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  • N.4 - Ottobre-Dicembre
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Attualità e commenti

Magg. CC Stefano Lupi

Le recenti modifiche in materia di formazione e valutazione della prova: riflessioni sull’attività di polizia giudiziaria.


1. La legge 1° marzo 2001 n. 63, recante “Modifiche al codice di procedura in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’art. 111 della Costituzione”, oltre ad incidere profondamente sull’effettività del principio del contraddittorio e sulla stessa natura accusatoria del processo penale, contiene una serie di importanti disposizioni attinenti l’attività della polizia giudiziaria, sia nella fase delle indagini preliminari, sia in quella dibattimentale.
In particolare tali modifiche investono tre settori fondamentali:

  • l’attività della polizia giudiziaria (delegata o di iniziativa) in relazione alle modifiche apportate in materia di fonti di prova dichiarative;

  • l’attività della polizia giudiziaria in relazione alla utilizzabilità delle informazioni assunte dalle cc.dd. fonti confidenziali;

  • i limiti di testimonianza della polizia giudiziaria.

2. Circa il primo aspetto l’art. 2 della legge, modificando l’articolo 64 del codice di procedura penale, al comma 3 stabilisce quanto segue:

“3. Prima che abbia inizio l’interrogatorio, la persona deve essere avvertita che:

  1. le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti;

  2. salvo quanto disposto dall’articolo 66, comma 1, ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso;

  3. se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone, salve le incompatibilità previste dall’articolo 197 e le garanzie di cui all’articolo 197-bis.

3-bis. L’inosservanza delle disposizioni di cui al comma 3, lettere a) e b), rende inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona interrogata. In mancanza dell’avvertimento di cui al comma 3, lettera c), le dichiarazioni eventualmente rese dalla persona interrogata su fatti che concernono la responsabilità di altri non sono utilizzabili nei loro confronti e la persona interrogata non potrà assumere, in ordine a detti fatti, l’ufficio di testimone”.

Appare opportuno precisare, anche se non di immediato interesse per la polizia giudiziaria, che la modifica dell’art. 64 risponde alla necessità di sottoporre i c.d. collaboratori di giustizia al contraddittorio nella qualità di testimoni e di procedere secondo il meccanismo delle contestazioni, ex art. 500 c.p.p., che prevede, a differenza di quanto tratteggiato dall’art. 513 c.p.p. per l’esame dell’imputato, il divieto di lettura delle dichiarazioni precedentemente rese.

Circa i doveri tecnici della P.G., va evidenziato che la norma incide sulle facoltà e sui diritti dell’indagato, cui il Pubblico Ministero e la polizia giudiziaria sono tenuti a fornire esplicite comunicazioni ex art. 369 bis c.p.p. nella nuova formulazione della legge n. 60/2001 in materia di difesa d’ufficio (si richiama al riguardo il contenuto dello specifico elaborato trasmesso con lettera n.137/50-1 di prot. 1993 de 10 luglio 2001).

La normativa in esame infatti impone anche gli ufficiali di polizia giudiziaria, non solo per gli interrogatori delegati ex artt. 363 -370 c.p.p., ma anche nel caso di sommarie informazioni rese dalla persona nei cui confronti vengono svolte indagini, ex art 350 co. 1, in virtù dell’espresso richiamo alla disciplina di cui all’art. 64, di dare atto dei suddetti avvertimenti pena il rischio di vanificare preziosi contributi probatori.

Va rilevato, sul piano generale, che proprio alla luce del co. 3 lettera c) art. 64, l’ufficio di testimone non consente di avvalersi della facoltà di non rispondere o di mentire. Di qui la possibilità in concreto, quando l’atto espletabile, seppur nei confronti di un soggetto indagato (non in procedimento connesso o collegato), costituisca nella sostanza un’assunzione di informazioni concernenti la posizione di terzi indagati, di considerare l’escusso alla stessa stregua di una persona informata sui fatti, obbligandolo a dire il vero.

