Le figure speciali di usurpazione (artt. 287 C.P. e 114 C.P.M.P.)

1. Individuazione del campo di indagine

Ulteriore aspetto da approfondire, in seno alla dottrina dell’usurpazione, è senza dubbio quello afferente a quei fenomeni di gestione del potere pubblico che inevitabilmente contrassegnano i periodi di crisi politico-istituzionali.
Ciò, non tanto a cagione della necessità di discernere da eventuali istituti similari sotto il profilo penalistico, dato che è incontroversa la classificazione di questi episodi nei termini di usurpazione,quanto per cogliere l’occasione di trattare delle figure “minori” di usurpazione sovente trascurate dalla dottrina penalistica, quale soprattutto l’usurpazione di potere politico o di comando militare.
Per quanto attiene, anzitutto, la qualificazione giuridica dell’operato di soggetti, i quali, approfittando del marasma istituzionale cagionato da profonde crisi politiche, da vicende belliche ed altri eventi di eccezionale portata si sostituiscano agli organi legittimamente investiti di potestà pubbliche, si è avuto già modo di accennare alla assoluta prevalenza, in seno alla dottrina pubblicistica, della tesi che propende per la soluzione della usurpatorieta'.

In effetti, in simili evenienze, l’autoassunzione di funzioni da parte dell’agente in questione, avviene senza dubbio contro la volontà - espressa o presunta che dir si voglia - dello Stato-amministrazione : pertanto, viene a mancare, nell’agente stesso, ogni parvenza della legittimazione ad agire. Ne consegue che, all’operato del soggetto in questione, non consegua quello che, tecnicamente, può chiamarsi atto amministrativo; si avrà, invece, “un atto privo di qualsiasi valore, salvo che per gli effetti che può avere come causa di responsabiltà penale”.
Distinta opportunamente questa estrema ipotesi di usurpazione di pubbliche funzioni dai casi di esercizio di fatto “spontaneo” delle medesime in casi di calamità pubbliche, ci apprestiamo, seguendo la stessa falsariga finora sperimentata, ad esaminare il fenomeno nel contesto del diritto pubblico (e diciamo “pubblico” proprio in quanto il tema in discorso, concernendo rapporti tra diversi ordinamenti giuridici, tocca anche il diritto internazionale) per poi sondare la questione secondo un’ottica prettamente penalistica.

Primo passo da compiere, è senza dubbio la corretta delimitazione del problema.
Infatti, dal novero degli usurpatori vanno esclusi, per giurisprudenza consolidata, quegli agenti di fatto i quali esercitano pubbliche funzioni con l’avallo delle Autorità dello Stato occupante. Ciò, non solo in virtù della pur incontrovertibile considerazione a mente della quale si tratta, sostanzialmente, di “assicurare le condizioni indispensabili per lo svolgimento della vita civile”.
Infatti tale potere-dovere ha, anzitutto, un fondamento giuridico esplicito nell’art.43 dei regolamenti annessi alle convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 ed in diverse disposizioni della Convenzione di Ginevra adottata all’indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale (12/8/1949).
In secondo luogo, poi, la dottrina ha esattamente notato come, data la estrema latitudine dei poteri dell’occupante-ed a cui corrisponde, in sostanza, una sorta di debellatio dello stato occupato - è pressoché immancabile che tra essi rientri quello di supplire agli organi istituzionali di quest’ultimo:ne consegue che la tolleranza degli organi dello stato occupante verso fenomeni di esercizio di fatto di pubbliche funzioni è da ritenersi valutabile negli stessi termini in cui, in condizioni di normalità, ha vita la figura del funzionario di fatto.

