• >
  • Media & Comunicazione
    >
  • Rassegna dell'Arma
    >
  • La Rassegna
    >
  • Anno 2002
    >
  • N.2 - Aprile-Giugno
    >
  • Legislazione e Giurisprudenza
    >

Giustizia Militare

a cura di Renato Maggiore

Dibattimento - Difesa - Impedimento del difensore - Diniego del differimento - Insindacabilità del provvedimento se l’impedimento sia occasionato da concomitanti impegni professionali.
Pena - Sospensione condizionale - Beneficio subordinato al pagamento di provvisionale - Legittimità ove sia fatto riferimento alla notevole capacità a delinquere.
Presupposto del pagamento di provvisionale - È il “quantum” nei limiti del danno provato - Mancata fissazione del termine per il pagamento - Censura destituita di ragione coincidendo quel termine col passaggio in giudicato (1).

(C. p., artt. 163, 165; C.p.p., art. 486)

Corte di Cassazione, Sez. 1^ pen., 21 febbraio 2000. Pres. Losana, Rel. Riggio, P.M. mil. Garino (conf.), in c. A. + 1.

Il mancato differimento del dibattimento a causa dell’assenza del difensore di fiducia, che sia impedito da concomitanti attività professionali, non configurando queste assoluta impossibilità a intervenire ma scelta fra più impegni, lascia al giudice discrezionalità di valutazione, ch’è insindacabile in sede di legittimità.
Ineccepibile è la subordinazione del beneficio della sospensione condizionale al pagamento della provvisionale se ha riferimento alla notevole capacità a delinquere degli imputati. E unico presupposto alla condanna a quel pagamento è la determinazione della somma nei limiti del danno prodotto. Infondata è poi la doglianza relativa alla omessa fissazione del termine per l’adempimento dell’obbligo relativo, quello coincidendo con la data del passaggio in giudicato della sentenza(1).


Si legge quanto appreso nel testo della sentenza:
««Con sentenza dell’1 luglio 1999 la Corte Militare di Appello Sez. dist. di Napoli confermava la sentenza emessa dal Tribunale Militare della stessa sede il 16 ottobre 1998, con la quale A.S. e B.D. erano stati condannati il primo alla pena di un anno, otto mesi di reclusione e il secondo alla pena di un anno, tre mesi di reclusione per concorso in furto militare aggravato continuato.
Ricorrono per cassazione gli imputati.

A. deduce inosservanza dell’art.486 c.p.p., in relazione al mancato differimento del dibattimento di primo grado per l’assenza del difensore di fiducia, impedito a comparire per ragioni professionali.
Lamenta, inoltre, mancanza di motivazione in ordine alla concessione della sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento della provvisionale in favore della parte civile.

B. denuncia con i motivi di ricorso per violazione della legge penale, per non essere stata diversificata la posizione dei due imputati, in ragione della differenza di età, del ruolo di “trascinatore” avuto nei confronti del ricorrente, il quale aveva reso piena confessione e aveva restituito la parte di refurtiva ancora in suo possesso, mentre della restante, maggior parte si era appropriato il correo.
Eccepisce, inoltre, la illegittimità della pronuncia relativa alla provvisionale, in assenza di una condanna alla restituzione o al risarcimento del danno in favore della parte civile.
Deduce, infine, il ricorrente violazione degli artt.163-165 c.p., per non essere stato fissato dai Giudici di merito il termine entro il quale doveva essere adempiuto l’obbligo del pagamento della provvisionale, a cui era subordinato il beneficio della sospensione condizionale della pena.
Entrambi i ricorsi sono inammissibili per manifesta infondatezza.
La questione in rito sollevata dall’A. costituisce mera riproposizione dell’eccezione dedotta con i motivi di appello, che è stata esaminata e correttamente definita dalla sentenza impugnata.

