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  • N.1 - Gennaio-Marzo
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La fidelizzazione del cliente interno attraverso la cultura organizzativa. La comunicazione interna e la formazione.

Giuseppe Nucci


1. Un ambiente turbolento

La letteratura più recente in materia di organizzazione evidenzia soprattutto la turbolenza e la mutevolezza che caratterizzano lo scenario di riferimento. Ciò è dovuto soprattutto al fatto che occorre soddisfare la prioritaria esigenza di rendere complementare l’ambiente in cui l’organizzazione opera e l’ambiente interno alla struttura organizzativa, entrambi in continua evoluzione.

Per questa ragione non solo un’azienda manifatturiera o fornitrice di servizi, ma anche una struttura pubblica, quale ad esempio un Ministero, un’Agenzia, o un ufficio giudiziario, non possono pensare di poter operare con efficacia a lungo utilizzando i medesimi processi (o procedure): i mercati o, per le strutture pubbliche, i criteri di efficienza, efficacia ed economicità - costantemente affermati a partire dalla legge n. 241/1990 (che non disciplina solo la trasparenza amministrativa) in ogni provvedimento di riorganizzazione della pubblica amministrazione - eliminerebbero rapidamente le organizzazioni caratterizzate da questo immobilismo.

In risposta a questa esigenza di rinnovamento e di innovazione le organizzazioni sono alla continua ricerca di paradigmi che consentano di conseguire e mantenere un vantaggio competitivo, vincendo quella che è considerata ora la sfida organizzativa più impegnativa: quella della fidelizzazione del dipendente o, come ora si dice, del “cliente interno”.

A tal fine sono state elaborate numerose ricette, più o meno fortunate, che sono accomunate da un comune destino: quello di esplicare la loro validità per un periodo di tempo piuttosto limitato.

Ma non per questo gli studi in materia organizzativa devono considerarsi privi di rigore scientifico. Anzi, forse proprio questa estrema volatilità impone un approccio serio e analitico che deve necessariamente partire da riflessioni a cui, almeno quantitativamente, desidero fornire questo parziale e limitato contributo.

Il mio punto di partenza coincide con la visione in base alla quale l’organizzazione è una realtà da indagare attraverso un metodo da utilizzare per comprendere, prima, e per operare, dopo, e cioè per prevedere ed agire. In altri termini un metodo di ricerca finalizzato al conseguimento di un obiettivo o, se si vuole, un modo di operare che imprime alla conoscenza e ai fatti una sistematizzazione organica adatta al particolare problema che si sta affrontando.

È chiaro che le variabili da prendere in considerazione sono numerose. In questo lavoro, per i limitati obiettivi proposti, mi soffermerò solo su tre di esse: la cultura organizzativa, il sistema di comunicazione interna e la formazione.

Si tratta di temi che per la loro complessità hanno già riempito una quantità straordinaria di pagine o, per meglio dire, di gigabyte. Per questo motivo, in questa sede, saranno affrontati secondo punti di vista molto specifici.

Le riflessioni sulla cultura organizzativa, per esempio, saranno rivolte ad un particolare concetto, quello della “gestione della diversità” o diversity management.

Il tema della comunicazione interna, invece, verrà approcciato attraverso il concetto dei flussi intraorganizzativi di conoscenza.

La formazione, infine, sarà trattata nella sua veste più innovativa, quella elettronica, meglio conosciuta come l’e-learning.


2. La cultura organizzativa e il diversity management

La questione, per così dire preliminare, che ci si pone nel trattare l’argomento di questo paragrafo, è costituita da un interrogativo piuttosto scontato: cosa intendiamo esattamente per cultura? Le risposte che possono darsi a questa domanda - apparentemente semplice - hanno già riempito innumerevoli volumi in cui si possono trovare analisi filosofiche, psicologiche, massmediologiche, manageriali, ecc.

Senza alcuna pretesa di perentorietà, che peraltro sarebbe irrealistica, e tenendo presenti le finalità di questo studio, propongo la nozione secondo la quale la cultura potrebbe paragonarsi ad uno schema, a un filtro attraverso il quale si osserva e si interpreta la realtà. Uno schema costruito con le esperienze maturate, le conoscenze apprese, le competenze acquisite e che, pertanto, è oggetto di una continua evoluzione.

E in definitiva ritengo che sia proprio questo carattere - e cioè la sua natura dinamica - a determinarne la strategicità che, in sintesi, può spiegarsi con il fatto che la cultura non è un mero dato oggettivo da prendere in considerazione ma, al contrario, un elemento su cui si può intervenire per rinforzarlo o per modificarlo con conseguenze che, a seconda dei casi, possono essere funzionali o meno a obiettivi predeterminati. Ed è quindi questa la ragione per la quale i punti di vista sono fisiologicamente - purché non si esageri - destinati a cambiare!

