Il patteggiamento nelle sue componenti dinamiche interrelazionali

Chiara Merlo

A dispetto di una proficua ed evolutiva speculazione teorica, il fenomeno della pena appare a tutt’oggi pressoché incompreso e incerto il percorso giudiziario applicativo della stessa: il processo viene percepito dall’imputato come un meccanismo ingiusto e vuole sottrarvisi ad ogni costo anche se questo possa significare ammettere (pur se implicitamente) la propria colpa (nonostante si sia innocenti) e acconsentire ad un procedimento speciale e premiale, quale il patteggiamento, rinunciando, in questo modo, ad ogni possibile accertamento “dibattimentale” sulla responsabilità.

La cultura giuridica attuale (improntata ai principi del giusto processo!) spinge, allora, ad indagini ancora più accurate in campo penale e processuale e costringe lo studioso del diritto, data la sentita sempre attuale perversione del sistema punitivo, in una prospettiva (che sia!) più razionale di riforma, ad una valutazione ancora problematica dei meccanismi sanzionatori in atto consentendo di andare, nondimeno, al di là della norma processuale in esame e tentare, del patteggiamento, un’analisi anche sul versante psicologico giuridico.

L’introduzione di questo rito speciale, alternativo a quello ordinario dibattimentale, ha suscitato, per la sua prepotente influenza sulla disciplina sostanziale, innumerevoli critiche e seri dubbi di costituzionalità, nella misura in cui viene affidata alla volontà delle parti la decisione in merito alla pena.

In più, lo stesso sistema accusatorio, impiantato con l’introduzione del nuovo codice di procedura penale dell’89 e rielaborato con la riforma per il “giusto processo” entrata in vigore nel 2000, se ha trovato nell’“applicazione della pena su richiesta”, come in ognuno dei cinque procedimenti speciali adottati, una soluzione di celerità ed efficienza ad immagine e somiglianza dei sistemi processuali di giustizia anglosassoni, da quel procedimento in particolare è rimasto irrimediabilmente tradito nei suoi principi ispiratori: la frattura è stata, è, intima e insanabile e gli indispensabili continui aggiustamenti dell’uno all’altro presto hanno snaturato processo e patteggiamento insieme, anche e soprattutto alla luce di una nuova lettura di “giusto” processo.

Mentre per gli altri riti speciali si è assistito, infatti, più semplicemente, alla contrazione del giudizio, nel rito di specie il giudizio è stato annullato del tutto e annullato in luogo di un “negozio” c.d. processuale (“patteggiamento” è un termine usato nel gergo curialesco, con un senso dispregiativo, a sottolineare il quasi mercanteggiare la pena).

Che di negozio si tratti (o fino a che punto lo si possa definire tale) bisogna, a dire il vero, ancora verificarlo: in questa ipotesi le parti dell’accordo, pubblico ministero e imputato, dimostrerebbero lo stesso potere contrattuale rispetto al giudice e ciò, possiamo dire, non può essere alla luce della sentenza della Corte costituzionale del ’90 che, a pena di illegittimità, ha imposto, patto concluso, che il giudice si determinasse a stabilire in ogni caso l’eventuale e possibile “incongruità” della pena patteggiata (di nessun valore l’accordo!).

Se anche di negozio si tratta, stabilire quale sia la posizione processuale di chi si presta a patteggiare e la motivazione psicologica all’accordo dell’imputato diventa, a maggior ragione, condizione necessaria nel ponderare, anche da un punto di vista soggettivo, quali siano i reali effetti “contrattuali” che ne scaturiscono.

Opportuna qualche precisazione preliminare.

Per quel che riguarda il codice dell’89, se n’è potuta constatare la difficile attuazione per l’incomprensione ideologica (tuttora persistente) del cambiamento operato (o che si tentava di operare): la differenza tra vecchio e nuovo processo, tra inquisitorio e accusatorio, avrebbe dovuto ribaltare le convinzioni culturali di politica criminale adottate fino a quel momento dal nostro legislatore mentre, in realtà, non si è riusciti, come sempre succede nel nostro paese, a sostituire una mentalità, fortemente inquisitoria, e a scardinare i sempre validi mezzi della prassi.
Ancora oggi, nonostante si siano aggiunte consistenti leggi di riforma per l’attuazione del c.d. “giusto processo”, la difficoltà di realizzare quello schema ideale, basato su meccanismi di contraddittorio, oralità e pubblicità e l’esigenza di speditezza, che pure è alla base dell’efficienza e della giustizia del processo, hanno fatto sì che un modello rigido ed astratto (ideale!) venisse nella pratica vanificato quasi puntualmente assegnando, come è successo, proprio al patteggiamento una soluzione di fuga dal modello troppo farraginoso!