In base a siffatti principi, ad esempio, è stato ritenuto non usurpatore, bensì pubblico ufficiale colui il quale faccia parte, con funzioni di segretario comunale, di un Comitato civico costituito durante il conflitto bellico in zona di operazione soggetta ad occupazione militare da parte delle Forze Alleate, in seguito ad investimento da parte dell’Autorità militare degli occupanti stessi.
Sicché il campo di indagine va ristretto a quegli atti, compiuti su quello che è tuttora il territorio nazionale italiano da soggetti che agivano per conto di sedicenti ordinamenti giuridici giammai riconosciuti come tali - cioè, in nessun momento storico - dallo Stato italiano: è dunque evidente che la casistica si arresta alla Repubblica Sociale Italiana.

2. Segue: Lo "strano caso" della Repubblica Sociale Italiana

Respinte le tesi oltranziste per le quali la RSI fu“un nulla” politico-costituzionale in forza dell’incontestabile dato che essa ebbe un territorio governato, per il breve lasso di tempo della sua esistenza, da propri organi costituzionali ed amministrativi, si è qualificato il fenomeno giuridico in questione come “governo di fatto”, aggiungendosi, peraltro, che “di fatto sta a significare che storicamente fu un governo perdente”, ed, in particolare, che non di uno Stato si trattò, bensì “di fatto di secessione di un Stato preesistente”, non avente come fine la creazione di un nuovo Stato. In definitiva, pur dovendosi riconoscere che, come in tutti i casi di caos politico-istituzionale cagionati da uno stato di belligeranza, il giudizio finale è assegnato dalla storia, con la negazione del carattere statuale della RSI, si finisce ineluttabilmente per assegnare al Governo della stessa natura di usurpatore di funzioni politico-amministrative, come del resto è comprovato dall’ avvenuta autoassunzione, da parte dello stesso, di potestà normative ed amministrative, senza che ciò, come si è appena visto, si accompagnasse, come invece sarebbe stato naturale, al carattere di statualità dell’ordinamento in questione.

La riconduzione della RSI all’ipotesi di usurpazione di funzioni politiche, solo implicitamente ammessa dal Giannini, trova, in seno alla dottrina amministrativistica, un autorevole ed esplicito avallo nelle parole del Sandulli, il quale parla, recisamente, di “governo usurpatore”. L’ipotesi in discorso presenta, sul piano prettamente giuspubblicistico, un particolare interesse, in quanto può accadere che l’ordinamento usurpato-come è accaduto per quello italiano con il d.lg.5/10/1944, n. 249-faccia propri o comunque disciplini giuridicamente con apposite fonti normative gli effetti di taluni atti posti in essere dal governo usurpatore allorchè quest’ultimo poteva vantare effettività di poteri.
Che poi soltanto alcuni degli atti posti in essere dall’usurpatore politico siano stati, per così dire, “ratificati” dallo Stato italiano rientra certamente in un discorso logico ma prima ancora giuridico:infatti, ad avviso della dottrina amministrativistica dominante, esiste un principio tradizionale in seno al diritto pubblico a mente del quale, qualora il potere dell’usurpatore sia stato effettivo, l’azione da questo disbrigata nel campo degli affari correnti - espressione attraverso la quale si fa riferimento agli atti che non comportano scelte fondamentali, nonché quelli da porre in essere a scadenze necessarie - può effettivamente considerarsi operante per l’ordinamento usurpato. Questa illazione, riguardo agli atti attribuibili alla RSI, ha trovato pieno riscontro nel testo dell’art. 4 del prefato d. lg. N. 249/1944, a mente del quale sono stati dichiarati produttivi di effetti ope legis nell’ordinamento italiano gli atti di stato civile, le iscrizioni di ipoteche, le trascrizioni immobiliari, le operazioni catastali. Trattasi di atti “di natura certatoria”, il che conferma in pieno la attendibilità della considerazione appena riferita.

Si può, dunque, concludere nel senso che sul piano delle conseguenze amministrative la usurpazione di un potere politico non conduce immancabilmente alla inesistenza degli atti dall’usurpatore posti in essere, con la dovuta precisazione che la natura degli atti “salvabili” giammai sarà, per ovvie ragioni, di natura politica, attingendo invece, come testimonia la vicenda giuridica della RSI, la sfera del diritto privato e/o del diritto amministrativo.