Va qui ribadito che il legittimo impedimento, previsto dall’art. 486 ult. co. c.p.p. ai fini del rinvio del dibattimento, deve comportare la assoluta impossibilità a comparire: la concomitanza di altri impegni professionali non costituisce un impedimento assoluto, determinando solo delle scelte da parte del difensore, che può attuarle anche avvalendosi della facoltà di designare un sostituto (Cass. Sez. I 11-4-1994, n. 4088).
L’art. 486 c.p.p., quindi, non riconosce al difensore che alleghi un impedimento di natura professionale un diritto assoluto al rinvio del dibattimento, ma attribuisce al giudice il potere-dovere di bilanciare le esigenze di difesa dell’imputato con quelle di affermazione del diritto e della giustizia.
La relativa valutazione, di natura discrezionale, è insindacabile in sede di legittimità, allorché, come nel caso in esame, è adeguatamente motivata.
La Corte territoriale ha anche puntualmente spiegato le ragioni sottese alla conferma della subordinazione della sospensione condizionale della pena al pagamento della provvisionale, con specifico riferimento alla notevole capacità a delinquere dimostrata dai due imputati.

Quanto al ricorso del B., la prima delle doglianze esposte è insussistente nella sua stessa premessa essenziale, atteso che la posizione di detto ricorrente è stata differenziata sul piano sanzionatorio da quella del coimputato.
Il giudizio di merito, invero, ha tenuto conto del ruolo ideativo e promozionale svolto nell’impresa criminosa dall’A., pur evidenziando, d’altra parte, che non si poteva riconoscere una condizione di succube al B., già sottoposto ad una misura di prevenzione, che ne segnalava la spiccata pericolosità sociale.
In ordine al secondo motivo di gravame, si osserva che la condanna al pagamento di una provvisionale, a richiesta della parte civile, ha come unico presupposto la determinazione della somma da corrispondere nei limiti del danno provato: nella specie la provvisionale è stata fissata in misura corrispondente ad un quarto del pregiudizio economico che si ritiene essere stato subito dalla parte offesa ed è, questo, un dato incontestato.
Palesemente destituita di ogni fondamento è l’ultima censura dedotta, poiché il termine di adempimento dell’obbligazione relativa al pagamento della provvisionale coincide con il passaggio in giudicato, che determina la definitività di tutte le statuizioni contenute nella sentenza.

Alla dichiarazione di inammissibilità delle impugnazioni consegue la condanna di entrambi i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e di ciascuno, inoltre, al versamento alla cassa delle ammende di una somma, che stimasi congruo determinare in un milione di lire.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di £. 1.000.000 alla cassa delle ammende»».


Furto militare - Interesse protetto - È il patrimonio - Fattispecie che ne prescinde - Militare che trattiene le cartucce da lui non utilizzate in esercitazione - Bene tutelato - L’agente viola l’interesse militare al regolare servizio - Si configura ritenzione di cose militari - Necessità della richiesta di procedimento.

(C.p.m.p., artt. 165, 166, 230, 260 n. 2)

Corte di Cassazione, Sez. 1^ pen., 16 marzo 2000. Pres. La Gioia, Rel. Silvestri, P.M. Gentile mil. (diff.), in c. L.

Per aversi furto a danno dell’Amministrazione militare la condotta dell’agente deve realizzare la lesione dell’interesse costituito dall’integrità del patrimonio dell’Amministrazione stessa, e pertanto non integra tale reato l’azione del militare che si trattiene delle cartucce a salve consegnategli per l’addestramento, in ciò non configurandosi una condotta diretta a un apprezzabile diminuzione del patrimonio tutelato, oggettività della detta ipotesi furtiva, ma solo un’offesa per il generale interesse militare allo svolgimento del regolare servizio, punita come ritenzione di cose militari, reato peraltro procedibile a richiesta del Comandante del Corpo, atto che nella specie fa difetto(1).


Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:
«« Con sentenza del 7.10.1999, il Tribunale Militare di La Spezia condannava L. alla pena di un mese di reclusione militare, convertita nella multa di lire 2.250.000, perché ritenuto colpevole del reato di furto militare aggravato per essersi impossessato durante un’esercitazione militare, al fine di trarne profitto, di cinque cartucce a salve cal. 5,56.
Il difensore dell’imputato proponeva ricorso per cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza per erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione sul rilievo che il fatto non dovesse essere qualificato come furto militare, ma dovesse ricondursi, invece, nella fattispecie della ritenzione di cose militari di cui agli artt. 165 e 164 c.p.m.p., per la quale l’azione penale non avrebbe potuto essere esercitata per mancanza della richiesta del comandante del corpo al quale l’imputato apparteneva.

Il ricorso è fondato e merita accoglimento per le ragioni di seguito indicate.
Premesso che non sono contestati i fatti che hanno dato origine al processo, essendo pacifico che la condotta del L. è consistita nell’avere trattenuto cinque cartucce a salve consegnategli per un’esercitazione e non utilizzate, devono essere condivise le censure formulate dal ricorrente per denunciare l’errore logico-giuridico in cui è incorsa la Corte militare nel ricondurre il fatto nell’ambito della fattispecie del furto militare di cui all’art. 230 c.p.m.p. Invero, alla stregua dei dati fattuali accertati dai giudici di merito, risultano puntuali e convincenti gli argomenti a mezzo dei quali il ricorrente ha denunciato l’errata qualificazione giuridica del fatto, atteso che l’avere trattenuto cinque delle diciannove cartucce a salve consegnate quale dotazione personale, per l’esercitazione, deve trovare appropriata collocazione nella figura di reato ex art. 165 c.p.m.p., concretata dalla ritenzione di cose destinate ad uso militare, per l’evidente ragione che la condotta non è idonea a determinare la lesione dell’interesse protetto dalle norme incriminatrici che reprimono i reati contro il patrimonio nè a dare causa ad una apprezzabile diminuzione patrimoniale in danno dell’Amministrazione militare, tant’è vero che se l’imputato si fosse attenuto agli ordini ricevuti dai superiori, egli avrebbe dovuto esplodere, durante l’esercitazione, anche i cinque colpi a salve, i quali, perciò, sarebbero stati comunque perduti per l’Amministrazione. Tali linee interpretative trovano conferma nella giurisprudenza di questa Corte, che in una fattispecie perfettamente identica a quella in esame ha stabilito che nei confronti del militare che abbia trattenuto cartucce a salve consegnategli per l’addestramento è configurabile il reato di cui all’art. 166, sanzionato dall’art. 165 c.p.m.p., precisando che il bene giuridico tutelato deve essere identificato non nel patrimonio, bensì nell’interesse generale al regolare svolgimento del servizio militare, inteso come complesso di attività preordinate all’assolvimento del compito fondamentale della difesa del territorio nazionale (Cass., Sez. I, 3 aprile 1995, Tanzi, rv. 201509).

Alla luce delle precedenti considerazioni, poiché al fatto ascritto all’imputato deve attribuirsi il nomen iuris della ritenzione di cose militari ex art. 166 c.p.m.p., punito dall’art. 165 con la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi, va riconosciuto che l’azione penale non avrebbe potuto essere esercitata per mancanza della condizione di procedibilità della richiesta di procedimento da parte del comandante del corpo da cui dipende il militare indagato, ai sensi dell’art. 260, comma 2, c.p.m.p.
Pertanto, deve conclusivamente pronunciarsi l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

P. Q. M.

La Corte Suprema di Cassazione, Prima Sezione Penale, qualificato il fatto come violazione all’art. 166 in relazione all’art. 165 c.p.m.p., annulla senza rinvio la sentenza impugnata per improcedibilità dell’azione penale»».


Peculato militare - Autovettura di servizio - Uso per motivi privati - Uso indebito di buoni autostradali - Stato di possesso di autovettura e di buoni viacard - Diretto possesso dei buoni - Disponibilità di fatto dell’auto - Gestione dei mezzi in dotazione - Sono dati sufficienti per configurare il giuridico possesso dell’auto anche in difetto di competenza strettamente funzionale.

