La Polizia giudiziaria militare nel territorio e fuori dal territorio dello Stato: problematiche

Vittorio Garino

1. La Polizia giudiziaria militare: generalità

L’articolo 55 del c.p.p. dispone che la polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale; essa inoltre deve svolgere ogni indagine e attività disposta o delegata dall’autorità giudiziaria e le relative funzioni sono svolte dagli ufficiali e dagli agenti di polizia giudiziaria.I successivi articoli 56 e 57 elencano i servizi di polizia giudiziaria (ivi comprese le sezioni di polizia giudiziaria istituite presso ogni Procura della Repubblica e composte con personale dei servizi di polizia giudiziaria, nonché gli “appartenenti agli altri organi cui la legge fa obbligo di compiere indagini a seguito di una notizia di reato”) e definiscono le funzioni di ufficiale e agente, ribadendo che le funzioni di polizia giudiziaria sono svolte alle dipendenze e sotto la direzione dell’autorità giudiziaria.

L’articolo 301 del c.p.m.p. prevede che per i reati soggetti alla giurisdizione militare le funzioni di polizia giudiziaria siano esercitate nell’ordine seguente:

1) dai Comandanti di Corpo, di distaccamento o di posto delle varie forze armate;

2) dagli ufficiali e sottufficiali dei carabinieri e dagli altri ufficiali di polizia giudiziaria indicati nell’articolo 57 del codice di procedura penale; inoltre, concorrendo più militari fra quelli rispettivamente indicati nei numeri 1) e 2), le funzioni sono esercitate dal più elevato in grado o, a parità di grado, dal più anziano.

Pertanto in presenza del Comandante di Corpo, di distaccamento o di posto, gli altri ufficiali di polizia giudiziaria eventualmente presenti (così come quelli meno elevati in grado, essendo presenti più ufficiali di polizia giudiziaria tra quelli elencati nel c.p.p.) sono, con riferimento ai reati militari di cui vengano a conoscenza, esonerati dallo svolgimento delle funzioni di polizia giudiziaria militare e dai relativi obblighi (invio della comunicazione della notizia di reato, assicurazione delle prove, eventuale arresto in flagranza del colpevole, ecc.) nonché dalla connessa responsabilità penale per le eventuali omissioni.

Occorre subito rilevare come presso le Procure Militari non siano ancora state istituite - nonostante l’espresso invito formulato dal Consiglio della Magistratura Militare nella delibera dell’8 gennaio 1991 - le sezioni di polizia giudiziaria militare previste dal c.p.p. e finalizzate a una migliore efficienza nello svolgimento delle indagini conseguente alle modalità di un lavoro svolto in quotidiano collegamento magistrato/ufficiale di polizia giudiziaria. C’è da dire che in pratica le suddette sezioni sono operanti, anche se gli ufficiali di polizia giudiziaria che vi sono addetti non hanno quella immedesimazione organica che sussiste per le sezioni delle procure ordinarie, soprattutto con riferimento alla dipendenza gerarchica, alle promozioni e alle sanzioni disciplinari.

2. La comunicazione della notizia di reato: casistica

Per un ottimale svolgimento delle funzioni di polizia giudiziaria militare (senza incorrere in omissioni disciplinarmente o penalmente rilevanti) è pertanto indispensabile, da parte dell’ufficiale di polizia giudiziaria, un continuo aggiornamento giurisprudenziale soprattutto al fine di conoscere quando scatta l’obbligo di invio al Procuratore Militare della comunicazione della notizia di reato.

Così, a titolo di esempio e riprendendo alcuni dei quesiti che con maggiore frequenza mi venivano posti quando svolgevo le funzioni di Procuratore Militare presso il Tribunale Militare di Torino, devo ricordare che, anche per i reati perseguibili a richiesta del Comandante di Corpo ai sensi dell’articolo 260 del c.p.m.p. (tale norma concede al predetto Comandante la facoltà di richiedere o meno, entro trenta giorni da quando ne ha avuto notizia, il procedimento penale nei confronti del militare che appare responsabile), deve comunque essere inoltrata al PM militare la comunicazione di notizia di reato, essendo quest’obbligo escluso solo per i reati perseguibili a querela della persona offesa, condizione di procedibilità, quest’ultima, non prevista nel c.p.m.p.

