8. La responsabilità dei Comandanti e l'Ordine Superiore

Il problema della responsabilità dei comandanti è sempre stato l’aspetto cruciale della giurisdizione internazionale, laddove è evidente che nell’accertamento di crimini di guerra o contro l’umanità per forza di cose dovrà sempre assumere un particolare rilievo il ruolo svolto da chi ha la responsabilità diretta della condotta delle operazioni, nelle fasi di guerra o di conflitto armato, e dell’ordine e della sicurezza pubblica, nel caso di “crisi” interne(184). Il tema tuttavia è piuttosto discusso, specie con riferimento all’individuazione degli effettivi margini dell’azione di comando e controllo che può essere attribuita ad un capo militare. Il caso più emblematico che viene citato a proposito è il processo Yamashita (185): la Commissione militare americana in Manila (1945), nonostante un parere difforme della Corte Suprema degli Stati Uniti, condannò l’ammiraglio giapponese per non aver impedito che fossero commesse atrocità da parte dei suoi soldati. Il criterio che fu seguito da quel collegio giudicante è stato ritenuto, da un lato, “emblematico” per l’affermazione del principio della responsabilità del comandante per non aver esercitato il controllo sui subordinati, dall’altro “eccessivo” perché sotto il profilo giuridico andava posto un altro problema: in realtà il livello del comando dell’ammiraglio era particolarmente alto - pertanto non idoneo a poter esercitare un controllo concreto - e, soprattutto, le circostanze erano ormai tali che l’alto ufficiale «aveva ormai perso quasi completamente il comando, il controllo e le comunicazioni con i soldati ai suoi ordini»(186).

In tale quadro, è opportuno premettere che nelle fonti convenzionali del Diritto Umanitario, di vera e propria responsabilità dei comandanti si parla nel I Protocollo Addizionale del 1977, che all’art. 87 detta precise disposizioni in materia di doveri dei comandanti. In base al Protocollo le Alte Parti contraenti e le Parti in conflitto «esigeranno» che i Comandanti militari adempiano ai seguenti obblighi:
- i comandanti devono conoscere e capire le obbligazioni che gli sono imposte dal Diritto Internazionale Umanitario (DIU);
- i comandanti devono assicurarsi che anche i loro subordinati conoscano e comprendano gli obblighi che sono imposti ai combattenti dal DIU;
- i comandanti devono condurre le operazioni in conformità con il DIU;
- i comandanti devono fare tutto ciò che è in loro potere per prevenire la commissione di violazioni del DIU da parte dei loro subordinati, e, in caso di violazioni, debbono promuovere contro gli autori le azioni disciplinari e penali del caso.

Altre importanti previsioni si rinvengono nelle formulazioni degli Statuti del Tribunale per la ex Jugoslavia (art.7) e del Ruanda (art.6)(187), che sono sostanzialmente identiche. In base a tali disposizioni:
« Art 7 (1) Chiunque ha pianificato, incitato a commettere, ordinato, commesso o in ogni altra maniera aiutato e incoraggiato a pianificare, preparare o porre in esecuzione un crimine previsto dall’art.2 all’art.5 del presente Statuto è individualmente responsabile di detto crimine;
Art.7 (3) Il fatto che taluno degli atti previsti dagli art.2-5 del presente Statuto sia stato commesso da un subordinato non esenta il suo superiore dalla propria responsabilità penale, se questi sapeva, o aveva motivo di sapere, che il subordinato si apprestava a commettere questo atto, oppure, se il subordinato l’aveva comunque compiuto, il superiore non aveva preso le misure necessarie e ragionevoli per impedire che l’atto stesso non venisse commesso o per punire i responsabili».

La norma è evidentemente, in prima facie, di non facile lettura. Tuttavia i suoi elementi costitutivi appaiono ben chiari; la responsabilità dei comandanti si configura:
- per aver “pianificato” una violazione;
- per avere “incitato” a commettere una violazione;
- per avere “ordinato” la commissione di una violazione;
- per avere “aiutato” o “incoraggiato” ad eseguire un crimine di guerra.
Su quest’ultimo punto, può essere utile richiamare i principali orientamenti della giurisprudenza dei due Tribunali(188): in primo luogo si è stabilito che aiutare o incoraggiare sono due forme distinte di complicità, ma l’una o l’altra sono singolarmente sufficienti per essere ritenuti colpevoli; un comandante sarà responsabile per aver aiutato o incoraggiato se la sua condotta ha contribuito direttamente alla commissione della violazione; l’“assistenza fisica” è evidentemente la forma di aiuto o di incoraggiamento più comune; ma non è necessario che l’aiuto o l’incoraggiamento debbano essere “tangibili”, è sufficiente un sostegno “morale”. In sostanza, l’elemento chiave di questa fattispecie è tutta nella “influenza” del comandante sugli altri militari: anche un gesto “anodino”, un mancato intervento, l’inerzia di un comandante può costituire un atto di tacito assenso, e, quindi, un “incoraggiamento”(189).