Anche la disciplina delle sommarie informazioni ex art. 351 c.p.p. ha subito conseguentemente modifiche di rilievo, in virtù dell’introduzione dell’art. 197 bis c.p.p.:

art. 13:
1. All’articolo 351 del codice di procedura penale, al comma 1, l’ultimo periodo è sostituito dal seguente: «Si applicano le disposizioni del secondo e terzo periodo del comma I dell’articolo 362;
2. All’articolo 362 del codice di procedura penale, al comma 1, l’ultimo periodo è sostituito dal seguente: «Si applicano le disposizioni degli articoli 197, 197-bis, 198, 199, 200, 201, 202 e 203”.

art. 6:
1. Dopo l’articolo 197 del codice di procedura penale è inserito il seguente: art. 197-bis. - (Persone imputate o giudicate in un procedimento connesso o per reato collegato che assumono l’ufficio di testimone). - 1. L’imputato in un procedimento connesso ai sensi dell’articolo 12 o di un reato collegato a norma dell’articolo 371, comma 2, lettera b), può essere sempre sentito come testimone quando nei suoi confronti è stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444.
2. L’imputato in un procedimento connesso ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera c), o di un reato collegato a norma dell’articolo 371, comma 2, lettera b), può essere sentito come testimone, inoltre, nel caso previsto dall’articolo 64, comma 3, lettera c).
3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2 il testimone è assistito da un difensore. In mancanza di difensore di fiducia è designato un difensore di ufficio.
4. Nel caso previsto dal comma 1 il testimone non può essere obbligato a deporre sui fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio sentenza di condanna nei suoi confronti, se nel procedimento egli aveva negato la propria responsabilità ovvero non aveva reso alcuna dichiarazione. Nel caso previsto dal comma 2 il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti.
5. In ogni caso le dichiarazioni rese dai soggetti di cui al presente articolo non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto dei procedimenti e delle sentenze suddette.
6. Alle dichiarazioni rese dalle persone che assumono l’ufficio di testimone ai sensi del presente articolo si applica la disposizione di cui all ‘articolo 192, comma 3”.

In altri termini la polizia giudiziaria, alla luce del richiamo espresso alle regole dell’art. 362 così modificato, potrà assumere, in qualità di persona informata sui fatti, seppur con l’assistenza di un difensore, l’imputato in procedimento connesso o collegato, quando sia già intervenuta una sentenza irrevocabile.

Ne discende che l’escusso, anche in questo caso, non potrà avvalersi della facoltà di non rispondere o del c.d. diritto di mentire.
3. Circa il secondo aspetto, l’art. 7 della legge introduce una profonda modifica all’art. 203 del codice di procedura penale, in materia di utilizzabilità delle informazioni assunte dai c.d. confidenti aggiungendo all’articolo il comma 1 bis.:

“1-bis. L’inutilizzabilità opera anche nelle fasi diverse dal dibattimento, se gli informatori non sono stati interrogati né assunti a sommarie informazioni”.
In precedenza, com’è noto, l’inutilizzabilità delle informazioni delle fonti riservate, ai sensi della seconda parte del comma 1 dell’art. 203 c.p.p., si riteneva operasse solo in fase dibattimentale ai fini della formazione della prova, quando gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria nonché il personale dei Servizi Segreti, si avvalevano della tutela delle fonti contemplata dallo stesso articolo, rifiutandosi di indicarne l’identità.
In realtà già nel corso degli anni si era affermata un’interpretazione restrittiva del 203, tendente ad escludere l’utilizzabilità delle informazioni derivanti da fonti non esplicitate, in tutti i provvedimenti del giudice, compresi quelli in materia di misure cautelari e di intercettazioni telefoniche e/o ambientali. Ciò nonostante la collocazione sistematica della norma (Titolo II Mezzi di Prova) ne delimitasse l’area di applicabilità alla c.d. fase processuale, seppur intesa nella sua più larga accezione, comprendente cioè i giudizi dinanzi al GUP ed i riti alternativi.

Deve pertanto ritenersi che l’estensione introdotta dall’art. 7, come regola generale, estenda l’operatività del 203 anche ai provvedimenti del Pubblico Ministero in fase di indagini preliminari ed agli atti di iniziativa della stessa polizia giudiziaria (quando incidono sui diritti fondamentali! ( es. i decreti che dispongono l’acquisizione del traffico telefonico fisso e mobile, i decreti relativi agli accertamenti bancari, i decreti di perquisizione locale etc ...).

Ma, in particolare, la legge in esame ha voluto rimarcare l’inutilizzabilità delle fonti informative e, più in generale, l’operatività dell’art. 203 c.p.p., sia in materia di misure cautelari, sia nei provvedimenti autorizzativi delle intercettazioni:

art. 10:
1. All’articolo 267 del codice di procedura penale, dopo il comma I è inserito il seguente:
1-bis. Nella valutazione dei gravi indizi di reato si applica l’articolo 203”.

art. 11:
1. All’articolo 273 del codice di procedura penale, dopo il comma I è inserito il seguente: 1-bis. Nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli articoli 192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203 e 271, comma 1”.

