedere a richieste che possano innescare processi emulativi futuri aggravando il livello di conflittualità globale potenziale (ad es., incoraggiare indirettamente nuovi sequestri da parte di chi spera di poter ottenere gli stessi vantaggi concessi con il “sì” nel caso qui in esame).

Per questa e per molte altre ragioni (qui non approfondibili per carenza di spazio) appare naturale che il ruolo del negoziatore nei fatti che possano compromettere l’ordine pubblico spetti esclusivamente ad un appartenente delle Forze dell’Ordine adeguatamente preparato ed aiutato da una intera squadra addestrata a particolari procedure. Infatti “altre persone”, contrariamente all’opinione corrente, sia pur in vario modo “vicine al soggetto” e non adeguatamente preparate potrebbero creare nuovi problemi dovuti al legame che unisce, ad es. il coniuge, il parente, l’interprete, il complice, il sacerdote, l’avvocato o il magistrato al soggetto. Peraltro i ruoli qui esemplificativamente indicati potrebbero essere non ancora “vissuti” all’inizio del loro svolgersi per poi mutarsi durante l’intervento in una sorta di speciale “Sindrome di Stoccolma” tra sequestratore e negoziatore “casuale”.

Lo scenario per i Carabinieri è invece una situazione usuale: si ha un delitto in atto cui, in successione, si deve:

  • in primo luogo porre rimedio minimizzando i rischi per tutti dialogando con il sequestratore quale persona che ha creato un problema dal quale egli stesso non sa uscire e desidera essere aiutato ad uscirne;
  • poi prevenire il ripetersi di delitti similari (mostrando chiarezza e linearità di comportamento nel dialogo senza minacce, senza menzogne gratuite e riconoscibili, senza cedimenti sui punti non negoziabili ma anche senza umiliazioni inutili);
  • poi chiarire la funzione preventiva e migliorare l’immagine dell’Arma (la cui funzione rimane invariata anche quando è attuata attraverso il dialogo, senza che debba ricorrere a sotterfugi sleali, vedi più sotto);
  • poi assicurare il responsabile alla Giustizia perché questa faccia il suo corso secondo le regole normali ed ovvie tali quindi da non dover “sbandierare” durante la negoziazione né come minaccia (la pena) né come premio (lo sconto sulla pena).

Ecco quindi che rivolgere al soggetto frasi che hanno a che fare con la illiceità del suo comportamento, con la condanna dopo il giudizio, con l’intervento di forza, con la morte ecc. non suonerebbero come un deterrente ma come un incentivo per il soggetto a fare qualcosa di spropositato. Questi infatti non ha ormai nulla da perdere e spesso desidera punire la società ingiusta che lo costringe a sequestrare ostaggi per far sì che finalmente qualcuno si occupi di lui.


7. Conclusioni

Infine vorrei sfatare un altro luogo comune secondo il quale, nel negoziare per trovare un accordo capace di prevenire o di porre fine alla lite già insorta, si debba necessariamente arrivare ad una soluzione intermedia tra le due proposte originarie passando attraverso le reciproche concessioni (come ci insegna il diritto in tema di transazione).

Al contrario, i principi di negoziazione ci dicono che la negoziazione non è un tiro alla fune, nel senso che non deve esistere una unica fune soprattutto quando il tipo di fune è proposto dalla “controparte”. Invece di gareggiare su quale degli interessi contrapposti debba prevalere, la negoziazione dovrebbe incentrarsi su una attività comune, sullo sforzo creativo di entrambe le parti mirato a trovare l’accordo per l’unico motivo per cui si fa sempre qualsiasi tipo di accordo ossia stare meglio di prima, trovare un nuovo vantaggio. Poiché entrambe le parti vogliono un beneficio, l’accordo ha un senso se entrambe lo trovano.