Sulla base di questi riferimenti, le previsioni dello Statuto della Corte hanno delineato un quadro più articolato della configurabilità penale della responsabilità dei comandanti, che pertanto è disciplinata:
- in primis, nella responsabilità penale individuale definita all’Art.25; nella sostanza la norma sanziona una responsabilità “diretta” o “attiva (190), per un comportamento consistente in un agere o in un facere o in un eligere;
- inoltre, nella specifica responsabilità dei comandanti o di altri superiori gerarchici dell’Art.28 dello Statuto, che disciplina in maniera molto articolata una responsbilità di tipo “negativo” od “omissivo” (191);in questo caso ha rilievo anche la sola inerzia dei comandanti rispetto agli obblighi in vigilando, al potere-dovere di controllo che è insito nella funzione di comando della sovraordinazione gerarchica (si tratta quindi di comportamenti consistenti in un non agere o non facere o in un non eligere (192));
- infine, nella normativa correlata all’elemento psicologico dell’Art.30 dello Statuto, ai motivi di esclusione dalle responsabilità penali dell’Art.31 e all’ordine superiore dell’Art.33, che completano l’ambito complessivo della possibile punibilità del comportamento di un comandante.

All’Art.25, la responsabilità “attiva” del comandante si connota come diretta responsabilità penale individuale atteso che essa si determina anche quando “(la persona) ordina (193), sollecita o incoraggia la perpetrazione del reato” oppure per “agevolare la perpetrazione di tale reato, (essa) fornisce il suo aiuto, la sua partecipazione o ogni altra forma di assistenza”, o, ancora “contribuisce in ogni altra maniera alla perpetrazione o al tentativo di perpetrazione di tale reato da parte di un gruppo di persone o al tentativo di perpetrazione di tale reato da parte di un gruppo di persone che agiscono di comune accordo” (194).
Sulla responsabilità della condotta attiva, appare però opportuno soffermarci subito su quelli che sono definiti all’Art. 30 gli “elementi psicologici” sulla cui base è possibile configurare la punibilità: l’”intenzione” e la “colpevolezza”.
La norma precisa che vi è «intenzione» quando:
- trattandosi di un «comportamento», una persona intende adottare tale comportamento;
- trattandosi si una «conseguenza», tale persona intende causare tale conseguenza o è consapevole che quest’ultima avverrà nel corso normale degli eventi.
Vi è «consapevolezza» quando la persona è “cosciente” dell’esistenza di una determinata circostanza o che una conseguenza avverrà nel corso normale degli eventi. La norma può sembrare di facile e immediata lettura; ma in realtà potrà porre una serie di problemi in sede giurisprudenziale, tenendo conto che, come si vede, non si fa riferimento a quelle categorie giuridico-formali degli ordinamenti giuridici di Civil Law, come la “colpevolezza”, la “coscienza e volontà”, il dolo e la colpa, la responsabilità oggettiva, la preterintenzionalità etc.(195). Allo stato, l’analisi sul punto può essere soltanto largamente indicativa, atteso che gli elementi della intenzionalità e della consapevolezza dovranno ancora consolidarsi nella dottrina e nella giurisprudenza internazionale penale(196). A nostro avviso, tuttavia, riteniamo che - specie con riferimento al ricorrente richiamo ad una ragionevole “previsione” del corso normale degli eventi - in essi saranno compresi i comportamenti dolosi, inclusi quelli del c.d. dolo eventuale (l’agente aveva previsto una possibilità che si verificasse una conseguenza negativa, e aveva proseguito comunque nell’azione; “aveva previsto e accettato il rischio”), ma probabilmente anche quelli caratterizzati da colpa grave o colpa cosciente (l’agente, venendo meno ai propri obblighi di normale diligenza, non ha valutato il rischio del verificarsi di una conseguenza negativa, che, anche se non espressamente voluta, è comunque imputabile ad una sua condotta “colposa”(197)). Tali valutazioni si possono dedurre anche dalle modalità in cui sono sanzionati i comportamenti “omissivi”.

L’Art.28 «Responsabilità dei Comandanti e di altri superiori gerarchici» è dedicato proprio ai fatti “omissivi”, ed in particolare al mancato controllo(198). Lo Statuto della Corte è pervenuto su questo tema ad un testo molto analitico, che è destinato a costituire un punto fermo della definizione giuridica del problema e a rappresentare un orientamento decisivo per i comandanti militari. Ma prima di passare ad una enunciazione interpretativa della norma è utile richiamarla espressamente nella sua formulazione letterale(199).

