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Giustizia Militare

a cura di Renato Maggiore

Diserzione - Pena - Potere discrezionale del giudice - Obbligo di enunciare analiticamente tutti gli elementi che determinano la sanzione - Non sussiste - Richiamo in sentenza solo alla gravità del reato e alla capacità delinquere - È dato sufficiente - Sospensione condizionale - Ne è motivo che si presuma la astensione da altri reati - Attualità della permanenza - La rende inconfigurabile.

(C.p., artt. 133, 164 co. 1°)

Corte di Cassazione, Sez. 1^ pen., 19 gennaio 2000. Pres. Losanna, Rel. Marchese, P.M. mil. Gentile (conf.), in c. D.

La doglianza per esser mancanto il minimo nel quantum di pena irrogato, che sia basata sull’omesso richiamo esplicito in sentenza di tutti i criteri dettati dall’art. 133 c.p., è infondata, legittimamente potendo tale richiamo limitarsi agli elementi rivelatisi determinanti, quali la gravità del reato e la capacità a delinquere dell’imputato. Così dicasi se il giudice non ha concesso la sospensione condizionale, cui fondamento per legge è la presunzione che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori delitti, questa non potendo sussistere a fronte di una persistente permanenza delittuosa al momento del giudizio(1).

Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:
««Tratto a giudizio per rispondere del reato di diserzione aggravata (artt. 148 n. 2, 154 n. I Cod. pen. mil. pace) “perché il 25 marzo 1997, data di scadenza di un riposo domiciliare e nei cinque giorni successivi, ometteva, senza giusto motivo di presentarsi al Distretto Militare di Roma, ove era effettivo, rimanendo arbitrariamente assente per oltre sei mesi e sino a tutt’oggi”, il Tribunale militare dì Roma con sentenza del 2 giugno 1998, ha dichiarato F. D. colpevole del reato ascrittogli con la concessione di circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante. Quindi, ritenuta la continuazione con i reati meno gravi di cui alla sentenza di condanna emessa dal Tribunale militare di Roma in data 13 marzo 1997, ha rideterminato la pena in complessivi sette mesi di reclusione militare, con l’esclusione dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione.
Sul gravame proposto dal difensore dell’imputato, la Corte militare di appello, con sentenza del 1° luglio 1999, ha integralmente confermato la pronuncia impugnata.
Avverso tale decisione, il D. ha proposto il ricorso per cassazione che viene ora alla cognizione di questa Corte.

OSSERVA IN

DIRITTO

Con i motivi di impugnazione, il ricorrente, denunciando la mancanza e manifesta illogicità delle motivazioni, sostiene che se la Corte militare avesse tenuto nella giusta considerazione i criteri di cui all’art. 133 cod. pen., la pena irrogata avrebbe potuto essere contenuta nei minimi edittali, e che nessuna coerenza logica poteva attribuirsi alle argomentazioni addotte per denegare il beneficio della sospensione condizionale della pena.

Le censure sono manifestamente infondate.

Ed invero, come è stato ripetutamente affermato da questa suprema Corte, il giudice di merito nel determinare la misura della pena esercita un ampio potere discrezionale e perciò non è tenuto ad enunciare analiticamente tutti gli elementi presi in considerazione, ma può limitarsi alla sola specificazione dell’elemento o degli elementi resisi determinanti per la soluzione adottata. Conseguentemente, anche il semplice richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell’imputato sono sufficienti a far ritenere che il giudice abbia tenuto presente, sia pure globalmente, i criteri dettati dall’art. 133 cod. pen. per il corretto esercizio del potere discrezionale conferitogli dalla norma in ordine al “quantum” della pena.

Quanto, poi, alla denegata concessione della sospensione condizionale della pena, va tenuto conto che, a norma dell’art. 164, 1° comma, cod. pen., il beneficio è concedibile solo se il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori delitti, ed è ovvio che nessuna presunzione di tal fatta può sussistere allorché sia in atto la commissione di un reato permanente.

Il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento, a favore della cassa delle ammende, della somma che, attesa la pretestuosità dell’impugnazione, viene determinata in £. 1.000.000»».


Lesione personale - Fattispecie - Concorso in percosse del ricorrente - Successiva lesione da parte del coagente concorrente - Reato diverso quale sviluppo di condotta meno grave dal ricorrente voluta - Necessità logica che da parte del ricorrente già la lesione fosse prevedibile quale azione conseguente dal reato meno grave voluto dal ricorrente - Questi ne risponde, per il concorso anomalo.