In altri termini, con tali modifiche si è voluto ricondurre nel loro alveo le informazioni acquisite sul piano confidenziale: esse devono costituire un semplice spunto per l’avvio di indagini, o elemento da valutarsi, congiuntamente ad altri, per la più proficua progressione investigativa.

Ne discende che debbano ritenersi del tutto chiariti i dubbi relativi al significato giuridico di un’informazione confidenziale: essa non costituisce notizia di reato e non comporta, pertanto, l’obbligo di riferire ex art. 347 c.p.p., ma solo un generico dovere di attivare le verifiche necessarie a conferirle o meno un veste di notitia criminis.

4. Resta da esaminare l’aspetto concernente la testimonianza della polizia giudiziaria, in relazione alla quale l’art. 4 della legge ha reintrodotto, con i debiti correttivi, il limite previgente rispetto agli interventi della Corte Costituzionale del 1992, circa la c.d. testimonianza indiretta: “1. All’articolo 195 del codice di procedura penale, il comma 4 è sostituito dal seguente: «4. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli articoli 351 e 357, comma 2, lettere a) e b). Negli altri casi si applicano le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 del presente articolo»”.

Il testo previgente, dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, estendeva il divieto alle dichiarazioni genericamente acquisite dai testimoni.
La norma è di infelice formulazione e si presta pertanto ad interpretazioni non univoche. La disciplina introdotta dall’art. 4, da un lato sembrerebbe limitare il divieto ai casi di cui al combinato disposto degli artt. 351-357 co. 2 lett. a) e b), essendo le sommarie informazioni ex art. 351 c.p.p., quale atto vincolato alla forma del verbale, richiamate dalla lettera c) dell’art. 357.

Tale prima interpretazione consente di individuare la ratio del divieto proprio nel limitato riferimento all’art. 357, in cui:

  • i casi di cui alla lett. a) riguardano le denunce, le querele e le istanze, atti sostanzialmente irripetibili e destinati al fascicolo del dibattimento;

  • i casi di cui alla lett. b) riguardano invece le sommarie informazioni e le spontanee dichiarazioni rese dalla persona sottoposta ad indagini, in relazione alle quali, in realtà, già vige un espresso divieto di testimonianza ex art. 62 c.p.p.

Nella seconda ipotesi, deve ritenersi invece operante il divieto di testimonianza anche a tutti i casi di assunzione di informazioni ex art. 351, compresa quella dell’imputato di procedimento connesso o collegato, destinato ad assumere la veste di testimone ex art. l97 bis.

In tal senso sono orientati i primi commentatori della legge, che hanno dato per pacifico il ripristino di un divieto simile a quello rimosso dal Giudice Costituzionale, ritenendo peraltro non ben chiaro a cosa si riferisca la norma nella parte in cui fa salvi non ben precisati “altri casi” in cui la testimonianza indiretta degli appartenenti alla polizia giudiziaria diventa ammissibile negli stessi termini in cui lo è quella di una qualsiasi altra persona, posto che non sono agevolmente individuabili casi di dichiarazioni ricevute dalla polizia giudiziaria in quanto tale e al di fuori di uno specifico atto d’indagine e posto che è da respingersi un’interpretazione che ammetta la testimonianza indiretta tutte le volte che la polizia giudiziaria abbia raccolto dichiarazioni e omesso di documerntarle mediante verbale.

Tale impostazione non pare del tutto condivisibile, in quanto il riferimento agli ...altri casi, in relazione ai quali si applicano le regole dei commi 1, 2 e 3 dell’art. l95, riguarda, ad esempio:

  • le fonti informative di cui l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria abbia deciso di rivelare l’identità;

  • quanto relazionato a colui che ha diretto l’indagine-autore della informativa di reato da un suo dipendente, anch’egli ufficiale od agente di P.G.;

  • quanto appreso durante attività atipiche della P.G. (si pensi ad es. ad un ufficiale di P.G. che nel corso di funerale di una vittima di omicidio, senta due soggetti dialogare su aspetti relativi alla dinamica delittuosa o ad un ufficiale di P.G. operante sotto copertura);

  • le dichiarazioni assunte non ai sensi dell’articolo 351 c.p.p. ma su delega del P.M. ex art. 362-370 del Codice.

Nel caso prevalesse quindi l’interpretazione più restrittiva, l’incidenza sul dibattimento sarebbe di notevole portata, non tanto perché si sarebbe obbligati a ricorrere al teste diretto, ricorso già regolato proprio dai citati commi 1, 2 e 3 dell’art. l95, ma perché si priverebbe il dibattimento di un teste qualificato, in grado di offrire al Giudice una panoramica complessiva dell’attività investigativa.