In materia di disobbedienza, poiché la norma descrive un reato istantaneo, che si perfeziona nel momento stesso del “rifiuto” opposto dal militare a un ordine impartitogli, ne consegue che il reato sussiste anche se successivamente al rifiuto il militare cambi idea ed esegua l’ordine; parimenti in materia di rifiuto opposto alla firma delle note caratteristiche, giurisprudenza consolidata afferma la sussistenza del reato, essendo tale sottoscrizione prevista da norme regolamentari e non costituendo acquiescenza al contenuto delle note, contro le quali è comunque possibile proporre ricorso.

Per quanto riguarda i fatti di insubordinazione e di abuso di autorità, è stato affermato che il dolo consiste nella cosciente volontà di pronunciare parole o compiere gesti di univoco significato offensivo, essendo irrilevanti moventi e finalità particolari stante lo speciale rigore cui sono improntati i rapporti della disciplina militare: costituisce pertanto offesa all’onore e al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore e anche il tono arrogante (che nel diritto penale comune non viene preso in considerazione) perché contrari alle esigenze della disciplina militare, in base alla quale il superiore deve essere tutelato non solo nell’espressione della sua personalità umana, bensì anche nell’ascendente morale di cui ha bisogno per poter esercitare degnamente l’autorità del grado e le funzioni di comando. Costitutiva del reato di insubordinazione con ingiuria è stata ritenuta la frase “lei non è un comandante ma un comandante Padreterno... lei è un illuso... lei è un maleducato ”. È stata ritenuta integrare gli estremi dell’abuso di autorità con ingiuria la frase “avete proprio rotto le scatole”, la quale costituisce espressione volgare con significato spregiativo, di attribuzione all’interlocutore di un comportamento petulante e provocatorio tale da offendere il prestigio dell' inferiore.

Rilevante ai fini della sussistenza in capo al Comandante di Corpo della facoltà di richiedere procedimento penale ai sensi dell’art. 260 del c.p.m.p. è l’accertamento se la condotta posta in essere integri la fattispecie della violata consegna oppure il reato di omessa presentazione in servizio: dovrà essere ritenuta realizzata l’una o l’altra ipotesi a seconda che i fatti avvengano nel corso di un servizio già intrapreso (per esempio, durante un servizio giornaliero di guardia, l’omessa assunzione di un turno: violata consegna) ovvero prima dell’assunzione di uno specifico servizio (la mancata presentazione al corpo di guardia per iniziare lo stesso servizio giornaliero: omessa presentazione in servizio).

3. L'attività della polizia giudiziaria militare all'estero

Queste sono alcune delle problematiche attinenti allo svolgimento delle attività di polizia giudiziaria militare sul territorio dello Stato, mentre per quanto riguarda l’espletamento di tali attività all’estero le soluzioni si presentano più complesse.

Ricordiamo che il c.p.p. ricollega inscindibilmente l’espletamento delle funzioni di polizia giudiziaria all’applicazione della legge penale mentre il c.p.m.p. disciplina l’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria militare con riferimento ai reati soggetti alla giurisdizione militare.

Mentre la legge penale comune e quella militare si applicano a tutti i fatti di reato commessi nel territorio dello Stato e, in specifici casi e con numerose limitazioni, anche a fatti commessi all’estero, l’attività di polizia giudiziaria - manifestazione di un principio di sovranità statale che si estrinseca con atti di coercizione personale e reale, garantiti nel loro svolgimento dalla tutela penale - non può, in tempi normali, esplicarsi oltre i confini dello Stato se non eccezionalmente, a seguito di specifici accordi internazionali, come nel caso previsto nell’articolo 41, paragrafo 1 (inserito nel capitolo relativo alla cooperazione tra forze di polizia), della Convenzione ratificata con la legge 30-09-1993, n. 388, di esecuzione del protocollo di adesione del Governo della Repubblica italiana all’accordo Schengen del 14 giugno 1985, nel quale è disposto che gli agenti di una delle Parti contraenti che nel proprio paese inseguono una persona colta in flagranza di commissione di uno dei reati di cui al paragrafo 4 o di partecipazione alla commissione di uno di tali reati, sono autorizzati a continuare l’inseguimento senza autorizzazione preventiva nel territorio di un’altra Parte contraente quando le autorità competenti dell’altra Parte contraente non hanno potuto essere previamente avvertite dell’ingresso in detto territorio, data la particolare urgenza, mediante uno dei mezzi di comunicazione previsti o quando tali autorità non hanno potuto recarsi sul posto in tempo per sostituirsi nell’inseguimento; tuttavia al più tardi nel momento di attraversare la frontiera gli agenti impegnati nell’inseguimento dovranno avvertire le autorità competenti della Parte contraente nel cui territorio l’inseguimento avviene e questo deve cessare non appena la Parte contraente nel cui territorio esso si sta verificando lo richiede. Che l’attività di indagine in territorio estero - anche finalizzata all’accertamento di fatti di reato realizzati in Italia - non possa, in tempi normali, essere svolta dalle nostre forze di polizia giudiziaria appare evidente anche al profano che abbia seguito le recenti e meno recenti questioni in materia di rogatorie internazionali e di collaborazione giudiziaria.