(C.p.m.p., art. 223; c.p., art. 116)

Corte di Cassazione, Sez. 1^, 19 gennaio 2000. Pres. Losanna, Rel. Marchese, P.M. mil. Gentile (diff.), in c. A.

In fattispecie di concorso originario del ricorrente in percosse, se sopravvenga lesione da parte del concorrente, che così risponda a reazione dell’offeso, allora del reato di lesione personale, poiché prevedibile come sviluppo del voluto concorso in percosse, risponde pure dil ricorrente che il rato di percosse, meno grave, aveva voluto(1a).

Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:
«« Il soldato A. venne tratto a giudizio, dinanzi al Tribunale militare di Verona, per rispondere del reato di concorso in violenza ad inferiore pluriaggravata e continuata (artt. 61, n. l, e 110 cod. pen.; 195 e 47 n.4 cod. pen. mil. pace) perché, effettivo al Btg. AIp. Par “Monte Cervino” in Bolzano, verso le ore 22.00 del 19 giugno 1997, in concorso con il caporale D., colpiva I’ alpino C. con un calcio alla schiena mentre il D. lo colpiva con alcuni pugni alla schiena ed uno al volto, causandogli una lesione personale, trauma labbro superiore angolo labiale sinistro, con ferita lacero-contusa, guarita in quindici giorni.

Con sentenza del 25 settembre 1998 il Tribunale, escluso il concorso e derubricata l’originaria imputazione in quella di percosse, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato per mancanza della richiesta di procedimento del comandante di corpo.

Sul gravame interposto dall’Avvocato Generale Militare, la Sezione distaccata in Verona della Corte Militare di Appello, con sentenza del 20 maggio 1999, ha invece ritenuto l’imputato colpevole del reato di concorso in lesione personale (artt. 110 cod. pen. e 223 cod. pen. mil. pace), così modificata l’originaria imputazione e, con la concessione di circostanze attenuanti generiche e di quella prevista dall’art. 116, 2° comma, cod. pen., lo ha condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di un mese di reclusione militare.

In particolare, la Corte militare ha osservato che, dalle univoche e concordi dichiarazioni rese dai testi escussi, era stato pacificamente acclarato che il D. e A. avevano concordemente posto in essere una condotta di violenta manomissione dell’incolumità fisica del C., il primo con pugni ed il secondo con calci, anche se non finalizzata alla produzione di particolari conseguenze lesive e che la repentina reazione della persona offesa, donde era scaturito il comportamento del D., immediatamente causativo della lesione, non poteva assolutamente ritenersi non collegata con l’azione precedentemente concertata, trattandosi di uno sviluppo, del tutto prevedibile, dell’azione e, quindi, delle sue conseguenze, sicché doveva ritenersi che l’intera vicenda trovava la sua soluzione giuridica nell’art. 116 cod. pen., non potendo revocarsi in dubbio che vi era stata, da parte dell’imputato, l’accettazione consapevole delle prevedibili conseguenze lesive di una condotta manomissiva dell’integrità personale precedentemente concertata.

Avverso tale decisione, l’A., a mezzo del suo difensore, ha proposto il ricorso per cassazione che viene ora alla cognizione di questa Corte.

OSSERVA IN

DIRITTO


Con i motivi di impugnazione, il ricorrente, nel denunciare l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, sostiene che la Corte militare ha supposto una partecipazione che non è riuscita ad inquadrare né come concorso morale, né come concorso materiale e che comunque nessuna compartecipazione poteva configurarsi nel più grave reato commesso dal D., né era ravvisabile alcun nesso psicologico.

Le censure, oltre che alquanto generiche, sono manifestamente infondate.

Ed invero, la Corte militare ha accertato, in punto di fatto, che il D. e l’A. avevano entrambi ordinato al C. di stendersi a terra per effettuare delle flessioni e che, quando quest’ultimo si era steso, gli erano state gettate addosso delle coperte e era stato contemporaneamente colpito con pugni dal D. e con calci dall’A.

Tale violenta aggressione aveva scatenato la reazione del C. che alzatosi, si era scagliato contro il graduato il quale lo aveva colpito al viso procurandogli la lesione.

