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Giustizia Militare

a cura di Renato Maggiore

Disobbedienza - Principio di legalità - Ordine - Genericità e astrattezza del concetto - Nozione di tipicità - Se difetti nella descrizione del fatto -
Eccepita determinazione del precetto riservata alla amministrazione - Non si configura - Carenza dell’effettiva lesione di un bene giuridico -
Rilievo inesatto - Questione di costituzionalità manifestamente infondata.

(Cost., artt. 3, 13, 24, 25 co. 2°, 53 co. 3°, 112; C.p.m.p., art.173)
Corte Costituzionale, ordinanza n. 39 del 5 febbraio 2001. Pres. Ruperto, Red. Neppi Modona

Non è esatto dire che il reato militare di disobbedienza, nella sua formulazione, non individui un fatto corrispondente a precise descrizioni di certezza legislativa e riveli cioè difetto di tipicizzazione per genericità e astrattezza, affermando che il precetto, riservato per Costituzione alla legge, sia lasciato ad atti normativi secondari e solo disciplinari, quale è l’intimazione libera e verbale del superiore, che male si ritiene poter essere indipendente dall’effettiva individuazione di un bene giuridico. In vero, dall’ordinamento risalta che requisito essenziale dell’ordine del superiore è l’attinenza al servizio e alla disciplina, concepita questa come valore funzionale ai compiti istituzionali delle Forze Armate, quale il corretto funzionamento dell’apparato militare. Infondata è la relativa eccezione di incostituzionalità (1) (2).

(1) Sul punto della tipicizzazione del reato di disobbedienza si riflette in ragionamento della dottrina circa le “leggi penali generiche o atte ad essere specificate, che rinviano a fonti non legislative per integrazione, e che perciò tendono a fondersi - di volta in volta - con tali norme”, distinte dal “caso di una legge completa che abbia il fine di imporre penalmente il rispetto di norme o comandi di autorità non legislative (per es. di regolamenti od ordini di autorità non amministrative oppure il rispetto di consuetudini”, ipotesi in cui “la legge penale è completa nel precetto e nella sanzione e consiste nel comando penalmente sanzionato di rispettare regolamenti, ordini delle autorità e consuetudini)”, Esposito, Irretroattività e “legalità” delle pene, Studi per Carnelutti, Padova 1950, IV, 511. Ma sul rilievo di vari interessanti profili di questo reato, per il quadro complessivo, cfr.: Pagliaro, Legge penale, enciclopedia del diritto, XXIII, 1973, in particolare pp. 1049 ss., e AA. in questo, e in seguenti studi, citati; Garino, Disobbedienza nel diritto penale militare, Digesto disc. pen., Torino 1990, IV, 140 ss.; Maggiore, De jure condendo: contenuto e limiti dell’ordine all’inferiore nelle FF.AA., Rassegna Giustizia Militare, 1976, 229 ss.; id, Per un’introduzione al tema dell’esimente dell’esercizio del diritto per il reato militare, (ibidem), 1978, I, 361 ss.; id, Brevi considerazioni sull’esimente dell’obbedienza all’ordine gerarchico militare, Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, 1979, n. 2; Brunelli-Mazzi, Diritto Penale Militare, Milano 1998, 480.

