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  • N.4 - Ottobre-Dicembre
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  • Legislazione e Giurisprudenza
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Giustizia Militare

Procedimento penale militare - Condizioni di procedibilità - Richiesta di procedimento del comandante di corpo - Legittimità - Esigenza della motivazione - Ipotizzabilità di obbligo veniente dalla sua natura di provvedimento amministrativo - Esclusione dall’obbligo generale di cui alla legge 241/1990 - Legittimità della norma di cui all’art. 260 c.p.m.p.

(Cost., artt. 3, 97; C.p.m.p., art. 260, co. 2°; L. 241/1990, art. 3)

Corte di Cassazione, Sez. 1^ pen., 8 novembre 1999. Pres. Gemelli, Rel. Canzio, P.M. mil. Garino (conf.), in c. R.

La richiesta del Comandante di Corpo, necessaria per la procedibilità dei reati nei casi previsti dall’art. 260 c.p.m.p., quale atto processuale idoneo a rimuovere un limite all’esercizio dell’azione penale, non è soggetta al generale obbligo di motivazione imposto dall’art. 3 della legge n. 241 del 1999, nè l’art. 260 predetto è costituzionalmente illegittimo perché la mancata previsione di tale obbligo non può dar luogo a discrezionalità violatrice del principio di eguaglianza nè ad arbitrarietà quanto alla imparzialità ad al buon andamento dell’amministrazione (1a).

Si legge quanto appreso nel testo della sentenza:
« «Con sentenza in data 28.10.1998 il Tribunale militare di Torino dichiarava non doversi procedere nei confronti di R. A. in ordine ai reati di percosse, minaccia e danneggiamento di edifici militari per difetto della condizione di procedibilità costituita dalla richiesta di procedimento del comandante del corpo ex art. 260, 2° comma, c.p.m.p.: quest’ultima, pure in atti, veniva disapplicata siccome ritenuta illegittima perché priva di qualsiasi motivazione, obbligatoria per ogni provvedimento amministrativo ai sensi dell’art. 3 L. n. 241/90.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso immediato per cassazione il P.M., denunziando violazione della norma di cui all’art. 260, 2° comma, c.p.m.p., sul duplice rilievo della natura di atto processuale della richiesta del comandante di corpo, che è diretta a rimuovere un limite all’esercizio dell’azione penale e non esige alcuna motivazione ed è giudizialmente insindacabile, e della specialità ed organicità della disciplina dettata dalla legge militare rispetto a quella contenuta nell’art. 3 l. n. 241/90.

Il ricorso del P.M. é fondato.

Il Collegio condivide infatti il principio giurisprudenziale più volte affermato dalla Corte di cassazione (Sez. I, 20.5.1998, Di Fazio, rv. 211281-282; 6.12.1996, Gargiulo, rv. 206665), secondo cui la richiesta del comandante di corpo, necessaria per la procedibilità di reati per i quali il codice penale militare di pace stabilisce la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi, è atto formale e irrevocabile, soggettivamente amministrativo e subordinato ai requisiti richiesti dalla legge penale (forma scritta; sottoscrizione dell’autorità competente; presentazione al p.m. entro un mese dal giorno in cui la detta autorità ebbe notizia del fatto); si configura come vero e proprio atto processuale idoneo a rimuovere un limite all’esercizio dell’azione penale, e perciò inserito nell’iter del processo penale, con la conseguenza che ad esso non è applicabile il generale obbligo di motivazione imposto dall’art. 3 l. n. 241 del 1990 per gli atti amministrativi direttamente incidenti nella sfera giuridica sostanziale del destinatario.

Sono altresì manifestamente infondati, in relazione ai principi di uguaglianza, imparzialità e buon andamento della P.A. di cui agli art. 3 e 97 Cost., i dubbi di legittimità costituzionale della norma in esame, nella parte in cui non prevede come obbligatoria la motivazione della discrezionale richiesta di procedimento del comandante del corpo, in quanto, da un lato, la discrezionalità nell’applicazione della legge non può dar luogo a disparità di trattamento apprezzabili sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza, ma, eventualmente, a mere disparità di fatto, in sé inidonee a determinare una incostituzionalità della norma, e, dall’altro, quanto all’imparzialità e al buon andamento dell’amministrazione, la disciplina legislativa non appare affatto arbitraria, com’è stato più volte riconosciuto dalla Corte costituzionale (n. 449/91, n. 114/82, n. 42/75).