Come abbiamo sentito pochi giorni or sono la Procura della Repubblica di Roma che indaga sull’omicidio della giornalista italiana in Afghanistan non procede direttamente alle indagini con la sua Sezione di PG, ma ha seguito la procedura prevista per l’espletamento delle rogatorie internazionali.

Tale soluzione, tuttavia, comporta un notevole rallentamento delle indagini e, quando l’apparato giudiziario e di polizia del paese rogato non funzionano o si trovano nel pieno di una guerra, può divenire praticamente inutile. Il C.S.M. ha avviato un’indagine per verificare se siano effettivi e adeguati gli strumenti di cooperazione giudiziaria tra Stati per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo internazionale, rogatorie comprese, anche allo scopo di suggerire possibili interventi al Parlamento. Dalle prime audizioni sta emergendo che i tempi medi per avere risposta a una rogatoria internazionale sono pari a 4-5 anni, con punte massime di dieci anni; ma i problemi non vengono solo dalle rogatorie, in quanto è stato rilevato che le difficoltà nelle indagini oltre frontiera sono legate soprattutto alle diversità delle legislazione tra Stati.
In Afghanistan è in corso una guerra alla quale stiamo per partecipare con forze aeree, navali e terrestri.

Occorre quindi risolvere il quesito se in siffatti ambienti operativi eccezionali nei quali si esercita anche sul territorio estero la sovranità italiana attraverso il mezzo più incisivo, l’uso delle armi, la vigente normativa è idonea a fornire una tutela penale sia con riferimento a fatti criminosi commessi dai militari italiani a danno di militari di altre nazioni operanti oppure di civili locali, sia per i reati commessi a danno di militari italiani; e ciò sia per quanto riguarda l’ordinamento penale e processuale penale, sia per quanto riguarda la reale possibilità di procedere, per mezzo della polizia giudiziaria, all’accertamento dei fatti e all’individuazione dei colpevoli.

Per il Comandante di Corpo, di distaccamento o di posto e per gli altri ufficiali di polizia giudiziaria militare inseriti nel Contingente che opera nel Paese straniero si porrà il problema di qualificare penalmente un fatto - in primo luogo distinguendo se comune o militare - del quale sono venuti conoscenza per decidere eventuali provvedimenti coercitivi da adottare, se svolgere o meno indagini, se inviare oppure no la comunicazione della notizia di reato al competente Procuratore Militare: si tratta, pertanto, di definire quali sono le norme penali, comuni o militari, sostanziali e processuali, applicabili alla fattispecie concreta posta in essere.

In buona sostanza, se in territorio estero un ufficiale di polizia giudiziaria militare si trova presente nel momento in cui un militare del contingente italiano sta commettendo uno stupro, una rapina, ecc., ha l’obbligo di intervenire per impedire l’evento, deve arrestare in flagranza il responsabile e deve inviare la comunicazione della notizia di reato al PM (ordinario o militare)? E se l’autore di quegli stessi fatti è un estraneo alle Forze Armate italiane che sta agendo contro un cittadino o un militare italiano? In mancanza di applicazione della legge penale militare di guerra l’ufficiale di polizia giudiziaria militare potrà solo, trattandosi di reati comuni:

1) ordinare, ai sensi del regolamento di disciplina, al militare italiano che sta commettendo i sopra citati reati di desistere;

2) intervenire, in presenza di tutti i requisiti richiesti per la sussistenza della scriminante, a difendere la persona offesa, e non sarà punibile per i reati eventualmente posti in essere a danno dell’aggressore perché compiuti in stato di legittima difesa;

3) inviare al PM competente un rapporto, avendo assistito al fatto criminoso mentre si trovava in servizio ed essendo egli comunque un pubblico ufficiale.

4. La normativa internazionale e gli obblighi dei singoli Stati

È evidente l’insufficienza di un tale quadro normativo se riferito alle esigenze operative delle nostre missioni militari all’estero.
Tuttavia nei decreti legge che fornivano la copertura finanziaria alle precedenti “missioni di pace” è sempre stata espressamente esclusa l’applicazione della legge di guerra e del codice penale militare di guerra, e ciò ha determinato conseguenze aberranti che tra poco vedremo.