(Omissis)

Art.28
Responsabilità dei capi militari e di altri superiori gerarchici

Oltre agli altri motivi di responsabilità penale secondo il presente Statuto per reati di competenza della Corte (nda: si fa riferimento alla responsabilità “attiva” dell’art.25):
1.Un comandante militare o persona facente effettivamente funzione di comandante militare è penalmente responsabile dei crimini di competenza della Corte commessi da forze poste sotto il suo effettivo comando o controllo o sotto la sua effettiva autorità e controllo, a seconda dei casi, quando non abbia esercitato un opportuno controllo su queste forze nei seguenti casi: a)questo capo militare o persona sapeva o, date le circostanze, avrebbe dovuto sapere che le forze commettevano o stavano per commettere tali crimini; e b)questo capo militare o persona non ha preso tutte le misure necessarie e ragionevoli in suo potere per impedire o reprimere l’esecuzione o per sottoporre la questione alle autorità competenti a fini d’inchiesta e di azioni giudiziarie.
2.Per quanto concerne le relazioni fra superiore gerarchico e sottoposti, non descritte alla lettera a), il superiore gerarchico è penalmente responsabile per i reati di competenza della Corte commessi da sottoposti sotto la sua effettiva autorità o controllo, qualora egli non abbia esercitato un opportuno controllo su tali sottoposti nelle seguenti circostanze: a)essendo a conoscenza, o trascurando deliberatamente di tenere conto di informazioni che indicavano chiaramente che tali subordinati commettevano o stavano per commettere tali crimini; b) i crimini erano inerenti ad attività sotto la sua effettiva autorità e responsabilità; c)non ha preso tutte le misure necessarie e ragionevoli in suo potere per impedirne o reprimerne l’esecuzione o per sottoporre le questioni alle autorità competenti ai fini di inchiesta e di esercizio dell’azione penale.

…….

(Omissis)

Vediamo dunque di sintetizzare questa importante norma, enucleandone gli aspetti centrali.
Il paragrafo 1 disciplina la responsabilità dei comandanti militari e delle altre persone che agiscono come tali.
Il paragrafo 2 tratta delle relazioni gerarchiche tra superiori e subordinati.
In base al par.1, il comandante - o colui che agisce in tale veste - può essere responsabile penalmente solo se abbia “l’effettivo comando e controllo” o “l’effettiva autorità e controllo” delle forze(200); soltanto previo accertamento di tale elemento egli potrà essere responsabile per aver omesso di esercitare i suoi poteri di controllo, qualora:
a) sapeva o avrebbe dovuto sapere, tenendo conto delle circostanze del momento, che i suoi subordinati stavano commettendo un crimine;
b) non abbia preso tutte le misure necessarie e ragionevoli per prevenire il crimine o per deferire il colpevole alle competenti autorità.
Nei rapporti fra superiore e subordinato vale lo stesso principio, tenendo conto, comunque, che il subordinato è punibile solo se il crimine è compreso nella sua sfera di responsabilità e di controllo. Il superiore sarà invece responsabile, se egli abbia scientemente non tenuto conto delle informazioni chiaramente indicanti che il subordinato stava commettendo o che era sul punto di commettere un crimine.
Solo un’ultima considerazione può essere fatta a margine di tali previsioni che appaiono molto ponderate ed equilibrate. A prima vista, la norma potrebbe sembrare eccessivamente “pervasiva” per l’estensione con cui si è configurata la responsabilità di un comandante. Ma, in realtà, si deve rilevare come essa sia pienamente aderente non solo a quelli che sono i principi etici su cui ancora oggi si forma la figura del comandante, inteso soprattutto come il “responsabile dei suoi uomini”, ma soprattutto a quei principi - si potrebbe dire, più “laici” o comunque lontani da ogni enfasi militare - della scienza dell’organizzazione in base ai quali ogni struttura gerarchica ha un’autorità sovraordinata che non può delegare le responsabilità istituzionali che le sono conferite, e che deve vigilare sulla corretta esecuzione dei propri ordini e delle proprie direttive(201).