La cultura è dunque considerata un fattore strategico in tutti gli studi che analizzano i comportamenti delle persone, in ambito sia individuale sia aggregato e, di conseguenza, quanto abbiamo detto vale anche per la cultura di cui parleremo nelle riflessioni che seguono: quella organizzativa.

A questo proposito desidero subito esporre la tesi che ho posto alla base del mio approccio con questo argomento. È il tipo - e quindi la qualità - di cultura che fa la vera differenza tra due organizzazioni: è sicuramente più competitiva quella che ha la possibilità di guardare la realtà con filtri in grado, più di altri, di interpretarne i fenomeni e la complessità.

Ma dopo aver appena dato una definizione di cultura, e affermato che essa è l’elemento caratterizzante di un’organizzazione, ritengo pure utile precisare perché, anche per i “pratici”, è importante capire qual è la cultura dell’organizzazione in cui si opera. Penso ad almeno due ragioni.

La prima vale per chi vuole modificare una specifica cultura organizzativa: quando si vuole modificare una cultura, infatti, è necessario sapere qual è il punto di partenza e, a tal proposito, appare interessante riflettere su quanto afferma Kurt Lewin, secondo il quale non si può comprendere un’organizzazione fino a quando non si prova a cambiarla.

La seconda ragione riguarda chi vuole convivere con una specifica cultura organizzativa: prendere atto di quale cultura, in un dato momento, caratterizza un’organizzazione, è utile per evitare comportamenti involontariamente conflittuali con essa. Frequenti collassi, talvolta fatali, di organizzazioni sono dovuti a distonie inconsapevoli tra le culture individuali e quella dell’organizzazione.

Può peraltro accadere - e qui arrivo al problema centrale che intendo trattare - che un individuo voglia iniziare o continuare a lavorare in un’organizzazione con cui vi sono però differenze culturali. Oppure che sia l’organizzazione a ritenere conveniente avere tra le sue fila determinati soggetti anche se “non allineati”.

Allora, cosa succede se chi lavora non si omologa con la cultura dell’organizzazione in cui opera?

È un dato di fatto acquisito che, oggi, lo scenario delle risorse umane risulta enormemente modificato rispetto ad un passato neanche poi tanto lontano.

È tuttavia frequente sentire da parte di molti dirigenti, neanche molto anziani, frasi del tipo “non riesco a vedere nei giovani colleghi quella dedizione, quei valori, quell’attaccamento all’organizzazione che avevo io ...”.

Sono affermazioni tanto diffuse quanto infondate. Per contestare questi luoghi comuni non è necessario procedere ad approfondite analisi sociologiche. Basti pensare a palesi elementi di cui, sorprendentemente, sono ancora molti a non avere coscienza. Mi riferisco, ad esempio, al fatto che è sempre maggiore il numero delle coppie in cui i tradizionali ruoli - la moglie che sacrifica le proprie aspirazioni di natura professionale a beneficio della gestione della famiglia - sono superati. E ancora, si rifletta sul fatto che la realizzazione personale non sia più appannaggio quasi esclusivo di percorsi professionali ma, al contrario, dipenda anche dalla soddisfazione di altre diverse esigenze, dalla quantità e dalla qualità di spazi privati, non più visti come manifestazione di disimpegno e di poca affidabilità ma come momenti di crescita individuale e sociale.

Il non comprendere tutto ciò ha conseguenze molto concrete. Innanzitutto crea disagio. Poi mina il rapporto fiduciario tra l’organizzazione e chi lavora, e ciò talvolta si traduce, ove ve ne sia la possibilità, nelle dimissioni. A questo proposito può risultare interessante - ai fini della valutazione del fenomeno - considerare che, secondo una recente ricerca, i CEO delle società statunitensi dedichino il 40% del loro tempo a fidelizzare le proprie risorse pregiate per impedire loro di cambiare lavoro.

Uno degli strumenti creati per fronteggiare questa esigenza - nato di recente nei paesi nordamericani e ora affacciatosi anche in Italia - è il Diversity Management, ovvero la gestione della diversità.

Questo concetto parte dalla considerazione che, tradizionalmente, le organizzazioni, con riferimento alla propria cultura, propongono ai loro appartenenti relazioni di tipo asimmetrico, finalizzate a far loro assimilare il modello normativo dominante, pena l’emarginazione.