Sotto tale profilo, vi è la possibilità di ricorrere alla mera identificazione dei soggetti suscettibili di assumere la veste di testimoni, con l’annotazione delle circostanze che essi sono in grado di riferire, fermo restando che il problema non può essere risolto con il mero adempimento formale dell’annotazione, essendo le informazioni assunte ex art. 351 c.p.p. soggette alla forma del verbale come da lettera c) 2° comma art. 357.

In altri termini soltanto esigenze di momentanea riservatezza o altre contingenti ragioni, possono giustificare il rinvio della verbalizzazione.

In alternativa o in concorrenza alla prima soluzione si può ricorrere alla delega per l’escussione da parte del PM, che comunque supererebbe il problema.

5. In conclusione possiamo affermare che tali modifiche legislative, che vanno globalmente valutate insieme alle ulteriori riforme in materia di giusto processo (vds. anche legge 7 dicembre 2000 n. 397 in materia di indagini difensive) debbono farci riflettere sulla necessità di aggiornare il nostro rapporto con il processo penale riconsiderando il fondamentale ruolo della testimonianza nel dibattimento, e di adeguare l’intera strategia investigativa in funzione della più ampia strategia processuale e dibattimentale.

Peraltro, soprattutto nei processi di Corte d’Assise, ove più marcato è il significato del libero convincimento del Giudice, l’opportunità della testimonianza di un ottimo operatore della polizia giudiziaria, che potrebbe illustrare elementi diversamente dispersi, indipendentemente dalla loro concreta suscettibilità di evolvere in prova, deve essere il risultato di un precisa strategia concordata con il PM, e di un’attenta organizzazione dell’esposizione testimoniale.

Il legislatore, attraverso le recenti modifiche legislative, per quanto suscettibili di considerazioni critiche, ha quindi suggerito un nuovo percorso metodologico nelle investigazioni della polizia giudiziaria, improntato sempre più alla ricerca della prova oggettiva ed inconfutabile frutto della creatività investigativa, limitando così la necessità del ricorso a fonti di prova dichiarative tradizionali.

In altri termini, una piattaforma investigativa articolata su base tecnica dovrà ridurre al minimo la stessa necessità del dibattimento, favorendo la scelta dei riti alternativi.
Rimane tuttavia la lacuna derivante dalla necessità di assicurare, soprattutto in materia di reati associativi, la disponibilità di un teste qualificato, dirigente complessivo dell’attività investigativa, che possa offrire un apporto conoscitivo utile a rendere pienamente intelligibile la sommatoria delle singole acquisizioni ed a fornire un contributo di verità storica alla costruzione dibattimentale della verità processuale.

Magg. CC Angelo Jannone.


Ufficio Europeo per la lotta antifrode (OLAF).

La lotta contro le frodi, una priorità delle istituzioni comunitarie

Le istituzioni comunitarie e gli Stati membri attribuiscono grande importanza alla tutela degli interessi finanziari e economici delle Comunità nonché alla lotta contro la criminalità organizzata transnazionale, le frodi e qualsiasi altra attività illegale che arrechi danno al bilancio comunitario.

Infatti, gli attentati alle politiche europee commessi dai criminali e dai frodatori non solo danneggiano il bilancio dell’Unione ma ne compromettono la credibilità.
La responsabilità della Commissione in materia è strettamente legata alla sua funzione di esecuzione del bilancio (art. 274 del trattato CE) ed è stata confermata dall’articolo 280 del trattato CE.

L’entrata in vigore del trattato di Amsterdam ha considerevolmente rafforzato i mezzi a disposizione della Comunità per lottare contro le frodi e contro le attività illecite in materia economica e finanziaria.

D’ora in poi, il nuovo articolo 280 del trattato CE offre una base giuridica esplicita per le azioni della Comunità e degli Stati membri nel settore della lotta contro la frode e le altre attività illecite che mettono in pericolo gli interessi finanziari della Comunità.

È su questa base che sono stati adottati la Decisione della Commissione del 28 aprile 1999 che istituisce l’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), i Regolamenti (CE) n. 1073-1074/99 del 25/maggio 1999 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alle indagini svolte dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) e l’Accordo interistituzionale del 25 maggio 1999, tra il Parlamento europeo, il Consiglio dell’Unione europea e la Commissione delle Comunità europee relativo alle indagini interne svolte dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) che ne precisano le modalità di funzionamento.

Con queste misure, la task-force “Coordinamento della lotta antifrode” (UCLAF) del Segretariato Generale della Commissione è stata sostituita da un Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), incaricato, oltre che delle indagini, anche della concezione e della preparazione della legislazione nel settore della tutela degli interessi comunitari e della lotta antifrode.

