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  • N.2 - Aprile-Giugno
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Corte dei Conti

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Sentenze tratte dal sito www.corteconti.it (Massime a cura della Redazione)

Corte dei conti - Sezioni riunite in sede giurisdizionale - sent. n. 10-2003-QM del 23 aprile 2003 - Pres. Coco - Rel. Schlitzer.

Giudizio di responsabilità - Danno all’immagine - Natura giuridica - Quantificazione del danno - Parametri - Importo della tangente - Valutazioni discrezionali del giudice.

Il danno all’immagine di una pubblica amministrazione non rientra nell’ambito di applicabilità dell’art. 2059 del codice civile ma è una delle fattispecie del danno esistenziale.
Lo stesso deve essere individuato nell’ambito dei danni non patrimoniali come danno - evento e non come danno - conseguenza. Ai fini della relativa quantificazione si può fare riferimento, oltre che alle spese di ripristino sostenute, posto che si dimostrino coerenti con lo scopo perseguito, anche, e sul medesimo presupposto, a quelle ancora da sostenere. In quest’ultimo caso, la valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c., potrà fondarsi su prove anche presuntive od indiziarie. Tra di esse potranno collocarsi le “perdite assertivamente a carico dell’ente”, posto che si riferiscano a conseguenze negative che, per dato di comune esperienza e conoscenza, siano riferibili al comportamento lesivo dell’immagine e dell’identità della pubblica amministrazione offesa.
Per quanto concerne la prova delle spese sostenute, in base ai principi generali, l’attore deve provare gli elementi di fatto addotti a sostegno della domanda ed il convenuto quelli portati a sostegno della eccezione paralizzatrice o riconvenzionale. Gli indizi da cui dedurre l’importo delle spese da assumere devono essere indicati nella domanda giudiziale, con l’avvertenza che l’indicazione dei parametri in base ai quali valutare il danno del quale si chiede il risarcimento è elemento essenziale ai fini della determinazione del quantum della domanda medesima.
Inoltre, per la quantificazione del danno sussiste la possibilità di ricorrere a parametri diversi da quelli desumibili dalle spese. Tra di essi non rientrano né la minore acquisizione di entrate assertivamente collegabile con i comportamenti censurati, né il danno da disservizio che è una delle possibili componenti della lesione che andrà, quindi, quantificata aliunde. Al contrario, le spese promozionali inserite in bilancio possono assumere, nell’ambito del criterio dell’id quod plerumque accidit, valore di prova presuntiva od indiziaria.
In particolare, l’importo della tangente non può fondare una valida automatica parametrazione per la quantificazione del danno, ma può concorrervi, unitamente ad altri elementi propri della fattispecie, quali ad esempio il ruolo del percettore all’interno dell’apparato pubblico. Anche i fattori soggettivi possono contribuire a quantificare la lesione prodotta. In questo senso, le ipotesi di cui all’art. 133 c.p. non operano sulla quantificazione ma sulla riduzione del danno previamente quantificato.
Infine, una volta accolta la nozione di danno esistenziale o, comunque, per la valutazione del danno non patrimoniale i parametri che devono essere impiegati derivano dalle valutazioni discrezionali, congruamente motivate, di ciascun giudice (1).

(1) Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:
“…
1. Il giudice remittente ha proposto una questione di massima, articolata nei seguenti quesiti:
a) se il danno all’immagine sia azionabile in sede di giurisdizione contabile anche in mancanza di una sentenza penale definitiva, fuori dai casi di sentenza patteggiata o di estinzione del reato o della pena;
b) se tale tipo di danno rientri nell’ambito di applicabilità dell’art. 2059 del codice civile o sia individuabile nella categoria concettuale del danno esistenziale;
c) se l’“an” del danno all’immagine debba essere individuato nell’ambito dei danni non patrimoniali o in quello del danno - conseguenza (patrimoniale riflesso);
d) se ai fini della relativa quantificazione debba farsi riferimento alle spese di ripristino del prestigio leso, sostenute o anche a quelle da sostenere e, in quest’ultimo caso, se la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 del codice civile, debba essere basata su prove o indizi;
e) se invece possa essere fatto riferimento ad altre perdite assertivamente a carico dell’ente;
f) se la prova delle spese sostenute debba essere offerta dal requirente o possa essere accertata d’ufficio;
g) se gli indizi da cui dedurre l’importo delle spese da assumere possano essere accertati d’ufficio o, all’inverso, debbano essere indicati nella domanda giudiziale;
h) se la quantificazione del danno possa essere operata prescindendo dagli elementi indicati e, in particolare, trattandosi di illeciti commessi da appartenenti all’apparato finanziario, possa essere determinata in relazione alla minore acquisizione di entrate assertivamente collegabile con i comportamenti censurati, o alle spese promozionali inserite in bilancio, ovvero ancora al danno da disservizio;
i) se la quantificazione nei primi due casi possa essere parametrata sull’importo delle tangenti riscosse e, in caso negativo, di quali parametri il giudice debba tener conto, specificando quale valore, ai fini indicati, assumano fattori dedotti dagli elementi soggettivi della fattispecie o comunque tratti dall’applicazione analogica dell’art. 133 del codice penale;
j) quali parametri debbano essere impiegati una volta accolta la nozione di danno esistenziale o, comunque, per la valutazione del danno non patrimoniale;
k) se tutti i detti parametri debbano essere indicati dall’ufficio requirente nella domanda giudiziale o se debbano essere individuati d’ufficio dal giudice.
2. Parte pubblica rileva che il giudice remittente, nel deferire la questione, ha preliminarmente affermato la sussistenza della propria giurisdizione, che gli appellanti avevano contestato in riferimento al rapporto di servizio e sostiene l’inammissibilità dei primi tre quesiti, che riguarderebbero tutti la sussistenza o meno della giurisdizione contabile sul danno all’immagine. Non si vede, allora, come sia possibile che il giudice di appello, da un lato, abbia già affermato la propria giurisdizione sulla causa e dall’altro, invece, ne dubiti tuttora, poiché chiede di stabilire se, e quando, il danno all’immagine sia azionabile in sede contabile, oppure se il medesimo costituisca o meno un danno a contenuto “patrimoniale” ammesso a cognizione della Corte dei conti. Sottolinea parte pubblica che la pronuncia chiesta finisce per condizionare e limitare i poteri processuali delle parti del giudizio a quo. Esse, infatti, da un lato potrebbero ricorrere in via immediata per cassazione avverso la sentenza-ordinanza (ex art. 362 c.p.c. e 111 Cost.), dall’altro, potrebbero attendere la risoluzione della questione di massima e gli ulteriori orientamenti del giudice del merito.
Il collegio condivide, in linea di principio, queste considerazioni che ritiene, tuttavia, applicabili solo al primo quesito concernente la conoscibilità del danno all’immagine in sede di giurisdizione contabile anche in mancanza di una sentenza penale definitiva. Il quesito sarebbe stato certamente rilevante per il giudizio di merito pendente innanzi al giudice remittente, poiché non risulta per gli appellanti B. e A., una sentenza penale definitiva. Nell’affermare tuttavia la propria giurisdizione il giudice a quo implicitamente ha dato egli stesso soluzione al quesito, con la conseguente irrilevanza per il giudizio in corso di un’eventuale diversa decisione. Infatti, nel rispetto della posizione processuale delle parti, il punto della giurisdizione non può più essere rimesso in discussione dal medesimo giudice, essendo preordinato a formare, dopo il trascorrere dei termini di rito per gli eventuali ricorsi al giudice regolatore della giurisdizione, un giudicato interno.
È pur vero che il remittente sembra aver affermato la propria giurisdizione in relazione al motivo d’appello di cui ha negato la fondatezza. Tale motivo concerneva il rapporto di servizio, argomento del tutto diverso da quello cui si riferisce il quesito sub a). Tuttavia non è ammissibile che un giudice, nel decidere sulla propria giurisdizione, renda una pronuncia limitata alla censura sollevata dalla parte. Infatti, essendo il difetto di giurisdizione rilevabile anche d’ufficio, la pronuncia definisce la questione anche in relazione al mancato esercizio del potere officioso. In caso contrario si dovrebbe ammettere che il giudice possa affermare la propria giurisdizione, rigettando il rilievo di una parte ma possa ancora, con successiva pronuncia, negarla, purché per un diverso aspetto, d’ufficio oppure su impulso di parte.