Il Diversity Management ribalta questa visione. Esso, al pari di altre teorie organizzative, pone al centro del sistema la reale valorizzazione delle risorse umane, nel presupposto che le performances complessive dipendano dalla gestione del personale, ma si distingue per il fatto di ritenere che ciò possa realizzarsi solo attraverso la valorizzazione delle differenti peculiarità di ciascuno, superando l’approccio che vede le risorse umane come un aggregato indifferenziato di individui.

Ne consegue un contesto molto più ricco e vivace ma che richiede una capacità di gestione molto più elevata e modalità più sofisticate.

Ma come conciliare la necessaria funzione aggregante della cultura organizzativa con la valorizzazione delle differenze? La risposta risiede nella capacità di inserire tali differenze all’interno di un sistema di valori organizzativi chiari, condivisi e soprattutto essenziali: un sistema leggero costituito solo da ciò che è indispensabile a creare uno spirito di squadra e che non soffochi le differenze.

Per chiarire meglio questa asserzione, vorrei utilizzare la metafora della jazz band(1) che, da alcuni anni, viene utilizzata nel dibattito collegato alla complessità e alla turbolenza della realtà organizzativa.

In poche battute può essere così riassunta. Per operare in un ambiente turbolento e soggetto a rapidissimi mutamenti occorre un elevato grado di adattabilità che può meglio realizzarsi con una diversità di percezione - e quindi con una maggiore ricchezza di comprensione - da parte delle risorse umane. Ma come conciliare questa esigenza con quella di garantire comunque una coesione organizzativa? La risposta è di sostituire alla comunanza di valori la semplice compatibilità. E quindi vision compatibili e non più condivise.

Ma in che modo? E qui subentra, per aiutarci la metafora della jazz band. Il modello organizzativo è paragonabile a quello di una jazz band in cui diversi specialisti “vivono in un ambiente caotico e turbolento; prendono decisioni rapide e irreversibili; sono altamente interdipendenti l’uno con l’altro per interpretare le informazioni equivoche; sono orientati alla creazione della novità e dell’innovazione”(2).

In una jazz session si ha una struttura base (che può variare, a seconda delle contingenze, in aumento o in diminuzione), un brano in cui i musicisti sono liberi di improvvisare assoli che non devono essere necessariamente condivisi ma solo compatibili tra di loro, artisti legati dalla reciproca fiducia basata non su esperienze pregresse condivise bensì sul rispetto delle rispettive professionalità. Il segreto risiede nell’abilità, da parte di ciascuno, di comporre e suonare interpretando la direzione, i segnali e i contributi degli altri musicisti.

Si tratta di un’elaborazione senza dubbio suggestiva, che rimette in discussione assunti tradizionalmente accettati e che esalta l’attività comunicativa interna all’organizzazione, a cui dedicheremo il prossimo paragrafo.

Prima di concludere vorrei tener presente la necessità di dover soddisfare, a fronte delle considerazioni teoriche finora esposte sul Diversity Management, esigenze di ordine operativo e, quindi, innanzitutto l’importanza di individuare un modello in grado di implementare programmi di gestione e di valorizzazione delle differenze.

A tal fine può proporsi lo schema che segue(3), con l’ovvia precisazione che se ne possono progettare numerosi altri in relazione ai contesti di riferimento, al tipo di organizzazione, ecc.


3. La comunicazione interna: i flussi intraorganizzativi di conoscenza

Abbiamo visto come visioni compatibili e non obbligatoriamente condivise possano assicurare una proficua convivenza tra l’organizzazione e quelli che, con un termine forse provocatorio, ho definito i “non allineati”. Ho anche precisato che anche la condivisione è necessaria ma deve riguardare un sistema di valori leggero, costituito cioè solo da ciò che è indispensabile a creare uno spirito di squadra.

Resta chiaro, tuttavia, che la compatibilità e la condivisione presuppongono comunque un contatto, o meglio un’interazione tra gli individui che operano nell’organizzazione.

Detto in altri termini, le persone si devono necessariamente relazionare attraverso un sistema di comunicazione interna in cui agiscono flussi intraorganizzativi di conoscenza. Ed è appunto a tale tema che è dedicato questo paragrafo precisando cosa sono, a cosa servono e come si generano all’interno delle organizzazioni i flussi di conoscenza.