Date queste premesse occorre ancora analizzare se e in quale misura le convenzioni internazionali prevedano o impongano all’Italia l’esistenza, nel suo ordinamento, di una struttura giudiziaria militare o, comunque, l’attivazione della tutela penale per una determinata tipologia di delitti ovunque commessi, anche fuori dal territorio nazionale; e ciò con particolare riferimento alla disciplina applicabile (e in concreto applicata) nel caso di contingenti italiani inviati all’estero soprattutto quando si tratti, come ultimamente accade sempre più spesso, di missioni di “peace enforcing” o di vera e propria attività bellica: in tali situazioni è, infatti, indispensabile definire con chiarezza se devono o meno essere applicate - e penalmente sanzionata la loro violazione - le norme di diritto internazionale umanitario.
Le Convenzioni di Ginevra, in materia di repressione degli abusi e delle infrazioni gravi del diritto umanitario, stabiliscono il principio della giurisdizione penale “universale” quando affermano per esempio: “ogni Parte contraente avrà l’obbligo di ricercare le persone imputate di aver commesso, o di aver dato l’ordine di commettere, una di dette infrazioni gravi e dovrà, qualunque sia la loro nazionalità, deferirle ai propri tribunali. Essa potrà pure, se preferisce e secondo le norme previste dalla propria legislazione, consegnarle, per essere giudicate, ad un’altra Parte contraente interessata al procedimento, purché questa Parte possa far valere contro dette persone prove sufficienti".

Per quanto riguarda il tipo di sanzioni, le citate Convenzioni fanno in genere riferimento a sanzioni penali “adeguate” al tipo di infrazione commessa, sanzioni che le parti contraenti, con l’adesione alla Convenzione, si impegnano a stabilire prendendo ogni misura legislativa necessaria; vengono solo posti dei limiti alla pena di morte che non può applicarsi alle persone protette “salvo nel caso in cui queste siano colpevoli di spionaggio, di gravi atti di sabotaggio degli impianti militari della potenza occupante o di infrazioni internazionali che abbiano cagionato la morte di una o più persone, e a condizione che la legislazione vigente nel territori occupati prima dell’inizio dell’occupazione preveda in tali casi la pena di morte”. In ordine alla pena capitale, dal Legislatore italiano soppressa anche nel codice penale militare di guerra, l’articolo 6 del Patto sui diritti civili e politici, non affermando il carattere assoluto del diritto alla vita, non la esclude quando dispone: “nessuno può essere arbitrariamente privato della vita”.

In mancanza di un organismo sovranazionale con autorità di giudicare sulla responsabilità dei singoli individui, le convenzioni internazionali impongono ai singoli Stati l’obbligo di reprimere le infrazioni gravi e le violazioni dei diritti umanitari considerate “crimini di guerra”. La legislazione penale italiana, anticipando i dettami del diritto internazionale umanitario, fin dal 1941 aveva previsto la punizione di crimini di guerra negli articoli 165-230 del codice penale militare di guerra.

Vediamo ora se e con quali modalità l’Italia, in adesione agli obblighi internazionali, ha finora tutelato le vittime dei crimini di guerra e, più in generale, quale disciplina penale ha applicato nel caso di missioni militari italiane all’estero.

Il codice penale mentre da un lato non prevede fattispecie criminose per sanzionare i crimini di guerra dall’altro, in quanto espressione del principio di territorialità (sia pur temperata) della legge penale, pone seri limiti alla perseguibilità dei reati dallo stesso previsti (molti crimini di guerra sicuramente integrano ipotesi di delitti comuni contro la persona) quando gli stessi vengano commessi all’estero.
Così sono fissati, negli articoli 7, 8, 9, 10 del codice penale, i requisiti per la punibilità dei delitti commessi all’estero: oltre a elencarne alcuni nominativamente (delitti contro la personalità dello Stato, di contraffazione del sigillo, di uso di tale sigillo, di falsità in monete e in valori di bollo o in carte di pubblico credito, quelli commessi da pubblici ufficiali abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni) commessi dal cittadino o dallo straniero, è altresì previsto un limite minimo di pena edittale, nonché la richiesta del Ministro della Giustizia o la presenza del reo nel territorio dello Stato.

Per quanto riguarda la fase di prevenzione e accertamento dei reati, il codice di procedura penale e le norme in materia di pubblica sicurezza certamente non consentono alle nostre Forze di polizia lo svolgimento di tali attività al di fuori del territorio nazionale se non in presenza di specifici accordi con lo Stato dove devono essere compiute; le stesse non potrebbero poi sicuramente essere svolte, in sede di repressione dei crimini di guerra, dai militari appartenenti ai contingenti italiani all’estero, quantomeno in base alle norme del codice penale.