La paradossale conseguenza conforta il collegio nel dichiarare inammissibile il primo quesito.
3. Lo stesso non può dirsi per i due quesiti sub b) e c), nei quali il remittente, diversamente da quanto sostenuto dalla parte pubblica, non dubita dell’esistenza della propria giurisdizione ma si pone un duplice problema definitorio che ha certamente conseguenze sulla pronuncia nel merito nel giudizio da cui proviene.
Infatti chiedere, come nel primo dei due quesiti in discorso, se il danno all’immagine rientri nell’ambito di applicabilità dell’art. 2059 del codice civile significa domandarsi se si ritengano, ed in che termini, ancora valide ed attuali una dottrina ed ad una giurisprudenza ormai minoritarie, che pure hanno sostenuto tale tesi oppure si opti per la configurazione che sembra preferire il giudice remittente e che riconduce la fattispecie di danno in questione alla categoria concettuale del danno esistenziale.
Il quesito successivo si preoccupa dell’esatta definizione del danno all’immagine subìto dalla persona giuridica pubblica nell’ambito della complessa problematica del danno civile ed in particolare di definire se essa debba essere individuata nell’ambito dei danni non patrimoniali o in quello del danno - conseguenza.
Nessuno dei due quesiti pone, tuttavia, in dubbio la giurisdizione di questa Corte in tema di danno all’immagine. Pertanto i predetti quesiti vanno dichiarati ammissibili ed il collegio può, quindi, pronunciarsi su di essi.
4. Occorre perciò decidere, in primo luogo, se il danno all’immagine sia inquadrabile nell’ambito dell’art. 2059 c.c.
Questa norma, pur innovativa rispetto al codice del 1865, ma che limita la risarcibilità dei danni non patrimoniali ai soli casi previsti dalla legge costituisce un’occasione mancata dal legislatore del 1942.
La previsione normativa dei casi di risarcibilità per lungo tempo, in disparte le previsioni di dettaglio dell’art. 89 c.p.c. e dell’art. 598 c.p., si è essenzialmente limitata a quella degli artt. 185 e 187 c.p. relativa al risarcimento del danno non patrimoniale derivante dal reato, danno definito come danno morale. La limitazione della previsione normativa appare quanto meno discutibile. Una congrua utilizzazione del risarcimento di danni siffatti da parte della giurisprudenza servirebbe ad affermare nell’ordinamento la possibilità di tutela dei diversi aspetti della personalità, anche con funzionalizzazione delle situazioni patrimoniali alla reintegrazione di valori tipicamente areddituali o comunque immateriali.
Non vale a spostare i termini della questione l’accrescersi, negli ultimi anni, dei casi in cui il danno morale o non patrimoniale è espressamente risarcibile, (e cioè l’art. 2 della legge 117/88 in materia di responsabilità dei magistrati per il danno non patrimoniale derivante dalla privazione della libertà personale, l’art. 29, 9° c., legge 675/96, relativo alla violazione delle regole sul trattamento dei dati personali, l’azione civile contro la discriminazione di cui all’art. 42, legge. 40/92, ora assorbito nell’art. 43 d.lgs. 25.7.98, n. 286), anche perché tali casi, per il loro palese carattere di eccezionalità, non consentono un’interpretazione estensiva ed, a maggior ragione, escludono ogni applicazione analogica.
Rimane, quindi, una vasta area di danni non patrimoniali esclusi dalla risarcibilità in base alla norma appena descritta, esclusione che ha portato ad ipotizzare l’incostituzionalità della norma richiamata. Infatti danno morale e danno non patrimoniale rappresentano fenomeni distinti, in quanto il primo concerne il danno subìto dall’individuo nella sua sfera psichica, mentre il danno non patrimoniale ricomprende tutto ciò che rappresenta un danno alla sfera giuridica dell’individuo, pur non traducendosi immediatamente in una perdita di carattere patrimoniale.
L’art. 2059 c.c. sembra tenere conto di tale diversità, essendo rubricato sotto il titolo di “danno non patrimoniale” ma, ancora nello scorso decennio, la giurisprudenza confondeva le due figure. La Corte suprema in particolare, affermava testualmente: “Anche le persone giuridiche possono subire (e conseguentemente agire per il ristoro di) un danno non patrimoniale (c.d. morale)…” (Cass. civ., 10 luglio 1991, n. 7642) ed ancora: “Con riguardo al reato di diffamazione, quale fatto idoneo a pregiudicare l’immagine e la credibilità anche di persona giuridica, come uno stato, è configurabile, a carico dell’autore, anche la responsabilità risarcitoria per danno cosiddetto morale, considerato che il verificarsi di conseguenze dannose non patrimoniali è ravvisabile pure nei confronti delle persone suddette” (Cass. civ., sez. I, 5 dicembre 1992, n. 12951).
Di tale sovrapposizione è possibile trovare eco in numerose pronunce di questo giudice contabile.
5. Solo di recente la Suprema Corte ha definito la differenza affermando che “Danno non patrimoniale e danno morale sono nozioni distinte: il primo comprende ogni conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento sibbene di riparazione, mentre il secondo consiste nella cosiddetta “pecunia doloris” (Cass. civ., 3 marzo 2000, n. 2367).
Il giudice delle leggi, investito della questione di costituzionalità dell’art. 2059 c.c., ha precisato che rientra nella discrezionalità del legislatore ordinario adottare trattamenti differenziati in relazione alle diverse conseguenze del fatto costituente reato e del fatto dannoso integrante esclusivamente illecito civile e che il riconoscimento, in un determinato ramo dell’ordinamento, di un diritto subiettivo non esclude che siano posti limiti alla sua tutela risarcitoria. Puntualizzava però che la discrezionalità del legislatore ordinario nel fissare la tutela doveva cedere innanzi a “situazioni soggettive costituzionalmente garantite”, tra cui la violazione del diritto alla salute. Osserva poi che il collegamento dell’art. 2043 c.c. con l’art. 32 consente, alla luce dell’interpretazione estensiva affermatasi nella evoluzione dello stesso diritto vivente, di risarcire, oltre ai danni in senso stretto patrimoniali, anche tutti quelli che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana e quindi anche, autonomamente e senza alcun ipotizzabile limite, il “danno biologico” inteso appunto come danno non patrimoniale. Solo la possibilità di tutelare aliunde le altre fattispecie faceva ritenere non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 cit., - in riferimento agli artt. 2, 3, comma primo, 24, comma primo, e 32, comma primo, Cost. - in quanto limitava la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla lesione di un diritto costituzionale tutelato (nel caso di specie, il diritto alla salute contemplato dall’art. 32 Cost.) solo se conseguente ad un reato. Pertanto, in presenza di un reato il risarcimento dei danni non patrimoniali, in relazione all’art. 185 c.p., deve essere commisurato non semplicemente al pretium doloris, ma anche alle conseguenze in termini di perdita di qualità personali. (sentenza n. 184 del 1986).
Il giudice delle leggi si preoccupava anche di precisare che l’inclusione del danno alla salute nella categoria considerata dall’art. 2059 c.c. non significa identificazione col danno morale soggettivo, ma soltanto riconducibilità delle due figure, quali specie diverse, al genere del danno non patrimoniale. Non essendo, tuttavia, il risarcimento del danno morale assistito dalla garanzia dell’art. 32 Cost., esso può essere discrezionalmente limitato dal legislatore solo alle ipotesi dell’art. 185 c.p., cui rinvia sotto questo aspetto l’art. 2059 (sentenza n. 37 del 1994 ed ordinanza n. 293 d.l. 1996).
