Il diritto militare e la sua specificità

Relazione dell'avvocato Eduardo Boursier Niutta (*)

Come ha già detto Lei, Signor Generale, è difficile adesso uscire fuori da un binario che è stato già tracciato circa dubbi e perplessità sull’esistenza stessa del diritto militare. Io non ritengo di avere né gli strumenti né la capacità per porre la discussione su altri binari o di convincere alcuno sull’esistenza di altre realtà. Mi pongo però alcuni dubbi, mi faccio alcune domande e soprattutto sottolineo alcune cose che sono sotto gli occhi di tutti e che, se non esiste un diritto militare nella sua unitarietà, io arrivo personalmente alla convinzione: “Beh! peccato, bisognerà inventarlo”.
Le osservazioni sono molto brevi.

La prima è di carattere storico. Non è nuova la dizione “diritto militare”, anzi Licio Cincio, coevo di Cicerone, (106 a.C), risulta essere il primo ad aver scritto un tratterello - come è stato definito - di diritto militare. Questo non porta niente alla questione scientifica se esiste o non esiste un diritto militare? Però porta molto al fatto che già allora era sentita la necessità di non considerare l’attività militare, la funzione dei militari, alla stessa stregua di qualunque altra funzione dello Stato. E questo è già un elemento sul quale, credo, bisogna riflettere, soprattutto in considerazione del fatto che oggi c’è la tendenza a ricreare promiscuità, a ricreare identità con altre realtà amministrative che identiche non sono.
Si pensi, ancora, al Digesto dove (già nel 211 d.C.), troviamo espressamente trattato il diritto militare.

Comunque, quello che è certo è che l’attività militare, cioè l’attività finalizzata alla difesa dello Stato e delle sue libere istituzioni, non può - a mio avviso - essere considerata alla stessa stregua di qualsiasi altra attività amministrativa dello Stato.
Ciò sia per la funzione apicale di detta attività, peraltro confermata dalla Corte costituzionale nella recente sentenza in ordine alla presunta illegittimità costituzionale dell’art. 8 della Legge 382 del 1978; lì dove la Corte costituzionale rigetta il parallelismo che era stato fatto dal Consiglio di Stato tra la funzione militare e altre funzioni quali quelle di polizia. Parallelismo finalizzato a sostenere la possibilità di pensare a una attività sindacale nelle Forze armate, visto che - diceva il Consiglio di Stato - altre attività altrettanto delicate dello Stato (quali per esempio, appunto, la pubblica sicurezza) hanno un ordinamento sindacale, ed è riconosciuto al personale il diritto sindacale. Però, ci dice la Corte costituzionale che non è possibile fare questo paragone perché i termini non sono paragonabili. La funzione di polizia - ci dice sempre la Corte costituzionale - non è paragonabile alla funzione militare, perché la funzione di polizia assicura quella che è la sicurezza e l’ordinato sviluppo della società e dello Stato, mentre la funzione militare è a monte, perché assicura l’esistenza stessa dello Stato. Come diceva Lei, Eccellenza, prima devo esistere e vivere, poi potrò dedicare tutta la mia attività per la crescita di mio figlio. Se non esisto, non potrò né avere io, né dare ad altri sicurezza.

E allora, se è vero questo, se è vero che l’attività svolta dalle Forze armate non può essere paragonata alle altre attività, qualche cosa che la renda diversa dalle altre, un quid suum lo deve avere. Quale esso sia.
Io colgo un aspetto, e lo colgo anche questa volta dalla storia. Noi abbiamo una fortissima tradizione penale-militare, cioè nell’ordinamento giuridico italiano l’aspetto penale militare ha avuto uno sviluppo notevolissimo, sia sotto il profilo degli studi, sia sotto il profilo scientifico. Più volte è stata messa in discussione la necessità del mantenimento di un ordinamento giudiziario speciale qual è quello militare, ma esso è rimasto; allora una cosa è certa: se esiste, deve avere un quid che lo giustifichi. E che cos’è il quid che lo giustifica? È proprio questa particolarità dello status militare, questa particolarità dell’attività militare che rende il fatto previsto come reato militare (e oggi forse c’è un difetto di previsione dei reati militari, non certo una estensione abnorme della specie), non più di interesse solo ed esclusivamente della società, inteso come interesse alla sicurezza sociale, dei singoli o dei collettivi che si creano all’interno della società: popolazione, gruppi ecc., ma di interesse per la difesa, l’esistenza dello Stato.

