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Corte dei Conti

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Sentenze tratte dal sito www.corteconti.it

Responsabilità amministrativa - Danno all’immagine della pubblica amministrazione - Comportamento illecito del pubblico dipendente -
Contrarietà ai principi costituzionali di organizzazione e azione amministrativa - Configurabilità.

Sezione Prima Giurisdizionale Centrale di Appello, 28 gennaio 2003. Pres. Simonetti, Est. Mastropasqua.

. . .

Considerato in diritto:
. . .
5. Vanno a questo punto esaminate le eccezioni di merito, che attengono essenzialmente alla configurazione ed alle prove del danno all’immagine.
È ormai pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. Cass. SS.UU. n. 5668/1997, 744/1999, n. 98/2000) che il c.d. danno all’immagine, conseguente alla condotta illecita dei pubblici funzionari che scredita l’Amministrazione, pur se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta è tuttavia suscettibile di una valutazione patrimoniale sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso, la cui cognizione spetta alla Corte dei Conti.
Le citate sentenze della Corte di Cassazione non sono meramente attributive di competenza giurisdizionale della Corte dei Conti ma innanzitutto connotano il c.d. danno all’immagine della P.A. quale presupposto necessario per l’affermazione della giurisdizione.

Il primo elemento determinativo è che il danno all’immagine espressamente previsto e tutelato dall’art. 10 c.c. per la persona fisica è nozione estensibile alla persona giuridica, salvo a tener conto della diversità ontologica di questa rispetto alla persona fisica.
È stato così riconosciuto che anche l’immagine della persona giuridica è un bene della vita tutelato dall’ordinamento non solo in sede penale nelle specifiche ipotesi di reato ma anche in altre sedi attraverso le forme inibitorie di comportamenti illeciti e risarcitori del danno.
Il secondo elemento è che, in forza della diversità tra persona fisica e persona giuridica, il risarcimento della lesione è limitata alla sola sfera patrimoniale dell’ente sub specie di danno emergente o di lucro cessante.
Il terzo elemento è che assume particolare connotazione la lesione del bene causata da comportamento illecito di soggetto legato all’ente da rapporto di servizio.
Alle esposte considerazioni consegue che il riconoscimento dell’immagine della persona giuridica come bene della vita oggetto di tutela dell’ordinamento (bene giuridico) si colloca nell’alveo della giurisprudenza che tende ad estendere, in relazione all’evolversi dei fenomeni sociali, la tutela degli interessi dei soggetti dell’ordinamento connotandoli come beni della vita che possono essere oggetto di risarcimento del danno, e cioè in senso sostanzialmente ampliativo dell’ambito di operatività dell’art. 2043 c.c.

In effetti si tratta di una strada obbligata ove si riconosca che anche la persona giuridica è titolare di diritti assoluti personalissimi. Infatti secondo non controversa dottrina e giurisprudenza il danno morale ex art. 2059 c.c. è incompatibile con la persona giuridica sia da un punto di vista logico che da un punto di vista giuridico, risultando difficile ammettere che la persona giuridica possa patire l’insieme delle sofferenze d’animo provocate da fatto illecito. Può essere invece prospettata la tutela giuridica rispetto ad un interesse attinente alla sfera personalissima della persona giuridica connotandolo quale diritto assoluto la cui lesione sia oggetto se non di risarcimento in senso stretto, ove la conseguenza dell’illecito non si presti ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, almeno di riparazione.
In quest’ottica talune sentenze di questa Corte (a paradigma può assumersi Sez. Giur. Regione Umbria 18 ottobre 2000 n. 557/R/2000) hanno qualificato il danno all’immagine della P.A. come “danno-evento”, come danno cioè rispetto al quale il diritto risarcitorio si rivolge non al contenuto del danno ma alla ingiustizia della lesione.
Sul piano tecnico giuridico della tutela di beni fondamentali per l’ordinamento il meccanismo dell’immediata tutela risarcitoria è stato individuato nell’art. 2043 c.c., che quale “norma in bianco” salda il suo generico precetto del neminem laedere con le specifiche disposizioni relative al bene-valore di volta in volta considerato, imponendone il divieto della sua lesione.
Senza prendere posizione sulla configurazione dommatica del danno all’immagine rispetto alla quale talune considerazioni verranno fatte in sede di criteri individuativi del danno, va precisato che il richiamo al meccanismo tecnico-giuridico dell’art. 2043 c.c. è utile solo come punto di riferimento delle modalità di individuazione di protezione di un diritto assoluto.
In particolare per quanto riguarda la lesione del diritto all’immagine (della P.A.) fatta valere nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, va affermato che nel caso la lesione non proviene da un qualsiasi comportamento di soggetto dell’ordinamento ma solo in forza di comportamenti illeciti contrari ai doveri d’ufficio tenuti da chi è legato da rapporto di servizio con l’amministrazione, e che la conformazione della lesione del diritto e la sua gravità è segnata dall’esistenza di detto rapporto.