L’Art.31 sui motivi di esclusione dalle responsabilità penali potrebbe essere definito una norma “di chiusura” con cui, per completezza, l’opera di codificazione traccia definitivamente il cerchio in cui si racchiude la punibilità del reo(202). Oltre ai rituali richiami dei casi di “malattia” e “deficit mentale” - che nel nostro ordinamento corrispondono alla c.d. “incapacità di intendere e di volere”, invero alquanto discussa… - tra le cause di esclusione vengono sostanzialmente richiamate le esimenti della legittima difesa, dell’ adempimento di un dovere, e dello stato di necessità, della forza maggiore, del costringimento fisico e psichico (203). Va però precisato che le formulazioni dello Statuto (che, ricordiamolo, nasce da un compromesso tra Common Law e Civil Law) sono piuttosto differenti da quelle della legislazione penale nazionale, comune e militare.
L’Art.31 esclude la responsabilità, se la “persona” (l’agente in generale, e quindi anche il comandante):
- (par.1 lett.e): ha agito in modo ragionevole per difendere se stessa, per difendere un’altra persona, o, in caso di crimini di guerra, per difendere beni essenziali alla propria sopravvivenza o a quella di terzi, o essenziali per l’adempimento di una missione militare contro un ricorso imminente ed illecito alla forza, proporzionalmente all’ampiezza del pericolo da essa incorsa o dall’altra persona o dai beni protetti. Il fatto che la persona abbia partecipato ad un’operazione difensiva svolta da forze armate non costituisce di per sé motivo di esonero dalla responsabilità a titolo del presente capoverso. Come si può facilmente evincere dal testo, compaiono qui tutti gli elementi significativi della legittima difesa così come risultano definiti da un quadro consolidato e convergente di contributi dati da dottrina, giurisprudenza e normativa, nazionali e internazionali: la proporzionalità, l’imminenza e l’illiceità dell’offesa;
- (par.1 lett. d): il comportamento qualificato come sottoposto alla giurisdizione della Corte è stato adottato sotto una coercizione risultante da una minaccia di morte imminente o da un grave pericolo continuo o imminente per l’integrità di tale persona o di un’altra persona e la persona ha agito spinta dal bisogno ed in modo ragionevole per allontanare tale minaccia, a patto che non abbia inteso causare un danno maggiore di quello che cercava di evitare. Tale minaccia può essere stata I) sia esercitata da altre persone, o II) costituita da altre circostanze indipendenti dalla sua volontà.

A questo punto, è lecito porsi un quesito: e la necessità militare potrà essere ancora considerata - pur nella eccezionalità dei casi consentiti dal diritto umanitario - motivo di esclusione della responsabilità penale?
Nello Statuto non è espressamente disciplinata(204). Tuttavia, essa va letta in quel richiamo all’adempimento della missione, della lett.e dell’Art.31, ma soprattutto in una successiva previsione del par. 3 dell’Art.31, che di fatto è una norma di raccordo con l’Art. 21.
Il par.3 dell’ Art.31 prevede che la Corte può tenere conto di altri motivi di esclusione della responsabilità, se questi «discendono dal diritto applicabile enunciato all’Art.21», e tra questo sono indicati «i trattati applicabili ed i principi e le regole di diritto internazionale, ivi compresi i principi consolidati del diritto internazionale dei conflitti armati»(205), che - come è noto - in più parti richiamano la nozione di necessità militare, sebbene nei limiti della “proporzionalità” e della “inevitabilità” ampiamente tratteggiati dalla dottrina e dalla giurisprudenza internazionali.

Un’altra analisi più articolata va dedicata invece al tema dell’ordine superiore, che assume rilievo in riferimento alla sua non configurabilità di “esimente”, salvo che per alcuni casi eccezionali.
Recita l’Art. 33 dello Statuto:
«1. Il fatto che un reato passibile di giurisdizione della Corte sia stato commesso da una persona in esecuzione di un ordine di un governo o di un superiore militare o civile non esonera tale persona dalla sua responsabilità, salvo se (nda, non sono ipotesi “alternative”, ma “concorrenti”):
a) la persona aveva l’obbligo legale di ubbidire agli ordini del governo o del superiore in questione;
b) la persona non sapeva che l’ordine era illegale;
c) l’ordine non era manifestamente illegale.
2. Ai fini del presente articolo, gli ordini di commettere un genocidio o crimini contro l’umanità sono manifestamente illegali».
È evidente che la norma merita un esame approfondito(206), e forse per comprenderne la portata è opportuno fare alcuni riferimenti più ampi tanto all’esperienza “storica” che al vigente sistema di diritto positivo dell’ ordinamento nazionale.