Il furto - faccio un esempio per farmi capire - non lede l’interesse all’esistenza dello Stato, ma il patrimonio di colui che viene derubato e quindi mette in pericolo il patrimonio di tutti i consociati. Il furto militare, oltre a questo, pone in pericolo - se mi sbaglio correggetemi - quella che è la coesione e quindi l’efficienza delle Forze armate, mettendo quindi in pericolo quello che è il bene tutelato mediatamente (attraverso la garanzia di coesione ed efficienza delle Forze armate) e cioè il bene finale che è la difesa dello Stato, la difesa delle libere Istituzioni.
E allora nel reprimere il furto militare non abbiamo un interesse esclusivamente economico, ma un interesse che supera gli interessi dell’economia per andare ad incidere sull’interesse all’esistenza stessa dello Stato, a prescindere dai rapporti economici.
Ma questo si può ravvisare in tantissime altre attività che pure non fanno parte, oggi come oggi, del diritto penale militare. La stessa coesione, la stessa efficienza delle Forze armate può essere messa in pericolo da attività che non hanno valenza di reato militare, ma hanno una potenzialità lesiva di questo specifico aspetto altrettanto importante. Forse non dello stesso grado di pericolosità, ma anche questo è discutibile.

Mi permetto di fare un esempio paradossale, ma è ovvio che se voglio sostenere una tesi devo necessariamente usare dei paradossi perché sia forte il messaggio che voglio trasmettere. Mi domando, per esempio, se un eventuale abuso d’ufficio fatto da un comandante per danneggiare il dipendente, rovinargli la carriera - come si dice nell’ambiente militare - punendolo in violazione dei regolamenti, mi domando se tale comportamento non abbia una lesività, nei confronti della coesione, maggiore di quello che può essere lo schiaffo dato tra due commilitoni per ragioni di donne. Cioè per ragioni totalmente estranee alla funzione militare di per sé. Ma non credo che né l’uno né l’altro debbano essere trattati come argomenti privi di quel quid che ci fa invece ritenere che entrambi andrebbero sottoposti all’attenzione di un giudice (questa è la mia visione, ovviamente) specializzato, di un giudice specifico.
Chiudo facendo rilevare una realtà. Spero di interpretare male la realtà, ma mi sembra di non sbagliare.

La specificità militare, cioè l’esistenza di questo quid pluris rispetto alla persona fisica e alla stessa attività che uno svolge, ho la sensazione che non sia tenuta in nessun conto dalla stragrande maggioranza della popolazione, anche di quella parte della popolazione che ha funzioni delicate e di spessore, per esempio legislative.
Mi viene in mente una norma, fondamentale nell’ambito del diritto amministrativo (è la legge 241/90), che tratta in maniera assolutamente eguale qualunque procedimento o provvedimento amministrativo, ma non ha tenuto conto, come non ne ha mai tenuto conto il legislatore anche nelle innovazioni penalistiche, dell’esistenza di questa attività militare che non sempre è possibile trattare con le regole ordinarie.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha dovuto, per esempio, supplire a questa carenza dichiarando che l’ordine, pur essendo un provvedimento amministrativo, non è però soggetto alla legge 241/90 perché altrimenti sarebbe diventato praticamente impossibile ottenere quello che poi l’ordine mira ad ottenere, cioè l’esecutività, l’immediatezza e la certezza dell’esecuzione.