Occorre, in proposito, considerare che i soggetti chiamati in giudizio per responsabilità amministrativa sono quei soggetti che, titolari di pubblici uffici o incardinati negli stessi, in virtù del rapporto organico fanno agire la pubblica amministrazione, secondo le competenze e le mansioni che nell’organizzazione amministrativa sono assegnate a ciascun dipendente in base a disposizioni di legge.
In forza di tale modulo organizzativo e delle disposizioni che regolano la vita giuridica di relazione dei soggetti persone - giuridiche non solo le intere fattispecie degli atti che compie l’organo vengono imputate all’ente, ma gli stessi fatti comportamentali dei pubblici funzionari, compiuti in ragione del servizio, costituiscono l’agire dei pubblici uffici.
È evidente che in ipotesi di delitti contro la pubblica amministrazione commessi dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle proprie funzioni l’attività criminale di questi non è imputabile alla pubblica amministrazione. Ed, infatti, anche in ipotesi di concussione la P.A. non è responsabile né direttamente né indirettamente nei confronti del soggetto leso, il quale tra l’altro è ben consapevole che l’agire del pubblico dipendente è motivato da fini propri estranei alla P.A.
Ma anche in queste occasioni l’attività funzionale del pubblico dipendente invera l’azione della P.A. In detti casi vi è la dimostrazione che l’attività della P.A. non si è svolta secondo i principi fissati dall’art. 97 Cost. perché nell’esercizio dei pubblici poteri il soggetto preposto all’ufficio o incardinato nell’ufficio ha perseguito in concreto fini contrastanti o comunque diversi da quelli pubblici, di cui è centro di imputazione quella amministrazione nel quale l’ufficio o l’organo è inserito, e per il raggiungimento dei quali il potere è conferito. Questo fatto incide potenzialmente anche al di là del singolo episodio sui rapporti tra pubblica amministrazione lesa dall’attività criminosa e cittadini, non solo in generale rispetto allo svolgersi del processo democratico ma in modo specifico nei confronti di quei cittadini (o di quei soggetti o categorie di soggetti) che utilizzano i pubblici servizi o sono incisi dall’esercizio di un potere autoritativo.
In questi può ingenerarsi la convinzione che l’organizzazione dei pubblici poteri non sia conformata ai principi fissati dall’art. 97 Cost., ma sia in concreto strutturata sia per l’attribuzione soggettiva dei poteri sia oggettivamente in modo tale, attraverso un esercizio distorto dei pubblici poteri, da costringere, o comunque indurre, i soggetti fruitori di servizi pubblici o interessati a provvedimenti dei pubblici poteri a pagamenti illeciti per esercitare i propri diritti o per ottenere il servizio ovvero da indurre soggetti o categorie di soggetti a ritenere possibile conseguire vantaggi illeciti.