6. La consapevolezza della differenza e quindi dell’esistenza di una serie di danni non direttamente riconducibili alla categoria del danno patrimoniale e non tutelati dalla previsione dell’art. 2059 c.c. e la necessità di superare la ristrettezza della tutela del danno non patrimoniale, sottoposta a quelle che sono state definite le “forche caudine” dell’ultima disposizione del quarto libro del c.c. portavano ad estendere l’area della patrimonialità alla valutabilità economica di tutte le potenzialità della integrità psicofisica ed a postulare un tertium genus di danno che tende a sottrarsi all’alternativa danno patrimoniale - non patrimoniale, per aspirare ad essere esso autonomamente un danno risarcibile. Tale nuovo genus, da un lato corrispondeva all’esigenza di tutelare le fattispecie dannose areddittuali e, dall’altro, consentiva di non affermare l’incostituzionalità dell’art. 2059 cit., nel presupposto della sua eccezionalità e della sua applicabilità anche a fattispecie di danni semplicemente non patrimoniali, purché derivanti anch’esse da reato.
Su tale base, non v’è dubbio che il danno biologico debba essere amministrato secondo i criteri di cui all’art. 2043 c.c. e delle altre norme sull’illecito come emerge da numerose pronunce della Corte di cassazione, tra le quali quelle del 10 marzo 1992 n. 2849, del 27 giugno 1990 n. 6536 e del 23 giugno 1990 n. 6366.
Occorre, a questo proposito, richiamare una giurisprudenza recente della Corte suprema che sconta, significativamente aderendovi, l’evoluzione della nozione di danno biologico verso quella più ampia di danno esistenziale, di cui si darà conto tra breve. La Cassazione, nella sentenza n. 9009 del 2001, richiedendo la dimostrazione di un pregiudizio e di un turbamento ulteriore e diverso dal danno morale al fine di ritenere risarcibile il danno esistenziale, si è data carico di rispondere alla preoccupazione di parte della dottrina secondo la quale ammettere, accanto al danno morale, la autonoma risarcibilità anche di quello esistenziale, determina necessariamente una (quanto meno parziale) duplicazione risarcitoria, liquidando due volte la pecunia doloris per le medesime privazioni.
Elementi necessari e sufficienti sono, alla luce di tale pronuncia, solo l’ingiustizia del danno e la lesione di una posizione costituzionalmente garantita, eventualmente diversa dall’art. 32 in tema di tutela della salute.
7. Venendo ora all’affermarsi del danno esistenziale deve considerarsi che se si tutela esplicitamente il bene della salute individuale e collettiva (art. 32 cost.), non si vede perché momenti “areddituali” d’altra natura: la famiglia, il lavoro, la libertà di espressione, la maternità, la scuola, il buon andamento dell’amministrazione pubblica e così via, che risultano ugualmente dotati di adeguata copertura costituzionale, non debbano essere anch’essi risarciti, secondo questo modello, ove lesi. Diversamente opinando, palese sarebbe la disparità di trattamento per due posizioni ugualmente garantite e le eccezioni di anticostituzionalità viste per il danno alla salute rivivrebbero con riferimento al danno da lesione alla identità personale.
Negli ultimi anni la giurisprudenza (Cass. S.U. n. 500 del 1999) ha ritenuto risarcibili danni diversi dalla ingiusta lesione della salute, esaminando tipologie di pregiudizio che, pur non classificate, scaturivano dalla lesione di diritti costituzionalmente garantiti. La rilettura costituzionale del requisito dell’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c., con il superamento del presupposto del danno arrecato contra ius (e conseguente tutela delle posizioni diverse dal diritto soggettivo), ha obbligato la giurisprudenza e la dottrina a rinvenire nuove figure di danno per colmare le lacune proprie del sistema risarcitorio tradizionale.
L’attuale orientamento della giurisprudenza richiede, in sostanza, quale requisito minimo, l’esistenza di un collegamento tra il nuovo concetto di ingiustizia del danno e la violazione di posizioni soggettive costituzionalmente protette. Una siffatta impostazione consente di superare il limite alla risarcibilità del danno, sino ad oggi rappresentato dalla combinazione tra l’art. 2043 c.c. e (il solo) art. 32 della Costituzione.
Ed è proprio in questo contesto che si inserisce la categoria del c.d. danno esistenziale: esso è stato definito come la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, perdita non causata da una compromissione dell’integrità psicofisica.
In astratto tale danno si differenzia agevolmente dalle tre categorie tradizionali di danno che la Consulta ha delineato: il danno biologico costituisce un peggioramento della qualità della vita del danneggiato, peggioramento dipendente da una lesione fisica o psichica. Il danno morale costituisce una mera sofferenza morale, una prostrazione dell’animo, un abbattimento dello spirito. Il danno patrimoniale, infine, costituisce una deminutio patrimonii.
Pertanto, il danno esistenziale si differenzia dalle categorie tradizionali di danno in quanto, rispetto al danno biologico, sussiste indipendentemente da una lesione fisica o psichica; rispetto al morale, non consiste in una sofferenza (la quale può rappresentare una ulteriore conseguenza, ma non si identifica con esso), ma nella rinuncia ad un’attività concreta. Diversamente dal danno patrimoniale prescinde da una riduzione della capacità reddituale.
Ben presto ci si è accorti che sussistono atti illeciti che non integrano gli estremi di alcun reato, non incidono né sulla salute, né sul patrimonio della vittima, ma precludono lo svolgimento di attività non remunerative, sino ad allora abituali, le quali costituivano fonte di gratificazione soggettiva per il danneggiato.
In sintesi allora il danno morale è essenzialmente un “sentire”, il danno esistenziale è piuttosto un “fare” (cioè un non poter più fare, un dover agire altrimenti). L’uno attiene per sua natura al “dentro”, alla sfera dell’emotività; l’altro concerne il “fuori”, il tempo e lo spazio della vittima.
Il danno esistenziale viene dunque configurato come un pregiudizio areddituale (prescinde dal reddito del danneggiato), non patrimoniale (in quanto non ha ad oggetto la lesione di beni od interessi patrimoniali), tendenzialmente omnicomprensivo, in quanto qualsiasi privazione, qualsiasi lesione di attività esistenziali del danneggiato può dar luogo a risarcimento.
8. La risarcibilità del danno esistenziale viene fondata sul disposto dell’art. 2043 c.c., secondo il sillogismo secondo cui, premesso che lo svolgimento di attività non remunerative costituisce un interesse dell’individuo tutelato dall’ordinamento, ne consegue che la lesione della possibilità di svolgere tali attività rappresenta un danno ingiusto ex art. 2043 c.c. e l’ingiustizia del danno ne determina necessariamente la risarcibilità.
Per quanto riguarda “l’oggetto”, quindi, superate le teorie che facevano riferimento solo ai casi di violazione di un diritto soggettivo, sembra opportuno orientarsi, in maniera più ampia, verso gli l’interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”, sicché l’atto non giustificato che, violando un interesse siffatto, arreca ad altri un danno, costituisce un atto illecito e obbliga l’autore dell’atto al risarcimento del danno. Ovviamente, a questo punto si pone il problema se il diritto all’identità personale sia o meno un interesse meritevole di tutela. Il fondamento positivo del diritto, come ampiamente dimostrato, porta sicuramente ad una risposta affermativa.
9. Rimane da dar conto, come accennato, dell’evoluzione della nozione di danno biologico verso quella, più ampia ed omnicomprensiva del danno esistenziale.
Una prima impostazione ritiene risarcibili, a titolo di danno esistenziale, tutti quei pregiudizi provocati da lesioni di diritti costituzionalmente protetti (o qualificati, come danno biologico, attraverso una lettura estensiva della categoria del danno alla salute) ai sensi dell’art. 2043 c.c. Ciò non implica un’estensione del concetto di danno biologico che viene invece inserito nella sua specificità, nell’ambito di una categoria più ampia: il danno esistenziale appunto. In questa ottica, permane la tradizionale tripartizione del sistema risarcitorio (danno patrimoniale, morale e biologico), ma la terza voce viene sostituita da quella del danno esistenziale. Pertanto, le tre categorie saranno rappresentate dal danno patrimoniale, dal danno morale e dal danno esistenziale. All’interno di quest’ultima, saranno individuabili le sottocategorie del danno biologico di natura psichicofisica, (come delineato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 372/94) da un lato e le altre ipotesi risarcitorie diverse dalla tutela del diritto alla salute di cui si detto prima.