La disattenzione peraltro è anche degli stessi organismi preposti alla difesa della tutela degli interessi militari, cioè l’Amministrazione della difesa. Nel fare il decreto ministeriale 603/93 e poi il 690/96, in attuazione degli articoli 2 e 4 della legge 241, in maniera a mio avviso assolutamente sprovveduta hanno inserito nelle tabelle procedimenti che andavano tenuti sottratti alla disciplina della 241. Per esempio la valutazione caratteristica.
La valutazione caratteristica non può essere un procedimento da attuare attraverso il contraddittorio tra chi deve valutare e il soggetto che deve essere valutato. Peraltro mi domando: sulla base di quale istruzione? E quali atti devono mettere da parte i valutatori perché possano essere messi a disposizione, per la visione, del militare da valutare?

Non ci troviamo, forse, in una situazione un po’ diversa, dove c’è una valutazione con un responsabile unico, che la legge individua nel compilatore? Allora non era opportuno inserire il procedimento di valutazione all’interno delle tabelle annesse al decreto ministeriale relativo ai regolamenti di attuazione degli artt. 2 e 4 della 241/90, perché si crea confusione. Se siamo nell’ambito dell’unicum actum perficiuntur cioè dei procedimenti che si risolvono nella sola valutazione, bene, allora (secondo il Consiglio di Stato) non c’è bisogno del contraddittorio, non c’è bisogno di tutta quella procedura prevista dalla legge 241.
Insomma, è sempre l’interprete che deve correre appresso a chi ha fatto le norme e andare a mettere ripari alle falle, cercando di evitare che la barca affondi.
Ma, andando avanti così, le Forze armate si potranno dotare di armi potentissime, ma sarà del tutto inutile perché lo Stato si distruggerà al loro interno, a causa dell’anomia.

Allora prendere atto dell’esistenza di un quid pluris che rende specifica la qualità militare, o se si preferisce, con riferimento alle persone, lo status militare, mi sembra che possa essere un auspicio per evitare proprio tutti questi danni.
Tutto ciò però non può essere separato da una cultura della militarità che purtroppo è abbandonata. Io non voglio attirare le ire di nessuno, ma non mi sembra una cosa edificante che oggi, sulle questioni giuridico-militari, a parte la Scuola Ufficiali Carabinieri, nello stesso mondo militare c’è un silenzio totale. E lo stesso, addirittura, su problematiche quotidiane, come la disciplina militare.
Conosco società private che organizzano master in diritto militare e particolarmente in disciplina militare, ma non conosco scuole militari dove siano organizzati corsi di diritto militare o di diritto disciplinare militare, all’infuori della Scuola Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri. Spero di essere ignorante io, ma se così non fosse è veramente tragico.
E allora si arriva all’assurdità di dimostrare l’esistenza del diritto militare con il fatto che tutti se ne disinteressano. Perché vuol dire che non solo esiste, ma è anche temuto dentro e fuori dalle caserme.
Con questa battuta chiudo, perché ho sforato quello che era il tempo a me dedicato ed ascolterò con particolare attenzione le idee diverse dalle mie, che mi arricchirebbero molto di più che non se ci fosse una convergenza.
Grazie.

(*) Insegnante di Diritto disciplinare militare presso la Scuola Ufficiali Carabinieri.

Commento del Ten. Gen. Capo Renato Maggiore

Io ho ascoltato con molto interesse quello che ha detto il mio vecchio amico avvocato Boursier Niutta. Ho detto e ho sottolineato che si tratta di un vecchio amico e però non di un amico vecchio.
L’ho ascoltato con molta attenzione perché mi ha confortato in quello che, credo sia stato chiaro, palesavo come mia interiore esigenza, come mio sentimento, come mio auspicio. Però, dalla sua acutezza di discorso fatto col pensare ad alta voce, dall’acuzie delle sue considerazioni mi son venuti anche un po’ rinvigoriti i miei timori. La militarità m’importerebbe che si affermasse produttiva col suo in sé dell’autonomia scientifica del diritto militare, delle Forze armate come struttura, come pluralismo, una pluralità di soggetti aventi organizzazione finalizzata - abbiamo detto prima - come, in che modo, con che gradi.