Come ben si vede viene in primo luogo in rilievo la potenzialità dannosa della lesione del diritto operata dal comportamento del pubblico dipendente rispetto alla potenzialità dannosa del comportamento lesivo del “chiunque”. Viene inoltre in rilievo il comportamento dell’autore del danno non come genericamente lesivo del diritto personalissimo all’immagine ma come lesivo attraverso la violazione di principi costituzionali di azione della pubblica amministrazione perpretata attraverso l’uso distorto di poteri funzionali conferiti al soggetto agente “ratione officii”.
Non va, in proposito, dimenticato che lo Stato e gli altri enti pubblici rappresentativi della comunità si caratterizzano in modo specifico rispetto a tutte le altre persone giuridiche per essere posti a tutela degli interessi fondamentali della comunità e per il raggiungimento di finalità che spesso trovano la loro radice nella stessa costituzione. L’organizzazione di questi enti è poi caratterizzata da principi costituzionali cogenti, che determina la struttura e l’attività degli organi e degli uffici.
L’immagine pubblica si connota, pertanto, in modo peculiare.
La sua lesione è determinata essenzialmente da comportamenti contrari ai principi fondamentali di organizzazione e di azione costituzionalmente rilevanti, comportamenti (oggetto anche della specifica previsione dell’art. 54 Cost.) che possono essere tenuti nella generalità dei casi da chi deve porre in essere i moduli organizzativi e l’attività della P.A.
Il comportamento illecito così caratterizzato è lesivo dell’immagine dell’amministrazione perché ne determina un modo di essere non conforme ai principi costituzionali in attività di promozione e tutela di interessi, anche adespoti, della collettività e quindi da questa percepibile. Il comportamento lesivo poi si inserisce in un circuito tipico sul quale si fonda lo stato democratico di cooperazione e partecipazione dei cittadini che si rafforza o si attenua a secondo che le istituzioni e gli enti rappresentativi della collettività agiscano o meno per le finalità funzionalmente ad essi attribuite secondo i principi sostanziali ed organizzativi espressi nella costituzione formale e materiale.
Nell’an la lesione all’immagine, pertanto, sussiste quando il pubblico amministratore o dipendente abbia tenuto un comportamento illecito che si ponga in contrasto con i sopraenunciati principi fondanti della P.A.
In tal senso può qualificarsi il danno all’immagine come danno evento, ma non va dimenticato che a fini risarcitori o riparatori del danno, qualificati dalla giurisprudenza come danno patrimoniale, occorrono altri elementi idonei ad attestarlo e quantificarlo.

In proposito viene in primo luogo in rilievo la gravità della lesione del diritto della personalità, che deve superare una soglia minima per tradursi in danno risarcibile. Questa soglia minima non è sicuramente segnata dall’ambito giuridico disciplinato dall’art. 2059 c.c. e cioè dall’esistenza di un reato perché il danno all’immagine non è un danno morale subiettivo, ma è la conseguenza patrimoniale di un comportamento illecito lesivo di un diritto personalissimo, né è segnata dalla coesistenza di un danno ad un bene materiale dell’ente (cfr. SS.RR. n. 16/99/Q.M. del 28 maggio 1999), perché ciascuna tipologia di danno è posta a tutela di un diritto (diritto relativo di credito o diritto assoluto di proprietà) diverso dall’altro (diritto assoluto personalissimo).
Ne consegue che la soglia minima va individuata con una indagine di fatto sul comportamento tenuto con riferimento particolare all’elemento soggettivo e sulla potenzialità lesiva di detto comportamento.
La potenzialità dannosa nei termini delineati del comportamento illecito dei pubblici poteri va saggiato in concreto nei singoli casi. Infatti ove si tratti di episodi sporadici e di cui non si è avuta diffusione può mancare un evento di danno (e comunque questo va dimostrato attraverso specifici indici), laddove invece la pluralità degli episodi criminosi o la gravità in sé dei fatti ed il conseguente impatto sull’opinione pubblica o sulle categorie interessate sia sicuro indice della diffusione della conoscenza da parte dei cittadini dell’esistenza di una distorta organizzazione dei pubblici poteri è conseguenza ineludibile il danno per la P.A. sia in termini di danno emergente sia in termini di lucro cessante. Detti episodi vengono infatti ad incidere sia sull’organizzazione dell’attività amministrativa, con conseguenti maggiori costi, sia sulla necessità di ripristinare l’immagine, sia sulla posizione della P.A. la quale, ove eserciti correttamente ed imparzialmente il proprio potere, può ottenere l’adesione convinta dei cittadini, il loro apprezzamento o quantomeno non subire azioni di contrasto. In questi termini esiste per la P.A. un danno certo, che può essere quantificato equitativamente.
Infatti la Pubblica Amministrazione nell’acquisire le entrate e nel fornire servizi svolge sia attività economica di natura imprenditoriale sia attività autoritativa.