Nel momento in cui, però, si sono affidate la riuscita del nuovo codice e la realizzazione dei principi ispiratori la nuova riforma alla normale applicazione del patteggiamento, il processo è diventato sempre meno esperienza giurisdizionale e il problema non ha riguardato più l’efficienza del processo, da considerare in ogni caso esigenza fondamentale, quanto, piuttosto, la sua stessa esistenza.

Il giusto processo, a ben vedere, riguarda un processo che non c’è o che solo eventualmente può venire ad essere, risolvendosi il giudizio, il più delle volte, in una fase pre-dibattimentale solo “procedimentale”.

Così, nell’ideologia del processo in forma patteggiata, al giudice non si chiede più di commisurare la pena, bensì di “adeguare la legge alle richieste di parte” (questo almeno fino all’intervento della Corte cost. con la sent. del ’90).

L’adozione del patteggiamento pertanto ha inciso profondamente non solo sui tempi del giudizio, ma, e soprattutto, sul normale modo di intenderlo, visto il valore negoziale che si attribuisce con esso alla pena: quale momento impositivo e non meramente convenzionale della pena, lo stesso non può non avvalersi di strumenti rigorosamente e schiettamente processuali (quindi dibattimentali!), perché è solo su di un piano processuale e dibattimentale che si può comprendere e misurare la distanza tra pena “teorica” e pena “reale”.

Per chi ritenesse, in sostanza, che il processo penale dibattimentale (accusatorio) sia la migliore sede di applicazione del diritto, non può non ritenersi, allo stesso tempo, che solo al processo, al giudice e non alle parti, debba essere affidato il grave compito di commisurare la pena; la società, che impone le sue leggi agli individui e che neanche può rinunciare alla sanzione come mezzo di imposizione, non può non rimettersi ad un giudizio terzo per la concreta attuazione della sanzione penale e delle sue finalità.

E se pure riusciamo ad accontentarci di un giudizio postumo all’accordo e che valuta, senza accertamento (perché allo stato degli atti), semplicemente la “incongruità” della pena (su quali basi poi se non formali!), come possiamo permettere di condannare come colpevole chi solamente si dichiara colpevole senza magari esserlo effettivamente?

Ma volendo mettere da parte considerazioni giuridiche che possono sembrare di origine meramente etico-morale (i principi accolti dal nostro sistema normativo a livello costituzionale e penale!), volendo fare cioè più propriamente i pratici del diritto (i semplicisti!), rinunciando quindi a profonde (sembrerebbe inutili!) considerazioni teorico-idealistiche, si può, per il momento, tralasciare ogni valutazione di questo genere e guardare al patteggiamento (per vanificare allo stesso modo gli effetti “economici” e positivi di esso tanto esaltati) da un altro punto di vista ancora: quello di chi va a patteggiare e ritiene che sia “conveniente”.

La richiesta ed il consenso assumono, nel quadro del procedimento, le caratteristiche proprie di una dichiarazione di volontà che mira, sì, al conseguimento di determinati effetti (vantaggi!) di tipo processuale e sostanziale come la deflazione e la premialità, ma che, tra i suoi effetti (svantaggi!), nasconde pur sempre una ammissione di colpevolezza che non potrà mai più essere confutata.

Ecco perché è importante cercare di capire che, oltre alla fisionomia del complesso dichiarativo (di matrice, parrebbe, civilistica, anche nel caso in cui non si tratti di un negozio), occorre riconoscere quali siano le reali motivazioni e le strategie soggettive che spingono le parti, in particolar modo l’imputato, a richiedere o ad acconsentire ad un giudizio secondo patteggiamento.

Una volta fatta la richiesta di applicazione della pena allo stato degli atti, diverse e alternative saranno le situazioni processuali possibili che l’imputato si troverà a dover gestire. Alcune, lo stesso non le avrà neanche messe in conto, allettato, come è, dalla premialità e dalla semplicità del procedimento (questo, tra l’altro, è stato lo spirito del legislatore: “tentare” all’accordo).