Partiamo da cosa sono. Essi consistono in una riorganizzazione temporanea delle strutture cognitive individuali che incidono in profondità sulla cultura organizzativa. Più semplicemente, si tratta di una ricombinazione di idee preesistenti che produce specifici “artefatti” - e cioè strutture e processi organizzativi visibili (secondo Schein “quello che si vede, si ascolta e si prova andando in giro nell’organizzazione”) - destinati ad essere valutati positivamente dal management. Alcuni dei parametri che consentono di valutare gli artefatti più rilevanti sono riassunti nella tabella 2(4).

La seconda domanda è: a cosa servono i flussi? La risposta è semplice: servono a supportare innovazione e cambiamento in genere e, quindi, a garantire l’esistenza dell’organizzazione nel lungo periodo. Tale assunto si basa su due fondamentali presupposti.

Il primo. L’organizzazione è inserita in un contesto ambientale che muta rapidamente nel tempo, determinando appunto una costante esigenza di cambiamento al suo interno, per la sua stessa sopravvivenza. Oggi qualsiasi tipo di struttura organizzativa si distingue rispetto al passato soprattutto per avere dei confini sempre più permeabili dall’esterno e quindi occorre un “volano” che gli consenta di mantenere una forte coerenza tra “l’interno” e “l’esterno”. Ebbene, è proprio lo scambio di conoscenza che può costituire il volano più idoneo a soddisfare l’esigenza a cui abbiamo fatto riferimento. Questo concetto, peraltro, non è nuovissimo. Ad esempio, già all’inizio degli anni 90(5), è stato sostenuto che la vitalità di un’organizzazione dipende da tre tipi di transazioni: di prodotto, di capitale e, appunto, di conoscenza.

Il secondo presupposto consiste invece nel fatto che, sulla falsariga di ciò che accade nel mondo fisico, anche i modi di pensare, gli schemi interpretativi della realtà, ecc., sono soggetti ad una sorta di forza d’inerzia per cui esiste una naturale resistenza al cambiamento e, nel caso in cui esso debba comunque verificarsi, tenderà ad essere quanto più modesto è possibile.

Ebbene proprio i flussi di conoscenza appaiono la risposta più efficace a questa resistenza inerziale. Per quanto possa apparire singolare, infatti, i più recenti studi organizzativi affermano, come abbiamo già in precedenza sottolineato, che il cambiamento e l’innovazione sono soprattutto il frutto della fusione - e cioè dello scambio - di conoscenze preesistenti e non di nuove conoscenze(6).

Appare chiaro, a questo punto, come rivestano la massima importanza le questioni che attengono alle dinamiche che si producono tra gli individui e tra i gruppi allorché vengono attivati flussi di conoscenza e quali pratiche manageriali possano favorire - o ostacolare - tali flussi.

Nell’esaminare questi aspetti, però, utilizzerò una prospettiva molto interessante e originale - che ho colto in uno recentissimo studio(7) - secondo la quale il flusso di conoscenza deve essere considerato non come un vettore che parte da un emittente e termina in un ricevente, come istintivamente si sarebbe portati a pensare, bensì come un processo di riorganizzazione e ridistribuzione tra le strutture individuali o sociali presenti nell’organizzazione.

Questo significa fondamentalmente che scambiare conoscenza significa mettere in discussione i propri assunti, le proprie radicate convinzioni ed essere pronti ad accettare punti di vista diversi. Si tratta di una convinta disponibilità ad abbandonare la “propria verità” per una differente interpretazione della realtà. Più in particolare ciò potrebbe comportare, a seconda dei casi, delle conseguenze più o meno incisive sulle strutture cognitive: da un adattamento temporaneo ad una prospettiva diversa rispetto alla propria fino, nei casi estremi, alla modifica permanente degli schemi culturali di riferimento.

In altri termini per affermare che vi sia un flusso di conoscenza occorre che si verifichi una sorta di discontinuità del proprio pensiero abituale, provocato dal pensiero di un altro soggetto. Affinché ciò possa accadere è necessario che le conoscenze degli individui (knowledge based) che interagiscono siano differenti; ne consegue che tanto maggiori saranno le differenze cognitive tanto più probabile sarà il verificarsi di un flusso di conoscenza.

Si tratta di una visione più complessa e sofisticata che sposta il baricentro del problema, ridefinendo il ruolo della comunicazione interna, inserendolo in un contesto più ampio.

Innanzitutto perché i soggetti di questa comunicazione, come abbiamo già accennato, non sono solo quelli individuali ma rivestono una particolare importanza anche quelli collettivi (c.d. network sociali) che, tra l’altro, sono il principale fattore condizionante dei primi.