In ambedue i casi un primo aspetto del danno è costituito dalla spesa necessaria (sostenuta, da sostenersi, soltanto eventuale) per il ripristino dell’immagine.
Inoltre, come ulteriore danno, sotto il primo profilo vengono in rilievo la minore richiesta del servizio da parte degli utenti, la loro minore soddisfazione se reso in condizioni di monopolio ecc.
Sotto il secondo profilo va invece ricordato che l’attività funzionale della P.A. è indirizzata al conseguimento dei fini pubblici di cui è attributaria e per i quali ad essa sono conferiti correlativi poteri autoritativi.
Nello Stato democratico, poi, viene promossa ed incentivata la partecipazione dei cittadini nei processi decisionali e nei procedimenti amministrativi nei quali vengono funzionalmente spesi poteri pubblici conferiti alla Pubblica Amministrazione.
In questo senso l’immagine di un apparato organizzativo dei poteri pubblici che agisce in modo imparziale, efficiente, efficace al fine di realizzare gli interessi pubblici incentiva i cittadini a tenere il comportamento richiesto da leggi, regolamenti od altri atti normativi a carattere generale per il raggiungimento dei fini pubblici, contemperando così l’interesse generale con gli interessi individuali.
La lesione dell’immagine della P.A., deteriorando il prestigio della personalità pubblica degli enti rappresentativi della collettività in tutti i casi nei quali l’apparato organizzativo esercita i propri poteri per fini personali e contrastanti con quelli pubblici o secondo criteri di parzialità e di favoritismo, induce i cittadini a privilegiare con ogni mezzo il proprio interesse particolare, con gravi ricadute anche sullo svolgimento dell’attività amministrativa. Da qui le gravità della lesione sia in termini di danno emergente che di lucro cessante.
Pertanto ogni volta che i poteri attribuiti alla P.A. per il raggiungimento di specifici fini pubblici vengono illecitamente esercitati per scopi diversi, può derivare oltre al danno diretto un danno indiretto valutabile in termini di minore possibilità di acquisizioni di entrate ovvero di minori prestazioni di servizio ai cittadini, di deterioramento della qualità della vita dei cittadini. Ciò ovviamente nei limiti in cui il fatto illecito comporti una diminuzione patrimoniale valutabile sotto il profilo del danno emergente o del lucro cessante. In questa valutazione va, però, tenuto presente che spetta agli enti esponenziali della collettività tutelare interessi adespoti e, pertanto, il danno può essere valutato sotto l’aspetto della lesione di un bene collettivo, il cui centro di riferimento è l’ente esponenziale della collettività.