Già l’Art.8 dell’ Accordo di Londra istitutivo del Tribunale di Norimberga disponeva che l’ordine superiore poteva essere preso in considerazione solo come circostanza attenuante: «Il fatto che l’imputato abbia agito per eseguire un ordine del suo Governo o di un superiore gerarchico non lo esenterà dalla responsabilità, ma potrà essere preso in considerazione come circostanza idonea a giustificare una diminuzione della pena, se il tribunale decide che ciò è conforme alla giustizia».La previsione è stata sostanzialmente recepita anche negli Statuti dei Tribunali per la ex Jugoslavia (art. 7 par.4) e per il Ruanda (art.6 par.4)(207).
Ma qui, per interpretare il disposto dell’art.33 dello Statuto, possiamo ampiamente riferirci al nostro “diritto di bandiera”: il problema dell’ ordine superiore costituisce un tema su cui la dottrina penalistica - e amministrativa - nazionale ha dato nel tempo un contributo essenziale, tant’è che l’ordinamento giuridico italiano è giudicato - proprio su questo punto - come uno dei più avanzati quanto alla definizione della norma di diritto positivo(208).
Dopo l’abrogazione dell’Art. 40 CPMP, l’ordine superiore è rientrato nella disciplina dell’Art.51 CP Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere, e dell’art. 4 della Legge 11 luglio 1978 n. 382 Norme di principio sulla disciplina militare (209). In base all’Art. 51 CP il reato va imputato tanto a chi ha dato l’ordine quanto a chi lo ha eseguito, tranne che la legge non consenta all’inferiore un sindacato sulla legittimità dell’ordine. Al riguardo, l’art.4 della L.382/78 - con l’art. 25 del DPR 18 luglio 1986 n.545 Regolamento di disciplina militare - obbliga il militare a non dare esecuzione ad un ordine che costituisca “manifestamente” reato. Si tratta dunque di un vero e proprio dovere di disobbedienza che però deve ritenersi limitato e circoscritto ad una illegittimità dell’ordine che sia manifesta, cioè “chiara e palese a prima vista” (210). Quanto alla giurisprudenza, il tema dell’ordine superiore è stato oggetto principale del Processo Haas e Priebke per l’eccidio delle Fosse Ardeatine(211). Il Tribunale Militare di Roma (sentenza del 13 settembre 1997), ancorché facesse riferimento all’abrogato art.40 cpmp, ha ritenuto che «l’ordine è manifestamente criminoso quando il tipo medio di persona è in grado di avvertirne il disvalore penale»; si tratta dunque di situazioni che non necessitano di particolari verifiche da parte dei subordinati, perché manifestamente criminose. Il Tribunale ha precisato che tale criterio oggettivo va integrato con due considerazioni di ordine soggettivo:
a) si può prescindere «dalla valutazione oggettiva della criminosità dell’ordine quando essa, anche se non manifesta, sia tuttavia investita della consapevolezza dell’agente»;
b) occorre tener conto «della valutazione che ciascun militare, in relazione alle particolarità operative del proprio servizio, può compiere dei vari elementi di fatto da cui dipende la constatazione della criminosità dell’ordine», comunque siano formulate.
In tale quadro, può così delinearsi una più chiara chiave di lettura dell’ Art.33 dello Statuto della Corte Penale Internazionale. La norma, nella sostanza, è incentrata sempre sul sindacato dell’ordine da parte dell’esecutore, riprendendo alcune riflessioni che erano state maturate dal Comitato Internazionale della Croce Rossa durante i lavori del I Protocollo Addizionale del 1977. In primo luogo, l’Art.33 stabilisce che in linea di principio l’ordine superiore non costituisce un esimente, tranne che l’esecutore materiale avesse l’obbligo giuridico di eseguire l’ordine, non sapesse che l’ordine era illegittimo o che l’ordine non fosse manifestamente illegittimo. In ogni caso, per il genocidio e i crimini contro l’umanità lo Statuto introduce una «presunzione iuris et de iure di manifesta illegittimità dell’ordine»(212). Per i crimini di guerra invece l’ordine superiore può assumere rilievo se il subordinato dimostrerà che non conosceva l’illegittimità dell’ordine, e che questo non era manifestamente illegittimo.

Sul punto Ronzitti ha evidenziato: «…il tecnicismo giuridico impedisce talvolta di conoscere l’illegittimità dell’ordine. Il principio ignorantia legis neminem excusat è di difficile se non impossibile applicazione nel caso concreto. Si pensi ad esempio ad un ordine che può sembrare, prima facie, come illegittimo, ma che viene intimato come rappresaglia in kind. Come può il subordinato, specialmente se si tratta di un semplice soldato, ragionevolmente presumerne la illegalità?»(213)… tanto più che sull’altro piatto della bilancia del proprio discernimento quel soldato avrebbe anche le conseguenze di un possibile processo per il reato di disobbedienza.
Al riguardo, deve però rilevarsi che l’Art. 8 dello Statuto potrà consentire di attenuare l’indeterminatezza di questo tema ancora discusso del Diritto Umanitario; sul punto, come abbiamo visto, l’Art. 8 è ampiamente esplicativo, atteso che contiene una lista molto dettagliata dei crimini di guerra, la cui ignorantia oggi potrà essere difficilmente invocata almeno in ordine alla imputazione dei fatti più gravi ed evidenti: se potrà essere oggetto di differente valutazione un bombardamento che ha prodotto “danni collaterali” sulla popolazione civile, dubbi non vi saranno invece, ad esempio, per la coercizione diretta, la tortura, i trattamenti disumani e degradanti, lo stupro e le altre forme di violenza indiscriminata rivolta in particolare ai non combattenti, alla popolazione civile.