Una seconda peculiarità, non meno importante, è costituita dal fatto che questa comunicazione interna consiste in un processo in cui gli individui mettono in atto dei comportamenti comunicativi e attivano delle interazioni che finiscono per produrre nuova conoscenza. Occorre quindi riflettere sul fatto che i flussi, avendo natura multidimensionale, non possono essere considerati dei meri veicoli informativi poiché incidono su processi psicologici, cognitivi, comportamentali, sociali, ecc. In effetti, basti considerare come i flussi di conoscenza abbiano di norma un forte carattere di creatività, e cioè un forte contenuto di novità, da cui discende l’innovazione, e cioè l’implementazione con successo delle idee creative dell’organizzazione.

La terza e ultima domanda è: come vengono generati i flussi? La capacità di generare flussi di conoscenza si basa su caratteristiche che possiamo raggruppare in due categorie fondamentali. Alla prima appartengono quelle che attengono alla dimensione cognitiva dell’individuo. Mi è sembrato molto interessante il riferimento a due concetti particolari, e cioè:

  • all’ambiguità percepita, nel senso che tanto più un soggetto ritenga di possedere uno schema interpretativo della realtà inefficace, tanto più sarà motivato a ricercare adattamenti con altri schemi mentali con il proposito di attribuire senso al contesto d’indagine, talché la generazione di flussi sarà più intensa. Al contrario, chi interpreterà la realtà poco ambigua, e cioè più controllabile, sarà meno disposto ad adattarsi con gli altri e cioè ad attivare nuovi flussi di conoscenza. Si tratta di un atteggiamento mentale purtroppo molto diffuso che nei casi più radicali si identifica nel caso di colui che attribuisce un abito dogmatico alle proprie conoscenze che, a loro volta, trovano una fortissima autolegittimazione nelle esperienze personali le quali assurgono, in tal modo, a veri e propri percorsi da proporre come esempi;
  • all’auto-efficacia, e cioè all’autovalutazione relativa alla capacità di affrontare le situazioni. In questo schema, chi ha più sicurezza e fiducia in sé, tenderà ad accettare maggiori rischi e quindi a mettersi in discussione attivando flussi di conoscenza con altri soggetti.

La seconda categoria di caratteristiche è legata invece al contesto e, ad esempio, riguarda:

  • i processi organizzativi (le procedure, le norme, gli atteggiamenti dei manager, il clima organizzativo, ecc.), nel senso che più essi sono strutturati - e quindi danno certezza - e meno sarà incentivato il ricorso a confronti in grado di provocare i flussi organizzativi;
  • la rete sociale, con riferimento al grado di maggiore o minore coesione dei gruppi esistenti nell’organizzazione: più omogeneo sarà il gruppo e più vincolante sarà l’orientamento, con la conseguenza che sarà meno avvertita l’esigenza di nuove prospettive e quindi meno probabile l’implementazione di flussi di conoscenza.


4. La formazione e l’e-learning

L’ultima variabile organizzativa - dopo la cultura e la comunicazione interna - che prenderò in esame in questo saggio, è la formazione.

Essa rappresenta una funzione che presenta un’elevata criticità per numerosi motivi. Tra essi vorrei sottolineare quello che per me è il principale: la sua vulnerabilità ad un approccio superficiale.

Molti, infatti, anche tra coloro che ricoprono posizioni di rilevante responsabilità organizzativa, ritengono che il problema della formazione si riduca a cercare di inviare il maggior numero di persone a frequentare corsi di vario genere. Nulla di più sbagliato!

Appare invece indispensabile l’acquisizione di un approccio metodologico rigoroso che non può non partire dalla definizione delle competenze strategiche per l’organizzazione, per proseguire con la conseguente costruzione dei relativi profili teorici delle “posizioni”(8), per arrivare ad una “sincronizzazione” degli skill enucleati - appunto attraverso la formazione - con i soggetti che operano nell’organizzazione.

Ciò vale, oltre che per la formazione in generale, anche per la formazione elettronica, l’e-learning, sulla quale in questo paragrafo intendo soffermarmi, sottolineandone quattro aspetti caratterizzanti: la sua crescente rilevanza, le attività fondamentali attraverso le quali si sviluppa, il rapporto che crea con il discente ed i principali vantaggi che riesce a realizzare.

Il primo aspetto, e cioè la ragione del sempre maggiore interesse che riesce ad ottenere l’e-learning, può ricondursi essenzialmente a tre motivi: tecnologici, culturali ed economici.

Il motivo di natura tecnologica, piuttosto intuitivamente, si ricollega all’impellente necessità di prendere tempestivamente dimestichezza con determinate “abilità” indispensabili per non essere “out” rispetto alla realtà organizzativa.