(2) Si legge quanto appresso nel testo dell’ordinanza:
««Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 173 del codice penale militare di pace, promosso nell’ambito di un procedimento penale con ordinanza emessa il 29 febbraio 2000, iscritta al n. 202 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2000.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 2001 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.
Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25, secondo comma, e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 173 del codice penale militare di pace;
- che il rimettente premette di essere investito della richiesta del pubblico ministero di emettere decreto penale di condanna nei confronti di un carabiniere scelto, imputato del reato di disobbedienza (art. 173 cod. pen. mil. di pace) per essersi rifiutato di eseguire l’ordine impartito da un maresciallo capo, suo superiore in grado, «di spostarsi e cedere il posto anteriore della vettura di servizio riservata al “capo macchina”»;
- che ad avviso del rimettente risulterebbero provati tutti gli elementi in base ai quali ravvisare, «secondo consolidata giurisprudenza», l’esistenza di un legittimo rapporto gerarchico e, di conseguenza, di una legittima manifestazione di volontà del superiore diretta ad imporre un facere o un non facere a un inferiore;
- che la riconducibilità della condotta al reato contestato dipenderebbe, a parere del rimettente, dalla circostanza che la fattispecie incriminatrice, «caratterizzata da astrattezza e genericità del fatto tipico», è costruita in modo da demandare alla volontà del superiore l’individuazione del comportamento penalmente sanzionabile, in linea con la volontà del legislatore del 1941 di «tutelare un concetto di disciplina militare eticamente inteso»;
- che alla luce dei principi costituzionali e della legge 11 luglio 1978, n. 382, recante le norme di principio sulla disciplina militare, la norma censurata «dovrebbe essere riscritta» dal legislatore, utilizzando criteri di maggiore determinatezza, quali quelli contenuti nei reati di disobbedienza previsti dalle leggi 1 aprile 1981, n. 121, e 15 dicembre 1990, n. 395;
- che ad avviso del rimettente l’attuale formulazione dell’art. 173 cod. pen. mil. di pace si pone in contrasto, in primo luogo, con il principio della riserva assoluta di legge in materia penale dettato dall’art. 25, secondo comma, Cost., in quanto il legislatore del 1941 avrebbe configurato una norma penale in bianco, nella quale la definizione del precetto è totalmente demandata ad «atti normativi secondari, sottordinati nella gerarchia delle fonti del diritto», quali sono le contingenti e «particolari intimazioni verbali di un qualsiasi superiore di un qualsiasi ente militare», sì che la disposizione censurata è priva di «sufficiente determinazione legale»;
- che il principio di legalità risulterebbe violato anche sotto il profilo della mancanza di tassatività della fattispecie, perché la norma in questione, demandando la determinazione del precetto all’amministrazione, senza fissarne presupposti, contenuti e limiti, non assicura la certezza della legge e rende il giudice «arbitro assoluto» nella definizione della disobbedienza penalmente rilevante;
- che dalla violazione dei principi di riserva di legge e di tassatività deriverebbe il contrasto con l’art. 24 Cost., in quanto il «cittadino militare» da un lato è posto nell’impossibilità di conoscere con certezza ciò che è consentito e ciò che è vietato dalla legge, dall’altro vede menomato il proprio diritto di difesa, potendo opporre alla contestazione del reato di disobbedienza solo argomentazioni basate su difformi precedenti giurisprudenziali, nonché con l’art. 112 Cost., in quanto sarebbe impedito al pubblico ministero di individuare con certezza i comportamenti in relazione ai quali esercitare l’azione penale;
- che la disciplina censurata violerebbe poi il principio di eguaglianza per la possibilità di diverse letture della norma e, quindi, per il pericolo di decisioni diverse e di differenti trattamenti in presenza di identiche situazioni di fatto, nonché per la disparità di trattamento tra militari e appartenenti alla Polizia di Stato e al Corpo di polizia penitenziaria, in quanto gli artt. 72 della legge n. 121 del 1981 e 20 della legge n. 395 del 1990 prevedono per tali soggetti un reato di disobbedienza di «non incerta prescrittività»;
- che, infine, sarebbero violati anche gli artt. 25, secondo comma, e 13 Cost., in quanto la norma censurata istituirebbe un reato di pericolo presunto e punirebbe condotte di mera disobbedienza, disancorate dalla «effettiva lesione al bene giuridico servizio militare»;
- che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
Considerato che l’essenza delle censure mosse al reato di disobbedienza, previsto dall’art. 173 cod. pen. mil. di pace, si basa sulla supposta violazione dei principi di legalità e determinatezza della fattispecie incriminatrice, non essendo gli altri parametri costituzionali richiamati dal rimettente che corollari del dedotto contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost.;
- che il rimettente lamenta che l’individuazione del comportamento penalmente sanzionabile sia totalmente rimessa alla volontà del superiore gerarchico, sì che l’art. 173 cod. pen. mil. di pace sarebbe caratterizzato da assoluta genericità e indeterminatezza del fatto tipico;
- che, come rileva lo stesso rimettente senza peraltro dedurne le logiche conseguenze interpretative, il quadro normativo nel quale si inserisce il reato di disobbedienza previsto dall’art. 173 cod. pen. mil. di pace è radicalmente mutato rispetto a quello vigente al momento di emanazione del codice del 1941;
- che il principio enunciato dall’art. 52, terzo comma, Cost., secondo cui l’“ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”, ha trovato compiuta attuazione nella legge n. 382 del 1978 (Norme di principio sulla disciplina militare) e nel relativo regolamento (d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545) (cfr. da ultimo sentenze n. 519 del 2000 e n. 4 del 1997);
- che, con particolare riferimento al reato di disobbedienza, da un lato l’art. 4, quarto comma, della legge n. 382 del 1978 stabilisce che “gli ordini devono, conformemente alle norme in vigore, attenere alla disciplina, riguardare il servizio e non eccedere i compiti di istituto”, dall’altro l’art. 5, comma 1, del d.P.R. n. 545 del 1986 definisce l’obbedienza come l’esecuzione “degli ordini attinenti al servizio ed alla disciplina”;
- che tali disposizioni si inseriscono in un contesto in cui la disciplina non è più concepita come un valore fine a se stesso, ma risulta funzionale “ai compiti istituzionali delle Forze armate ed alle esigenze che ne derivano” (art. 2, comma 1, del regolamento);
- che il nuovo assetto normativo è inconciliabile con la costruzione, prospettata dal giudice rimettente, dell’art. 173 cod. pen. mil. di pace come norma penale in bianco, nella quale l’individuazione dei comportamenti penalmente sanzionabili sarebbe rimessa alla mera volontà del superiore gerarchico, in linea con l’intenzione del legislatore del 1941 di «tutelare un concetto di disciplina militare eticamente inteso»;
- che la disposizione censurata, in cui il rifiuto, il ritardo o l’omissione di obbedienza sono comunque puntualizzati con riferimento a “un ordine attinente al servizio o alla disciplina”, va pertanto letta - come è preciso dovere dell’interprete - alla luce del quadro normativo che si è progressivamente formato nel corso del periodo repubblicano;
- che le norme sopra menzionate rendono evidente che il reato non si sostanzia nella disobbedienza ad un ordine qualsiasi proveniente da un superiore gerarchico, in quanto solo la disobbedienza a un ordine funzionale e strumentale alle esigenze del servizio o della disciplina, e comunque non eccedente i compiti di istituto, integra gli estremi del modello legale di cui all’art. 173 cod. pen. mil. di pace;
- che, infatti, oggetto della tutela apprestata dalla norma censurata non è il prestigio del superiore in sè e per sè considerato, ma il corretto funzionamento dell’apparato militare, in vista del conseguimento dei suoi fini istituzionali, così come puntualmente messo in rilievo da quella giurisprudenza di legittimità e di merito che ha sottolineato che l’ordine deve sempre avere fondamento nell’interesse del servizio o della disciplina e non può trovare causa in pretese di carattere personale o in contrasti di natura privata tra superiore e inferiore;
- che, non essendo dato riscontrare alcuna violazione dei parametri costituzionali evocati dal rimettente, la questione va dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.


P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 173 del codice penale militare di pace, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25, secondo comma, e 112 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino, con l’ordinanza in epigrafe»».