Il danno biologico, nell’impostazione che il collegio condivide, altro non è quindi se non un danno esistenziale; cioè un sotto-tipo di quest’ultimo.
Dalle considerazioni che precedono si può affermare che il danno all’immagine non rientra nella ristretta previsione di cui all’art. 2059 c.c. ma nella più generale figura del danno esistenziale.
10. Rimane ora da chiarire come il danno all’immagine della persona giuridica pubblica si inserisca nel contesto fin qui delineato.
L’elemento oggettivo della responsabilità amministrativa ha subìto profonda e travagliata evoluzione in giurisprudenza ed in dottrina anche perché manca nel sistema una sua puntuale definizione.
Appare ormai superata, alla luce delle innovazioni della legge n. 20 del 1994, quella giurisprudenza contabile che, applicando parametri esclusivamente civilistici, affermava la natura patrimoniale e contrattuale della responsabilità amministrativa ed in essa individuava l’ambito esclusivo della giurisdizione contabile. Corollario di quest’assunto era la rimessione alla giurisdizione del giudice ordinario delle fattispecie concernenti i danni non patrimoniali, pur dopo averne affermata la risarcibilità a favore della p.a.(Cfr. S.S.R.R. n. 91 del 1987)
Il concepire in termini di esclusiva patrimonialità la responsabilità amministrativa impediva poi di tener conto dell’evoluzione che, nell’ambito stesso del diritto privato, aveva portato ad una depatrimonializzazione della responsabilità. Di tale evoluzione era prova la individuazione prima del danno biologico e poi di quello esistenziale risarcibili indipendentemente dalla perdita di capacità produttiva del danneggiato.
Emerge, però, dall’intervenuta evoluzione del quadro normativo di riferimento ormai ampiamente nota, una configurazione della responsabilità amministrativa nella quale trova collocazione anche la tutela di interessi ulteriori rispetto a quelli della semplice integrità patrimoniale ma ugualmente fondamentali in una società moderna, tesa all’efficienza dei propri apparati pubblici, ed espressi dai principi costituzionali dell’art. 97, 1°e 2° comma, recepiti nella nuova disciplina dell’agire amministrativo (art. 1, 1° comma legge n. 241 del 1990).
Come si è visto, già l’evoluzione della nozione e della funzione della responsabilità di diritto comune si è incentrata su di una nuova lettura della fondamentale norma dell’art. 2043 c.c., più attenta alle esigenze di tutela della collettività, anche per quei casi ingiusti in sé, indipendentemente cioè da una lesione patrimoniale subita dal privato. Si finisce così da un lato per sottolineare un profilo sanzionatorio della responsabilità che nell’ordinamento civile la condanna al risarcimento assume, e dall’altro per attenuare nella medesima responsabilità il collegamento esclusivo con la redditualità, attraverso una sua più ampia concezione che vi comprende il complesso di beni e valori di diretta pertinenza del soggetto.
Queste evoluzioni portano ad una più appropriata configurazione della responsabilità amministrativa in cui, oltre alla tradizionale funzione recuperatoria e restauratrice del patrimonio pubblico, occorre tener conto della tutela di quei sostanziali interessi della collettività che sono di generale rilevanza.
11. La lesione di questi interessi trova il positivo, giuridico fondamento nella generale previsione dell’art. 82 del r.d. n. 2440 del 1923, dell’art. 52 del r.d. n. 1214 del 1934, dell’art. 18 del d.p.r. n. 3 del 1957 e delle norme ad esse successive, di integrazione e modifica, che limitandosi a sanzionare l’obbligo di rispondere del danno cagionato alle pubbliche amministrazioni nell’esercizio delle loro funzioni, senza tuttavia individuare i beni giuridici protetti, possono considerarsi norme in bianco o clausole generali che si completano con ogni altra norma che, attribuendo protezione e quindi assumendo tra le finalità perseguite dallo Stato un determinato interesse di carattere generale, conferisce a questo natura di bene giuridico, riferendolo al contempo alle amministrazioni stesse.
Le norme citate finiscono, cioè, per assumere, nell’ordinamento contabile, funzione integratrice della generale valenza dell’art. 2043 c.c. più sopra illustrata e condivisa dal collegio. Emerge quindi che anche il danno erariale risarcibile va definito, in questa prospettiva, in rapporto alla specifica norma di protezione.
Perfettamente applicabile alla tutela dell’immagine delle pubbliche amministrazioni si rivela, cioè, il modello risarcitorio del danno esistenziale per le fattispecie diverse dalla lesione del diritto alla salute e quindi dell’art. 32 della Costituzione che tale diritto tutela.
Infatti, applicando al caso di specie la generale considerazione già prima fatta, se viene difeso il bene della salute individuale e collettiva non si vede perché, non dovrebbero essere risarciti, secondo questo modello, ove lesi, momenti “areddituali” d’altra natura: la famiglia, il lavoro, la libertà di espressione, la maternità, la scuola, il buon andamento dell’amministrazione pubblica e così via, che risultino ugualmente dotati di adeguata copertura costituzionale.
12. Tra questa fattispecie rientra certo il diritto alla propria immagine vale a dire alla tutela della propria identità personale, del proprio buon nome, della propria reputazione e credibilità in sé considerate.
Si tratta di diritto e tutela che l’ordinamento accorda in primo luogo alle persone fisiche. Da esse non distingue le persone giuridiche, ugualmente soggetti dell’ordinamento, che trovano nella tutela accordata esclusivamente le limitazioni derivanti dall’assenza di fisicità. Non sarà, ad esempio, loro applicabile la tutela del nome per ragioni familiari di cui all’art. 8 c.c.
Nel contesto delle persone giuridiche, la tutela di quelle pubbliche e, quindi, delle pubbliche amministrazioni discende, con particolare evidenza, dal dettato costituzionale.
Oltre che nella generale previsione dell’art. 2 della Costituzione, relativa alla tutela delle formazioni sociali, assume rilievo, come si è anticipato, il dettato dell’art. 97, primo e secondo comma.
Il 1° comma di quest’articolo fissa per l’agire amministrativo parametri di imparzialità e buon andamento ed il legislatore ordinario su tale base, all’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, ha ulteriormente individuato parametri di trasparenza, economicità e produttività. È indubbio che questi criteri costituiscano il riconoscimento di interessi collettivi di grande rilievo sociale, che si aggiungono e si intrecciano con quelli alla corretta gestione delle risorse pubbliche, di cui abbiamo già parlato.
Non privo di effetti, ad integrazione della copertura costituzionale del diritto delle pubbliche amministrazioni alla tutela della propria immagine ed identità personale è anche il secondo comma dell’articolo in discorso, relativo alla determinazione delle sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità proprie dei funzionari. E’ evidente cioè, nell’ambito del rispetto dell’immagine ed identità personale, l’interesse costituzionalmente garantito che le competenze individuate vengano rispettate, le funzioni assegnate vengano esercitate, le responsabilità proprie dei funzionari vengano attivate. Ogni azione del pubblico dipendente che leda tali interessi si traduce in un’alterazione dell’identità della pubblica amministrazione e, più ancora, nell’apparire di una sua immagine negativa in quanto struttura organizzata confusamente, gestita in maniera inefficiente, non responsabile né responsabilizzata.
Ne discende il diritto delle amministrazioni pubbliche ad organizzarsi ed agire secondo i predetti criteri che costituiscono gli elementi caratterizzanti della propria immagine e della propria identità. Il diritto di realizzarsi e di operare in modo efficace, efficiente, imparziale e trasparente nei confronti dei propri dipendenti e dei propri amministrati è così un diritto costituzionalmente garantito dall’art. 97. Esso è rafforzato dalla tutela accordata dagli articoli 7 e 10 c.c. al nome ed all’immagine della persona, norme ritenute applicabili anche alle persone giuridiche.
In tali ipotesi il danno non potrà che consistere nella mancata realizzazione della specifica finalità perseguita dalla norma di tutela e quindi coincidere con la violazione della stessa.