Pur avendo uno speciale statuto di indipendenza per quanto riguarda le funzioni investigative, l’OLAF fa sempre parte della Commissione europea e dipende dalla Sig.ra Michaele Schreyer, commissario responsabile del bilancio.

Uno strumento Europeo di lotta contro la criminalità transfrontaliera e le frodi.

L’OLAF, come si é accennato, svolge tutte le funzioni investigative attribuite alla Commissione dalla normativa comunitaria e dagli accordi in vigore con i paesi terzi al fine di rafforzare la lotta contro le frodi, la corruzione e qualsiasi altra attività illegale che danneggi gli interessi finanziari della Comunità europea.

Oltre alla tutela degli interessi finanziari, l’Ufficio è responsabile di tutte le attività connesse alla tutela degli interessi comunitari da comportamenti irregolari perseguibili amministrativamente o penalmente. Infatti le competenze dell’OLAF sono enumerate nella decisione della Commissione che lo istituisce:

  • effettuare indagini amministrative esterne nel quadro della lotta contro la frode, contro la corruzione e contro qualsiasi altra attività illecita lesiva degli interessi finanziari delle Comunità, nonché ai fini della lotta contro le frodi inerenti a qualsiasi fatto o atto compiuto in violazione di disposizioni comunitarie;

  • effettuare indagini amministrative interne miranti a:
    . lottare contro la frode, la corruzione e qualsiasi altra attività illecita lesiva degli interessi finanziari delle Comunità;
    . ricercare i fatti gravi, connessi con l’esercizio di attività professionali, che possano costituire un inadempimento degli obblighi dei funzionari ed agenti delle Comunità perseguibile in sede disciplinare o penale o che possano costituire inadempimento degli obblighi analoghi incombenti ai membri delle istituzioni, organi e organismi o del loro personale cui non si applica lo statuto dei funzionari delle Comunità europee;

  • effettuare missioni d’indagine in altri settori su richiesta delle istituzioni e organi comunitari;

  • contribuire al rafforzamento della cooperazione con gli Stati membri nel campo della lotta contro la frode;

  • predisporre la strategia della lotta contro la frode (preparazione delle iniziative legislative e regolamentari nei settori d’attività dell’Ufficio, compresi gli strumenti previsti dal titolo VI del trattato di Amsterdam);

  • avviare qualsiasi altra attività operativa in materia di lotta antifrode (apprestare le infrastrutture, raccogliere e utilizzare le informazioni, fornire assistenza tecnica);

  • agire come interlocutore diretto delle autorità giudiziarie e delle autorità di polizia;

  • rappresentare la Commissione nel settore della lotta antifrode.

Le competenze dell’OLAF nel settore della lotta contro le frodi saranno dunque più ampie di quelle precedentemente attribuite alla Commissione dai regolamenti (CE, Euratom) n. 2185/96 (tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee) e 2988/95 (controlli e verifiche sul posto effettuati dalla Commissione ai fini della tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee contro le frodi e altre irregolarità).

L’indipendenza dell’OLAF e del suo direttore generale

L’esecuzione delle funzioni investigative dell’OLAF (interne ed esterne alle istituzioni comunitarie) è svolta sotto la responsabilità del suo Direttore Generale, designato dalla Commissione per un periodo di cinque anni (rinnovabili una volta), previo parere favorevole del comitato di vigilanza e in concertazione con il Parlamento europeo e il Consiglio.

Nell’intento di garantire l’indipendenza dell’OLAF nella sue funzioni d’indagine, il legislatore comunitario ha fatto obbligo al Direttore generale dell’Ufficio di non chiedere né accettare istruzioni da alcun governo o istituzione dell’U.E. (compresa la Commissione). Infatti, il Direttore Generale dispone di un potere di ricorso contro la Commissione dinanzi alla Corte di Giustizia qualora ritenga che la Commissione abbia preso un provvedimento che metta in causa la propria indipendenza.

A garanzia, poi, di tale indipendenza, l’Ufficio è soggetto al controllo regolare delle funzioni d’indagine da parte di un Comitato di vigilanza, formato da cinque personalità esterne alle istituzioni comunitarie, indipendenti e particolarmente qualificate nei settori di competenza dell’Ufficio. Su richiesta del direttore o di propria iniziativa, il comitato di vigilanza fornisce al direttore pareri sulle attività dell’Ufficio, senza tuttavia interferire nello svolgimento delle indagini in corso.

Gli investigatori dell’OLAF: squadre pluridisciplinari di specialisti nel settore della lotta contro le frodi.