3. Rilevanza penale della usurpazione di un potere politico. L'art. 287 c.p.

Passiamo ora a considerare la rilevanza, stavolta sul versante prettamente penalistico, della usurpazione che si risolva in una appropriazione arbitraria di un potere politico.
Ci imbattiamo, allora, in una norma incriminatrice diversa da quella, studiata finora, di cui al 1°comma dell’art.347 c.p., in effetti tesa, lo si ricorderà, a tutelare da interferenze estranee l’esercizio di una pubblica funzione e le attribuzioni afferenti ad un pubblico impiego.
Ebbene, l’art.287 del c.p.- rubricato “usurpazione di potere politico o di comando militare”- dispone che” chiunque usurpa un potere politico, ovvero persiste nell’esercitarlo indebitamente, è punito con la reclusione da sei a quindici anni.
Alla stessa pena soggiace chiunque indebitamente assume un comando militare”.

Si tratta di una incriminazione che, in virtù della speciale rilevanza - rilevanza, per l’appunto, di carattere politico - del bene giuridico tutelato, ed essendo posta nel contesto dei delitti contro la Personalità dello Stato, si pone indubbiamente in rapporto di specialità nei riguardi della usurpazione di pubbliche funzioni.
Quale la genesi della norma in discorso?
Invero la risposta al suddetto quesito postula il compimento di una analisi prima di tutto storica, in quanto, il principio punitivo espresso dall’art. 287 c.p. costituisce una novità assoluta per il nostro ordinamento giuridico per quanto attiene, segnatamente, alla usurpazione di potere politico. Insegna, infatti, la dogmatica tradizionale che né il codice Zanardelli, né , tantomeno, il codice sardo-italiano conoscevano l’incriminazione della usurpazione di potere politico. Essa, invece, risale, almeno per quanto riguarda l’età contemporanea, al codice napoleonico del 1810, e, nella tradizione giuridica preunitaria, all’ottimo Codice penale del Regno delle due Sicilie. Dal canto suo, infatti, e in perfetta aderenza, diremmo, con lo spirito individualistico-liberal-borghese dell’epoca, il codice del 1889, sanzionava, all’art.121, la sola usurpazione di un comando militare, non prevedendo, inoltre, alcuna circostanza aggravante.

Ci rifacciamo, una volta di più, alla testimonianza del Guardasigilli: “Riparando ad una lacuna del codice del 1889, il presente articolo prevede non soltanto l’ipotesi di colui che indebitamente assume un alto comando militare, ma anche quella di colui che usurpa un potere politico, ovvero persiste nell’esercitarlo indebitamente. Non è dubbio che così, nell’una come nell’altra ipotesi, il colpevole pone in pericolo la sicurezza dello Stato”.
Dunque, secondo il Ministro, e coerentemente alla concezione imperante all’epoca della codificazione della eticità e del totalitarismo statale, il bene giuridico tutelato attraverso l’incriminazione in discorso consiste nella sicurezza dello Stato.
Riservandoci di vagliare alla luce degli studi compiuti successivamente dalla dottrina la esattezza di questa affermazione, proseguiamo nel riportare l’assunto del Relatore.