Nelle negoziazioni qui velocemente affrontate esistono delle difficoltà ulteriori: far rimanere nell’ambito della liceità il delinquente e rimanere nell’ambito della correttezza gli esponenti di tutte le Forze di Polizia; queste per quanto possibile dovrebbero evitare forme di inganno o di bluff che potrebbero minare alla radice il metodo negoziale nella gestione preventiva di successivi incidenti dello stesso genere.

Qualora si fosse nel dubbio se dare come risposta una menzogna riconoscibile dal soggetto, è meglio non rispondere e prendere tempo.

Stessa conclusione nel caso si sia portati a promettere qualcosa che non si sia sicuri di poter mantenere. Questi due tipi di inganno potrebbero infatti diventare motivo autonomo di rivolta, diminuirebbero l’attendibilità della negoziazione in generale e della immagine dell’Arma in particolare, soprattutto se a negoziare sia un ufficiale di grado elevato.

In uno studio a parte sto elaborando una sorta di parallelismo concettuale tra la sostenibilità della Guerra Giusta (o meglio giustificabile, poiché la guerra non è mai giusta) e la sostenibilità della Pace Giusta (o meglio giustificabile poiché i rappresentanti delle parti interessate - singole o in squadra - le uniche depositarie del potere decisionale finale, devono sempre “giustificare” a se stessi ed ai propri rappresentati, le ragioni dell’accordo di Pace).

Tornando ai concetti di cui all’inizio, i metodi tradizionali per ripristinare la Pace (sia quella sociale interna, osia quella internazionale tra Stati…), quello duro dei falchi e quello morbido delle colombe, l’imposizione o la remissività, da soli, non sono tendenzialmente produttivi di effetti permanenti e stabili.

Nella tutela dell’ordine pubblico interno, ricorrere direttamente alla forza suscita la reazione, il senso di vendetta che si autoalimenta proprio per il fatto di offrire il destro ad una facile obiezione: le istituzioni “non sanno far altro che reprimere”.

Come evidenziato, ricorrere direttamente ad effettuare delle concessioni (come se si fosse lungo una linea retta) induce la controparte ad aumentare le proprie pretese. Gli accordi fondati sul concetto di “La Pace per la Pace” sono ideologicamente un’utopia, come ci insegna la storia, e sono funzionalmente anche poco efficienti poiché ingenerano in chi ha effettuato la concessione il dubbio di aver concesso troppo ed in chi ha ricevuto la concessione il convincimento di poter pretendere ancora di più: la situazione si esaspera attraverso un effetto moltiplicatore se interviene anche l’opinione pubblica.

In entrambi i casi l’accordo raggiunto, di resa a fronte della imposizione altrui o di compromesso reciprocamente insoddisfacente, dà comunque luogo ad una situazione instabile ed inaffidabile già nel medio periodo.

Se al contrario l’accordo viene ispessito da contenuti egoistici e comuni, i negoziatori generano una situazione più sostenibile rispetto sia ai propri mandanti sia rispetto alla collettività nonché in generale un equilibrio più affidabile perché basato sulla soddisfazione degli interessi di fondo.
Gli accordi, al pari delle leggi, sono ricordati nella storia non per la firma ma per la loro proficua e spontanea esecuzione nonché per la loro capacità di creare sviluppo sociale.

Volendo esasperare il concetto di queste conclusioni, potrei arrivare a dire che la vera Pace si fonda sull’egoismo condiviso e non sull’altruismo immotivato. Non si può chiedere a tutti di essere pacifisti ad oltranza o sostenitori della non violenza: così mi sento di modificare in modo irriverente un famoso adagio romano in chiave moderna: “si vis pacem, para pacem et bellum”.

Per riportare qualsiasi situazione sotto controllo è opportuno prepararsi sia su come negoziare sia su come intervenire con la forza.

Approfondimenti:


(*) - Avvocato, docente di Tecniche di negoziazione, mediazione e di conciliazione presso la Pontificia Università Gregoriana, facoltà di Scienze Sociali e di Teorie e tecniche della trasformazione dei conflitti presso l’Università Roma Tre, facoltà di Scienze Politiche, indirizzo sociologico.