Attualmente, l’OLAF conta circa 150 agenti, compreso il personale non statutario. É in corso una procedura di assunzione di specialisti nella lotta antifrode che dovrebbe portare il personale a 330 persone verso la fine del 2001.

I responsabili delle indagini dell’OLAF, come tutti gli altri funzionari e agenti comunitari, operano esclusivamente nell’interesse delle Comunità. Devono svolgere le loro funzioni e regolare la propria condotta esclusivamente nell’interesse delle Comunità, senza accettare istruzioni da alcun governo, autorità, organizzazione o persona esterna all’istituzione.

Per svolgere tali specifiche mansioni, la maggior parte del personale dell’OLAF ha una solida esperienza professionale acquisita nei servizi investigativi, giudiziari e di polizia nazionali, nel settore delle indagini relative a casi complessi di frodi, nell’analisi e nella valutazione di informazioni o nelle attività di sostegno o di elaborazione di politiche in materia di lotta contro la frode.

La caratteristica della squadra di investigatori dell’OLAF è la sua pluridisciplinarità che consente di avere un approccio globale e intersettoriale (nei settori di polizia, giudiziario, finanziario, doganale, agricolo, ecc.). Il fatto che la maggior parte degli investigatori provenga dai servizi investigativi nazionali è prezioso per diversi motivi: prima di tutto per l’esperienza, ma anche per mantenere strette relazioni con i servizi di provenienza. Tale cooperazione è essenziale nella lotta contro i frodatori e i criminali che attentano agli interessi comunitari.

L’OLAF e i cittadini europei

L’OLAF non è quindi né un “servizio segreto”, né un servizio di polizia.
È solo lo strumento giuridico d’indagine amministrativa di cui si è dotata l’Unione europea, tramite la Commissione, per garantire una migliore tutela degli interessi comunitari e il rispetto del diritto contro gli attacchi della criminalità organizzata e dei frodatori.

Nello spirito di un servizio che difenda esclusivamente gli interessi dei cittadini europei e la supremazia del diritto, l’OLAF realizza una politica di stretta collaborazione con tutti gli organi competenti e con i cittadini.

I soli limiti alla sua politica di trasparenza assoluta sono stabiliti dalla normativa in vigore, dalle leggi sul segreto giudiziario e dal rispetto dei diritti delle persone.
In tale quadro, l’OLAF, come si é testé accennato, cerca la collaborazione delle istituzioni e di tutti i funzionari europei che hanno l’obbligo di comunicare all’Ufficio qualsiasi informazione relativa ad eventuali casi di frode o di corruzione o a qualsiasi altra attività illegale di cui sono venuti a conoscenza.

L’Ufficio inoltre esorta tutti i cittadini europei e qualsiasi altra persona che sia venuta a conoscenza di casi di frode a danno del bilancio comunitario a segnalarli all’OLAF.

L’OLAF e l’Arma dei Carabinieri

In tale contesto si inserisce l’attività del Comando Carabinieri Tutela Norme Comunitarie e Agroalimentari, operante presso il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, che svolge controlli, in stretta intesa con i Reparti territoriali dell’Arma, per la prevenzione e repressione dei reati in violazione di norme comunitarie nel settore agricolo ed agroalimentare, con particolare riguardo all’erogazione di contributi comunitari; concorre inoltre all’esecuzione dei controlli, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, sugli aiuti alimentari ai Paesi in via di sviluppo ed agli indigenti. Con questi scopi vengono pianificati controlli e indagini nei vari settori di competenza del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. Le linee d’intervento ed i risultati così conseguiti, al fine di migliorare l’utilizzo delle risorse verso quei settori più a rischio e maggiormente vocati alle truffe comunitarie, sono trasmessi, nel rispetto delle vigenti disposizioni di legge e delle direttive del Ministro delle Politiche Agricole e Forestali, direttamente all’Ufficio Europeo per la lotta contro le Frodi Comunitarie. Inoltre dall’ottobre 2000, al fine di rafforzare gli scambi info-operativi nel settore delle frodi agroalimentari tra l’Arma dei Carabinieri e l’OLAF, é previsto che lo stesso Comando Carabinieri Tutela Norme Comunitarie e Agroalimentari debba avvalersi di un ufficiale superiore dei Carabinieri, effettivo presso quel Comando ma dislocato presso questo prestigioso organismo comunitario, in qualità di Esperto Nazionale Distaccato, dal Comando Generale, previe intese formali con il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e la Commissione Europea.

Cap. CC John Napolitano.


Imputabilità del tossicodipendente: intossicazione cronica.