Norme specifiche in materia sono invece contenute nei codici penali militari: l’articolo 17 del codice penale militare di pace prevede l’applicazione della legge penale militare anche per i reati commessi in territorio estero “di occupazione, soggiorno o transito delle Forze Armate dello Stato”. In questo caso non è prevista alcuna condizione di procedibilità e sono superati i problemi - almeno per quanto riguarda le attività da svolgersi nei confronti dei nostri militari in quanto destinatari dei precetti penalmente sanzionati - in punto di attività di polizia giudiziaria, essendo estesa l’applicabilità della “legge penale militare” e, quindi, anche di quella processuale. Per i reati militari commessi all’estero da appartenenti ai nostri contingenti, la competenza per il giudizio appartiene al tribunale militare di Roma, così come dispone la legge 180/1981.

Resta il problema della perseguibilità dei crimini di guerra, logicamente non previsti nel codice penale militare di pace. Tali delitti sono contenuti negli articoli 165-230 del codice penale militare di guerra il quale peraltro, all’articolo 9, dispone: “sono soggetti alla legge penale militare di guerra, ancorché in tempo di pace, i Corpi di spedizione all’estero per operazioni militari, dal momento in cui si inizia il passaggio dei confini dello Stato, e, se trattasi di spedizione oltremare, dal momento in cui si inizia l’imbarco del Corpo di spedizione. Per gli equipaggi delle navi militari o degli aeromobili militari, la soggezione alla legge penale militare di guerra ha inizio dal momento in cui è ad essi comunicata la destinazione alla spedizione”.

Tale norma, rendendo operativa la legge penale militare di guerra in tutti i casi di invio di Corpi di spedizione all’estero per motivi in qualsivoglia modo qualificati, consente altresì la perseguibilità dei reati contro le leggi e gli usi della guerra eventualmente commessi dai militari italiani ovvero a danno di questi ultimi.

Ulteriore conseguenza dell’applicazione del codice penale militare di guerra è la temporanea vigenza anche della disposizione secondo la quale la legge penale militare di guerra si applica per i reati da essa preveduti quando commessi nei luoghi in stato di guerra o considerati tali; nonchè di quelle che sottopongono alla legge penale militare di guerra i prigionieri di guerra, i militari nemici che commettono reati contro le leggi e gli usi della guerra e gli estranei alle Forze Armate che commettono alcuni dei fatti di forzata consegna, resistenza, minaccia, violenza a sentinella, offese a persone in servizi speciali.

La necessità di norme speciali per le situazioni di emergenza che si verificano durante un conflitto armato internazionale non può essere negata: gli interventi in Irak, in Somalia e nei Balcani hanno fatto emergere problematiche (con riguardo alle norme di diritto penale militare applicabili) che dimostrano che è contraddittorio da parte dello Stato italiano inviare all’estero reparti militari operativi senza munirli di strumenti giuridici moderni e credibili.

D’altro canto le cosiddette “regole di ingaggio”, emanate in occasione delle varie missioni di pace, sono giunte ad ammettere (come nel caso della Bosnia) l’uso della forza contro Forze ostili/belligeranti che abbiano compiuto in precedenza un atto ostile contro le Forze amiche, ma che al momento non stiano conducendo la predetta attività, a patto che tale azione sia immediata e rispetti i presupposti di tempestività, necessità militare e uso proporzionale/minimo della forza.

Inoltre per “operazione militare” non può che intendersi quell’attività complessa, organizzata e coordinata, di razionale attuazione di concetti tattici per l’impiego dei reparti armati per il conseguimento dei fini particolari loro assegnati; quindi azioni complesse, coordinate e dirette da capi militari, che consistono in un attacco o in una difesa.

In tale ottica l’articolo 9 del codice penale militare di guerra è finalizzato a una più rigida tutela penale nei confronti di militari che, in quanto destinati a operazioni militari, si trovano in una situazione di impiego nella quale sussiste almeno la possibilità di dovere svolgere azioni di guerra.

A fronte di tutto ciò nei vari decreti legge che hanno autorizzato e normativamente regolato dal punto di vista amministrativo gli interventi dei nostri contingenti militari era stata finora inserita la deroga al citato articolo 9 del codice penale militare di guerra: “al personale militare di cui al presente articolo si applica il codice penale militare di pace”. È curioso notare come negli stessi decreti legge venne espressamente fissata la disciplina - ai fini del trattamento economico e della legittimità dell’assenza dal servizio - del personale impossibilitato a prestare servizio “perché in stato di prigionia o disperso".