Assumono rilievo in relazione all’an ed al quantum del danno all’immagine i seguenti elementi e criteri:
- l’attività funzionale attribuita all’ente, organo, ufficio nel quale è incardinato l’autore del danno relazionato all’interesse della collettività tutelata;
- la posizione funzionale dell’autore dell’illecito, che assume maggior gravità quando riveste una posizione di vertice idonea a determinare l’azione della P.A., a impedire o ritardare i controlli, a coprire l’illecito;
- se, come è stato notato in dottrina, il danno esistenziale è un non fare, cioè un non poter più fare, un dover agire altrimenti, un relazionarsi diversamente, la sporadicità o la continuità o la reiterazione dei comportamenti illeciti, caratterizzando essi la relazione tra cittadini e pubblica amministrazione; la necessità o meno di interventi modificativi dell’organizzazione; la necessità o meno di interventi sostitutivi o riparatori dell’attività illecitamente tenuta;
- in ipotesi di tangenti l’entità del denaro ricevuto per operare illeciti interventi;
- le conseguenze economico-sociale degli interventi intesi a favorire illecitamente terzi, soprattutto in materia di pubblici appalti o di acquisizione di entrate fiscali;
- le conseguenze sociali fondate sulla negativa impressione e ripercussione suscitate nell’opinione pubblica dal fatto illecito, favorito dal clamor fori e dalla diffusione ed amplificazione datane dagli organi di stampa, tali da suscitare sfiducia nei confronti dell’ente stesso.
Il risarcimento del danno all’immagine, in quanto ancorato ai suddetti parametri, va pertanto necessariamente determinato in via equitativa ex art. 1226 c.c., valorizzando i costi del ripristino del bene, che hanno valenza economica sotto il profilo del danno emergente (costi del mancato conseguimento della finalità pubblica, dell’inefficienza e inefficacia dell’organizzazione, ecc.) o di lucro cessante (soprattutto sotto il profilo dei vantaggi derivanti alla P.A. dell’adesione della generalità dei cittadini o di quelle particolari categorie di cittadini eventualmente professionalmente qualificate investite dall’attività dell’ente) ed allontanandosi così sia dal risarcimento del danno in senso classico che dalla riparazione della sofferenza tipica del danno morale.

Se si vogliono valorizzare approcci qualificatori del danno all’immagine si può così affermare che in esso l’evento lesione costituisce il momento fondante della catena causale nella quale confluiscono le perdite derivanti dalla vanificazione dei costi sostenuti per assicurare ed elevare il bene-valore sacrificato ed i costi sostenuti e sostenendi volti al recupero di tale bene, e perciò elementi tipici del danno-conseguenza.
6. Il riflesso sul piano probatorio è che l’attore deve indicare e dimostrare a fini di esistenza del danno il comportamento illecito lesivo ed a fini di quantificazione gli elementi tra quelli indicati determinativi della dimensione ed entità della lesione.
È esperienza comune che in questa tipologia di danno vengono versate nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile le risultanze e le prove acquisite nel quasi sempre coesistente giudizio penale fondato su comportamenti almeno parzialmente coincidenti.
In quest’ambito vengono in rilievo, oltre agli effetti del giudicato penale a seguito di dibattimento, gli effetti della sentenza ex art. 444 c.p.p. e i problemi relativi alle valutazioni delle prove acquisite in sede penale.
Quanto alla natura della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti una corrente dottrinaria e giurisprudenziale le riconnette natura di sentenza di condanna (cfr. C. Cost. n. 313/1990, Cass. n. 2065/1999, n. 3490/1996). Si assume, infatti, che diversamente si giungerebbe all’assurdo di una rinuncia all’esercizio dell’azione penale e al diritto di difesa, inconciliabile con il disposto di cui agli artt. 112, 24 Cost. Tale effetto non può certo costituire un corollario del principio di disponibilità della prova fatto proprio dall’art. 190 c.p.p. anche perché in una simile evenienza il giudice sarebbe chiamato a sopperire ex art. 507 dello stesso codice.
Altra corrente ritiene invece che non si possa attribuire a detta sentenza natura di sentenza di condanna, sul presupposto dell’assenza dell’affermazione di colpevolezza, essendo anzi più vicina quanto a valore delle statuizioni ad una sentenza di proscioglimento (cfr. C. Cost. n. 251/1991, Cass. SS.UU. 26 febbraio 1997).
Il legislatore della legge 27 marzo 2001 n. 97 sembra avallare la prima tesi, disponendo l’art. 445 c.p.p. novellato attraverso il richiamo all’art. 653 c.p.p., l’efficacia di giudicato non solo della sentenza di assoluzione, ma anche quella di condanna a pena patteggiata.