(C.p., art. 43; C.p.m.p., art. 217; C.p.p., art. 192)

Corte di Cassazione, Sez. 1^ pen., 16 marzo 2000. Pres. La Gioia, Rel. Gironi, P.M. mil. Gentile (conf.), in c. B.

Al fine di integrare il reato di peculato militare, il possesso dell’auto di servizio, usata a scopo privato, costituisce l’agente nella posizione richiesta dalla legge di possessore della cosa, tale condizione non dovendosi ancorare necessariamente alla competenza strettamente funzionale del pubblico ufficiale poiché può consistere nella disponibilità di fatto del bene, auto nella specie, resa più completa dal diretto possesso dei buoni autostradali Viacard(1).

Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:
««La sentenza in epigrafe ha confermato quella di primo grado, che aveva dichiarato B.F. colpevole di peculato militare continuato in relazione al reiterato uso sul percorso Arezzo-Pistoia e viceversa, per motivi privati, di un’autovettura di servizio, del relativo carburante e di buoni Viacard appartenenti all’Amm.ne militare e di cui il predetto aveva la disponibilità quale tenente-colonnello con funzioni di comando presso il 225° Battaglione “Arezzo”, di stanza nella città omonima (fatti commessi nel periodo 19.9.1993 - 27.7.1994).
Quali indizi gravi, precisi e concordanti dell’uso indebito della vettura e delle tessere autostradali i giudici di primo e di secondo grado indicavano, concordemente, il fatto che prevalentemente il viaggio risulta compiuto verso Pistoia, dove il B. ha una casa di abitazione, nella giornata di sabato ed il ritorno in quelle di domenica o lunedì, che solo poche volte l’autovettura transitò per la caserma “Marini” di Pistoia, dove avrebbe dovuto essere ricoverata, che solo in una o due occasioni il B. fu accompagnato da autista di servizio e che più volte l’autovettura effettuò nello stesso giorno (sempre di domenica) sia il percorso di andata che quello di ritorno, dal che dovrebbe arguirsi che l’imputato, giunto a Pistoia, fosse solito lasciare libero il conducente di rientrare subito ad Arezzo, e che per i movimenti in questione (peraltro effettuati in giorni non lavorativi) non risultava mai compilato il prescritto foglio di viaggio.

I giudici del merito ritenevano, inoltre, non comprovate dalle testimonianze assunte le giustificazioni fornite dal B. circa le pretese ragioni di servizio dei viaggi (visite a vivaisti per forniture di piante all’Amm.ne militare) e giudicavano compiacenti o, comunque, ininfluenti le dichiarazioni rese dal Gen. S. all’epoca superiore del prevenuto, circa l’autorizzazione a quest’ultimo concessa a far uso dell’auto per recarsi a Pistoia, anche senza autista militare, trattandosi, in ogni caso, di mere autorizzazioni, e non di richieste od ordini, e non essendo, comunque, le pretese autorizzazioni assistite da congrua documentazione giustificativa nè da comprovate esigenze di servizio e potendosi, pertanto, al più parlare di acquiescenza del Gen. S. all’uso della vettura da parte del suo subordinato.

Quanto al contestato possesso dell’autovettura e dei buoni Viacard da parte del B. per ragioni del suo ufficio o servizio, la sentenza di appello precisa che, pur risultando il veicolo in dotazione al 225° Reggimento “Arezzo” e non al Battaglione comandato dall’imputato, il possesso in questione non va ancorato alla competenza strettamente funzionale del pubblico ufficiale ma comprende, secondo la consolidata giurisprudenza, anche il possesso discendente da prassi o consuetudini che valgano ad assicurare al soggetto una disponibilità di fatto della cosa, non senza precisare che il B. era anche il vice-comandante del Reggimento e, come tale, non estraneo alla gestione dei mezzi in dotazione allo stesso, come comprovato anche dalle annotazioni riportate sui fogli di marcia dell’auto in questione, facenti riferimento al comandante di Battaglione.
Documentalmente provato dal relativo registro di consegna è, poi, il diretto possesso dei buoni Viacard da parte del prevenuto, che costui riceveva in blocchetti, a logica conferma della personale disponibilità per servizio anche dell’autovettura.

Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso il difensore, denunciando:

1 - violazione art. 192 c.p.p., sull’assunto che il giudice “a quo”, invertendo l’onere della prova, avrebbe ritenuto provato l’uso del mezzo per fini privati in assenza di prove al riguardo da parte dell’accusa ed in forza della mera incompletezza della prova liberatoria fornita dall’imputato o di argomenti congetturali, pur essendo stato acquisito che i viaggi contestati erano sempre stati autorizzati, ovvero “ordinati”, da parte del Gen. S. per tenere contatti nei fine-settimana con altro reparto militare;

2 - erronea applicazione art. 43, co. 1, c.p., mancando la prova di una “condotta dolosamente preordinata” all’impossessamento dei beni dell’Amm.ne;

3 - erronea applicazione art. 217 c.p.m.p., stante il difetto del previo possesso dei beni da parte del prevenuto, essendo l’auto in dotazione al Reggimento e, dunque, nella disponibilità del Gen. S.;

4 - contraddittorietà della motivazione in punto di valutazione della testimonianza S. cui si attribuisce una mera autorizzazione all’uso del veicolo per recarsi a Pistoia anziché, come di fatto sarebbe avvenuto, un vero e proprio incarico in tal senso, ed in punto di ritenuto possesso dei beni da parte del B., nonostante la ritenuta esistenza di autorizzazioni dello S. all’uso dell’auto fuori della sede di servizio.
Il ricorso va dichiarato inammissibile per improponibilità del primo e del quarto motivo, con i quali sostanzialmente, attraverso deduzioni di mero fatto e considerazioni di puro merito, già vagliate e disattese nei precedenti gradi di giudizio, si prospettano letture delle risultanze processuali alternative rispetto a quelle con congrua motivazione offerte dai giudici del gravame, suggestivamente lamentando una pretesa inversione dell’onere della prova tra accusa e difesa che non trova rispondenza nel percorso argomentativo della sentenza impugnata, la quale si fonda rigorosamente sulla comprovata ed inoppugnata utilizzazione, per ben 49 viaggi di andata e ritorno sul percorso Arezzo-Pistoia, del veicolo militare da parte del B., non assistita da idonea documentazione a sostegno delle pretese e vagamente opposte ragioni di servizio dei viaggi ed essendo rimaste prevalentemente prive di conferma, od addirittura smentite, le giustificazioni offerte dall’imputato circa i motivi e le modalità esecutive dei viaggi stessi.

Sulla base di tali dati fattuali e di siffatte risultanze processuali, di per sè sufficienti per ritenere provato l’addebito, la corte militare ha, poi, articolato ulteriore motivazione rinvenendo riprova dell’uso indebito del veicolo e dei buoni autostradali in una serie di elementi gravemente, univocamente e coerentemente indizianti, costituiti dal pressoché sistematico uso del mezzo in giornate normalmente libere dal servizio, dalla costante meta del viaggio, costituita dalla città di Pistoia, ove il B. disponeva di casa di abitazione e dove pacificamente si fermava a pernottare, dall’impiego del mezzo anche senza autista militare e senza ricoverare lo stesso in immobile dell’Amm.ne e dall’assenza di fogli di viaggio attestanti lo svolgimento dei pretesi incarichi di servizio, con postuma regolarizzazione dei fogli di marcia della vettura.

Incensurabile appare anche la valutazione della deposizione del Gen. S., nel migliore dei casi comunque inidonea a scagionare la condotta dell’imputato, non potendo una generica ed indiscriminata autorizzazione di massima di un superiore (che la difesa pretenderebbe di assimilare ad un ordine gerarchico) rendere lecito il comportamento illecito di un inferiore, in difetto di una qualsiasi dimostrazione di precise e concrete ragioni di servizio per l’uso del veicolo militare e dei buoni Viacard, e potendosi, semmai, ipotizzare un concorso del primo nell’illecito materialmente commesso dal secondo.

