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Corte dei Conti

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Sentenze tratte dal sito www.corteconti.it

Responsabilità - Danno patrimoniale indiretto - Comportamento del pubblico dipendente - Lesione dell’immagine dell’Amministrazione.

Sezione Prima Giurisdizionale Centrale di Appello, 18 aprile 2002. Pres. Simonetti, Est. Riccò.

Fatto:
La procura regionale presso l’indicata sezione conveniva in giudizio il dr. E. D. contestandogli la percezione, durante la verifica fiscale da lui effettuata e conclusa in data 16.9.91, in qualità di funzionario presso l’Ispettorato della Direzione regionale della Lombardia, nei confronti della ditta “SH s.p.a.”, di dazioni di denaro per un importo complessivo di L.120.000.000.
Riteneva la Procura che il convenuto, con il comportamento a lui addebitato, avesse cagionato un danno patrimoniale indiretto conseguente alla grave perdita di prestigio ed al grave detrimento dell’immagine della amministrazione, quantificabile, ex art. 1226 del c.c., secondo un criterio di commisurazione, parametrato sulla entità della tangente, in L. 240.000.000.

La sezione adita, rigettata l’opposta eccezione di prescrizione, e di inammissibilità della citazione (in relazione ad un pregresso accordo transattivo con il Ministero delle Finanze ed al conseguente versamento, da parte del D., della somma di L. 170.000.000), condannava il medesimo al pagamento dell’importo di L. 240.000.000, oltre interessi e spese.
Il dr. D., come sopra patrocinato, ha impugnato la epigrafata sentenza ribadendo la eccezione di prescrizione e deducendo l’infondatezza della proposta azione in relazione alla ritenuta mancata emersione di ulteriori profili di danno rispetto a quelli presenti alla data (4.7.95) di stipulazione dell’accordo transattivo, intervenuto anche con riferimento alla vicenda “SH”.

Al riguardo, è stata evidenziata l’inesistenza di qualsiasi accertamento penale concernente la detta vicenda e di conseguenza, l’insussistenza del preteso danno all’immagine, contestualmente contestandosi il valore probatorio degli elementi tratti dai verbali di interrogatorio dell’amministratore delegato della “SH”, C. L. e della di lui madre T. M., in ragione del successivo provvedimento di archiviazione del procedimento inerente alla vicenda stessa e del mancato esperimento del procedimento disciplinare da parte dell’amministrazione. In merito, è stata ammessa soltanto la percezione, da parte del D., della somma di L. 80 milioni, a verifica ormai conclusa, versatagli dal C., per conto della madre, a compenso di consulenze effettuate in ordine a problematiche fiscali della società, oggetto di fusione con un importante gruppo del settore.
Sotto altro profilo, è stata contestata la verificazione del danno all’immagine in relazione alla mancata ritenuta diffusione del fatto assertivamente costitutivo di tale danno e cioè della dichiarazione resa dal D. al G.I.P. presso il Tribunale di Milano in occasione di diverso procedimento penale, nonché i criteri di quantificazione del danno stesso.

La Procura Generale, nelle conclusioni qui depositate, ha chiesto la reiezione dell’appello.
In “limine”, la difesa D. ha depositato una memoria nella quale, ribadite e illustrate le argomentazioni poste a base dei motivi di appello, e contestati gli assunti del Procuratore Generale in punto di esistenza di un licenziamento disciplinare e di affermazione di responsabilità penale a suo carico per la vicenda “SH”, è stata sostenuta la necessaria imputazione della somma di L. 95 milioni (dei 170 versati in esito al citato accordo transattivo) al danno contestato nell’ambito della vicenda in esame. Tanto in relazione all’avvenuto deposito della sentenza n. 1063/2001, resa dalla sezione giurisdizionale per la regione Lombardia, relativa ad analoga vicenda riguardante la società “Etro s.p.a.”, con la quale l’obbligo risarcitorio a carico del D. è stato quantificato nella somma di L.75 milioni.

