Alcune osservazioni sulla nozione di segreto e i suoi riflessi in materia penale

Domenico Libertini(*)

1. La fattispecie di reato di rivelazione di segreto di ufficio

L’art. 326 c.p., al primo comma, prevede una fattispecie di reato proprio del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio fissando la pena della reclusione da sei mesi a tre anni per coloro che, violando i doveri inerenti alle funzioni del servizio, o comunque abusando della loro qualità, rivelano notizie d’ufficio che debbono rimanere segrete, o ne agevolano in qualsiasi modo la conoscenza.

La norma penale è chiaramente volta a tutelare il buon funzionamento della Pubblica Amministrazione che potrebbe risultare danneggiato dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. La norma configura la fattispecie come un reato di pericolo effettivo per cui la condotta è punibile non in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre un danno agli interessi tutelati dalla notizia che deve essere tenuta segreta. Tale condizione non si verifica nel caso in cui si tratti di notizia di dominio pubblico, oppure di notizia che sia stata rivelata a persona autorizzata a riceverla e che debba necessariamente esserne informata in vista della realizzazione dei fini connessi con il segreto(1).

Ma il generico riferimento fatto dal legislatore al segreto d’ufficio non ci aiuta a comprendere quale sia in concreto la condotta penalmente rilevante, poiché si tratta di un contenitore a contenuto non predeterminato; risulta, pertanto, necessario ricercare norme integratrici del precetto penale capaci di delimitarne l’ambito di applicazione, allo scopo di evitare che ogni notizia possa essere considerata come meritevole della particolare tutela predisposta dalla norma penale con la conseguente limitazione del diritto di manifestazione del pensiero(2) e del corrispondente diritto di informazione.

Il problema non è secondario in quanto si riflette su aspetti particolarmente rilevanti dell’attività dello Stato e sulla formazione della opinione pubblica da parte dei consociati. Infatti, da un lato interviene a derogare il principio generale della pubblicità dell’attività amministrativa, di cui all’art. 97 della Costituzione, dall’altro si riflette sul piano processuale in quanto, ai sensi dell’art. 201 c.p.p., il segreto d’ufficio, penalmente tutelato, determina il dovere per i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati ed incaricati di pubblico servizio di astenersi dal deporre su fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio e che devono essere mantenuti segreti. Risulta evidente che il legislatore ha considerato il segreto d’ufficio un istituto volto a tutelare interessi particolarmente rilevanti tanto da condizionare la dinamica processuale. Risulta, ancora, utile ricordare che la nozione di segreto alla quale si riferisce la norma penale non coincide con quello del segreto di Stato che riceve tutela penalistica da altre e più gravi previsioni contenute negli artt. 256 e seguenti del codice penale.

È evidente, però, che deve sussistere una omogeneità concettuale fra le due nozioni che devono trovare una evidente compatibilità con l’ordinamento costituzionale. E allora risulta necessario chiarire cosa sia il segreto e quale rilevanza venga accordata ad esso dall’ordinamento. Solo così sarà possibile individuare quegli interessi tanto rilevanti da meritare una tutela penale sostanziale e processuale così forte.

2. Il segreto e suo rapporto con la ragione di Stato

Dal punto di vista concettuale il termine segreto ha un significato risultante da elementi diversi quali l’individuazione e la scelta di un bene di particolare valore, l’attività di selezione e l’occultamento. Infatti, ad una analisi di carattere semantico, appare evidente che la parola latina secretus deriva dal verbo secernere il quale, a sua volta, risulta dalla aggregazione al verbo cerno della particella se. Il verbo, che esprime l’idea della separazione, può presentarsi sia con il prefisso se, sia con quello ex ed in tale modalità il prefisso ex esprime l’idea del rifiuto di qualcosa che si allontana, a differenza di se-cerno che, al contrario, esprime l’idea di una separazione, di una scelta, di qualcosa ritenuta di valore, successivamente occultata(3).