Dice ancora il Rocco:“ L’usurpazione di un potere politico non costituisce soltanto una lesione della Pubblica Amministrazione, come dovrebbe essere considerata sotto l’impero del Codice del 1889 (articolo 185), nel quale manca una disposizione analoga a quella della prima parte dell’articolo in esame. La condotta del colpevole assume contenuto e forma di aperta ribellione ai poteri dello Stato. Essa costituisce la negazione di una delle più gelose attribuzioni che spettano al Capo dello Stato ed al Governo, qual è quella relativa alla investitura di funzioni politiche: come nel caso in cui taluno assume indebitamente le funzioni di Ministro, Ambasciatore o Prefetto…”. Notevole è la rilevanza di queste annotazioni.
Infatti non soltanto trova conferma l’assunto della specialità dell’art. 287c.p. rispetto alla usurpazione di pubbliche funzioni, ma si sancisce la pertinenza, sia pure lato sensu, della usurpazione di funzioni politiche, alla Pubblica Amministrazione. Del resto, il Governo ed i Prefetti non sono forse parte dello Stato-amministrazione?
Quanto poi alla usurpazione di un alto comando militare, si è recentemente ritenuto, da una dottrina assai autorevole, che essa abbia una carica offensiva analoga alla altra ipotesi prevista dall’art.287. Difatti, sostanzialmente, la usurpazione di un alto comando militare equivale, rispetto ai meccanismi dell’istituzione, all’assunzione, senza investitura, di poteri politici. Ne consegue che è “giustificata la sua equiparazione alla usurpazione di potere politico”.

Ciò sottolineato, è opportuno chiedersi se rimangano tuttora valide le considerazioni effettuate dal Guardasigilli in ordine al bene giuridico tutelato dall’incriminazione in discorso, identificato dalla Relazione, e con il conforto della dottrina tradizionale, nella sicurezza dello Stato. Riteniamo che questa posizione tradizionale, pur contenendo un indubbio fondo di verità, vada parzialmente integrata, soprattutto alla luce delle-sia pure scarse-esatte osservazioni compiute dalla dogmatica penale moderna.Difatti, ci si è giustamente chiesti come mai le disposizioni incriminatrici di cui al titolo primo del Codice Penale siano, in sostanza, rimaste immutate nell’Italia Repubblicana, nonostante il legislatore del 1930 avesse espressamente ammesso di essersi ispirato alla concezione etica dello Stato, oggi, oramai, soprattutto a cagione delle implicazioni ideologiche di cui è foriera, concordemente respinta.
In proposito, assai finemente, si è rilevato che “le tendenze derivate dalla destra e dalla sinistra hegeliana ed i vari orientamenti moderni che a queste tendenze possono in qualche modo ricondursi, almeno per fissarne l’ideale contrapposizione, ebbero questo in comune: la consapevolezza che dovesse superarsi l’idea di nazione come somma di valori individuali... per congiungere a questa idea un significato idoneo ad interpretare la funzione propulsiva dello Stato moderno che non si esaurisce nella tutela delle libertà individuali, ma rivendica autonomia di compiti e decisioni, rispetto alle volontà individuali confluenti nella rappresentanza.”. Sicchél’idea di nazione congiunta a quella di libertà costituirebbe un punto fermo per intendere il contenuto degli artt.276/93 c.p., oltre che delle varianti ad essi apportate nel secondo dopoguerra.

Inoltre, più di recente, un’autorevole dottrina ha giustamente posto l’accento, riguardo all’oggetto della tutela penale del reato ex art. 287 c.p. sul potere che è oggetto della usurpazione, notando, peraltro non in difformità dal Guardasigilli, come siamo di fronte - in tema di potere politico e militare - alle più gelose prerogative della sovranità. Ponendo, dunque, quanto a rilevanza sostanziale, sullo stesso piano l’offesa allo sconvolgimento totale (“dalle fondamenta”)del potere politico e militare, si arriva a dire che, in entrambi i casi, è tutelata la identità della istituzione con se stessa. Pertanto, il bene giuridico tutelato attraverso l’incriminazione in discorso non è propriamente la sovranità in sé, ma - volendo accedere alla concezione endiadica propostaci dal Pagliaro - il suo attributo più importante. Ma cosa deve intendersi per potere politico nel diritto penale?
Rifacendoci, soprattutto in forza del principio di necessaria tassatività della fattispecie penale, alla dottrina che da ultimo si è occupata ex professo della questione, aderiamo alla tesi che configura il potere politico come la potestà di compiere atti di governo. Di conseguenza, risponderà di usurpazione di potere politico chiunque si arroghi funzioni proprie del Corpo elettorale, delle Assemblee legislative, del Governo, della Corte Costituzionale, del Capo dello Stato e del Presidente del Consiglio dei Ministri, con la esclusione, per questi ultimi due , delle funzioni di semplice rappresentanza. Regna, invece, concordia assoluta, tra gli studiosi, sul fatto che l’usurpazione del potere politico di un organo collegiale può avvenire solo allorquando ci si appropri, da parte di uno o più soggetti, dei poteri dell’intero collegio.