Manifestamente infondati, e meramente ripetitivi di doglianze già esaminate e correttamente respinte dalla corte di appello, sono, invece, il terzo ed il quarto motivo, in ordine ai quali - mancando nuove deduzioni o specifiche censure delle argomentazioni dei precedenti giudici - non resta che ribadire l’incensurabilità della sentenza impugnata, non senza qui rilevare che l’obiezione difensiva circa la mancanza di possesso dell’autovettura da parte del B. non potrebbe, in ogni caso, riferirsi ai buoni Viacard, dei quali è attestata la diretta disponibilità da parte del B., che li riceveva in dotazione a gruppi di otto o dieci per le future esigenze di servizio.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna al pagamento delle spese processuali nonché della somma di £. 1.000.000 alla cassa delle ammende»».


Truffa militare - Corpo della guardia di finanza - È dipendente dal Ministero delle Finanze - Fa però parte integrante delle Forze armate - Illecita utilizzazione di fondi - Parte offesa è l’Amministrazione militare - In ipotesi di truffa del finanziere che su quei fondi si ripercuota, si configura truffa militare a danno dell’amministrazione medesima - È reato di competenza del tribunale militare.
Acquisizione di perizie eseguite in altro procedimento - Perito e consulente di parte legittimamente sentiti in primo grado - È prova utilizzabile perché regolarmente confluita nel fascicolo dibattimentale.

(L. n. 59 del 1959, art. 1 co. 2; D.P.R. 20 marzo 1986, n. 189; C.p.m.p., art. 234, co. 1°, n. 1; C.p. art. 81; C.p.p., artt. 468, 522, 603)

Corte di Cassazione, Sez. 1^ pen., 31 gennaio 2000. Pres. Santacroce, Rel. Silvestri, P.M. mil. Garino (diff.), in c. C.

Il corpo della Guardia di Finanza, pur dipendendo direttamente a tutti gli effetti dal Ministero per le Finanze, fa parte integrante delle Forze armate dello Stato, con autonomia funzionale nella destinazione dei fondi del relativo capitolo di bilancio al fine della difesa armata dello Stato. Ne deriva che, in caso di illecita utilizzazione dei fondi stessi, parte offesa è l’Amministrazione militare, con la conseguenza che il sottufficiale il quale, con false ricevute, induca in errore il Servizio amministrativo procurandosi, a titolo di rimborso spese, somme superiori agli importi pagati, commette truffa militare in danno dell’Amministrazione militare.
Una perizia acquisita in altro procedimento penale, va considerata, essendo stati sentiti in primo grado il perito ed il consulente di parte, legittimo fondamento di prova siccome confluita regolarmente nel fascicolo del dibattimento con l’osservanza delle forme stabilite tassativamente dalla legge(1).

Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:
««Con sentenza del 18.3.1999, la Corte Militare di Appello-Sezione distaccata di Napoli, riformava parzialmente le decisione emessa il 3.6.1998 dal Tribunale Militare di Napoli, concedendo la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p., in aggiunta alle già concesse attenuanti generiche, e riduceva la pena inflitta a C.V. a cinque mesi e venti giorni di reclusione militare per il delitto di truffa militare pluriaggravata (artt. 234, comma 1 e 2 n. 1 e 47 n. 2 c.p.m.p., 81 c.p.), perché, quale sottufficiale in servizio presso la 20^ Legione della Guardia di Finanza in Catanzaro, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, con artifici consistenti nel farsi rilasciare false ricevute fiscali dell’Hotel “Eton” di Roma in occasione di tre missioni eseguite nel settembre-ottobre 1993, induceva in errore il capo servizio amministrativo e l’Ufficio liquidatore, ottenendo il pagamento di somme di denaro superiori alle spese effettivamente sostenute.