Quella pluralità di soggetti ha principi propri capaci di assurgere a livello di valori che poi attengano a un piano nel quale si può discorrere di autonomia del diritto militare?
Le Forze armate hanno una serie di principi, una serie di valori, indubbiamente. Le leggi militari accettano questi principi e questi valori, il principio penalmente sanzionato del dovere del coraggio, non scendo in particolari: sono cultori del diritto quelli che, nell’uditorio, mi rincuorano. Il principio dell’onore militare, penalmente affermato e sanzionato. Ci sono dei valori in quella società gerarchicamente organizzata. La disciplina: già la disciplina deriva dalla gerarchia? Io credo di no. In questa speciale supremazia che vige nell’ambito delle Forze armate e si chiama disciplina, io credo che la gerarchia sia il prius; ne derivino la subordinazione, l’obbedienza. Mi pare che questo sia più o meno ripetuto, riecheggiato nell’articolo 2 del vigente regolamento di disciplina. E in uno ( mi pare il 5 o il 6) del manuale di disciplina che fu emanato per accompagnare la emissione del regolamento di disciplina.

Gerarchia, subordinazione, obbedienza sono principi; il tutto sotto il rilievo (svetta su tutto, nell’ambito delle Forze armate, è vitale) del concetto della fedeltà. Lo chiama “fondamentale” la legge del 78 sulla particolare normativa.
Sono interessi, beni, la gerarchia, la subordinazione e l’obbedienza, ma la disciplina - programma di fedeltà - credo sia un valore, perché tutto poggia su questo, sul valore. I valori esistono, sono originari indipendentemente dalle norme. La legge ha un ruolo ricognitivo, non costitutivo dei valori. La fedeltà è un valore. Le Forze armate, come un qualunque organismo sociale, al pari di qualunque organismo biologico, fisico, evolvono, seguono, assecondano lo Stato promotore di progresso e civiltà. Diceva un giurista americano, il Poudn: “il diritto deve essere stabile, non può restare immobile”. E allora ci sono vari predomini di queste movenze, ma nella relatività in termini di socialità, in termini sociologici, pure da pragmatisti (io sono un pragmatista) trovo che la fedeltà resta un valore assoluto nelle Forze armate, non un principio giuridico soltanto, ma più di un interesse, la fedeltà, valore postulato dall’onore militare.

La fedeltà ha la specificità di un valore di civiltà nel mondo giuridico delle Forze armate. Io guardo a queste aperture, mi incoraggia l’avvocato Boursier Niutta che, come me, ha questa esigenza di simili scorci. Spero che si possa studiare, lavorare elaborare, produrre, convincere su questo piano, sull’entità concettuale giuridica, ipostatica, militarità, per derivarne un’autonomia del diritto militare. Mi piace sentir dire che nel digesto si parlava di questo; c’erano i libri terribiles. Anche fino a ieri c’era un diritto civile militare. Forse qualche norma c’è ancora di diritto civile militare. Io, è chiaro, mi sto riferendo a quello che era l’istituto del matrimonio per il militare e alle norme per i testamenti speciali. Quelle erano norme che realizzavano aspetti, proiezioni di militarità, erano norme relative alla particolare esigenza della vita associata, etichettata militarmente, rispetto a quello che sul piano del diritto matrimoniale (libro I del codice civile) si diceva per tutti i cittadini o sono per chiunque su quello del diritto successorio ancora attuale. Sono norme di diritto civile militare. Io vado in cerca di poter convincermi che ci sono valori in norme di diritto militare tout court. Intanto un riconoscimento. Mi è piaciuto, e ringrazio, il contributo un po’ sofferto ma molto convincente, almeno avvincente nella linea che io perseguo sentimentalmente, dato dall’avvocato Boursier Niutta.
Se il Comandante della Scuola permette, ora toccherebbe al maggiore Bassetta dare il suo contributo.