(184) - Cfr.: P. Verri, in Dictionaire du droit international des conflits armès ,CICR, 1988, alla voce Responsabilité: «…Le droit des conflits armés prévoit également une responsabilité pour les commandants militaires qui : a) donnent à leurs suboreonnés l’ordre de violer les règles de ce droit; b) n’empechent pas de telles violations;c) ne les répriment pas. Enfin, chaque militaire encourt une responsabilité directe pour les infractions qu’il a lui-meme commises. (cfr.H IV art.3, G I art.47, 49-51; G II art.48, 50-52; G III art.127.129-131; G IV art.144, 146-148; GP I art.83,85-87,91; GP II art.19)» p.. 108, Sul tema v.: N. Ronzitti, Il Diritto Internazionale dei Conflitti Armati, Giappichelli, 1998, p. 150 ss.; N. Bar-Yaacov, Responsibility of Command in Gutman-Rieff, Crimes of War, WW Norton, 1999 (trad. it. a cura di Contrasto-Internazionale, Roma, 1999); W. Fenricky, Art. 28 Responsibilty of commenders and other superior, p. 515 ss., e O. Triffterer, Art.33 Superior orders and prescription of law, p. 573 ss. in O. Triffterer, (ed.) Commentary on the Rome Statute of the International Criminal Court, Baden Baden Noomos Verlagsgesllschaft, 1999.
(185) - Levie (ed.) Documents of Prisoners of War, 294 ss.; Ronzitti, cit.; Bar Yaacov, cit. Per le responsabilità penali in generale accertate dai processi dei Tribunali di Norimberga e Tokio si rinvia a quanto già detto in parte I.
(186) - Bar Yaacov, cit., p. 318.
(187) - V. ante, riferimenti al dibattito sui fondamenti giuridici dei due Tribunali, che- ricordiamo- furono istituiti non a seguito di accordi e convenzioni, ma con Risoluzioni delle NU. Il caso Tadic, l’effettività dell’operato dei due Tribunali e i più autorevoli orientamenti dottrinali hanno comunque superato le iniziali riserve, per lo più strumentalmente adoperate dalle parti in causa. Sul tema cfr.: A. Cassese, The International Crimibnal Tribunal for the Former Yugoslavia: Some general remarks in Studi in ricordo di Antonio Filippo Panzera, vol. I, Bari, 1995; Lattanzi-Sciso (a cura di), Dai Tribunali Penali internazionali ad hoc ad una Corte permanente, Ed. Scientifica, 1996; R. Sapienza, La crisi bosniaca e l’istituzione del Tribunale Internazionale delle Nazioni Unite per la ex Yugoslavia in Diritto Internazionale. Casi e materiali, Giappichelli, 1999; G. Vassalli, La Giustizia Penale Internazionale; Giuffrè, 1995; R. Sapienza, La crisi bosniaca e l’istituzione del Tribunale Internazionale delle Nazioni Unite per la ex Yugoslavia in Diritto Internazionale. Casi e materiali, Giappichelli, 1999.
(188) - Sul tema particolare rilievo è stato dato ai Cases Akayesu (n. ICTR-86-4-T, Judgement 2 sept. 1998) e Celibi (c/ Zelnl Delalic, Zdravo Music alias Pavo, Hazim Delic, e Esad Landzo alias Zenga, n. ICTY IT 96-21-T Judgment 16 nov. 1998).
(189) - Su queste pronunce giurisprudenziali, invero, non si dispongono di sufficienti elementi valutativi sull’aspetto che verrebbe subito posto alla base dell’ accertamento di un processo penale di “modello” italiano: la qualificazione dell’elemento soggettivo; il problema che si dovrà porre con maggiore chiarezza è sui casi di configurazione del dolo specifico (l’avere avuto comunque il proposito di incoraggiare perché specificamente fosse commesso il crimine), ovvero del solo dolo generico (che può concretizzarsi nella mera conoscenza da parte del comandante che la sua condotta avrebbe aiutato l’autore d’un crimine a commettere il misfatto) , con le conseguenti implicazioni sulla configurabilità del dolo eventuale e della colpa cosciente. Cfr.: Antolisei, op. cit. In ogni caso ci sembra di poter comunque evidenziare che la “conoscenza” da parte del comandante dovrà essere l’elemento su cui l’accusa dovrà raccogliere più elementi circostanziali.
(190) - Per una teoria generale della condotta “attiva” v.: L’azione in F. Antolisei, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, cap. II, L’elemento oggettivo, pag.219, Giuffrè 1997, v.ultra.
(191) - Cfr.: op. cit. in nota precedente, v. L’omissione p.220, v. ultra.
(192) - I «comportamenti anodini» sono stati più volte riconosciuti elementi di colpevolezza nella giurisdizione dei Tribunali Internazionali dell’ex Jugoslavia e del Ruanda, v. ultra.
(193) - Sui contenuti generali dell’ordine come atto giuridico, v. ultra.