L’art. 85 del codice penale definisce l’imputabilità come capacità di intendere e volere nel momento della commissione del fatto costituente reato. Tale principio costituisce il primo presupposto di rimprovero di colpevolezza cioè la prima condizione per esprimere la disapprovazione soggettiva del tutto tipico ed antigiuridico commesso dall’agente; infatti non avrebbe senso rivolgere un rimprovero a soggetti del tutto privi della possibilità di agire diversamente.

Il fondamento penalistico dell’imputabilità, quali che ne siano i nessi con la colpevolezza, è a maggior ragione rinvenibile sul terreno delle funzioni della pena in quanto se la minaccia della sanzione punitiva deve esercitare un’efficacia generale preventiva distogliendo i potenziali rei dal commettere reati, un necessario presupposto è che i destinatari siano psicologicamente in grado di lasciarsi motivare dalla minaccia stessa, così come se l’esecuzione della pena nei confronti del reo deve tendere a rieducarlo, è necessario che il condannato sia psicologicamente capace di cogliere il significato del trattamento punitivo.

Gli unici due casi nei quali questa viene esclusa o viene considerata fortemente scemata, si riferiscono all’assunzione della sostanza stupefacente accidentale, art. 93 c.p. quando richiama l’art. 91 c.p., oppure all’intossicazione cronico, art. 95 c.p., mentre l’assunzione non accidentale, quella preordinata ed infine quella abituale, artt. 93 e 94 c.p., comportano non solo una presunzione di imputabilità, bensì un aggravamento della pena.

Con specifico riguardo alla cronica intossicazione (art. 95 c.p.), la giurisprudenza costante ha sempre sostenuto che questa, per escludere o diminuire l’imputabilità, deve sostanziarsi in un’alterazione non transitoria dell’equilibrio biochimico del soggetto con conseguente alterazione patologica dei processi volitivi ed intellettivi irreversibile, cioè caratterizzato dalla impossibilita di guarigione (Cass. Pen., sez. I, 28.4.1982, Pagani; sez. I, 20.10.1987). In altri termini l’esclusione o la diminuzione dell’imputabilità, in tale visione presuppone, quale condizione essenziale, l’accertamento che il soggetto sia affetto da “un’infermità mentale permanente” incidente sulle capacità volitive ed intellettive, in modo totale o parziale a causa dell’assunzione di sostanze stupefacenti. Nel primo caso l’imputabilità è esclusa ai sensi dell’art. 88 c.p. (vizio totale di mente), nel secondo caso è solo diminuita ex art. 89 c.p.(vizio parziale di mente).

Considerato che lo stato di tossicodipendenza non equivale a quello di cronica intossicazione, diviene decisiva al riguardo una perizia psichiatrica, che nella prassi processuale molto raramente è stata eseguita, sulle condizioni dell’assuntore in grado di escludere che si tratti di intossicazione dovuta ad uso abituale, la quale si caratterizza per costituire un episodio della vita di un individuo, che, scomparso il perturbamento, torna alla sua normale personalità.

Fin qui l’orientamento tradizionale.
Recentemente la dottrina medico-legale ha sollevato dubbi di legittimità incentrata sulla nozione di cronica intossicazione così come descritta dalla giurisprudenza sopra menzionata, dubbi pienamente recepiti dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 114/98, nella quale, pur dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 94 e 95 del Codice Penale sollevata con riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, ha confermato tuttavia che “la disciplina legislativa vigente in materia non trova nella dottrina psichiatrica e medico legate una base sicura, ancorché nella relazione ministeriale sul progetto del codice penale si legga di essa una diffusa motivazione, nella quale ci si riferisce proprio agli insegnamenti della scienza psichiatrica. Anche nella più recente dottrina penalistica la disciplina stessa è oggetto di dubbi, controversie e perfino di ferme condanne.

Alcuni studiosi trovano tuttavia che la distinzione tra le fattispecie degli artt. 94 e 95 è concettualmente chiara benché sia critica anche la parificazione tra gli effetti dell’alcoolismo e quelli delle tossicodipendenze e, quanto a queste, si rileva che le regole concernenti l’imputabilità non appaiono perfettamente coordinate con i trattamenti previsti per i soggetti tossicodipendenti.

Con la conseguenza che sono presenti auspici per una profonda revisione della materia opera del legislatore.
Risulta dunque evidente che la Corte Costituzionale, pur non condividendo i dubbi di legittimità costituzionale del sistema vigente in materia di imputabilità del tossicodipendente, non accetta neppure acriticamente la costante interpretazione, rilevando che la formula usata dalla legge, la quale si limita a stabilire che “si applicano le disposizioni contenute negli artt. 88 e 89 c.p.”, farebbe pensare più ad una assimilazione nel trattamento penale (non imputabilità con totale esclusione della punibilità o imputabilità diminuita con attenuazione della pena fino ad un terzo) che non ad una identificazione.