13. La violazione di questo diritto all’immagine, intesa come diritto al conseguimento, al mantenimento ed al riconoscimento della propria identità come persona giuridica pubblica, è economicamente valutabile. Essa infatti si risolve in un onere finanziario che si ripercuote sull’intera collettività, dando luogo ad una carente utilizzazione delle risorse pubbliche ed a costi aggiuntivi per correggere gli effetti distorsivi che sull’organizzazione della pubblica amministrazione si riflettono in termini di minor credibilità e prestigio e di diminuzione di potenzialità operativa.
Rimane, quindi, definitivamente chiarito, che il danno all’immagine di una pubblica amministrazione, inteso come sopra, non rientra nell’ambito di applicabilità dell’art. 2059 del codice civile ma è una delle fattispecie del danno esistenziale.
14. Il collegio può quindi passare alla soluzione del quesito successivo, se cioè “l’an del danno all’immagine debba essere individuato nell’ambito dei danni non patrimoniali o in quello del danno - conseguenza”.
Va, preliminarmente, disattesa la questione di inammissibilità sollevata dalla parte pubblica, secondo la quale la risposta servirebbe al giudice del merito anche per stabilire il dies a quo della prescrizione. Il quesito, cioè, sarebbe stato formulato esponendo soltanto alcune delle implicazioni giuridicamente rilevanti nel processo a quo, riservandosi il giudice di utilizzare poi liberamente la risposta anche ad altri fini non esplicitati nell’interrogativo.
Il collegio non condivide la censura in quanto il giudice remittente al punto 5.2 dell’ordinanza di rimessione ha chiaramente indicato le implicazioni relative alla prescrizione.
La differenza fra l’ipotesi di danno - evento e quello di danno - conseguenza rileva essenzialmente sul piano probatorio al quale sono dedicati i quesiti successivi.
Infatti nel caso di danno evento, le conseguenze esistenziali negative finiscono per coincidere con la lesione “in sé” di quel bene giuridico; il torto è un’entità ravvisabile in re ipsa. Nel danno conseguenza, invece, esso comprende anche tali conseguenze negative, rispetto alle quali l’evento-lesione rileverà solo quale presupposto.
La concezione del danno evento evita il pericolo che il torto, riconosciuto in astratto, sia vanificato in concreto ogniqualvolta l’offeso si trovi in difficoltà nella dimostrazione delle potenzialità ed identità personali che sono state, caso per caso, compromesse. Una tutela risarcitoria sarà infatti possibile per il semplice fatto che una determinata prerogativa risulti danneggiata, restando in discussione soltanto gli aspetti relativi alla quantificazione del danno, rimessi al giudice che deciderà secondo parametri anche discrezionali.
I fautori del danno come conseguenza sostengono che invece tale impostazione, escludendo qualsiasi possibilità di automatismo, diminuisce il pericolo di risarcimenti eccessivi e immotivati.
Se da un lato si adduce in contrario il ricordato pericolo di estrema difficoltà probatoria, dall’altro si controreplica che almeno “entro lo zoccolo duro del danno esistenziale”, l’attore beneficerebbe delle varie presunzioni circa le attività compromesse richiamandosi al parametro dell’id quod plerumque accidit, mentre rimarrebbe sempre al convenuto la possibilità di provare che le presunte evenienze negative allegate dall’attore, in concreto, non si sono e non si sarebbero mai verificate.
La soluzione della questione è, in buona parte, condizionata dalla configurazione che si attribuisce al danno esistenziale.
In realtà, tale configurazione rimane comunque condizionata dalla necessità di superare l’impasse dell’art. 2059 c.c. e di utilizzare la generale previsione dell’art. 2043 per la copertura, per tale via, di ipotesi di danni non patrimoniali individuate dalla dottrina e dalla giurisprudenza ed entrate ormai a far parte del diritto vivente. La qualificazione non patrimoniale rimane, quindi, prevalente e non può non orientare la soluzione del quesito nel senso della sufficienza del danno come evento.
In tal senso è, del resto, la giurisprudenza della Corte Costituzionale, cui si deve il merito di aver aperto la via, con la ricordata sentenza n. 184 del 1987 a queste nuove figure risarcitorie e di aver ulteriormente precisato la fattispecie con la successiva sentenza n. 372 del 1994.
Osserva, infatti, la prima di tali pronunce, che la lesione del bene - giuridico salute è l’intrinseca antigiuridicità obiettiva del danno biologico ed appartiene quindi ad una dimensione valutativa distinta da quella naturalistica e si concretizza, nel momento stesso in cui si realizza, completamente, il fatto costitutivo dell’illecito; e non va provato che la menomazione bio-psichica del soggetto offeso in concreto abbia impedito le manifestazioni, le attività extralavorative non retribuite, ordinarie che, accanto alle attività lavorative retribuite, esprimono, realizzandola, la salute in senso fisio-psichico.
La pronuncia n. 372 del 1994 chiarisce che qualificare come “presunto” tale danno, identificandolo col fatto illecito lesivo della salute, vuol dire che la prova della lesione é in re ipsa ed è prova dell’esistenza del danno non già che questa prova sia sufficiente ai fini del risarcimento. È sempre necessaria, quindi, la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato.
La seconda pronuncia del giudice delle leggi in parte attenua, sotto il piano probatorio, le conclusioni della prima ma rimane il fatto che altro è la prova dell’esistenza del danno, che si conferma essere in re ipsa, altro quella della sua entità.
I limiti strutturali della responsabilità civile, validi anche per quella amministrativa fin tanto che mantiene la sua ancora rilevante componente risarcitoria, possono quindi individuarsi come regole. Oggetto del risarcimento non può che essere una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva e la liquidazione del danno non può riferirsi se non a perdite. A questi limiti soggiace anche la tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali causati dalla lesione di diritti od interessi costituzionalmente protetti, quale il diritto alla immagine, con la peculiarità che essa deve essere ammessa, per precetto costituzionale, indipendentemente dalla dimostrazione di perdite patrimoniali, oggetto del risarcimento essendo la diminuzione o la privazione di valori inerenti al bene protetto.
Sulla base delle considerazioni che precedono può quindi affermarsi che il danno all’immagine deve essere individuato nell’ambito dei danni non patrimoniali come danno - evento e non come danno - conseguenza.
15. Prima di passare all’esame dei quesiti rimanenti il collegio ne afferma in rito l’ammissibilità che non è stata peraltro oggetto di formale contestazione ma solo di considerazioni collaborative da parte della pubblica accusa.
L’ammissibilità dei quesiti ancora da definire poggia su ragioni molteplici.
In primo luogo essi si pongono come integrazione ed esplicitazione dei fondamentali quesiti fin qui esaminati e che avrebbero avuto più complessa formulazione da parte del remittente, e quindi più articolata risposta da parte di queste sezioni, se il remittente medesimo avesse potuto prevedere che una formulazione analitica come quella in esame poteva comportare l’inammissibilità di alcuni degli aspetti della tematica che complessivamente intendeva proporre.
In effetti la soluzione dei quesiti restanti consente una migliore definizione della questione di massima sollevata, che pur nella sua articolata prospettazione, rimane sostanzialmente unitaria. Ciò traspare, del resto, dalla lettura dei punti ancora da decidere, che afferiscono tutti ad aspetti che presentano conflitti di giurisprudenza, in un caso (quello relativo alle spese) ammesso anche dalla parte pubblica ma comunque sempre notoriamente esistenti (valga per tutti il riferimento alla tematica della percezione di tangenti ed a quella dalla liquidazione equitativa del danno), per cui può essere sufficiente la semplice illustrazione degli aspetti del conflitto medesimo, pur in mancanza della puntuale indicazione delle pronunce contrastanti, acclarato peraltro il rilievo della pronuncia su ciascuno dei quesiti ai fini del decidere nel giudizio di merito. A ciò si aggiunga che l’importanza delle questioni proposte permette comunque di considerarle argomenti di sicuro interesse giuridico.
16. Il collegio procede, quindi, nell’esame dei quesiti restanti, ritenuti ammissibili.
I quesiti sub d) e sub e) fanno riferimento ai parametri da utilizzare per la quantificazione del danno, ponendo il problema se per essa debba farsi riferimento alle spese di ripristino del prestigio leso, solo se già sostenute o anche se ancora da sostenere e, in quest’ultimo caso, se la valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c. debba fondarsi su prove o indizi o se invece possa richiamarsi “ad altre perdite assertivamente a carico dell’ente”.