Alla pubblica udienza, gli avvocati A. e C. hanno confermato gli atti scritti mentre il Pubblico Ministero, esclusa la possibilità di una considerazione atomistica dell’episodio per cui si procede che, a suo dire, si inserirebbe in tutta una serie di comportamenti collegati, rilevanti sul piano penalistico, come emergerebbe dalla lettura degli atti relativi alle indagini preliminari, ha confermato le conclusioni depositate.
Circa l’entità del danno addebitato, il Requirente ha sostenuto la fondatezza della quantificazione operata ex art. 1226 del c.c., dovendosi, a suo dire, in caso contrario imporre alla pubblica accusa l’onere di una probatio diabolica. In replica, l’avv. C. ha escluso che la dazione al D. possa essere inquadrata in un fatto corruttivo ed ha assunto la non plausibilità di una spesa di L. 240.000.000 per il ripristino della immagine dello Stato asseritamente lesa.

Considerato in diritto:

Rileva preliminarmente il collegio, in ordine alla deduzione della eccezione di prescrizione, che, secondo la Suprema Corte (Cass. n.125 del 9.1.79) il comportamento omissivo del debitore ha efficacia sospensiva della prescrizione, ai sensi dell’art. 2941, primo comma, n.8, ove abbia avuto per oggetto un atto dovuto, cioè un atto che egli sarebbe stato tenuto a compiere.
Nella fattispecie il D. ha dichiarato di aver ricevuto la contestata dazione a titolo di compenso per consulenze effettuate.
Ciò stante, poiché per i dipendenti statali l’attività professionale privata è vietata dall’art. 60 del D.P.R. 10.1.1957, n.3, egli aveva il dovere di comunicare l’indicata circostanza all’amministrazione di appartenenza e, non avendolo fatto, il suo comportamento omissivo ha assunto rilevanza nel senso indicato.
La mossa eccezione non può pertanto trovare accoglimento.
Quanto al merito, il collegio rileva come non risulti in atti la celebrazione di processi penali o l’emanazione di provvedimenti disciplinari per la vicenda per la quale l’appellante è stato condannato in prime cure.

Invero la sentenza del G.U.P. presso il Tribunale di Milano, n. 14683 del 3.10.1995, con la quale gli è stata applicata, ai sensi dell’art. 444 del c.p.p., la pena di anni uno e mesi 6 di reclusione, concerne episodi collegati con accertamenti fiscali nei confronti della E.t.r.o. s.p.a.
Analogamente la decisione n. 300 in data 9.12.1998 del collegio arbitrale di disciplina presso il Ministero delle Finanze con la quale è stato respinto il ricorso prodotto dal D., avverso il decreto n.254 Ris del 16.5.1996, del Direttore Regionale della Direzione Generale delle Entrate per la Lombardia che aveva disposto, nei di lui confronti, il licenziamento senza preavviso, a decorrere dal 28.9.1994, riguarda, anche essa, la vicenda di cui sopra.

Vero è che risulta acquisito in atti il verbale di interrogatorio in data 27.10.1994 del G.I.P presso il Tribunale di Milano, nel corso del quale il prevenuto ha ammesso di aver ricevuto dal sig. C. L. la somma di L. 80.000.000. Epperò non si rintracciano atti di natura decisoria in ordine alla rilevanza penale di tale episodio, anche se non risultano riscontri alla dichiarazione dell’interessato secondo la quale l’inchiesta di cui trattasi sarebbe stata definita con provvedimento di archiviazione.
Considera al riguardo la sezione che, anche se nella soggetta materia non è dato reperire pronunce univoche del giudice della legittimità (v.Cass. 2367 del 3.3.2000 secondo la quale, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale derivante da fatto illecito astrattamente integrante gli estremi di reato, l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale non costituisce impedimento, da parte del giudice civile, dell’accertamento incidentale della sussistenza degli elementi costitutivi del reato, Cass. 11038 del 10.11.1997 che ammette il potere di accertamento del giudice civile in caso di estinzione del reato, Cass. n. 13425 del 9.10.2000 che ammette l’accertamento in sede civile in caso di emissione, in sede penale, di sentenza in esito a patteggiamento) ed anche se la giurisdizione di questa Corte, come risulterà più chiaro dai successivi svolgimenti è limitata alla conoscenza del danno patrimoniale riflesso, poiché quest’ultimo trova il proprio necessario presupposto nel danno non patrimoniale, occorre, al di là della questione inerente alla necessarietà dell’intervento del giudicato penale sulla vicenda rilevante per il giudizio contabile, che siano acquisiti elementi certi in ordine ai fatti che si deducono quale scaturigine del preteso danno all’immagine e sulla loro efficacia lesiva.