Alla richiesta dell’imputato, il p.m. potrà acconsentire ma potrà anche non farlo (a prescindere che il suo dissenso sarà poi valutato giustificato o meno dal giudice del dibattimento e costituire, in quest’unico caso, una possibilità di appello, sempre del p.m., al patteggiamento); se poi si addiviene all’accordo, il giudice potrà ratificarlo ma, abbiamo visto, alla luce della sent. cost. del ’90 ( ora 2° comma, art. 444), potrà anche rigettare la richiesta valutando incongrua la pena.

L’imputato, invece, fatta la richiesta, non potrà più tornare sui suoi passi: richiedendo un’applicazione di pena, ritenendo cioè suo diritto non voler andare oltre nelle fasi del processo e valida la decisione allo stato degli atti (indifferentemente si trovi in udienza preliminare o addirittura ancora nel corso delle indagini), avrà in quel modo ammesso di meritare la pena indicata e dovrà ritenerla ad ogni modo giusta (a prescindere se poi egli riesca in definitiva a patteggiarla o meno, a prescindere cioè se il p.m. l’accetti o il giudice la ratifichi). Ciò, per i limiti processuali, a lui purtroppo sfavorevoli, che egli stesso si è dato (in questa autosottoposizone al rito è ravvisato il suo esercizio del diritto di difesa e in essa quel diritto si esaurirebbe).

Se può sembrare, con il patteggiamento, che egli abbia a sua disposizione rilevanti mezzi processuali, potendo egli stesso decidere in qualche modo la pena stessa, tutto questo è soltanto illusorio: il legislatore, mentre gli dà la facoltà di andare a patteggiare, subito gliela toglie, agli effetti, per i consistenti poteri che a riguardo hanno il p.m. di rifiutare l’accordo e il giudice di valutare incongrua la pena.

Alle parti non è lasciata la piena libertà di accordarsi: questa risulta fortemente viziata nel suo farsi.

Con il patteggiamento inizia in sostanza per l’imputato una fase di non ritorno poiché, anche (e a maggior ragione) nel caso in cui il p.m. dissenta o il giudice rigetti l’accordo e si debba così tornare allo schema ordinario di giudizio, egli stesso avrà sprecato, proprio sulla base di quell’accordo, ed è spiacevole, ogni possibilità di dimostrarsi innocente e ogni possibilità di difesa e autodifesa in tal senso, non essendone più valida, come avrebbe potuto essere dall’inizio, l’intenzione di difendersi come innocente: l’imputato non potrà più contraddire la sua stessa volontà, precedentemente espressa, di essere punito.

Proviamo a considerare che il più delle volte è proprio il p.m. ad avere vivo interesse a patteggiare (non tanto a richiedere, quanto per lo meno ad acconsentire), spinto e motivato dall’esigenza di smaltire i consistenti carichi processuali affidatigli e nella considerazione, inoltre, che le pene patteggiate non sono che per reati di minore gravità (tra i presupposti nell’adozione del rito speciale v’è che la pena da applicare in concreto non superi i due anni, indipendentemente dall’applicazione di pene pecuniarie).

È in suo pieno potere la decisione in merito: non rischiando egli alcuna punizione, può facilmente acconsentire, richiedere insieme all’imputato (art. 444: “l’imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice…”) o anche dissentire.

Che senza richiesta o adesione dell’imputato non vi sia possibilità di introdurre il rito speciale è certo, e dovrebbe sembrare anche ovvio, ma il potere dispositivo detenuto dal p.m. ha, speriamo di dimostrarlo, margini, anche psicologici, più ampi.

All’imputato viene offerta la possibilità, ove ci siano i presupposti, di promuovere, oppure no, il patteggiamento. Egli può senza dubbio anche acconsentire o meno alla eventuale richiesta del p.m., ma oltre ad essere questa nella pratica una possibilità remota, egli si troverebbe, in questo caso, nella posizione diversa di chi accetta e non di chi propone la sua stessa condanna.

Dal momento in cui ne richiede l’applicazione e ne attiva il meccanismo premiale egli, però, non potrà più condurne le sorti a differenza del p.m. che, fissata la richiesta dalla controparte, con tutte le implicazioni che ne derivano, avrà in potere l’imputato stesso, per la colpa da quello ammessa, e potrà attivarsi così al dibattimento o meno, come meglio crede, acconsentendo o dissentendo senza alcun rischio per sé.