Nell’attuale accezione, segreto, come aggettivo, vuol dire appartato, nascosto, intimo, riposto, mentre come sostantivo indica una cosa che uno tiene nascosta e non vuole o non può divulgare, ciò che è a conoscenza di pochi e non si deve divulgare.

Il vocabolo, quindi, non si discosta dal significato originario poiché nella dinamica concettuale esprime sempre l’idea della separazione e dell’occultamento di un bene prezioso. Il segreto, perciò, da una parte seleziona ed occulta le informazioni, dall’altro comporta la necessità di una scelta dei soggetti da ammettere alla conoscenza delle informazioni stesse.

Si è detto(3), perciò, che gli elementi costitutivi del segreto devono essere individuati nel sapere, la sua dissimulazione ed il rapporto con gli altri fondato sul rifiuto di comunicarlo. In ogni caso, il segreto, così concepito, si presenta in rapporto strumentale rispetto ad una finalità positiva che è quella di proteggere un interesse, ad esso collegato, che sia ritenuto di particolare valore. E allora il punto focale del problema è quello di individuare quali siano gli spazi che un ordinamento giuridico consente al segreto in relazione agli interessi che siano riconosciuti meritevoli di tutela.

Si tratta, ora, di capire quale sia la rilevanza accordata dall’ordinamento al segreto. Ebbene, vale la pena ricordare come uno dei parametri che contribuiscono ad individuare la natura di un sistema politico deve essere individuato dalla quantità di segreto, ed alla tutela ad esso accordata dall’ordinamento, che è possibile rinvenire nel sistema. Sussiste, infatti, una proporzionalità inversa fra la presenza del segreto e la liberalità dell’ordinamento in quanto in un sistema di tipo liberaldemocratico ogni cosa ed attività dello Stato tende a divenire pubblica e trasparente allo scopo di consentire che i cittadini possano da un lato formare liberamente le proprie opinioni, dall’altro partecipare alla gestione della cosa pubblica ed al controllo sull’attività amministrativa, per cui il segreto diviene necessariamente l’eccezione e non la regola.

Ricordando l’opinione del Barile, possiamo affermare che l’apparato della democrazia ha per regola la trasparenza ed il segreto costituisce un’eccezione, mentre i diritti costituzionali garantiti al soggetto privato in democrazia hanno per regola la privacy e per eccezione la pubblicità(4). In effetti, la pubblicità è il fondamento dei meccanismi di controllo che consentono alla pubblica opinione, ai singoli cittadini ed alle minoranze politiche di verificare costantemente l’attività di governo. Al contrario in un sistema politico di tipo autoritario, o totalitario, ogni cosa tende ad essere considerata segreta; ciò allo scopo di indirizzare la formazione della pubblica opinione ed evitare che il cittadino, considerato come semplice suddito, possa essere compartecipe alla gestione della cosa pubblica ed esercitare un controllo sull’attività amministrativa.

Per la verità la concezione dello Stato liberale non è equivalente a quella di democrazia: ciò in quanto lo Stato liberale nella sua attuazione concreta fino alle estreme conseguenze comporta una riduzione della presenza dello Stato ed è, perciò, tendenzialmente il non Stato; al contrario la democrazia si distingue per il fatto di fondarsi su delle regole che sono manifestazione dell’ordinamento statuale. Senza voler entrare in una analisi di tipo filosofico, vogliamo solo evidenziare come la sintesi “liberaldemocratica” esprima il livello di qualità della componente democratica anche attraverso la quantità di segreto ammessa nell’ordinamento. Conseguentemente, la limitatezza della quantità di segreto esprime il livello qualitativo della democrazia.