Il problema della quantificazione del danno esistenziale e quello connesso dell’individuazione dei parametri utili a ciò sono di particolare delicatezza nella problematica del danno esistenziale, al cui interno si colloca, come “figura” specifica, quello all’immagine ed alla identità personale.
Lo conferma la ricordata evoluzione della giurisprudenza costituzionale che nel passaggio dalla pronuncia n.184 del 1986 a quella n.372 del 1994 ha marcato la differenza proprio tra prova del danno e prova della sua quantificazione. La sentenza n. 372 confermava per il primo verso che, essendo il danno, biologico o, - il che è lo stesso ai fini che qui interessano - esistenziale, un danno non patrimoniale, la lesione degli interessi costituzionalmente protetti costituiva, in quanto lesione giuridica e quindi danno evento, prova del verificarsi del danno medesimo. Per l’altro verso, tuttavia, approfondendo un punto rimasto in ombra nella sentenza precedente, richiamava la necessità della prova dell’entità del danno.
È evidente la preoccupazione dei giudici della Consulta che la nuova categoria risarcitoria, molta ampia nella sua configurazione teorica, potesse aprire la strada ad una serie di pretese a volte fantasiose, spesso di poco momento sotto il profilo economico. Con la necessità di dare la prova del quantum risarcitorio richiesto, la Corte ha cercato di porre un freno, in un rapporto costi - benefici, a tali pretese, dovendo l’attore commisurare l’alea del giudizio, specie sotto il profilo probatorio, al possibile risarcimento ed al suo ammontare.
La mancanza di criteri oggettivi di quantificazione non è però un motivo per escludere l’esistenza del danno, in quanto il profilo liquidatorio interessa non per l’ammissibilità del risarcimento, ma per la sua determinazione. Si tratta, di un problema di delimitazione dell’area della risarcibilità sulla base di criteri oggettivi che il giudice deve poter determinare sulla base del diritto positivo.
17. Ciò considerato, ritiene il collegio che le questioni probatorie vadano risolte secondo due criteri di fondo.
Sarà ammissibile il ricorso alle presunzioni come idoneo mezzo di prova a sostegno della domanda fin quando le conseguenze negative fatte valere rimangano per la loro tipicità, entro i limiti dell’id quod plerumque accidit e correlativamente debbono ammettersi oneri forti di controprova per il convenuto che voglia dimostrare che il pregiudizio allegato, al di là di ogni parvenza, in realtà non si è verificato.
Sarà invece necessaria adeguata prova, cadendo allora ogni automatismo presuntivo a favore dell’offeso, ove si rivendichino conseguenze negative ulteriori e specifiche.
Applicando questi principi ai quesiti che giungono ora in esame discende, con tutta evidenza, che per la quantificazione del danno in questione si può fare riferimento, oltre che alle spese di ripristino del prestigio leso già sostenute, posto che si dimostrino coerenti con lo scopo perseguito, anche, e sul medesimo presupposto, a quelle ancora da sostenere.
In quest’ultimo caso, la valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c., dovrà fondarsi su prove anche presuntive od indiziarie. Tra di esse potranno collocarsi le “perdite assertivamente a carico dell’ente” posto che, in coerenza con quanto detto, esse si riferiscano a conseguenze negative che, per dato di comune esperienza e conoscenza, sulla base di quanto normalmente avviene, siano riferibili al comportamento lesivo dell’immagine e dell’identità della pubblica amministrazione offesa. Emblematico può essere il caso della perdita di fiducia della collettività in un’istituzione benefica pubblica lesa nell’immagine ma destinataria, in passato, di numerosi lasciti e donazioni.
La mera asserzione di conseguenze ulteriori, diverse od anomale non sarà invece sufficiente ma dovrà essere sorretta da prova adeguata.
In questo ambito, tuttavia, non saranno neppure prospettabili diminuzioni patrimoniali o mancate acquisizioni concretamente prevedibili, che andranno invece fatte valere nell’ambito della richiesta del risarcimento del danno erariale in quanto danno patrimoniale.
18. I successivi quesiti sono ispirati ad una comune esigenza di fondo, accertare cioè quale sia l’onere probatorio della parte pubblica e quale invece l’obbligo officioso del giudice nella quantificazione del danno.
Così è, in primo luogo, per il punto relativo all’onere della prova delle spese sostenute: la questione non permette soluzione diversa da quella che discende dall’applicazione dell’antico brocardo dell’onus probandi incumbit ei qui dicit che si traduce nel noto principio processuale secondo il quale l’attore prova gli elementi di fatto addotti a sostegno della domanda ed il convenuto quelli portati a sostegno della eccezione paralizzatrice o riconvenzionale. Nel caso di specie allegando l’attore di aver (già) sostenuto delle spese dovrà provare ciò che afferma.
Sotto questo profilo, la peculiarità del giudizio contabile, nel quale il procuratore regionale della Corte agisce in giudizio per la pubblica amministrazione, non ha rilievo. Ad essa, infatti, andrà chiesta la documentazione contabile giustificativa, che dovrà essere obbligatoriamente trasmessa al procuratore istante.
19. Non soccorre sotto questo profilo, in merito cioè alla ventilata possibilità che sia il giudice stesso ad acquisire la prova delle spese effettuate, il richiamo al potere sindacatorio del giudice contabile.
Ritiene infatti il collegio che, specie con il principio del giusto processo di cui al nuovo art. 111 della Costituzione, particolare problema ponga la sopravvivenza del potere sindacatorio, tradizionalmente ritenuto proprio del giudice contabile. E’, infatti, fuori discussione l’immediata applicazione anche al processo contabile, dei principi di cui al 2° comma in virtù dell’inequivocabile espressione “ogni processo” in esso contenuto. Solo prospettandone una ben minor portata rispetto al passato (cfr. sez. Abruzzo n. 114/2000 e n. 389/2001, sez. Piemonte, n. 779/2001), il potere sindacatorio funzionalizzato ai soli fini istruttori, correttamente utilizzato, non sembra discostarsi molto da quei poteri che il codice di procedura civile intesta al giudice ai sensi degli artt. 118 e 213 c.p.c., i quali consentono di poter disporre accertamenti ispettivi di persone e di cose (utili al fine di persuadere il giudice sull’esistenza o meno del fatto) e di richiedere informazioni alla p.a. (utili queste, al fine di acquisire elementi necessari per il processo che siano rinvenibili in atti e documenti conservati dall’amministrazione stessa, nell’ovvio presupposto che essa non sia la parte nel cui interesse viene esercitata l’azione). Oltre questo limitato ambito verrebbero violati i principi costituzionali di terzietà del giudice, della par condicio tra le parti del processo ed i diritti della difesa (artt.111 e 24 cost.).
Peraltro la questione, alla luce delle considerazioni che precedono, perde gran parte della sua rilevanza. Infatti, essendo ammissibili anche l’allegazione di spese ancora da sostenere, quelle allegate come sostenute ma non documentate potranno comunque essere fatte valere sotto tale diverso profilo, avvalendosi, se possibile della presunzione, anche se ciò comporterà, evidentemente, il rischio di una liquidazione approssimata e probabilmente inferiore a quella asserita.
20. Nel medesimo ordine di questioni si pone quella relativa all’onere di allegazione nella domanda giudiziale degli indizi da cui dedurre l’importo delle spese da assumere, la cui esistenza con la correlata esclusione della possibilità che essi possano essere assunti d’ufficio trova a fortiori le sue motivazioni nelle considerazioni fatte in merito al punto che appena precede ed alle quali, pertanto, si rinvia.
21. Ancora affine alla problematica fin qui trattata, è l’ultimo dei quesiti, che si preferisce, per connessione, anticipatamente affrontare. Anch’esso, infatti, attiene all’esistenza di un onere di allegazione dei parametri idonei alla valutazione del danno o al contrario dell’esistenza di un obbligo di attivazione da parte del giudice ed è prospettazione più ampia e generale del punto trattato appena sopra: valgono, pertanto, anche qui le medesime considerazioni.