Ne è da trascurare che nel più importante disegno del nuovo codice penale degli ultimi anni, nell’elencare i casi di esclusione dell’imputabilità, è previsto quello in cui il soggetto “era, per infermità o per altra anomalia o per cronica intossicazione da alcool ovvero da sostanze stupefacenti, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e volere”.

Si va dunque consolidando la tendenza a riconoscere autonomia alla cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, la quale non viene più identificata con l’infermità di mente, bensì parificata ad essa sotto il segno dell’assenza o della diminuzione dell’imputabilità, quindi della colpevolezza, ed in tale prospettiva viene quindi letto il richiamo agli artt. 88 e 89 c.p. contenuto nell’art. 95 c.p.

Di conseguenza, ed è questa la novità introdotta con la suddetta sentenza, appare attualmente possibile affermare che la cronica intossicazione si configura ogni qual volta si sia in presenza di una condizione soggettiva, determinata dall’assunzione di droga (o alcool), tale da escludere che, nel momento della consumazione del reato contestato, il soggetto fosse capace di intenderlo e volerlo, indipendentemente dal fatto che la stessa consti in una vera e propria infermità irreversibile. Per contro l’assunzione abituale sussisterà qualora il tossicodipendente, nonostante le sue condizioni, abbia agito pur sempre consapevolmente ovvero con la piena consapevolezza del significato e degli effetti della propria condotta, legittimando quindi l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 94, co. III, c.p.

Ai fini di tale distinzione, tenuto conto che la sopra indicata sentenza non intende certamente sostenere l’automatica esclusione o diminuzione dell’imputabilità in capo ai tossicodipendenti, la Corte Costituzionale suggerisce l’introduzione di norme cogenti che prevedano l’accertamento della capacità di intendere e volere dello stesso, con il ricorso della perizia psichiatrica ed a tal proposito già la recente Cassazione ha affermato che “è scorretta la sentenza che attribuisce al parere della pubblica accusa la prevalenza rispetto al parere della difesa senza un’adeguata motivazione ed è doveroso per il giudice, a fronte di tesi opposte, motivate con argomenti specialistici in relazione ai quali la scelta presenti difficoltà tecniche oggettive, disporre perizia ai sensi dell’art. 508 c.p.p.”. Infatti il giudice deve porsi in grado di risolvere i problemi che si presentano nella concreta applicazione dell’art. 95 c.p., motivando la sentenza in tal senso, e applicando nel dubbio le regole di giudizio espressamente stabilite nei commi 2 e 3 dell’art. 530 c.p.p.

Si fa infine notare che la nuova definizione di cronica intossicazione, così come appare dall’interpretazione della sentenza 114/98 della Corte Costituzionale, rende giuridicamente e logicamente possibile che intervengano due sentenze emesse in tempi diversi nei confronti del medesimo imputato tossicodipendente per fatti commessi in tempi differenti, delle quali una lo ritenga incapace e l’altra invece capace (Sez. II 19.6.97, Milani, in Ced Cass. n. 208379).

Il tema sopra affrontato, appare senz’altro di rilevante importanza, in considerazione dell’espandersi dei fenomeni delinquenziali legati alla tossicodipendenza; ritengo tuttavia che la concreta applicazione dell’art. 95 c.p., cosi come attualmente interpretato, trovi una più facile applicazione nella difesa a favore di colui che ha commesso un reato sotto l’effetto delle sostanze stupefacenti di origine sintetica (c.d. pasticche o acidi, tra i quali la più nota è senz’altro l’ecstasy), in quanto le stesse causano un danno cerebrale che, in quanto più immediato e devastante, risulta essere anche più facilmente diagnosticabile, tramite mirati esami medici, e di conseguenza anche più facilmente provabile in sede processuale. Tale danno comporta di fatto un’alterazione della percezione della realtà, oltre che allucinazioni sonore e/o visive, che possono durare, in casi più rari, anche per mesi interi, gettando l’assuntore nella totale incapacità di distinguere l’esistente dall’immaginario.
Nonostante la possibilità di recupero con lunghe terapie ad hoc, tenuto conto della nuova interpretazione dell’art. 95 c.p., permane la possibilità dunque della difesa di sostenere in tali fattispecie la non imputabilità del reo al momento della consumazione del reato.