Fin qui una considerazione che intende il segreto come un indicatore di sistema ma che non ci aiuta a comprendere che cosa in realtà esso sia. In effetti, come abbiamo già detto, il concetto di segreto si riconduce alla necessità di impedire la conoscenza di qualcosa che sia ritenuta di particolare valore, per cui, dal punto di vista meramente concettuale, quello di segreto è un concetto secondario rispetto alla ragione che è posta a suo fondamento, la quale, peraltro, è mutante sul piano storico. È solo in relazione alla sua motivazione che il segreto trova giustificazione e, quindi, legittimità nel momento in cui risponde ai criteri fissati dall’ordinamento; conseguentemente, un approfondimento sull’argomento deve necessariamente partire dalle sue ragioni. Resta chiaro che il segreto può trovare il suo presupposto in motivazioni diverse fra loro, ma risulta evidente che, per quanto attiene alla forma principale di segreto, il segreto di Stato, questo deve essere sempre concepito in rapporto funzionale e subordinato alla ragione di Stato che ne rappresenta il presupposto. Cerchiamo, perciò, di comprendere quale sia il significato di quest’ultima formula.

Quando parliamo di ragion di Stato ci riferiamo ad un concetto di natura squisitamente politica che ispira l’azione di coloro che reggono lo Stato e che si traduce in una tendenza organica a ricercare il costante incremento, consolidamento o mantenimento della potenza dello Stato medesimo.

Il perseguimento di tali obiettivi, che si ricollegano in maniera diretta agli interessi primari e fondamentali, alla esistenza, indipendenza e sicurezza dello Stato, tende a realizzare una condotta che in una realtà diveniente sul piano storico può, se ritenuto conveniente o utile, violare le norme del diritto sia interno sia internazionale, anche mediante il sacrificio dei diritti dei cittadini. Visto in questi termini il modello teorico della ragion di Stato, accanto all’aforisma machiavelliano per cui “il fine giustifica i mezzi”, evoca spettri oscuri legati alle esperienze politiche totalitarie od assolutistiche. È ben noto, infatti, che la concezione per cui il potere del principe è tanto più efficace quanto più è nascosto agli sguardi del popolo è espressione di una idea assolutistica dello Stato, in contrapposizione alla teoria democratica che si ispira al principio del governo del potere pubblico in pubblico(5).

In realtà un ordinamento giuridico si appropria del modulo concettuale della ragion di Stato mediandolo attraverso i principi ispiratori dell’ordinamento stesso, per cui la ragion di Stato, nella sua manifestazione concreta, deve essere vista come un concetto che si comporterà elasticamente espandendosi o contraendosi a seconda che l’ordinamento sia di tipo totalitario o liberale.

In uno Stato come l’Italia, retto da una Costituzione liberaldemocratica, la ragion di Stato deve necessariamente coincidere con la ragione, perciò con gli interessi di tutti i cittadini e, quindi, con la sicurezza nazionale intesa in senso lato. La ragion di Stato, pertanto, può essere posta a fondamento dell’azione politica ed esecutiva solo quando vi sia una concreta necessità di salvaguardare lo Stato da minacce contro l’indipendenza ed integrità territoriale del Paese e le sue istituzioni democratiche che l’ordinamento riconosce come fondamentali. Non è, perciò, possibile invocare la ragion di Stato per generiche motivazioni di politica estera, ovvero per tutelare personalità istituzionali coinvolte in fatti o affari poco chiari se non addirittura illeciti(6), o, ancora, per tutelare interessi che non corrispondono direttamente o strumentalmente con quelli fondamentali dello Stato.

In sintesi, quindi, sussiste un rapporto funzionale e subordinato fra il segreto e la ragion di Stato, la quale, a sua volta, è condizionata dalla definizione degli interessi dello Stato stesso. È indubbio, infatti, che l’azione del governo volta organicamente ad incrementarne, consolidarne o mantenerne la potenza, necessita della preliminare individuazione degli interessi concreti che devono essere tutelati, siano essi di carattere generale e strategico, o di carattere contingente legato alla materiale esecuzione dell’attività politica ed amministrativa. In tal modo il segreto si riconduce, in maniera mediata dalla ragion di Stato, sempre e soltanto agli interessi che lo Stato stesso riconosce come propri e che sono gli interessi di tutti i cittadini.