(194) - Per un approfondimento analitico e strutturale dell’articolato cfr.: K. Ambos, Article 25 Individual criminal responsability p.475 in: O.Triffterrer (Ed.), Commentary on the International Criminal Court, Nomos Veragsgesellschaft, Baden Baden, 1999. Invevro, per un’analisi più approfondita, la norma andrebbe letta in combinato con l’Art.31 (Cause di esclusione della responsabilità), v. ultra, e con l’Art.32 (Errore di fatto o di diritto); cfr. O. Triffterer, p.555 op. cit.
(195) - Cfr.: F. Antolisei, Manuale di Diritto penale, Parte generale, Cap. III L’elemento soggettivo, Giuffrè, 1997; v. in particolare Sez. VII Le cause soggettive di esclusione del reato (145. Mancanza del nesso psichico, 146.L’errore in generale, 147.L’ignoranza della legge penale, 148. L’errore sul fatto, 149. L’errore sulla legge extrapenale, 150. I casi di aberratio, 151. La c.d. inesigibilità pagg. 315-427. V. anche in Cap. II L’elemento oggettivo par. 93 Il pericolo , pag. 229. R. Venditti, Il Diritto Penale Militare nel Sistema Penale Italiano, v. Cap. III L’elemento soggettivo nella struttura del reato militare, Giuffrè, 1997, pagg. 128 e s.
(196) - Sul punto, per uno specifico approfondimento sugli attuali orientamenti in ambito internazionale, cfr.: D.K. Piragoff, Mental Element in O. Triffterrer (Ed.) Commentary on the Rome Statute of the International Criminal Court, cit., pag. 527 e s. In particolare, dell’A. ci sembra significativo il passaggio : »«...Under the unfluence of Canon Law and Roman Law a a requirement for some element of moral blameworthiness- a guilty mind - was imposed by the Court. This requirement has been expressed in the Latin maxim: actus non facit reum nisi mens sit rea.It is a basic requirement of modern legal system». V. anche ante a proposito della giurisprudenza del Tribunale per la ex Jugoslavia.
(197) - Ricordiamo sommariamente che nel concetto di “colpa” vanno ricomprese l’imprudenza, l’imperizia, la negligenza, l’inosservanza di norme e regolamenti, etc. Art. 43 del C.P. Cfr.: Antolisei, op. cit.
(198) - Sul tema di particolare rilievo i contributi di N. Ronzitti, La Corte Penale Internazionale, i crimini di guerra e le truppe italiane all’estero in missione di pace , ricerca CeMiSS 34/N 2000, v. Cap.V par. 21 La responsabilità dei comandanti , pag. 112 e s.; W.J. Fenrick, Responsability of commanders and other superiors , p. 515 e s. in O. Triffterer, op. cit.
(199) - V. in pagina successiva l’estratto relativo all’Art.28 dello Statuto della Corte Penale Internazionale.
(200) - La previsione sembra recepire le riserve che erano state espresse per il caso Yamashita V. ante.
(201) - Sul tema, con specifico riferimento all’evoluzione del modello gerarchico militare, C. Moskos, Sociologia e soldati, CeMiSS; P. Isernia, Gestione delle crisi: metodologie e strumenti, ed. Riv. Mil. 1994; C. Pelanda, Evoluzione della guerra, F. Angeli, 1996 v. in particolare Cap.III Il mutamento nei requisiti della guerra e nell’organizzazione delle Forze armate, p.49 e s.; N. Ronzitti (a cura di), Comando e Controllo nelle Forze di Pace e nelle Coalizioni Militari, IAI-F. Angeli, 1999. In un approccio interdisciplinare con la Scienza dell’Organizzazione, vanno ricordate le teorie “classiche” di F.Taylor (Scientific management), H. Fayol (Direzione industriale e generale), M. Weber, (essenzialmente orientato ad analizzare i rapporti buraocrazia-potere, v. Economia e Società, ed. Comunità, 1968), nonché quelle “innovative” degli anni ’30-’60 della Scuola Comportamentistica di Hayo; Argyris; Maslow, e delle Management sciences di Bernard e Simon, sino ad arrivare all’idea, degli anni ’60, di organizzazione come sistema aperto, fatto flessibile che si deve adattare ai cambiamenti, di Burns e Stulker (The management of innovation, 1961) e di lawrence e lorsch (Organization and Environment, 1967), nonché ai più recenti approcci “cibernetici” ed informatici di Ashby e Beer (L’azienda come sistema cibernetico, ISEDI, 1973), Alvin e Toffler, e alle “strutture reticolari” od “orizzontali” in cui assumeranno rilievo le “analisi per funzioni” e le “analisi per processi” nella configurazione delle moderne strutture organizzative. In ogni caso, nonostante tale evoluzione - qui appena accennata - per l’assunto in riferimento sono comunque consolidate le definizioni-chiave relative alla responsabilità: il concetto di organizzazione come struttura di ruoli è in stretta connessione con quello di gerarchia, intesa come il “mezzo” attraverso cui viene posto in atto il principio di responsabilità; la responsabilità è inoltre "la fonte dell’autorità", che a sua volta si esercita attraverso il comando ( o la direzione), cfr. Teorie organizzative fasc. SSM-SO/11 