Quella “e-” costituisce un richiamo immediato al mondo digitale, a piattaforme informatizzate, a comunità virtuali, ecc.. Ben lungi dal dover diventare ‘tecnici informatici’, è indubbio che qualsiasi dirigente che abbia una qualche responsabilità organizzativa, soprattutto nel settore delle risorse umane e dello sviluppo organizzativo, non possa ignorare le “cornici teoriche tecnologiche” in cui poter inquadrare i principali strumenti in grado di supportare e implementare l’innovazione. E ciò anche a causa dell’effetto trainante di internet e delle tecnologie sottostanti. In altre parole, dando ormai per scontato che nessun manager credibile possa ancora assumere snobistici atteggiamenti nei confronti della realtà elettronica, si rende necessario ampliare le conoscenze nei confronti del maggior numero di campi di applicazione dell’informatica, tra i quali la formazione, spicca per importanza strategica.

Il motivo culturale può essere facilmente spiegato pensando a come l’uso del PC, rispetto all’uso della penna, abbia inciso sulla mappa cognitiva e sulla struttura logica che presiedono alle funzioni che trasformano il pensiero in scrittura (da qui la comprensibile iniziale difficoltà nel cambio dei due strumenti). Nello stesso modo, anche la formazione che si avvale degli strumenti elettronici non si caratterizza solo per “il cosa” utilizza, ma soprattutto per essere in grado di provocare cambiamenti che incidono in profondità nella formazione tout court, arrivando anche a rivisitare il modo stesso di interpretare la formazione. Solo per fare un esempio, si pensi alla learnativity, ovvero al concetto di imparare facendo, che si propone come alternativo al tradizionale concetto di formazione in aula, secondo lo schema rappresentato nella tabella 3.

Si giunge ad un concetto di formazione che si caratterizza per essere permanente, personalizzato alle singole esigenze, legato alle mansioni lavorative e strettamente connesso alle motivazioni individuali. Il concetto di corso di formazione appare, se non superato, quantomeno molto ridimensionato. Basti guardare, per averne una conferma indiretta, ai nuovi termini - ed ai concetti ad essi legati - ormai usati nella e-learning, e riportati a titolo esemplificativo nella tabella 4.

Il motivo economico, infine, riguarda l’eccessivo onere dei costi legati alla formazione tradizionale: secondo una recente indagine il costo di un corso on line è di circa il 50-75% in meno rispetto ai corsi tradizionali.

Il secondo aspetto di approfondimento - e cioè le attività fondamentali attraverso le quali si sviluppa l’e-learning - può essere riassunta nella tabella 5.

Queste attività si caratterizzano per dover utilizzare tecnologie avanzate. Ad esempio, i portali web sostituiranno i normali cataloghi di offerte formative e costituiranno il mezzo base per creare percorsi personalizzati, per accedere a basi di dati, alla manualistica, tools, call center di conoscenza, ecc. Veniamo ora al terzo aspetto, e cioè a come, secondo la letteratura dominante(9), l’e-learning si relaziona con il discente, con riferimento all’interfaccia con l’utente, a come quest’ultimo viene segmentato e alle principali modalità con cui viene resa fruibile l’offerta formativa all’interno di un c.d. ambiente di apprendimento. Anche in questo caso, per non appesantire il testo, farò ricorso alla tabella 6.

Il quarto e ultimo aspetto di rilievo della e-learning - dopo i motivi della sua crescente rilevanza, le attività fondamentali attraverso le quali si sviluppa e a come si rapporta con il discente - è costituito dall’esame dei vantaggi che riesce a realizzare. Senza pretendere di stilare elenchi esaustivi, ricordiamo:

  • la flessibilità, e cioè la fruibilità in qualsiasi momento, in ogni luogo e in relazione ai bisogni personali;
  • la pertinenza, e cioè l’aderenza alle esigenze;
  • l’immediatezza, e cioè l’accesso immediato;
  • l’eccellenza, e cioè contenuti di qualità e facilmente aggiornabili;
  • il risparmio, e cioè l’economia di scala.

Prima di concludere, non mi pare superfluo evidenziare come l’e-learning abbia dato un contributo determinante alla creazione di un nuovo paradigma della formazione che si può considerare caratterizzato - e qui l’elenco risponde ad una funzione meramente esemplificativa - dai seguenti elementi:

  • consapevolezza di sviluppare le competenze organizzative e individuali in modo integrato e coerente;
  • capacità del management di considerare il portafoglio delle competenze come un fattore strategico competitivo;
  • definizione del fabbisogno formativo quale punto d’incontro tra le esigenze definite dal personale in relazione ai deficit autopercepiti e le esigenze dell’organizzazione;
  • motivazione delle risorse umane alla formazione;
  • necessità di collegare l’e-learning alla knowledge management in quanto le persone, oltre ai corsi, desiderano anche colleghi con i quali discutere, un ambiente di lavoro proattivo, ecc.