b) Segue. Rapporti con l’art.114 c.p.m.p.

Il vero punctum pruriens dell’art. 287 c.p. concerne l’usurpazione dell’“alto comando militare”, formula questa, la quale pone, come stiamo per vedere, un problema di actio finium regundorum con il reato punito dall’art. 114 del Codice penale militare di pace, rubricato col titolo usurpazione di comando.
Quest’ultima norma si caratterizza, rispetto alla “corrispondente” figura di cui all’art. 287 c.p., sia in quanto il soggetto attivo è sempre un militare, sia perché non richiede che ad essere oggetto di usurpazione sia un “alto” comando.
Pacifica l’applicabilità dell’art. 287 c.p. allorchè un militare usurpi un potere politico, si è sottolineato come, qualora un appartenente alle Forze Armate si impadronisca arbitrariamente di un comando militare, “alto” o “basso” che dir si voglia, si adatterebbe al caso di specie la norma punitiva di cui all’art. 114 del c.p.m.p.
Pertanto, si continua coerentemente, se il comando militare usurpato non è alto, mentre l’art. 287 c.p. non è applicabile per evidente carenza di un elemento costitutivo del reato, non sarà applicabile neppure il prefato art. 114 c.p.m.p. qualora il fatto non sia compiuto da un militare od equiparato. A

vremo, bensì, a seconda della offensività del fatto commesso-e cioè riguardando se esso siasi risolto semplicemente coll’arrogarsi una o più prerogative simboliche dell’appartenenza ad un corpo od ordine professionale oppure con uno o più atti di esercizio della potestà agli ordini in questione riconosciute-la ricorrenza degli estremi di cui agli artt.498 e 347 c.p.. Ma cosa deve intendersi per “alto comando militare” ?
Quid iuris nell’ipotesi in cui un militare usurpi un alto comando militare?
Evidentemente si deve esaminare anzitutto il primo quesito; e ciò non solo in quanto sulla risposta ad esso la dottrina risulta divisa, ma anche perché la sua risoluzione permetterà una esatta delimitazione della sfera applicativa delle due norme incriminatrici in discorso.
L’indirizzo tradizionale, il quale - come spesso ci è capitato di riscontrare-si basa sul dictum della Relazione al progetto di codificazione -, intende il concetto di alto comando in senso non assoluto, bensì relativo: si dovrebbe, insomma, far riferimento non esclusivamente alle grandi unità militari, bensì anche comandi militari del tutto o parzialmente autonomi, comandi di posti isolati, di reparti di truppe, di stabilimenti militari, e persino di singole navi o aeromobili, allorchè “ dall’usurpazione di tali comandi sorga un pericolo per la sicurezza dello Stato”. Residuerebbe, in tal modo, uno spazio applicativo modesto per l’art. 114 c.p.m.p , il quale troverebbe, in sostanza, applicazione per le usurpazioni di comando commesse da militari ed equiparati, allorchè il fatto non sia idoneo a porre nemmeno in pericolo il bene protetto dall’art. 287 c.p.