Ad ogni modo, dopo la novella legislativa, non si può dubitare della parificazione operata sul piano del valore probatorio.
Significativa appare ai fini del valore da attribuire alla sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti in un giudizio diverso da quello penale, la ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione - Sez. Tributaria (cfr. 10 dicembre 1998, n. 11301 e 17 gennaio 2001, n. 630) secondo la quale la sentenza ex art. 444 c.p.p. costituisce “un importante elemento di prova circa la percezione di illeciti proventi e, quindi, della produzione di un reddito imponibile”.
Tale elemento di prova circa l’effettivo compimento dei fatti costituenti reato potrà essere disatteso nel giudizio di merito solo nel caso in cui il contribuente spieghi le ragioni per cui ha ammesso una responsabilità penale e il giudice non lo abbia assolto.
In sostanza la richiesta di pena patteggiata non comporta un accertamento invincibile di responsabilità, come invece accade con il giudicato penale a seguito di dibattimento ex art. 651 c.p.p., ma può essere contestato in un giudizio diverso da quello penale fondato sui medesimi fatti attraverso la prova della inattendibilità della veridicità dei fatti versati nel giudizio penale iniziando dai motivi per i quali è stato chiesto di patteggiare la pena pur non essendo il richiedente autore dei fatti illeciti.

Ne consegue che nei giudizi diversi da quello penale, pur non essendo precluso al giudice l’accertamento e la valutazione dei fatti difforme da quello contenuto nella sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p., questa assume particolare valore probatorio vincibile solo attraverso specifiche prove contrarie.
Quanto alle prove formatesi nel giudizio penale, queste possono essere acquisite nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile per essere oggetto di valutazione del giudice in questa sede, nella quale possono essere oggetto di contestazione e di dialettica processuale.
7. Nella applicazione degli enunciati principi al caso di specie va rilevato che la prova del comportamento illecito tenuto dagli appellanti è supportata da un complesso univoco e concordante di atti ed elementi tratti dal giudizio penale relativo ai medesimi fatti.
Va, infatti, rilevato che per i medesimi fatti nei confronti di tutti gli appellanti è stata pronunciata sentenza ex art. 444 c.p.p.
In quella sede poi vi sono state univoche e ripetute ammissioni di colpevolezza rese dagli appellanti.
In particolare dalla vicenda penale risulta che il S. era insieme al P. il collettore ed il gestore delle tangenti, per la cui distribuzione ed utilizzazione era stato formato un fondo comune al quale affluivano dazioni in danaro effettuate dalle ditte appaltatrici all’esito positivo del collaudo e quantificato nell’uno per cento del valore dell’appalto. In proposito il S. ha reso dichiarazioni confessorie sempre più precise al G.I.P. del Tribunale di Milano il 16 ottobre 1995, al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Milano il 20 ottobre 1995 ed il 2 novembre 1995.

Il D. ha reso dichiarazioni confessorie di aver ricevuto somme di denaro in occasione della sua partecipazione a commissioni di collaudo presso il omissis di Milano.
Il P. ha dichiarato in sede penale il 14 ottobre 1995 che nel suo ufficio esisteva una cassa comune alimentata con denaro erogato in contanti dalle ditte vincitrici delle forniture.
Il G. ha reso innanzi al P.M. presso il Tribunale di Milano in data 18 ottobre 1995 dichiarazione confessoria di aver ricevuto per il collaudo omissis somme di denaro divise tra lui, P., S. e D.
Nel giudizio penale dichiarazioni conformi sono state fatte da altri soggetti coinvolti in quella sede.
Come si vede un imponente ed univoco materiale probatorio attesta non solo il versamento di tangenti nel caso specifico ma anche e soprattutto un comportamento generalizzato di percezioni di tangenti in occasione di ogni appalto collaudato dal omissis di Milano.
Nel descritto contesto il comportamento illecito del D., del S. e del P. non è ravvisabile solo nell’aver percepito tangenti nello specifico caso (come in un’altra serie di casi), ma anche nel non aver posto fine e denunciato l’esistenza di una prassi corruttiva di estrema gravità perché coinvolgente tutti gli appalti. Il comportamento omissivo da parte di ufficiali superiori preposti al servizio (e che avevano quindi l’obbligo di vigilare sulla regolarità delle operazioni oltre a quelle previste in Costituzione per il loro status) è stato comunque causativo dei danni arrecati all’Amministrazione, in quanto non ha impedito un evento che avevano l’obbligo di impedire. In tal senso ai fini della causazione del danno non appare neppure rilevante la percezione o meno da parte loro di somme provenienti da tangente nello specifico caso, esistendo comunque il nesso di causalità tra il loro comportamento omissivo e il danno subito dalla P.A.