Ed è chiaro che non è sufficiente che tali fatti integrino gli estremi del comportamento illecito, ma è necessario che per la loro gravità ed idoneità a procurare allarme sociale, integrino gli estremi di comportamenti penalmente rilevanti, atteso che il danno morale (art. 2059 del c.c., art. 185 del c.p.) è risarcibile se causato da reato.

Ora tali elementi certi non si reperiscono in atti.
Probabilmente conscio delle difficoltà connesse alla cennata problematica, il P.M. in udienza ha suggerito la necessità di una considerazione globale dell’atteggiamento del prevenuto, implicato in diverse inchieste penali, in relazione alla sua attività istituzionale. Sennonché, oggetto del giudizio di responsabilità amministrativa sono suscettibili di essere solo fattispecie specifiche, non potendosi indurre la qualificazione di un fatto da altre vicende riguardanti lo stesso soggetto, sia pur similari.

Ma anche al di là della qualificazione del fatto presupposto, il collegio si deve dar carico di esaminare in primo luogo se nella fattispecie esista un danno risarcibile in relazione al contestato danno all’immagine.
Al riguardo, non può non premettersi che di tale danno, nella giurisprudenza, si parla in due sensi diversi e cioè:
come danno non patrimoniale: ed al riguardo si è osservato che anche se tutta una serie di fattispecie, quali quelle lesive della vita, della libertà personale e dell’integrità fisica trovano i loro necessari referenti in persone fisiche (danno morale stricto sensu compensabile con la cosiddetta pecunia doloris), è innegabile che anche le persone giuridiche, in quanto titolari di diritti non patrimoniali, come quelli attinenti alla tutela del nome e della reputazione, possano subire un pregiudizio non patrimoniale dalla correlativa aggressione (cass. n. 7642 del 10.7.91, n. 12951 del 5.12.92), epperò suscettibile, non prestandosi ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non già di risarcimento in senso tecnico, sebbene di riparazione;

come riflesso patrimoniale del verificatosi danno non patrimoniale: ed è appena il caso di notare che una vicenda del tipo siffatto è comune anche ai rapporti di tipo civilistico (si pensi al disdoro di una società finanziaria ed alla conseguente perdita economica in termini di disaffezione dei clienti, che abbia perduto dei fondi fiduciariamente affidati, in esito al furto compiuto da un dipendente); nel caso di lesione dell’immagine dello Stato o di enti pubblici non economici, il danno riflesso è stato configurato sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso (Cass. s.s.u.u. n. 5668 del 25.6.97 e n. 98 del 4.4.2000) ed il risarcimento può essere conseguito anche tramite l’azione contrattuale, come risulta dalla giurisprudenza innanzi richiamata che ha riconosciuto in merito la giurisdizione della Corte dei conti; ciò in quanto la violazione del vincolo precostituito che si risolve nella lesione del diritto della amministrazione alla bona gestio da parte dei propri dipendenti trae origine dal medesimo fatto storico per il quale è proponibile l’azione extracontrattuale.