Il contrapposto e prevalente indirizzo, ritiene, invece, coerentemente con il concetto di potere politico al quale affianca, in termini di rilevanza sostanziale, quello di alto comando militare, che siano “alti”quei comandi militari i quali, per la loro importanza strategica, assumono valenza politica. Si tratterebbe, insomma, di quei comandi che vengono attribuiti non per ordinaria amministrtazione, anche dietro proposta dell’Autorità militare, ma “per autonoma iniziativa del Governo che discute ex professo e delibera la legale investitura, avvalendosi dei relativi poteri costituzionali”. Rientrano in quest’ambito il comando supremo delle Forze Armate, dell’Esercito, della Marina, della Aeronautica, di un corpo d’armata, della flotta, di una squadra navale od aerea, nonché la funzione di Capo di Stato Maggiore, anche delle singole Armi. Di conseguenza, ogni usurpazione di comandi diversi - vale a dire, di comandi di rilevanza non politica - compiuta da un militare od equiparato, verrebbe a cadere sotto le sanzioni, più lievi nel minimo, dell’art.114 c.p.m.p. Questo secondo indirizzo, a nostro modesto modo di vedere, riveste i pregi di una maggiore aderenza all’indirizzo costituzionalmente orientato di interpretazione dei beni giuridici tutelati dai delitti contro la Personalità interna dello Stato e della restituzione della giusta dimensione applicativa all’art. 114 c.p.m.p.
Non va infatti dimenticato che il vigente codice penale militare è successivo di undici anni al Codice Rocco, cosa che ha cagionato comunque problemi di coordinamento, essendo ancora vigenti nel 1930 i codici penali per l’ Esercito e per la Marina.

Riteniamo dunque maggiormente conforme al diritto positivo l’interpretazione da ultimo proposta, anche perché il delitto di usurpazione di un comando militare ex art. 114 c.p.m.p, può bene materialmente concorrere coi più gravi delitti ex artt. 276 e ss c.p., qualora venga ad essere strumentale ad un attentato alla sicurezza interna dello Stato. Sicché, in definitiva, l’indirizzo in questione può sintetizzarsi attraverso la secca affermazione del Pagliaro a mente della quale, per l’usurpazione di comando da parte di militare si applica esclusivamente l’art.114 c.p.m.p.
Da quanto fin qui osservato, tenendo conto del diverso ambito di applicazione delle norme incriminatrici di cui ci siamo occupati nel presente capitolo, nonché considerando che la fattispecie meno grave, ad avviso dello stesso legislatore, è da considerarsi offensiva del retto funzionamento del servizio militare (inteso in senso oggettivo), deduciamo che l’art.114 c.p.m.p. si pone in un rapporto di specialità più intenso, che non l’art. 287 c.p., rispetto al delitto di usurpazione di pubbliche funzioni. Infatti un comando militare che non abbia connotazione politica può bene considerarsi, a nostro modesto modo di vedere, una species del genus “funzione pubblica” tutelato dall’incriminazione di cui al primo comma dell’art. 347 c.p.
Ultima notazione da compiere, attraverso la quale si anticipa, in qualche modo, il tema del prossimo e conclusivo capitolo, concerne l’ipotesi, nel contesto dell’art. 287 c.p., della persistenza nell’esercizio arbitrario del potere. Questa è presente nel solo primo comma della detta norma - riferendosi all’arbitraria assunzione del potere politico - mentre non viene dal legislatore ripetuta a proposito della usurpazione di un alto comando militare. La differenza si spiega nel senso che, mentre della arbitraria ritenzione di comando da parte del militare si occupa l’art.114 c.p.m.p., il fatto di non abbandonare il comando compiuto da un soggetto estraneo alla vita militare, finisce inevitabilmente con l’identificarsi col fatto della assunzione arbitraria, che è senz’altro presupposto. Infatti, per continuare arbitrariamente un comando è necessario che l’agente ne fosse stato, in precedenza, legittimamente investito.

Quanto, invece, alla trattazione del merito della indebita continuazione dell’esercizio del potere, riteniamo opportuno rimandare, in ossequio alla ritenuta generalità e centralità - quest’ultima, in seno alla presente trattazione - dell’art. 347 c.p.rispetto al 287, al seguente capitolo.