La Corte militare disattendeva preliminarmente le eccezioni difensive riguardanti il difetto di giurisdizione del giudice militare, di nullità di atti processuali e di inutilizzabilità delle prove: nel merito, riteneva pienamente provata la responsabilità del C. per il reato contestatogli sulla base dei risultati della relazione peritale relativa al programma informatico del computer in dotazione all’Hotel “Eton” e delle dichiarazioni dell’agente provocatore P.
Il difensore dell’imputato proponeva ricorso per cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza per erronea applicazione di legge e per vizi logici della motivazione sui seguenti punti: a) difetto di giurisdizione militare in quanto il soggetto passivo del reato di truffa non è identificabile in un’Amministrazione militare ma nel Ministero delle finanze, che ha erogato le somme di cui al capo di imputazione; b) inutilizzabilità delle liste testimoniali e delle richieste del P.M. di acquisizione di perizie e di dichiarazioni testimoniali eseguite in altri procedimenti, non allegate al fascicolo depositato contestualmente alla richiesta di rinvio a giudizio e confluite nel presente processo in violazione della regola del contraddittorio; c) violazione dell’art. 525, comma 2 c.p.p. relativamente all’utilizzazione per la decisione di prove formatesi al di fuori del dibattimento; d) plurime violazioni di legge e illogicità manifesta della motivazione nell’assunzione degli elementi di prova e nella valutazione delle risultanze probatorie poste a base della dichiarazione della responsabilità penale per il contestato delitto di truffa.
Con memoria del 14.1.2000, i difensori del ricorrente sviluppavano e ribadivano i motivi di ricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. - Pregiudizialmente deve essere disattesa l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata sul presupposto che, avendo inciso il danno patrimoniale derivato dai contestati episodi di truffa sulla sfera del Ministero delle finanze e non su quella di un’Amministrazione militare, mancherebbe nel caso di specie un elemento essenziale per la configurazione del delitto di truffa militare prefigurato dall’art. 234 c.p.m.p., onde il potere di ius dicere apparterrebbe non al giudice militare ma al giudice ordinario.
Nella giurisprudenza di questa Corte è stato recentemente rilevato - in una fattispecie perfettamente identica a quella in esame - che il Corpo della Guardia di Finanza, pur dipendendo direttamente a tutti gli effetti dal Ministero per le finanze (art. 1, comma 1, L. 23.4.1959, n. 189, e art. 1, comma 6, D.P.R. 27.3.1992, n. 287), “fa parte integrante delle Forze armate dello Stato” a norma dell’art. 1, comma 2, della 1. n. 189/59 e che il Regolamento di amministrazione approvato con D.P.R. 20.3.1986, n. 189, stabilisce l’autonomia funzionale delle operazioni di destinazione e di utilizzazione dei fondi relativi al capitolo di bilancio, prevedendo una contabilità speciale riservata all’amministrazione della Guardia di Finanza, secondo le priorità, le esigenze e il fabbisogno pianificati dal Comando generale per ciascun anno finanziario: sulla base di tali premesse è stato, pertanto deciso che dal riferimento dei fondi di bilancio al fine della difesa armata dello Stato e dalla speciale autonomia di amministrazione dei medesimi da parte dei competenti organi del Comando generale, secondo le norme regolamentari che regolano la gestione, deve trarsi la conseguenza che, in caso di illecita utilizzazione dei fondi medesimi, la parte offesa è costituita da un’amministrazione militare, sicché è senz’altro configurabile il delitto di truffa militare di cui all’art. 234 cpv. n. 1 c.p.m.p., la cui cognizione appartiene al giudice militare (Cass., Sez. I, 19 gennaio 2000, Pellegrino).