Si deve aggiuntivamente considerare che l’indicazione dei parametri in base ai quali valutare il danno del quale si chiede il risarcimento è elemento essenziale ai fini della determinazione del quantum della domanda medesima. Essa è cosa diversa dalla concreta prova degli indizi cui può sopperire, in caso di difficoltà o impossibilità, il giudice ex art. 1226 c.c., come meglio vedremo in seguito.
22. Solo apparentemente più complessa è la questione prospettata al punto sub h) nel quale si chiede se la quantificazione del danno possa essere operata anche prescindendo dagli elementi prima indicati (spese anche solo da sostenere e perdite assertive) e, in particolare, trattandosi di illeciti commessi da appartenenti all’apparato finanziario, se essa possa essere determinata in relazione alla minore acquisizione di entrate assertivamente collegabile con i comportamenti censurati, o alle spese promozionali inserite in bilancio, ovvero ancora al danno da disservizio.
Le considerazioni fin qui svolte consentono di dare risposta anche a questa problematica. Certamente la possibilità di ricorrere, per la quantificazione del danno, a parametri diversi da quelli desumibili dalle spese anche solo da sostenere e nei limiti di cui sopra, alle perdite assertive (rectìus asserite) non può, in via generale ed astratta, essere esclusa.
Sarà in concreto la quotidiana pratica giudiziaria a indicare tali elementi. Vanno però verificati quelli prospettati dal remittente.
23. La minore acquisizione di entrate collegabile con i comportamenti censurati non si presenta come indice accettabile. Infatti, vale anche qui quanto il collegio ha già affermato in relazione alle perdite “assertivamente” a carico dell’ente, tra le quali si colloca la fattispecie ora in esame. In questo ambito, ha prima rilevato il collegio, non saranno prospettabili perdite reddituali, che andranno invece fatte valere, ove provate, nell’ambito della richiesta del risarcimento del danno erariale in quanto danno patrimoniale.
Del pari, non sembra valido riferimento il danno da disservizio. Infatti, per quanto inizialmente detto in ordine alla configurabilità del danno all’immagine ed all’identità personale quale lesione degli interessi tutelati dai primi due commi dell’art. 97 cost., il disservizio è una delle possibili e più frequenti componenti della lesione ma, proprio perché si identifica con la lesione non può essere prova dell’entità della stessa che andrà, quindi, dimostrata aliunde, secondo i principi già indicati dal collegio.
Diverso discorso è da farsi per le spese promozionali inserite in bilancio che, specie se integrate con la documentazione inerente alla modalità di utilizzazione, possono assumere, nell’ambito del richiamato criterio dell’id quod plerumque accidit, valore di prova presuntiva ed indiziaria.
24. Chiede poi il remittente al quesito sub i) se la quantificazione possa essere parametrata sull’importo delle tangenti riscosse. E’ questo un punto di particolare rilievo nell’ambito della giurisprudenza contabile. In essa spesso l’importo della tangente è considerato come il limite massimo dell’eventuale condanna in dipendenza di tali fatti; in altre occasione la condanna è commisurata all’intero importo della tangente, altre volte ancora ad un sottomultiplo o, più spesso, ad un multiplo della stessa.
Prima di addentrarsi nell’esame di questa variegata casistica ritiene il collegio di precisare che, in sé, l’importo erogato a titolo di tangente ad un amministratore o dipendente pubblico non afferisce al danno all’immagine. Tale importo può costituire il danno di natura patrimoniale subìto dall’amministrazione ed, in tal caso, deve essere oggetto di apposita domanda e sarà risarcito secondo i parametri del danno emergente e del lucro cessante.
La percezione della tangente è per altro verso fatto idoneo ad integrare la lesione dell’immagine dell’amministrazione. Altro problema è se l’importo della tangente medesima possa essere un parametro al quale commisurare automaticamente la quantificazione del danno e quindi l’importo della condanna.
Sotto questo profilo condivide il collegio la considerazione del remittente in base alla quale non può dirsi che all’erogazione di una tangente di rilevante importo debba necessariamente corrispondere, una lesione all’immagine direttamente proporzionale a tale importo.
In realtà la percezione di una tangente di importo elevato può creare minor disservizio e minor allarme sociale della percezione di una di importo modesto. Il grado di scadimento di un apparato pubblico potrebbe anche ritenersi inversamente proporzionale all’importo di una tangente, nel senso cioè che solo l’erogazione di rilevanti importi è in grado di comprometterne la “virtuosità” e ciò non si verificherà che in casi particolari.
Ben maggiore potrebbe essere ritenuto lo scadimento dello stesso apparato e la percezione esterna di esso se si dovesse rilevare che modeste dazioni di danaro sono sufficienti a deviare a fini privati l’esercizio di funzioni o la gestione di risorse pubbliche.
Quindi l’importo della tangente, isolatamente considerato, non può fondare una valida automatica parametrazione per la quantificazione del danno, ma può concorrervi, unitamente ad altri elementi propri della fattispecie, quali ad esempio il ruolo del percettore all’interno dell’apparato pubblico. Così una modesta tangente percepita da un modesto funzionario rileverà molto meno di una analoga percepita da un dipendente in posizione esponenziale o, peggio ancora, apicale. Le esemplificazioni potrebbero continuare ma esse in realtà debbono ricavarsi, caso per caso, in relazione alla peculiarità della singola fattispecie.
25. Il medesimo quesito chiede poi quale valore assumano i fattori dedotti dagli elementi soggettivi della fattispecie o comunque tratti dall’applicazione analogica dell’art. 133 del codice penale.
Anche i fattori soggettivi, ritiene il collegio, possono contribuire a quantificare la lesione prodotta così, la delicatezza e la rappresentatività delle funzioni attribuite ad un amministratore o dipendente pubblico comporteranno che esse, se male esercitate, più gravemente si ripercuotano, con negativo effetto, sull’amministrazione, sulla sua immagine e sulla percezione che di essa ne hanno i suoi componenti ed i soggetti nel cui interesse essa opera.
Per quanto infine concerne la possibilità dell’applicazione analogica dell’art. 133 del codice penale e delle ipotesi ivi previste, il collegio condivide la consolidata giurisprudenza di questa Corte che da tempo ritiene tali ipotesi, in quanto compatibili con il giudizio contabile, rilevanti solo ai fini di un’eventuale riduzione del danno da addebitare al convenuto con l’applicazione del potere di cui all’art. 52 R.D. n. 1214/1934. Esse cioè non operano sulla quantificazione ma sulla riduzione di un danno previamente quantificato.
26. Residua l’ultima questione, relativa ai parametri da utilizzare per la valutazione del danno esistenziale.
Essi non possono esser individuati in funzione didattica da queste sezioni riunite ma vanno rimesse alla valutazione che, nella propria discrezionalità, ciascun giudice saprà trarre dalle singole fattispecie.
L’elaborazione giurisprudenziale, analogamente del resto a quanto avvenuto per il danno biologico prima e per quello esistenziale poi, potrà così elaborare un’adeguata casistica di riferimento.
Oggi si possono quindi indicare in via esemplificativa alcuni di tali parametri quali il rilievo e la delicatezza dell’attività svolta dall’amministrazione pubblica, la già ricordata posizione funzionale dell’autore dell’illecito, le negative ricadute socioeconomiche (il non poter più fare) sui componenti dell’amministrazione o sui soggetti da essa amministrati come quelle derivanti dalla presenza di sistema concussivo idoneo a scoraggiare l’attività imprenditoriale, la diffusione, la gravità e la ripetitività dei fenomeni di malamministrazione, la significativa rilevante compromissione dell’efficienza dell’apparato, la necessità di onerosi interventi correttivi, la negativa impressione suscitata dal fatto lesivo nell’opinione pubblica per effetto del clamor fori e/o della risonanza data dai mezzi di informazione di massa (cfr. sez. Umbria, 4 marzo 1998, n. 252). Si noti sotto quest’ultimo aspetto che il clamore e la risonanza non integrano la lesione ma ne indicano la dimensione. In particolare la percezione di una tangente compromette di per sé il buon andamento della pubblica amministrazione. Il fatto che il fenomeno tangentizio sia noto agli addetti all’ufficio od anche agli operatori del settore interessato o ad altri ancora, per effetto dello svolgimento di indagini e di processi pubblici o, infine, all’intera collettività, per l’effetto divulgativo dei mezzi d’informazione sono indici della dimensione via via maggiore che il medesimo evento lesivo può assumere a seconda delle circostanze.