5. Diritto umanitario, diritto bellico e conflitti armati

Un’ulteriore incongruenza deve essere evidenziata. Lo Stato Maggiore della Difesa, con la pubblicazione SMD-G-014 approvata l’11 novembre 1991, riproponeva la versione aggiornata del Manuale di diritto umanitario, contenente gli usi e le convenzioni di guerra, le istruzioni concernenti i prigionieri di guerra nemici, la raccolta delle leggi nazionali relative ai conflitti armati e alla neutralità, nonché la raccolta delle convenzioni internazionali relative ai conflitti armati. Nella introduzione al detto manuale si legge: “data la vastità della materia essa è stata limitata al diritto in guerra... in sostanza ci si occuperà del diritto che il militare italiano deve applicare nel caso in cui si trovi ad operare in situazioni di guerra o di neutralità... poiché anche la dizione jus in bello può apparire ambigua, è bene specificare che con essa si intende comprendere: qualunque conflitto di carattere internazionale che coinvolga le Forze Armate dello Stato italiano in operazioni militari; qualunque conflitto di carattere non internazionale o situazione conflittuale interna che preveda la partecipazione attiva e diretta delle Forze Armate italiane in operazioni militari...; qualunque operazione di Forze militari di pace, autonoma o sotto l’egida delle organizzazioni internazionali, che coinvolga contingenti o aliquote di Forze Armate italiane in operazioni militari vere e proprie”. Ci troviamo così in presenza di disposizioni regolamentari vincolanti per i militari dei nostri contingenti, la cui violazione può essere sanzionata (salvo che le condotte integrino estremi di reato comune, con i limiti di procedibilità già visti) solo disciplinarmente in quanto le corrispondenti norme penali, pur esistenti nell’ordinamento, sono state rese inoperanti dal Legislatore.

Vediamo infine brevemente quali sono stati gli effetti pratici di questa regolamentazione del diritto bellico e della relativa giurisdizione, facendo riferimento a fatti accaduti nel corso della missione in Somalia.

È giunta notizia che il nostro contingente, essendo stato fatto oggetto di attacco armato, era riuscito a catturare alcuni degli aggressori; non essendo applicabile il diritto bellico (se non a livello di norme regolamentari e di “regole di ingaggio”) nacque il problema su chi dovesse custodire i prigionieri e su chi li dovesse giudicare, nonché se gli stessi potessero essere trattenuti in arresto a titolo di custodia cautelare per il giudizio, sempre tenendo conto del fatto che in loco non vi erano tribunali funzionanti e che il codice penale militare di guerra non era applicabile. Non sapendo quale soluzione adottare, pare che sia stata scelta la strada di trasportare i somali in territorio controllato dalla loro fazione e lasciarli liberi.

I mezzi di informazione hanno dato notizia di presunti abusi e maltrattamenti commessi da militari del nostro contingente a danno di somali. A prescindere dalla perseguibilità degli eventuali reati militari di abbandono di posto o di violata consegna eventualmente commessi da coloro che avrebbero tenuto questi comportamenti (che astrattamente rientrerebbero a pieno titolo tra i “crimini di guerra”), non potendosi applicare il diritto internazionale umanitario i “maltrattamenti” inferti al somalo catturato avrebbero potuto eventualmente configurare gli estremi del reato comune di percosse (sempre che se ne dovesse ritenere legittima la cattura e quindi insussistenti ulteriori ipotesi di reato di sequestro di persona o di violenza privata), sanzionato dall’articolo 581 del codice penale con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a lire seicentomila: trattandosi di reato comune commesso all’estero a danno di straniero la punibilità da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria italiana è sottoposta alla doppia condizione di procedibilità della querela della persona offesa e della richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia, le quali potranno intervenire solo dopo l’eventuale richiesta di estradizione non concessa o non accettata dal Governo dello Stato in cui è stato commesso il reato. È evidente che a queste condizioni l’accertamento e la punizione di un fatto oggettivamente grave e lesivo dell’immagine dell’Italia in ambito internazionale risultano essere ben difficoltosi se non impossibili.

Qualora invece fosse stato applicabile il codice penale militare di guerra, i fatti avrebbero integrato la fattispecie prevista dell’articolo 209 (perseguibile d’ufficio) che sanziona con la reclusione militare da due a dieci anni i maltrattamenti verso un prigioniero di guerra da parte del militare italiano incaricato della sua vigilanza o custodia.