È, però, un fatto che la più recente letteratura giuridica e politologica evidenzia l’esistenza di una persistente opacità di molte componenti del potere pubblico, ciò fino a parlare di governo invisibile(7), di sottogoverno, ovvero di criptogoverno(8). In questi casi la mancata trasparenza dell’attività di governo non è prevista dall’ordinamento positivo e talvolta appare in aperto contrasto con questo. Ciò conduce ad individuare due categorie di segreti: i segreti di fatto ed i segreti giuridici che sono legislativamente previsti in deroga al principio della pubblicità dell’attività dell’Amministrazione(9), da intendere come portato del principio di imparzialità sancito dall’art. 97 della Costituzione.

Appare chiaro, comunque, che la sensibilità al problema appartiene essenzialmente alle minoranze politiche, sia in quanto la scoperta di situazioni di fatto è tipica di quella attività di controllo che distingue un sistema equilibrato, sia perché sono le minoranze a temere maggiormente le attività occulte. Conseguentemente, tanto meno è forte la maggioranza che sostiene l’esecutivo, tanto più è pressante e condizionante il controllo della minoranza. È appena il caso di ricordare che i segreti di fatto non possono trovare alcuna cittadinanza nel nostro ordinamento, sia in quanto non previsti normativamente, sia perché confliggenti con prevalenti interessi costituzionalmente protetti.

L’interesse all’esercizio della funzione giurisdizionale, ad esempio, non può trovare ostacolo in una situazione di fatto che si collochi extra legem. In ultima analisi, perciò, perché si possa accordare rilievo al segreto, di qualunque tipo esso sia, occorre che esso sia normativamente previsto.

3. Interessi tutelabili dal segreto

Volendo indagare su quelli che sono questi interessi, tanto importanti e fondamentali da giustificare la segretezza delle attività svolte per la loro tutela, dobbiamo senza dubbio cominciare da quelli che sono i fondamenti dello Stato stesso. Infatti, ciò che distingue un semplice insieme di persone, inteso come sommatoria amorfa di individualità, da una organizzazione sociale è essenzialmente la individuazione degli interessi del gruppo che nel primo caso è del tutto assente. Ma non basta; contrariamente a quanto poteva apparire a Rousseau, il popolo, per quanto cosciente degli interessi comuni, non è sovrano primigenio in quanto non precede concettualmente e temporalmente la sua organizzazione normativa fondamentale, ma esiste proprio in virtù del suo ordinamento costituzionale(11). D’altro canto l’appartenenza della sovranità al popolo, sancita dall’art. 1 della nostra Costituzione, deve essere intesa solo nel senso che il potere sovrano originario, cioè quello dal quale l’ordinamento trae la sua validità, appartiene alla comunità statale che non può esserne privata mediante la revisione della Costituzione.

Per la verità l’appartenenza al popolo della sovranità si presenta, in concreto, come una enunciazione di principio del tutto astratta atteso che l’ordinamento, in una democrazia rappresentativa qual è la nostra, attribuisce l’esercizio della sovranità ad altri organi costituzionali, per cui appare una mera speculazione intellettuale concepire un’appartenenza separata dall’esercizio effettivo della sovranità. Peraltro gli organi rappresentativi guardano agli istituti di democrazia diretta, quali quello referendario, con crescente preoccupazione e non sono rare, tra l’altro, tentazioni volte a limitare anche il ricorso a tali istituti.

Lo Stato, perciò, quale ente politico, trova all’interno del proprio ordinamento costituzionale la puntualizzazione dei propri fini, di quegli interessi, cioè, che sono alla base dell’istituzione stessa.