Quest’ultimo aspetto, a mio avviso, riveste un’importanza decisiva. L’offerta formativa, più che una sequenza di corsi, deve trasformarsi in un ambiente di apprendimento in cui si amalgamano learning objects, in una logica di servizi orientati al ‘cliente interno’ e dove la qualità si compone di tre elementi: i contenuti, i servizi e le tecnologie.

Ora, nell’ambito dell’organizzazione, la formazione è maggiormente inserita in un contesto operativo; si tratta di una pratica che si sviluppa in ogni team e, attraverso l’action learning, consegue importanti risultati ai fini dello sviluppo organizzativo. Ciò comporta che le organizzazioni dovranno predisporre idonei ambienti di apprendimento, tools, links dedicati ad esperti interni ed esterni e, infine, collegare gli obiettivi di apprendimento alle reali esigenze dell’organizzazione.

Tutto ciò, chiaramente, necessita di soluzioni tecnologicamente avanzate che devono far parte integrante della nozione di e-learning.

Lo schema riportato nella tabella 7 individua il percorso tecnologico, in verità ancora incompiuto, della formazione.


5. Conclusioni

Le riflessioni che precedono, chiaramente, hanno soprattutto l’obiettivo di sollevare interrogativi a cui ricollegare spunti di riflessione piuttosto che soluzioni.

La materia del rapporto tra l’organizzazione ed i propri dipendenti ha una elevata complessità. Mi riferisco all’esigenza di contemperare le esigenze dell’organizzazione con le aspettative di chi lavora al suo interno, che talvolta possono essere fortemente contrapposte. Si tratta di situazioni che - nonostante costituiscano momenti ormai fisiologici nella dialettica gestionale delle risorse umane, tra l’altro oggetto di numerosi e sistematici studi di marketing interno - vengono ignorati, spesso anche in buona fede, da molti dirigenti o affrontati con inadeguatezza, con il risultato di risolvere il tutto con battute di dubbia utilità o, nei casi più critici, inquadrando il tutto nel mobbing.

Da una parte vi sono le organizzazioni che si attendono identificazione, appartenenza, condivisione, collaborazione attiva. Dall’altra ci sono le persone che non si aspettano solo remunerazioni di tipo economico, ma anche gratificazioni professionali, opportunità di crescita, riconoscimenti di status, prospettive di carriera, ambienti di lavoro stimolanti.

Il “legame” tanto enfatizzato tra l’organizzazione e i suoi clienti interni non si può certamente realizzare con un approccio paternalistico, o addirittura “estetico”, come ho anche sentito dire. Ogni cinque anni, come precisa un testo di gestione del personale, in ogni organizzazione entrano persone di un’altra generazione con nuove aspettative, nuovi modelli culturali, nuovi valori, con esperienze diverse. E anche le vecchie generazioni si modificano, sono permeabili (per fortuna) ai cambiamenti individuali e sociali.

Non credo che questo stato di cose possa risolversi con un semplicistico “ai miei tempi ...”. Si tratta di acquisire la consapevolezza che il rapporto di cui stiamo parlando è estremamente dinamico e quindi va periodicamente rinegoziato.

Appare intuitivo come in questo dibattito, proprio per la sua natura altamente coinvolgente, possano facilmente confluire valutazioni eccessivamente “epidermiche”.

Chi scrive ha affrontato questo rischio cercando di sviluppare delle considerazioni che scaturiscono da un concetto fondamentale per qualsiasi struttura organizzata: l’interazione.

La funzione organizzativa, infatti, costituisce un metodo di lavoro per aggregare razionalmente l’attività di più individui che danno origine a un corpo sociale, usualmente chiamato “organizzazione”, e cioè a una struttura costituita da singoli soggetti, ciascuno dei quali ha una specifica funzione da compiere.

La particolarità di questa aggregazione è che i legami organizzativi devono determinare delle sinergie in grado di rendere l’organizzazione capace di prestazioni superiori a quelle risultanti dalla somma delle singole componenti.