Non ha quindi errato la Corte di merito nella qualificazione giuridica di tale fatto, avendo esattamente individuato gli elementi che configurano il cosiddetto concorso anomalo previsto dall’art. 116 cod. pen. E precisamente: a) l’adesione dell’agente al reato concorsuale meno grave (percosse); b) la commissione, da parte del concorrente, di un reato diverso e più grave (lesioni); c) il nesso psicologico, in termini di prevedibilità, tra la condotta dell’agente e l’evento diverso e più grave (la reazione, della persona offesa, alla violenta aggressione, e quindi le più gravi conseguenze verificatesi, erano indubbiamente prevedibili).

Il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento, a favore della cassa delle ammende, della somma che, attesa la pretestuosità dell’impugnazione, viene determinata in £ 1.000.000»».


Procedimenti - Connessione - Reato comune (più grave) e reato militare - Competenza del giudice ordinario - Archiviazione per il primo reato - Persistenza della incompetenza del giudice militare - Validità del precedente atto dichiarativo assicurata dal divieto del bis in idem - Non sussiste.

(C.p.p., artt. 13.2, 649)

Corte di Cassazione, Sez. 1^ pen. (c.c.), 19 gennaio 2000. Pres. Losanna, Rel. Canzio, P.14. mil. Gentile (conf.), in c. R.

È abnorme e illegittima l’applicazione fatta dal Tribunale militare - in riferimento a sentenza dichiarativa di difetto di giurisdizione del giudice militare per l’art. 13.2 c.p.p. quando la vis attractiva a favore di quello ordinario sia venuta meno a seguito di archiviazione, da questi (G.i.p.) operata, del reato (comune) più grave - del divieto, di bis in idem, così rendendolo produttivo, da momento anteriore al giudizio, di perpetuatio iurisdictionis, sino all’effetto di violare il principio costituzionale sul giudice naturale precostituito, che, per il reato militare, è il giudice militare(1b).

Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:
««1. - Il Tribunale militare di Roma, con sentenza del 14.1.1997, dichiarava il proprio difetto di giurisdizione nel procedimento a carico del R .per il reato di truffa aggravata ex art. 234 cpv. n. 1 c.p.m.p., sul rilievo della connessione con il procedimento per il più grave reato comune di cui all’art. 4 co. 1 lett. d) L 516/82. Disposta l’archiviazione per il reato tributario e separata la posizione dell’imputato militare rispetto a quello civile, il p.m. ordinario, non sussistendo più ragioni di connessione, restituiva gli atti al p.m. militare per la residua truffa militare. Il tribunale militare di Roma, investito nuovamente del procedimento a carico del R. per tale reato, ritenuta illegittima la regressione in forza della persistente giurisdizione del giudice ordinario, nonostante l’intervenuta archiviazione per il più grave reato comune, dichiarava, con sentenza in data 28.1.1999, non doversi procedere nei confronti dell’imputato ai sensi dell’art. 649.2 c.p.p. “avendo già pronunciato per lo stesso fatto sentenza dichiarativa del proprio difetto di giurisdizione”.

Ha proposto ricorso per cassazione il p.m. denunziando violazione di legge per l’illegittima applicazione del divieto di un secondo giudizio alla sentenza dichiarativa del difetto di giurisdizione e per l’inosservanza dell’art. 13.2 c.p.p. quanto alla connessione di procedimenti di competenza del giudice ordinario e del giudice speciale, nonché per essere stata deliberata la sentenza impugnata in sede di decisione sull’ammissibilità delle prove dedotte dalle parti.

2. - Il ricorso del p.m. è fondato.

Ed invero, a prescindere dalla pur abnorme applicazione, in riferimento alla sentenza dichiarativa del difetto di giurisdizione, del divieto di bis in idem sancito dall’art. 649 c.p.p., la Corte di cassazione ha più volte escluso che la connessione, sebbene si configuri come criterio autonomo ed originario di attribuzione della competenza, debba continuare - per il principio della perpetuatio jurisdictionis - a produrre i suoi irreversibili effetti anche dopo il venir meno, per qualsiasi causa inerente alle vicende processuali, della fattispecie criminosa dotata di vis attractiva ai fini della determinazione del giudice competente. Ed invero, una volta elisa prima del giudizio l’operatività della vis attractiva (nel caso in esame, a seguito del provvedimento di archiviazione del g.i.p. del tribunale ordinario per il più grave reato comune di frode fiscale), ciascun procedimento deve ritornare nel suo alveo originario, in base agli ordinari criteri di attribuzione della giurisdizione e della competenza. Se così non fosse, il giudice ordinario, anche in assenza dei presupposti applicativi delle inderogabili regole sulla connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e di giudici speciali stabilite dall’art. 13.2 c.p.p. - non essendo ormai compreso nel procedimento il reato dotato dell’originaria forza attraente -, sarebbe chiamato, con palese anomalia ed in evidente violazione del principio costituzionale concernente il giudice naturale precostituito, a giudicare di fattispecie criminose per le quali la giurisdizione è attribuita al giudice speciale»».