In un’ottica puramente negoziale, possiamo intendere che il potere contrattuale del p.m., per la forza del suo consenso, maggiore rispetto a quella dell’imputato, prostrato di fronte all’eventualità che si vada in dibattimento, possa essere in realtà condizionante ai fini dell’assunzione del rito o addirittura induttiva.

Il p.m. può quasi minacciare il dibattimento all’imputato che lo teme.

Tuttavia, mentre il suo consenso è necessario perché ci sia l’accordo, il suo diniego, se ritenuto infondato dal giudice, non è preclusivo dell’applicazione della pena su richiesta.

Ed è sui motivi del dissenso del p.m. e sulla sua fondatezza o infondatezza che gran parte della dottrina ha così innestato gli argomenti per dimostrare la non negoziabilità della pena patteggiata: ci si è voluti rassicurare della non negoziabilità dimostrando che il consenso del p.m. non è vincolante (anche se elemento determinante ai fini dell’accordo), e che la valutazione del giudice sull’eventuale dissenso sia un chiaro esempio dei poteri che quest’ultimo non ha perso.

Ma se davvero non c’è un negozio (il che sarebbe un sollievo ai fini dei principi processuali accusatori dove la parità processuale delle parti non viene più decisa dalla capacità negoziale delle stesse) l’imputato potrebbe essere, in questa prospettiva, senza processo, in balia delle mere decisioni (importanti ma pregiudizievoli) del p.m., che può fargli soffrire l’accettazione di una proposta che si muove al di fuori degli schemi contrattualistici e garantistici di un negozio, e del giudice che, vestito l’abito, può a sua discrezione decidere di non dare valore alla pena c.d. patteggiata (c.d. perché, a quanto pare, non lo è).

È diventato assai problematico, alla luce di queste considerazioni, riuscire a comprendere quale sia ora la fisionomia del complesso dichiarativo che sottende il patteggiamento (di che tipo di accordo si tratta?): ove richiesta e accettazione riescano ad intrecciarsi per regole non definite di consenso, e le parti si accordino sulla pena, il giudice può “interferire” dall’esterno.

“La condizione delle parti, al momento attuale, può riportarsi ad una sorta di gara ad offerta segreta, nell’ambito della quale il dato probabilistico acquista un ruolo primario, nell’aspettativa dell’accettazione da parte del committente”: l’imputato dovrà valutare se patteggiare o meno, non solo guardando all’utilità concreta che gli può derivare in seguito all’accettazione della richiesta, ma prendendo in considerazione anche l’eventualità che, con l’intervento del giudice e la reiezione del procedimento, o anche solo per il diniego del p.m., potrebbe subire una decisione molto più svantaggiosa di quella da lui prospettata.

È proprio la possibilità del patto a non essere in potere dell’imputato.
Che il patto ci possa essere o meno (ed è una contraddizione in termini), solo il p.m. e il giudice possono deciderlo.

Se cioè il p.m. può rifiutare l’accordo e demandare al giudice la decisione sulla richiesta o, una volta patteggiata la pena, il giudice può “mandare all’aria” l’accordo, possiamo ben capire che l’imputato, verificatesi queste ipotesi, oltre a vedere tradite le sue aspettative circa gli effetti sperati della sentenza di patteggiamento, si potrebbe trovare, in più, a dover affrontare un giudizio ordinario sul cui esito, s’è detto, potrebbe incidere di fatto la sua stessa dichiarazione di volontà (che se proprio non è una ammissione di colpevolezza, certamente non nega la sua responsabilità).

“È ovvio infatti che, se l’imputato si concorda con il pubblico ministero, accetta di ricevere, comunque, una condanna; e ciò è la palese antitesi di ogni proclamazione di innocenza. Per l’effetto, qualora il giudice (per intima convinzione o per capriccio) non convalidi tale accordo, il successivo rinvio a giudizio risulta già munito di una confessione che, alla fine, può essere suscettibile di provocare condanne anche pesantissime e, ad ogni buon conto, svincolate da qualunque limitazione contrattuale”.