27. Parametri del genere di quelli appena indicati od altri che l’attore pubblico riterrà di allegare per dimostrare la quantificazione della lesione potranno risultare difficili od impossibili da provare in concreto.
Come già detto prima, la possibilità di avvalersi di prove e presunzioni per quantificare la lesione del danno all’immagine della persona giuridica pubblica, nell’ambito di quelle che sono le normali negative ricadute che da ciascun fatto lesivo ordinariamente derivano, soccorrerà l’attore, sul piano probatorio. Sarà poi possibile l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c. Tale potere è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare, come desumibile dalle norme sostanziali e non esonera la parte dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno stesso. Ne discende l’onere per l’attore di indicare le presunzioni, gli indizi e gli altri parametri che intende utilizzare sul piano probatorio perché sia possibile per il giudice rilevarne, in relazione ad essi, o ad alcuni di essi, l’esistenza della difficoltà od impossibilità probatoria cui sopperire con l’uso del proprio potere discrezionale. Il giudice può, però, addivenire alla liquidazione dei danni in via equitativa, tanto nell’ipotesi in cui sia mancata interamente la prova del loro preciso ammontare, per l’impossibilità della parte di fornire congrui ed idonei elementi al riguardo, quanto nell’ipotesi di notevole difficoltà di una precisa quantificazione. Egli deve, in ogni caso, indicare i criteri seguiti per determinare l’entità del risarcimento sia pure con l’elasticità propria dell’istituto e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che lo caratterizza. Rimane ferma, infatti, come rileva parte pubblica, la possibilità di esperire anche contro siffatte pronunce di liquidazione equitativa del danno gli ordinari mezzi di gravame.
28. Conclusivamente in merito agli 11 quesiti in cui si articola la dedotta questione di massima il collegio afferma in primo luogo l’inammissibilità di quello sub a) con il quale si chiede se il danno all’immagine sia azionabile in sede di giurisdizione contabile anche in mancanza di una sentenza penale definitiva, fuori dai casi di sentenza patteggiata o di estinzione del reato o della pena. Il giudice remittente ha infatti già dato indirettamente soluzione al quesito avendo affermato, contestualmente alla proposizione della questione di massima, la propria giurisdizione nel giudizio a quo, rendendo irrilevante la pronuncia di queste sezioni ai fine del decidere nel giudizio di rimessione.
Per quanto concerne il quesito di cui alla lettera b) - con il quale si chiede se il danno all’immagine rientri nell’ambito di applicabilità dell’art. 2059 del codice civile o sia individuabile nella categoria concettuale del danno esistenziale, rimane definitivamente chiarito che il danno all’immagine di una pubblica amministrazione, come sopra configurato, non rientra nell’ambito di applicabilità dell’art. 2059 del codice civile ma è una delle fattispecie del danno esistenziale.
Per quanto concerne il quesito di cui alla lettera c) - con cui si chiede se l’an del danno all’immagine debba essere individuato nell’ambito dei danni non patrimoniali o in quello del danno - conseguenza (patrimoniale riflesso), sulla base delle considerazioni che precedono può affermarsi che il danno all’immagine deve essere individuato nell’ambito dei danni non patrimoniali come danno - evento e non come danno - conseguenza.
Per quanto concerne il quesito di cui alla lettera d) - se ai fini della relativa quantificazione debba farsi riferimento alle spese di ripristino del prestigio leso, sostenute o anche a quelle da sostenere e, in quest’ultimo caso, se la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 del codice civile, debba essere basata su prove o indizi - e quello sub e) - se invece possa essere fatto riferimento ad altre perdite assertivamente a carico dell’ente, deve osservarsi che si può fare riferimento, oltre che alle spese di ripristino già sostenute, posto che si dimostrino coerenti con lo scopo perseguito, anche, e sul medesimo presupposto, a quelle ancora da sostenere. In quest’ultimo caso, la valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c., potrà fondarsi su prove anche presuntive od indiziarie. Tra di esse potranno collocarsi le “perdite assertivamente a carico dell’ente” posto che si riferiscano a conseguenze negative che, per dato di comune esperienza e conoscenza, siano riferibili al comportamento lesivo dell’immagine e dell’identità della pubblica amministrazione offesa.
Per quanto concerne il quesito di cui alla lettera f) - se la prova delle spese sostenute debba essere offerta dal requirente o possa essere accertata d’ufficio, la soluzione discende dal principio processuale secondo il quale l’attore prova gli elementi di fatto addotti a sostegno della domanda ed il convenuto quelli portati a sostegno della eccezione paralizzatrice o riconvenzionale. Nella specie allegando l’attore di aver (già) sostenuto delle spese dovrà provarlo.
Per quanto concerne il quesito di cui alla lettera g) - se gli indizi da cui dedurre l’importo delle spese da assumere possano essere accertati d’ufficio o all’inverso debbano essere indicati nella domanda giudiziale, si rinvia alla soluzione di cui al punto che precede, aggiuntivamente osservando che l’indicazione dei parametri in base ai quali valutare il danno del quale si chiede il risarcimento è elemento essenziale ai fini della determinazione del quantum della domanda medesima.
Per quanto concerne il quesito di cui alla lettera h) - se la quantificazione del danno possa essere operata prescindendo dagli elementi indicati e, in particolare, trattandosi di illeciti commessi da appartenenti all’apparato finanziario, possa essere determinata in relazione alla minore acquisizione di entrate assertivamente collegabile con i comportamenti censurati, o alle spese promozionali inserite in bilancio, ovvero ancora al danno da disservizio; sussiste la possibilità di ricorrere, per la quantificazione del danno, a parametri diversi da quelli desumibili dalle spese. Tra di essi non rientrano, per le considerazioni già prima svolte sul punto, né la minore acquisizione di entrate collegabile con i comportamenti censurati né disservizio che è una delle possibili componenti della lesione che andrà, quindi, quantificata aliunde. Al contrario, le spese promozionali inserite in bilancio possono assumere, nell’ambito del criterio dell’id quod plerumque accidit, valore di prova presuntiva od indiziaria.
Per quanto concerne il quesito di cui alla lettera i) - se la quantificazione possa essere parametrata sull’importo delle tangenti riscosse e, in caso negativo, di quali parametri il giudice debba tener conto, specificando quale valore, ai fini indicati, assumano fattori dedotti dagli elementi soggettivi della fattispecie o comunque tratti dall’applicazione analogica dell’art. 133 del codice penale, si osserva che l’importo della tangente non può fondare una valida automatica parametrazione per la quantificazione del danno, ma può concorrervi, unitamente ad altri elementi propri della fattispecie, quali ad esempio il ruolo del percettore all’interno dell’apparato pubblico. Anche i fattori soggettivi possono contribuire a quantificare la lesione prodotta. Le ipotesi di cui all’art. 133 c.p. non operano sulla quantificazione ma sulla riduzione del danno previamente quantificato.
Per quanto concerne il quesito di cui alla lettera j) - quali parametri debbano essere impiegati una volta accolta la nozione di danno esistenziale o, comunque, per la valutazione del danno non patrimoniale si osserva che essi derivano dalle valutazioni discrezionali, congruamente motivate, di ciascun giudice, anche se possono esemplificativamente indicarsi alcune fattispecie quali quelle già esaminate in precedenza, trattando questo specifico punto ed alla quali si rinvia.
Per quanto concerne il quesito di cui alla lettera k) - se tutti i detti parametri debbano essere indicati dall’ufficio requirente nella domanda giudiziale o se debbano essere individuati d’ufficio dal giudice sia rinvia alla soluzione di cui al punto sub) g, essendo identica questione giuridica riferita ad una fattispecie più ampia.
Data la natura del presente giudizio non è luogo a pronuncia sulle spese.