Violazione di consegna - Nozione di “consegna” - Comportamento dettato da norma regolamentare - Rientra nel concetto - Elemento soggettivo - Omessa osservanza per il bisogno di evitare ritardo nell’inizio del servizio, attribuendo ad altri la cura di quel comportamento - Il reato si configura già solo nella volontà della condotta difforme pur se priva della intenzione di conseguenze di danno.

(C.p.m.p., art. 120)

Corte di Cassazione, Sez. 1^ pen., 19 gennaio 2000. Pres. Losanna, Rel. Marche se, P.M. mil. Gentile ( conf.), in c. R.

Nella nozione giuridica di “consegna” rientra l’indicazione di comportamento imposto al militare non solo da specifica disposizione del superiore ma anche da prescrizioni generali rilevanti ai fini della corretta esecuzione di un servizio, quale l’incarico del prelevamento, caricamento e scaricamento di armi. E non fa difetto il relativo elemento psicologico se la condotta omissiva dell’esecuzione di quelle prescrizioni sia tenuta senza l’intenzione di conseguente danno o pericolo ma solo per evitare il rischio del ritardo nell’assicurare l’inizio di regolare svolgimento di servizi(1c).

Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:
««Con sentenza del 18 settembre 1998 il Tribunale militare di Palermo, previa concessione di circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante e con i benefici di legge, ha condannato alla pena di mesi cinque di reclusione militare F. R., avendolo ritenuto colpevole del reato di concorso in violata consegna aggravata e continuata (artt. 110 e 81 cpv. cod. pen., 120 e 47 n.2 cod. pen. mil. pace) perché, S. Ten. in servizio presso 1’8° Rgt. Alpini di Catania, in data 4 giugno 1997 presso il Distaccamento di Catania Fontanarossa, allorché stava iniziando lo svolgimento del servizio in qualità di Comandante di plotone, in concorso con il S. Ten. F. F., capo servizio, violava le consegne di prelevare personalmente le armi e le munizioni presso l’armeria facendole prelevare dal suddetto capo servizio e ometteva poi di effettuare le operazioni di caricamento armi nel posto previsto.

Sul gravame proposto dal difensore dell’imputato, la Sezione distaccata in Napoli della Corte militare di appello, con sentenza del 23 aprile 1999, in parziale riforma della pronuncia impugnata, esclusa la continuazione e concessa l’ulteriore attenuante dell’ottima condotta di cui all’art. 48 cod. pen. mil. pace, ha ridotto la pena a due mesi e venti giorni di reclusione militare, sostituita con la sanzione pecuniaria di £.6.000.000.

In particolare, la Corte militare ha osservato:

- che le disposizioni relative al prelievo delle armi ed alle operazioni di caricamento e scaricamento armi erano state puntualmente e specificamente inserite nelle consegne predisposte per il Comandante di Plotone (servizio svolto dal R.) ed imponevano a questi di prelevare e distribuire personalmente l’armamento e di effettuare le operazioni di caricamento (controllando che esse fossero svolte correttamente anche da tutti i militari componenti il plotone, nell’apposito posto allestito nel distaccamento) sicché non v’era dubbio che il R. fosse tenuto ad osservare quelle disposizioni impartitegli a titolo di consegna per lo svolgimento del servizio;

- che, anche sotto un profilo più sostanziale, poteva dirsi che la disciplina delle operazioni di prelievo e caricamento armi rientrava a pieno titolo nella essenza del servizio perché qualsiasi anomalia concernente l’armamento dei militari, oltre a compromettere la sicurezza delle persone, influisce in misura massiccia sulla efficienza del servizio;

- che l’osservanza delle consegne non tollerava eccezioni di sorta, neanche in caso di ritardo nella assunzione del servizio che, peraltro, si dispiegava ininterrottamente nelle ventiquattro ore, con turni di avvicendamento, sicché l’eventuale ritardo avrebbe solo comportato un aggravio per la muta precedente, tenuta a restare sul posto fino al momento del cambio;