La sentenza impugnata dev’essere pertanto annullata con rinvio, per nuovo giudizio, al giudice competente per l’appello ai sensi dell’art. 569.4 c.p.p., il quale s’uniformerà al principio di diritto sopra enunciato.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia alla Corte militare d’appello, sez. dist. di Verona, per nuovo giudizio)» ».




Truffa militare - Spese di missione per un sottufficiale - Falsità della ricevuta di spese - Danno del risultante esborso superiore al vero - Natura militare dell’illecito - Tesi del danno per il ministero delle Finanze - E di conseguente truffa comune con difetto della giurisdizione militare - è tesi infondata - Imputabilità del rimborso al Ministero della Difesa - Competenza del giudice militare

(C.p.m.p., artt. 234 co. 1° e 2° n. 1, 47 n. 2; C.p., art. 81 co. 2°)

Corte di Cassazione, Sez. 1^ pen., 11 novembre 1999. Pres. Sacchetti, Rel. La Gala, P.M. mil. Gentile (conf.), in c. C.

Nella condotta del sottufficiale che, per il trattamento di missione, presenti ricevute fiscali dell’esborso con indicazione di spese d’albergo superiori a quelle effettuate, e consegua rimborso maggiorato, si configura il reato militare di truffa e non quello di truffa comune, onde la piene competenza attribuita al giudizio degli Organi giudiziari militari, inesatta essendo la valutazione che il danno ricade sul Ministero delle Finanze poiché invece ne resta danneggiata l’Amministrazione militare in quanto il rimborso di cui trattasi viene imputato all’apposito capitolo del Ministero della Difesa (1b).

Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:
« «Con sentenza di primo grado pronunziata il 18/6/98 il Tribunale militare di Napoli ha condannato C. A., Maresciallo Capo dell’Esercito, alla pena di mesi otto di reclusione militare per il reato di truffa militare pluriaggravata e continuata (artt. 234 co. 1 e 2 n.1, 47 n.2 c.p.m.p., 81 cpv. cp) consistente nell’avere indotto in errore il servizio amministrativo e l’ufficio liquidatore al fine di ottenere il rimborso delle spese di missione in misura superiore a quelle effettivamente sostenute.

Sulla base delle dichiarazioni del Maresciallo dei Carabinieri P.A., agente provocatore che si era recato presso l’hotel per accertare le modalità della truffa, dichiarazioni poi confermate dalla perizia effettuata sul sistema informatico usato dall’albergo e sui dati in esso contenuti, il Tribunale ha accertato le modalità del vasto fenomeno di truffa realizzato mediante le false ricevute fiscali rilasciate ai militari in missione ed ha ritenuto in particolare che l’imputato ha presentato ricevute fiscali indicanti un esborso superiore a quello versato per l’uso della camera ed ha così ottenuto il rimborso della maggior somma di lire 296.000 a fronte di un esborso effettivo di sole lire 147.400.

La pena è stata ridotta a mesi due, convertita nella multa di lire 6.000.000, dalla Corte militare di appello di Napoli, con sentenza pronunziata il 7/4/1999, per effetto della concessione della attenuante del danno di lieve entità prevista dall’art. 62 n. 4 Cp.

I giudici di appello hanno invece confermato la affermazione di responsabilità disattendendo la eccezione di difetto di giurisdizione, sollevata con riferimento alla natura militare del reato, e la richiesta di rinnovazione parziale del dibattimento allo scopo di acquisire documentazione relativa ai prezzi delle camere effettivamente praticati dall’hotel e copie di decisioni di altri organi giudiziari per fatti analoghi. Hanno osservato da un lato che il reato ha certamente natura militare in quanto la truffa è stata commessa da un militare in danno della amministrazione, dall’altro lato che i documenti di cui si è chiesta la acquisizione sono superflui ed irrilevanti.
Contro la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione l’imputato personalmente, deducendo nell’ordine:

  • difetto di giurisdizione del giudice militare perché il reato di truffa contestato non ha natura militare in quanto il danno relativo ricadrebbe sul Ministero delle Finanze e perciò su un organo della pubblica amministrazione ma non di quella militare;

  • mancata acquisizione di prova decisiva diretta a dimostrare che il costo della camera pagato ed indicato nelle ricevute fiscali corrisponde esattamente a quello comunicato dal titolare dell’albergo alla A.P.T. di Roma;

  • carenza e illogicità della motivazione nella parte in cui le modalità della truffa sono state ricostruite sulla base delle dichiarazioni dell’agente provocatore.

Tutti i motivi di ricorso sono infondati.
1 - Con riferimento alla giurisdizione del giudice militare, contestata sotto il profilo della natura non militare del reato di truffa contestato, questa Corte conferma la tesi, costantemente seguita dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, secondo cui il reato previsto dall’art. 234 C.p.m.p., pur ricalcando lo schema normativo della truffa comune semplice o aggravata, come disciplinata dall’art. 640 C.p., se ne differenzia tuttavia nella parte in cui prevede che il soggetto danneggiato sia un altro militare (ipotesi semplice) o l’amministrazione militare (ipotesi aggravata).

Ne consegue che la truffa prevista dal codice penale militare costituisce un reato militare, diverso dalla truffa comune prevista dal codice penale, ed appartiene alla giurisdizione dei tribunali militari, a sensi dell’art. 103, co. 3, della Costituzione, quando sia stato commesso da un appartenente alle Forze Armate.

Nel caso concreto è certo che l’imputato è un militare in servizio ed appartenente alle Forze Armate, che ha commesso la truffa inducendo in errore gli organi amministrativi del reparto di appartenenza allo scopo di ottenere il rimborso delle spese di missione in misura superiore a quella effettivamente sostenuta. Il danno è stato perciò certamente subito dalla amministrazione militare di appartenenza, che ha dovuto liquidare e pagare somme non interamente dovute.

La tesi ora sostenuta dal ricorrente, nel senso che l’amministrazione danneggiata sarebbe il Ministero delle Finanze, non ha fondamento. Il rimborso delle spese di missione è infatti imputato all’apposito capitolo di bilancio del Ministero della Difesa, non essendo certamente applicabile il regolamento di amministrazione della Guardia di Finanza che è stato indicato a sostegno della tesi difensiva. Così come non ha alcuna attinenza con il caso ora deciso la sentenza 18/7-24/9/1994 n. 10138, Baldassarre, di questa Sezione, anch’essa citata a sostegno della tesi della natura non militare della truffa in oggetto. La decisione si riferisce infatti alla applicabilità dell’indulto, previsto per la truffa comune, anche alla truffa militare e costituisce una conferma indiretta della natura militare della truffa prevista dall’art. 234 C.p.m.p. per la cui configurabilità è richiesto che il danno ricada su un altro militare o sulla amministrazione militare.

2 - Infondato è anche il secondo motivo con il quale è stata censurata la mancata acquisizione della prova, ritenuta decisiva, diretta a dimostrare che il costo della camera indicato nelle ricevute fiscali corrisponde esattamente a quello dichiarato alla Azienda Provinciale del Turismo di Roma. La circostanza infatti correttamente è stata ritenuta irrilevante perché è stato accertato, in punto di fatto, che l’imputato ha pagato, per effetto della applicazione del sistema degli sconti, abitualmente praticato dall’albergo nei confronti dei militari in missione, un prezzo inferiore a quello dichiarato.

3 - Infine è infondata la censura contenuta nel terzo motivo e relativa alla presunta illogicità della motivazione nella parte in cui avrebbe ricostruito lo svolgimento dei fatti sulla base delle dichiarazioni del teste P., agente provocatore. La sentenza ha infatti logicamente messo in evidenza la conferma che le dichiarazioni del teste hanno trovato nelle risultanze dell’esame peritale compiuto sui dati contabili contenuti nell’archivio informatico dell’albergo e nel programma che il personale addetto alla contabilità utilizzava per gestire il sistema degli sconti.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali» ».