6. Enduring Freedom e modifiche al codice penale militare di guerra

Per quest’ultima missione in Afghanistan il Consiglio dei Ministri ha invece mutato radicalmente rotta con l’approvazione, in data 29 novembre 2001, di uno schema di decreto-legge contenente “Disposizioni urgenti per la partecipazione di personale militare all’operazione multinazionale denominata Enduring Freedom” e di uno schema di disegno di legge recante “Modifiche al codice penale militare di guerra”.

Con il primo sono state introdotte disposizioni urgenti in materia di legge penale militare di guerra, con efficacia limitata all’operazione in Afghanistan.

Nella relazione illustrativa si evidenzia come “l’impegno internazionale assunto dall’Italia in tale missione si traduce nella conduzione di una operazione militare, i cui caratteri essenziali sono sostanzialmente affini a quelli propri dell’attività bellica. Ciò comporta l’automatica applicazione, anche se soggettivamente delimitata, della legge penale militare di guerra. Infatti, ai sensi dell’art. 9 del c.p.m.g. sono soggetti alla legge penale militare di guerra, ancorché in tempo di pace, i corpi di spedizione all’estero per operazioni militari, dal momento in cui inizia il passaggio dei confini dello Stato e, se si tratta di spedizione oltremare, dal momento in cui inizia l’imbarco del corpo di spedizione. Se si considera che il nostro Gruppo navale è partito da Taranto il 18 novembre 2001, non v’è dubbio che la condizione giuridica di quei componenti la spedizione sia in atto quella dell’assoggettamento alla legge penale militare di guerra. L’applicazione della legge penale militare di guerra ai partecipanti alla spedizione è rispondente alla condizione propria della presente missione - che ha le caratteristiche di un conflitto armato -, alla circostanza che nel diritto e nella pratica internazionale al concetto di guerra si vada ormai da tempo sostituendo quello di conflitto armato, e alla indicazione della Costituzione, secondo cui - in base alla terminologia in uso all’epoca della sua stesura - un’apposita legge regola la giurisdizione militare in tempo di guerra. Essa ha il pregio di comportare non solo una particolare tutela penale inerente alla condizione e all’interesse militare, congrua rispetto alla presente ed eccezionale situazione..., ma anche quello di implicare l’applicazione delle norme contro le leggi e gli usi di guerra, cioè di diritto umanitario, già contenute nel codice penale militare di guerra e riguardanti la tutela delle popolazioni civili, degli infermi, dei feriti, dei naufraghi, del personale sanitario e dei prigionieri di guerra, vale a dire dei soggetti deboli, indifesi o particolarmente esposti alla sofferenza in siffatte situazioni”.

La relazione introduttiva prosegue rappresentando l’attuale inadeguatezza - e incostituzionalità - delle norme ordinamentali e processuali penali militari di guerra, in contrasto con i principi di indipendenza del giudice e con le garanzie difensive; in ultimo nella relazione si afferma altresì che non sembra persistere l’antica esigenza fondamentale che induceva alla costituzione dei Tribunali Militari di Guerra al seguito delle truppe, vale a dire la rapidità della risposta di giustizia in quelle circostanze perché oggi la difficoltà di comunicazione, che ne era alla base, è sensibilmente affievolita.

L’articolo 9 del decreto-legge pertanto dispone:

1. Non si applicano le disposizioni contenute nel Libro IV del codice penale militare di guerra sulla procedura penale militare di guerra, approvato con regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303.

2. Non si applicano le disposizioni concernenti l’ordinamento giudiziario militare di guerra, contenute nella Parte II dell’Ordinamento giudiziario militare, approvato con regio decreto 9 settembre 1941, n. 1022, e successive modificazioni.

3. La competenza territoriale è del tribunale militare di Roma.
I successivi commi introducono nuove regole - di notevole interesse per l’ufficiale di polizia giudiziaria militare, primo destinatario delle stesse - in materia di misure restrittive della libertà personale:

4. Oltre che nei casi previsti dall’articolo 380, comma 1, del codice di procedura penale, gli ufficiali di polizia giudiziaria militare procedono all’arresto di chiunque è colto in flagranza di uno dei seguenti reati militari:

a) disobbedienza aggravata previsto dall’articolo 173, secondo comma, del codice penale militare di pace;

b) rivolta, previsto dall’articolo 174 del codice penale militare di pace;

c) ammutinamento, previsto dall’articolo 175 del codice penale militare di pace;

d) insubordinazione con violenza, previsto dall’articolo 186 del codice penale militare di pace, e violenza contro un inferiore aggravata, previsto dall’articolo 195, secondo comma, del codice penale militare di pace;

e) abbandono di posto o violata consegna da parte di militari di sentinella vedetta o scolta, previsto dall’articolo 124 del codice penale militare di guerra;

f) forzata consegna aggravata, previsto dall’articolo 138, commi secondo e terzo del codice penale militare di guerra.