Proprio ove non si concluda, il patteggiamento può aumentare fortemente il rischio di esiti negativi e/o peggiorativi per la posizione processuale dell’imputato. È proprio nella valutazione dei costi-benefici di tale rischio da parte dell’imputato che il p.m. assume nei confronti dello stesso una posizione ancora di vantaggio nelle trattative.

Se pensiamo però che “l’unico depositario dell’interesse a subire una pena è l’imputato” e che la sua posizione processuale, qualora il patteggiamento non si concluda, può essere gravemente compromessa, diventa davvero essenziale, su queste basi, insistere sulla ingiustizia del procedimento.

Ricapitolando: l’imputato chiederebbe l’ammissione al rito non pronunciandosi circa la propria colpevolezza e rinunciando a provare la sua innocenza in dibattimento, perché consapevole di non avere validi e ragionevoli argomenti per farlo o perché preferisce rischiare la pena piuttosto che il processo: la sua, quindi, sarebbe una mera tattica di difesa.
Ma proprio perché si presume che l’imputato accetti la pena nella prospettiva di non avere altre chances di difesa o di non essere capace di affrontare il processo, non è arbitrario pensare che, in virtù di questa presunzione, sarà data alla dichiarazione di voler patteggiare il valore di una implicita “confessione” (una confessione in un certo senso dedotta dal comportamento e in seguito alla quale l’imputato rimarrà poi intrappolato).

A ben vedere, nel patteggiamento manca ogni struttura dialogica (non solo di contraddittorio); perciò è nelle tensioni psicologiche delle parti precedenti l’accordo che si muove ogni prospettiva processuale del soggetto che verrà punito.

Basando, però, il giudizio su pure presunzioni e sul calcolo delle strategie, ogni criterio di ricerca della verità verrà vanificato e anche la pena finirà per perdere di significato.

“L’assoluzione dell’innocente e la condanna del colpevole alla sola giusta pena” costituiscono obiettivi che non possono essere lasciati alla disponibilità dell’imputato, soprattutto se questi non ha fiducia nel sistema processuale-penale e tenta, come estrema possibilità di riscatto, di venire a patti con chi l’accusa e scongiurare così il giudizio pubblico che ritiene non gli convenga (e forse non gli conviene, se pensiamo che oggi il processo viene vissuto come soltanto persecutorio).

La sua stessa condizione di ansia e la situazione emotiva rispetto alla pena lo porteranno a scegliere la via più breve, inconsapevole del pericolo, che egli in questo modo corre, di vedersi punito ingiustamente (punito in un modo ingiusto!).

Se il processo non gli conviene, neanche il patteggiamento gli conviene, soprattutto se la sua decisione di patteggiare dipende da una demotivazione psicologica al processo e se il patteggiamento è deciso dalla volontà del p.m., prima, e da quella autorevole del giudice, poi. Nulla è la sua forza contrattuale rispetto alla pena richiesta da applicare.

Il patteggiamento, ora sappiamo, non è un negozio o gli somiglia davvero poco: l’imputato non può così decidere le sorti della richiesta che egli fa di pena; se consideriamo che patteggia per reati lievi, a maggior ragione ogni rischio di valore aggiunto di pena e il rischio stesso del processo che non vuole viziano i presupposti di un accordo che, tra l’altro, di seguito, verrà valutato anche nel merito (oltre che per la legittimità) dal giudice.

Cosa resta del patteggiamento, se non un buco nero dove si perdono i principi del diritto, processuale e penale, conquistati nel tempo?

Non ha valore negoziale, non ha valore processuale ma, soprattutto, non dà alcun valore alla pena. Non si può negare, infatti, che, se questo è il mezzo per applicarla, se ne privilegia l’aspetto materiale dell’imposizione.

Il fine rieducativo della pena, che la stessa dovrebbe portare con sé in ragione della punizione da parte della società per un comportamento che il soggetto punito dovrà ritenere sbagliato, con il patteggiamento verrà irreparabilmente deluso.

Lo schema processuale, che elude importanti fasi di accertamento, e il giudizio approssimativo in cui si risolve il patteggiamento (senza cioè alcuna indagine sulla colpevolezza) non consentono all’imputato alcuna riflessione in merito sia alla legittimità dell’iter processuale sia alla meritevolezza della condanna. Nell’ottica del reinserimento, sarà un’occasione mancata di recupero sostanziale dei valori lesi e di riequilibrio dei rapporti sociali traditi.