In realtà, però, le “vie di comunicazione” spesso non sono definite. Ho inteso quindi:

  • in primo luogo, esaminare l’ambiente interno e, in particolare, la cultura organizzativa, con riferimento alle diversità esistenti; la diversità, nei termini che ho esposto, è sempre esistita nelle organizzazioni: fare finta che non esista non può essere più considerato un modo accettabile per affrontarla. E quindi occorre innanzitutto legittimarla dandole, in primo luogo, ascolto, nella consapevolezza che la diversità è una vera e propria risorsa organizzativa in grado, ad esempio, di attrarre risorse qualificate, far emergere e trattenere gli alti potenziali, ridurre il tasso di demotivazione e insoddisfazione, contenere i costi del turnover, migliorare l’immagine dell’organizzazione e la permeabilità con l’ambiente esterno;
  • successivamente, approfondire la tematica dei sistemi di comunicazione interna, ossia dei flussi interorganizzativi. Partendo dall’assunto secondo il quale l’ambiente organizzativo deve essere permeabile dall’esterno verso l’interno, è necessario assicurare un costante livello di coerenza tra interno ed esterno e, a livello periferico, una circolazione di informazioni collegata alla circolazione generale. Ciò presuppone anche l’esistenza di una capacità decisionale, e quindi un’intelligenza periferica, indispensabile per poter agire con sufficiente autonomia su stimoli esterni, eventualmente anche isolandosi o cortocircuitando la rete di interconnessioni che fa capo al sistema decisionale centrale;
  • infine, trattare le condizioni che attribuiscono ai singoli attori la capacità di colloquiare tra di loro: la formazione è da sempre la condizione principe e ho ritenuto utile affrontarla nella sua versione più attuale, quella elettronica che, rispetto a quella tradizionale, forse richiede in più, da parte della risorsa umana, l’acquisizione di una cultura che lo porti a ritenere l’apprendimento come una sua precipua responsabilità e, da parte dell’organizzazione, l’introduzione di nuove figure professionali legate all’apprendimento, in grado, tra l’altro, di progettare e implementare percorsi formativi personalizzati, ricordando, come ha sostenuto Gian Piero Quaglino che “la vera sfida è alimentare la curiosità: l’apprendere non ha prezzo e per questo non si è mai appagati”.

Mi piace concludere questo lavoro rispondendo a una ipotetica domanda dal taglio cosiddetto “pratico” che potrebbe suonare più o meno così: “Ma tutte queste teorie, elaborazioni, puntualizzazioni, in definitiva, che scopo hanno?”.

La risposta, anch’essa ridotta ai minimi termini, potrebbe essere “Tentare di concorrere a fare in modo che l’obbligo del lavoro diventi il piacere di lavorare”.


(*) - Tenente Colonnello dell’Arma dei Carabinieri addetto alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’affare “Telekom - Serbia”.
(1) - Cfr.: K.E. Weick, The aesthetic of imperfection in orchestras and organization, in M.P. Cunha, C.A. Marques: Readings in organization Science, Organizational change in a changing context, ISPA, Lisbon, 1999.
(2) - Cfr.: F.J. Barrett, Creativity and improvisation in jazz and organizations: implications for organizational learning, Organization Science, n. 9, 1998, pagg. 605 - 622.
(3) - Adattamento del modello proposto nel saggio Il diversity management di M.C. Barbino, B. Jacobs e M.A. Maggio in Sviluppo & Organizzazione, n. 184, Marzo-Aprile 2002, Edizioni Este, pag. 28.
(4) - Tratta da: E.H. Schein, Culture d’impresa, Raffaello Cortina Editore, 2000, pag. 67.
(5) - A.K. Gupta - V. Govindarajan, Knowledge flows and the structure of control within multinational corporations, in Academy of Management Review, vol. 16, n. 4, 1991, pagg. 768 - 792.
(6) - A. Fanelli - A. Hargadon, Mediatori della conoscenza, su Sviluppo & Organizzazione, Edizioni Este, 1999, pagg. 77 - 92.
(7) - A. Fanelli, Dinamiche conoscitive ed innovazione, su Sviluppo & Organizzazione, Edizioni Este, 2001, pagg. 45 - 68.
(8) - Tecnicamente si parla di core curriculum e di curriculum di ruolo. Il primo è comune a tutte le famiglie professionali e a tutti i ruoli ed è l’insieme di macrocompetenze, suddivise in competenze più specifiche. Il secondo è legato alle famiglie professionali di appartenenza e al ruolo da esercitare.
(9) - Cfr.: M. Vergeat - R. Cesaria, Il corporate e-learning in Sviluppo & Organizzazione, n. 184, Marzo-Aprile 2002, Edizioni Este e R.W. Peterson - M.A. Marostica - L.M. Callahan, E-learning: helping investors climb the e-learning curve, US Bancorp Piper Jaffray, nov. 1999.