5. Nei casi di arresto in flagranza o fermo, qualora le esigenze belliche od operative non consentano che l’arrestato sia posto tempestivamente a disposizione dell’autorità giudiziaria militare, l’arresto mantiene comunque la sua efficacia, purché il relativo verbale pervenga, anche con mezzi telematici, entro quarantotto ore al pubblico ministero e l’udienza di convalida si svolga, con la partecipazione necessaria del difensore, nelle successive quarantotto ore. In tal caso gli avvisi al difensore dell’arrestato o del fermato sono effettuati da parte del pubblico ministero. In tale ipotesi, e fatto salvo il caso in cui le oggettive circostanze belliche od operative non lo consentano, si procede all’interrogatorio da parte del pubblico ministero, ai sensi dell’articolo 388 del codice di procedura penale, e all’udienza di convalida davanti al giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell’articolo 391 del codice di procedura penale, a distanza mediante un collegamento videotelematico od audiovisivo, realizzabile anche con postazioni provvisorie, tra l’ufficio del pubblico ministero ovvero l’aula ove si svolge l’udienza di convalida e il luogo della temporanea custodia, con modalità tali da assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti in entrambi i luoghi e la possibilità di udire quanto viene detto e senza aggravio di spese processuali per la copia degli atti. Il difensore o il suo sostituto e l’imputato possono consultarsi riservatamente, per mezzo di strumenti tecnici idonei. Un ufficiale di polizia giudiziaria è presente nel luogo in cui si trova la persona arrestata o fermata, ne attesta l’identità dando atto che non sono posti impedimenti o limitazioni all’esercizio dei diritti e delle facoltà a lui spettanti e redige verbale delle operazioni svolte. Senza pregiudizio per la tempestività dell’interrogatorio, l’imputato ha altresì diritto di essere assistito, nel luogo dove si trova, da un altro difensore di fiducia ovvero da un ufficiale presente nel luogo. Senza pregiudizio per i provvedimenti conseguenti all’interrogatorio medesimo, dopo il rientro nel territorio nazionale l’imputato ha diritto ad essere ulteriormente interrogato nelle forme ordinarie.

6. Con le stesse modalità di cui al comma 5 si procede all’interrogatorio della persona sottoposta alla misura coercitiva della custodia cautelare in carcere, quando questa non possa essere condotta, nei termini previsti dall’articolo 294 del codice di procedura penale, in un carcere giudiziario militare per rimanervi a disposizione dell’autorità giudiziaria militare”.

Parimenti fondamentali sono le modifiche proposte con il disegno di legge approvato nella stessa riunione del Consiglio dei Ministri, modifiche collegate funzionalmente all’esigenza di applicare il codice penale militare di guerra ai Corpi di spedizione mediante l’introduzione dei necessari adeguamenti alla nozione di “Stato alleato”, al quale viene equiparato lo Stato associato nelle operazioni belliche o partecipante alla stessa spedizione o campagna; alla categoria del reato militare, nella quale vengono ricondotti a determinate condizioni anche reati comuni commessi da militari; nonché mediante l’abrogazione di norme penali incriminatrici oggi vietate dalla Costituzione e l’introduzione di una sanzione penale per la presa di ostaggi, in adesione alle Convenzioni internazionali.

La disciplina normativa delle spedizioni militari all’estero con l’emanazione del predetto decreto-legge è quasi ottimale( lo sarà totalmente se diventeranno legge le modifiche al codice penale militare di guerra contenute nel predetto disegno di legge) per quanto attiene alla tutela penale dei reati militari commessi da e a danno dei militari italiani.

Meno soddisfacente è la situazione per quanto riguarda la normativa relativa alla disciplina degli atti di ostilità, contenuta nelle leggi di guerra e di neutralità, delle quali tuttora non è stata disposta l’applicazione: in materia saranno pertanto applicabili solo quelle norme regolamentari contenute nella sopra citata pubblicazione SMD-G-014 nonché nelle cosiddette “regole di ingaggio” predisposte dalla Nazione-leader delle operazioni o dalla NATO.