Il Collegio ritiene pienamente condivisibili le precedenti argomentazioni, osservando altresì che la qualificazione giuridica di una struttura organizzativa della pubblica amministrazione non può essere compiuta secondo criteri di aprioristica astrattezza, ma deve essere eseguita, principalmente, con riguardo alle effettive finalità e alle concrete attività che l’ordinamento riferisce a quella struttura, di guisa che - sul piano funzionale - è ben possibile attribuire connotazioni composite ad un medesimo apparato dell’amministrazione dello Stato: in tale prospettiva, lo stesso Ministero delle finanze può ben qualificarsi come amministrazione militare limitatamente alle attività di apprestamento dei mezzi occorrenti per lo svolgimento dei compiti istituzionali del Corpo della Guardia di Finanza, ricompreso, per espressa previsione di legge, nelle Forze armate dello Stato.

2. - Mancano di pregio anche le numerose eccezioni di rito dedotte dal ricorrente per denunciare la nullità e l’inutilizzabilità delle prove poste a base della dichiarazione di colpevolezza dell’imputato.
In primo luogo, deve rilevarsi che non è ravvisabile alcuna violazione di norme processuali nella circostanza che il P.M. abbia richiesto l’acquisizione di verbali di prove di altro procedimento unitamente al deposito delle liste testimoniali, dato che tali attività istruttorie sono state poste in essere nel rispetto delle forme e dei limiti prescritti dall’art. 468, comma 4-bis c.p.p. In proposito va sottolineato che non possono condividersi le doglianze espresse in ordine alla mancata ammissione della testimonianza del P., in quanto il teste non era stato indicato per essere sentito sulle medesime circostanze oggetto della deposizione resa nel precedente procedimento, ma su fatti del tutto diversi inerenti all’asserita manipolazione del materiale informatico: tema di indagine, questo, per il quale - con ampia motivazione immune da vizi logici e giuridici - la Corte ha escluso, ai sensi dell’art. 603 c.p.p., la necessità della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, dando pienamente conto delle ragioni che rendevano non producente lo svolgimento di ulteriori attività istruttorie tendenti a dimostrare la non genuinità delle fonti di prova informatica.

Deve essere disattesa anche la censura riguardante l’inutilizzabilità della perizia acquisita da altro procedimento, essendo non controverso che nel dibattimento di primo grado sono stati sentiti il perito e il consulente di parte: ond’è che risulta indubbia la legittimità dell’acquisizione e dell’utilizzazione dei dati esposti nella relazione peritale.
Dai precedenti rilievi deve, dunque, conclusivamente inferirsi che non sussiste la prospettata violazione dell’art. 526 c.p.p., che, stabilendo che “il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento”, ammette che la decisione possa essere fondata non solo sulle prove formate nel contraddittorio dibattimentale, ma anche su quelle confluite nel fascicolo del dibattimento con l’osservanza delle forme tassativamente previste dalla legge processuale.

3. - Sono infondate anche le doglianze a mezzo delle quali il ricorrente ha denunciato la nullità della sentenza per mancanza e illogicità manifesta della motivazione in ordine all’affermata sussistenza dell’elemento materiale e di quello soggettivo costitutivi della fattispecie della truffa militare.
La Corte militare ha ritenuto provata l’attività delittuosa addebitata al C., consistita nell’avere conseguito rimborsi delle spese per il pernottamento e per i pasti, eccedenti il dovuto, mediante la presentazione di ricevute fiscali dell’Hotel “Eton” di Roma per importi superiori a quelli realmente pagati dal militare, compiendo una organica e coerente disamina degli elementi probatori disponibili, con passaggi argomentativi attraverso i quali è stata data una ineccepibile interpretazione dei dati accertati con la perizia informatica, la cui concludenza è stata valutata, con prudente apprezzamento, in stretta coordinazione con gli inequivoci elementi ricavati dalla deposizione del teste. Ne consegue che, stante l’assoluta congruenza delle linee argomentative della decisione, la struttura logica della motivazione resiste al sindacato di legittimità e il convincimento del giudice di merito deve considerarsi incensurabile.

In conclusione, risultando infondato in tutte le sue articolazioni, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

P Q. M.

La Corte Suprema di Cassazione, Prima Sezione Penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali»».