- che, con specifico riferimento al problema dell’elemento psicologico del reato, andava detto che il R. non si era trovato di fronte a due doveri apparsigli come “incompatibili” ed entrambi da osservare, bensì aveva da un lato una consegna da rispettare e, dall’altro, il timore di subire le conseguenze disciplinari del proprio ritardo, ed aveva preferito tutelare la propria posizione piuttosto che assicurare il regolare svolgimento del servizio, incorrendo quindi consapevolmente in una condotta contraria alle consegne;

- che, d’altra parte, immediata conseguenza della condotta censurata era stata l’accidentale esplosione di un colpo dalla propria pistola in dotazione, circostanza che il R. aveva tentato di occultare mediante sostituzione della cartuccia con altra in suo possesso;

- che andava tuttavia esclusa la continuazione in quanto la condotta posta in essere dal R., ancorché articolata, aveva violato la consegna solo nella parte relativa alla predisposizione delle armi per il servizio, cosicché unica era la messa in pericolo del bene giuridico protetto dalla norma e, quindi, unico il reato.

Avverso tale decisione, il R. ha proposto il ricorso per cassazione che viene ora alla cognizione di questa Cortee.

OSSERVA IN

DIRITTO

Il Con i motivi di impugnazione, il ricorrente, denunciando la manifesta illogicità della motivazione, sostiene:

- che non rientra nel concetto di “consegna” il comportamento imposto ad un militare non da una specifica disposizione di un superiore, ma da una norma legislativa o regolamentare;

- che, in ogni caso, il S. Ten. F. era abilitato ad effettuare le operazioni di prelievo e di caricamento delle armi;

- che, quanto all’elemento soggettivo, avrebbe dovuto rilevarsi che il comportamento dell’agente non è stato determinato dalla necessità di tutelare la propria posizione, ma assolutamente dalla volontà di assicurare il regolare svolgimento del servizio, portandosi sul posto all’ora stabilita, che, nella sua convinzione, aveva avuto la prevalenza su ogni altra considerazione.

Le censure sono manifestamente infondate.

Ed invero, a norma dell’art. 26, 1° comma, del vigente Regolamento di disciplina militare, approvato con D. P. R. 18 luglio 1986, n. 545, “la consegna è costituita dalle prescrizioni generali o particolari, permanenti o temporanee, scritte o verbali, impartite per l’adempimento di un particolare servizio”.

È perciò evidente che anche le disposizioni di carattere generale, rilevanti ai fini della corretta esecuzione di un servizio, formano parte integrante della consegna, e ciò indipendentemente dal loro specifico e diretto richiamo nel particolare ordine impartito.

Né può dubitarsi in ordine alla rilevanza, ai fini della corretta esecuzione del servizio armato assegnato al R. (controllo di obiettivi fissi), delle disposizioni concernenti il prelevamento, il caricamento e lo scaricamento delle armi.

Va anche rilevato che il militare comandato in servizio regolato da consegna non può farsi sostituire nel servizio senza essere stato regolarmente autorizzato (art. 26, 2° comma del citato Regolamento di disciplina).

Va altresì precisato che, secondo la costante giurisprudenza di questa suprema Corte, l’elemento soggettivo del reato di violata consegna consiste nella volontà, libera e cosciente, di tenere un comportamento difforme dalle prescrizioni imposte, anche se il militare non abbia avuto l’intenzione di produrre, come conseguenza della sua azione od omissione, quel danno o quel pericolo ad evitare i quali era stata data la consegna (trattasi di reato di pericolo presunto), e che tutte le prescrizioni hanno uguale forza cogente, che il militare incaricato deve scrupolosamente osservare, senza la possibilità di interpretazioni o di opinioni personali, sostanzialmente elusive delle stesse, che si porrebbero, quindi, come inammissibili condizioni dell’osservanza, con conseguente loro irrilevanza ai fini dell’esclusione dell’elemento soggettivo, mentre non può avere rilievo l’errore di fatto, che si risolverebbe in un errore di diritto, cioè sulle disposizioni della consegna, integrative del precetto penale (l’art. 120 cod. pen mil. pace è indubbiamente una norma penale in bianco).

Il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento, a favore della cassa delle ammende, della somma che viene determinata in £ 1.000.000»».