Alla luce, quindi, della giurisprudenza della Corte regolatrice, sembra ancora attuale l’orientamento espresso dalle Sezioni Riunite che, con sentenza n. 580 del 6.5.88, hanno delineato il danno erariale conoscibile dalla Corte dei conti come documento patrimoniale effettivo.
Orbene, nel primo caso, l’“an” del danno è costituito dalla lesione del bene immateriale che, in quanto intraducibile in una entità economicamente valutabile, è istituzionalmente quantificabile attraverso il meccanismo di cui all’art. 1226 del c.c.
Nel secondo caso, invece, l’“an” del danno è costituito dal riflesso patrimoniale negativo del già verificatosi danno all’immagine.
Ebbene corollario di questa proposizione è che qualora l’attore non fornisca alcuna prova circa l’esistenza di tale elemento, appare ultroneo procedere ad una valutazione equitativa che per converso presuppone la certezza ontologica di ciò che si vuole quantificare (sez. I n. 15/A del 31.1.2001, n. 170/A del 12.6.2001). È bene a questo punto precisare che la certezza ontologica del danno patrimoniale riflesso non può in alcun modo inferirsi dalla presunta certezza dell’avvenuto verificarsi del danno non patrimoniale, desunto da circostanze di carattere contingente (eco sulla stampa delle vicende interessate dai processi penali, clamore suscitato da eventuali provvedimenti cautelari ecc.) in quanto a tali evenienze, che imporrebbero, secondo logica, il tempestivo intervento della amministrazione di appartenenza degli imputati condannati, possono non conseguire, per motivi di ordine vario, quei provvedimenti (procedimenti disciplinari, pagamento di indennità di missione e di trasporto ai sostituti del dipendente infedele trasferito, instaurazione di procedure di controllo ecc.) comportanti spese per il ripristino della credibilità dell’apparato interessato.

E comunque, poiché il giudice ha il dovere di indicare gli elementi logico-giuridici e fattuali che lo hanno guidato nella liquidazione del danno in via equitativa, l’apprezzamento del quale deve avvenire sulla base di criteri e parametri di riferimento oggettivi e controllabili (Corte d’appello di Roma 2.5.95), la valutazione effettuata in prime cure, per quanto innanzi detto, avrebbe dovuto essere parametrata sugli indicati elementi, fattori di danno patrimoniale riflesso, e non certo rapportata automaticamente alle dazioni di denaro effettuate (v. S.S.R.R. N. 16/99/Q.M.) o, addirittura, quantificata secondo un coefficiente moltiplicatore delle somme percepite.
Non può peraltro condividersi quanto assunto dal Pubblico Ministero in udienza circa la impossibilità della prova nel senso indicato.

Nel caso di un licenziamento per motivi disciplinari, non sembra che dia luogo a difficoltà insormontabili accertare le spese del giudizio disciplinare, mentre, in caso di trasferimento del dipendente ad altra sede, possono essere agevolmente ottenuti dall’amministrazione i dati inerenti agli oneri per indennità di missione e spese di trasporto dei dipendenti subentranti.
Nel caso in esame, nessuna prova è stata data dal requirente, non solo circa l’ammontare, ma anche dell’esistenza del danno, posto che dagli atti è emersa l’attinenza del licenziamento disciplinare del D. ad altra fattispecie.
L’appello deve pertanto essere accolto, mentre il collegio, data l’incompletezza degli atti qui trasmessi dalla segreteria della sezione giurisdizionale per la regione Lombardia, non può pronunciarsi in ordine a provvedimenti cautelari eventualmente adottati in primo grado, ai sensi dell’art. 669 novies del c.p.c.

Resta peraltro salva la facoltà di parte appellante, a termini del terzo comma dell’articolo citato, di proporre ricorso al giudice che ha emesso i provvedimenti, per le declaratorie di sua competenza.
Non è luogo a pronuncia per le spese di questo grado mentre, a norma dell’art. 336, secondo comma del c.p.c., si dichiarano non dovute quelle per cui è stata condanna in prime cure.

P.Q.M.

La Corte dei conti, sezione I giurisdizionale centrale, accoglie l’appello in epigrafe e, per l’effetto, assolve, D. E. dalla domanda attrice.