Servizio di Stato Maggiore e Scienza dell’Organizzazione Scuola di Guerra di Civitavecchia. Per più ampi riferimenti cfr.: A. Etzioni, Sociologia dell’organizzazione, Il Mulino, Bologna, 1967; Iseo, Fondamenti di direzione e organizzazione aziendale, F. Angeli, Milano, 1981; S. Zan, Logiche d’azione organizzativa, il Mulino, Bologna,1988; D.De Masi - A.Bonzanini (a cura di), Trattato di sociologia del lavoro e dell’organizzazione, F. Angeli, Milano, 1988; M.S. Hatch, Teoria dell’organizzazione, il Mulino, Bologna, 1999; F. Ferrarotti, Manuale di Sociologia, Laterza Roma-Bari, ed.2001; L. Gallino, voce Organizzazione in Dizionario di sociologia, UTET, Torino, ed. 2001; M.V. Sarao - W. Levati, La configurazione specifica delle competenze, da Sviluppo e Organizzazione, n.168 Luglio/Agosto 1998.
(202) - Cfr.: A. Eser, Article 31 Grounds for excluding criminal responsability , p.537 e s., in O. Triffterer, op. cit.
(203) - Anche in questo caso ci soccorrono gli elementi interpretativi elaborati sul piano della dottrina penalistica del diritto interno, che nella fattispecie si riferiscono alle cause “oggettive” di esclusione del reato, cfr.F. Antolisei, op. cit. p.266 e s.
(204) - Anche se, per essere più precisi, la nozione di necessità militare si può rinvenire incidentalmente in alcune previsioni dello Statuto: es. Art. 8 lett.b.IV, lett..b.XIII, lett.e.VIII. Sul tema, in generale, cfr.: G. Venturini, Necessità e proporzionalità nell’uso della forza militare in diritto internazionale, Giuffrè, Milano, 1988.
(205) - Cfr.: M. Mc Aulife de Guzman, Article 21 Appliable Law, in O. Triffterer, op. cit., p. 435 e s.
(206) - Sul tema cfr.: O. Triffterer, Article 33 Superior orders and prescription of law, op. cit., p. 573 e s.
(207) - Cfr.: Ronzitti, Lo Statuto della Corte penale internazionale…, cit., 114 ss.
(208) - Nella dottrina penalistica, Antolisei Manuale di diritto penale, Giuffrè, 1997, v. Parte Generale p. 273 ss., si ricorderà che l’ordine superiore assume rilievo di causa di esclusione in riferimento all’elemento oggettivo del reato, come ipotesi dell’adempimento del dovere ex art.51 c.p. Cfr. anche: Bettiol, L’ordine dell’autorità nel Diritto Penale, Milano, 1934; Santoro, L’ordine del superiore nel diritto penale, Torino, 1957; Magiore, Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere in Diritto Penale Militare, App.III, 1982, 488 ss.; Brunelli - Mazzi, Diritto Penale Militare, Milano, 1994, pp-93 ss. Più ampiamente a proposito dell’ordine in generale come atto giuridico, di norma caratterizzante l’esplicazione di poteri ablativi nel diritto amministrativo v.: F.Bassi, Ordine (dir.amm.) in Enciclopedia del Diritto, Vol.XXX, p.995-1008; Giuffrè,1980; A.M. Sandulli, Manuale di Diritto Amministrativo, Jovene, 1984; e con specifico riferimento all’ordinamento miliare V. Bachelet, Disciplina Militare e Ordinamento Giuridico Statale, Giuffrè, 1962; A. Intelisano, Introduzione ai principi della disciplina miliare in Rassegna della Giustizia Militare, 1987; S.Riondato, Il nuovo ordinamento disciplinare delle Forze Armate, CEDAM, 1987; E. Boursier Niutta - A.Gentili, Codice di disciplina militare, Jasillo,1991; R.Tallarico, L’obbligo di motivazione con particolare riferimento agli ordini militari in Consiglio di Stato, Rass. Italedi, n.3, marzo 1997.
(209) - Nuvolone, Valori costituzionali della disciplina militare e sua tutela nel codice penale militare di pace e nelle nuove norme di principio in Rassegna Giustizia Militare, 1979, 21 ss.
(210) - Ronzitti, Diritto Internazionale dei Conflitti Armati, cit., p. 150 ; Venditti, Il diritto penale militare nel sistema penale italiano, Milano, 1992, 184 ss. Per Brunelli - Mazzi, Diritto Penale Militare, cit., p.102 «...la violazione di un dovere di disobbedienza non può, di per se sola, valere come fondamento di una imputazione dolosa». Il tema è qui trattato con evidenti esigenze di sintesi, tenendo conto che l’analisi è stata sviluppata in dottrina secondo altri molteplici profili; si pensi alla problematica delle modalità di rilevabilità dell’ordine, che - in alcune circostanze e per alcune categorie, impiegati civili e forze di polizia ad ordinamento non militare - può essere ripetibile ed in forma scritta.
(211) - Sacerdoti, A proposito del caso Priebke: la responsabilità per l’esecuzione di ordini illegittimi costituenti crimini di guerra in Rivista Diritto Internazionale, 1997, 130 ss.
(212) - N. Ronzitti, La Corte penale internazionale…, cit., p. 116.
(213) - Ivi, p. 117.