Quanto alla esistenza ed alla quantificazione del danno vanno posti in rilievo i seguenti elementi:
- la corresponsione di tangenti in occasione del collaudo di ciascuna fornitura di merci, tra l’altro commisurata a percentuali su prezzo, non solo ha secondo l’id quod plerumque accidit inciso sulla formazione del prezzo di appalto o sulla qualità della merce nello specifico caso (cfr. Cass. SS.UU. 4 aprile 2000 n. 98) ma, proprio per la sua generalizzazione, ha determinato effetti distorsivi sugli appalti. Infatti gli imprenditori nel fare la loro offerta hanno dovuto tener conto anche della tangente quale elemento di costo ovvero, per non commettere un illecito penale, non hanno partecipato alla gara. È di tutta evidenza infatti che comportamenti corruttivi generalizzati vengono conosciuti tra tutti i soggetti del settore e che, quindi, almeno la gran parte degli imprenditori del settore erano a conoscenza del sistema tangentizio.
Dal sistema sono così derivati effetti economico-sociali rilevanti, riflettendosi sia sui prezzi degli appalti sia sulla corretta aggiudicazione degli appalti. Sotto quest’ultimo profilo la dimensione quantitativa delle merci occorrenti all’esercito può aver anche determinato attraverso aggiudicazione di appalti non corretta effetti distorsivi del mercato e della concorrenza;
- il comportamento illecito è stato tenuto da ufficiali di grado elevato preposti al servizio. La loro posizione soggettiva non solo ha facilitato l’illecito, ma ne ha impedito la scoperta e può aver dissuaso imprenditori onesti dal denunciare i fatti;
- detto comportamento in quanto tenuto da ufficiali di grado elevato ha dato all’esterno l’immagine di un comportamento dell’Amministrazione pubblica, in uno dei settori, quale quello della Difesa, immediatamente riconducibile alla sovranità dello Stato ed alla tutela dei beni essenziali e fondanti dello Stato comunità, inteso non al raggiungimento ottimale dei fini pubblici, ma alla ricerca di illeciti vantaggi economici personali dei soggetti di vertice dell’Amministrazione;
- la necessità per l’Amministrazione, se correttamente organizzata e se doverosamente sensibile agli effetti dirompenti dei comportamenti tenuti dagli odierni appellanti, di modificare la propria organizzazione e di individuare e potenziare più incisivi sistemi di controllo.

Dal complesso di questi elementi risulta evidente che il danno all’immagine subito dall’Amministrazione, da quantificare equitativamente ex art. 1226 c.c., è di gran lunga superiore al modestissimo importo della condanna rapportata esclusivamente alla tangente percepita.
Nella descritta situazione appaiono inutili ulteriori acquisizioni istruttorie. La richiesta di integrazione del contraddittorio va valutata tenendo conto della condanna in solido e quindi della responsabilità di ciascuno condannato per l’intero, della facoltà del creditore in ipotesi di obbligazione solidale di convenire in giudizio solo taluni dei debitori, della possibilità per l’attore di convenire in altro giudizio l’eventuale pretermesso, non essendo stata la condanna in questa sede esaustiva del danno e, soprattutto, delle ragioni indicate dall’attore per non convenire in giudizio altri soggetti. Alla stregua delle esposte considerazioni la richiesta va, pertanto, respinta.
Da quanto sopra consegue il rigetto degli appelli.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

P. Q. M.

La Corte dei Conti - Sezione Prima Giurisdizionale Centrale di Appello rigetta i gravami proposti avverso la sentenza in epigrafe.
Condanna gli appellanti S., D., P., G. al pagamento in solido delle spese del presente grado di giudizio che si liquidano in euro 1012,83 (Milledodici/83).