Procedendo ad un esame storico-giuridico comparato, è possibile riscontrare come i fini dello Stato varino da tempo a tempo, per oggetto e importanza, nonché da Stato a Stato. In tale dinamica, però, si rinvengono delle costanti che sono tanto essenziali ed importanti da essere presenti anche in tempi remoti e fin dalle più rudimentali organizzazioni politiche. Si tratta di quelle finalità rivolte alla conservazione e sviluppo dello Stato sia all’interno, sia nei suoi rapporti con gli altri Stati. Ne deriva che la variabilità storica dei fini statuali non esclude che questi possano essere ordinati per categorie logiche con riferimento alle costanti che la stessa variabilità storica evidenzia.

In primo luogo, pertanto, devono considerarsi i fini di conservazione dell’ordine interno e della sicurezza esterna. La prima si realizza nelle attività fondamentali della conservazione dell’ordinamento giuridico, cioè di provvedere che venga osservato quel complesso di norme e precetti che costituiscono il diritto positivo e nella conservazione dell’ordine pubblico, cioè provvedere ad impedire il concretizzarsi di turbamenti della tranquillità sociale. La seconda, invece, comporta la necessità di un complesso di relazioni dello Stato con gli altri Stati, atte a garantire la pace, e l’approntamento dei mezzi di risoluzione delle controversie, pacifici o militari in previsione di un conflitto armato. A tal punto è necessario soffermare l’attenzione su di una riflessione di natura preliminare.

La dicotomia che vuole la distinzione fra fini di conservazione dell’ordine interno e fini di conservazione dell’ordine esterno è solo una scomposizione logica del problema, necessaria a scopo analitico, in quanto si tratta di facce della stessa medaglia che si identifica con il fine ultimo di conservazione ed autotutela dello Stato stesso. Analogamente per quanto riguarda la minaccia. Infatti, questa, nella sua unità concettuale, si ripartisce a seconda che sia rivolta alla perturbazione e sovvertimento dell’ordine interno od esterno e, pur non influendo sulle categorie astratte cui si correla, interviene sulle variabili che determinano gli strumenti amministrativi e materiali di cui lo Stato necessita per garantire la propria integrità.

Per la verità la minaccia oggi appare più articolata; infatti l’indipendenza e sicurezza degli Stati è sempre più disconnessa dalla loro potenza militare, dato che la minaccia militare non è che una fra le tante forme di minaccia.

Le migrazioni di massa, gli integralismi, il riciclaggio di denaro sporco, il controllo dei flussi finanziari sono tutti motivi di perturbamento della stabilità di uno Stato. Anzi, per il futuro, la minaccia principale verrà dal denaro, nel senso che l’economia sotterranea, illegale, e della finanza criminale possono destabilizzare il tessuto economico e politico di un paese al pari delle attività occulte di un nemico tradizionale. Tutto ciò conduce a ritenere che la minaccia esalti la centralità degli interessi da tutelare e contribuisca alla loro individuazione concreta.

I Paesi dell’Occidente sono passati ad economie aperte sempre più integrate e condizionate reciprocamente adottando una politica di deregolamentazione e rimozione della presenza statuale. Si tratta dell’attuazione dei principi dello Stato liberale che però determinano una situazione di concreta e grave vulnerabilità delle singole economie, tanto che l’aggiotaggio praticato sui mercati finanziari internazionali può arrecare gravi danni all’economia di un paese tanto da provocarne la destabilizzazione politica.

Gli interessi economici, quindi, devono essere collocati necessariamente fra gli interessi fondamentali dello Stato e, quindi, devono essere considerati meritevoli della massima tutela da parte dell’ordinamento. Si tratta di un interesse che si colloca accanto a quello di conservazione dello Stato stesso. Ne consegue che lo Stato non soltanto ha il diritto alla ricerca di informazioni riservate ed alla acquisizione di notizie in qualsiasi modo rilevanti per la difesa della propria integrità territoriale e della sicurezza interna, ma ha anche il dovere di proteggere e limitare l’accesso a quelle informazioni che possono danneggiare in modo quantitativamente e qualitativamente apprezzabile quegli stessi interessi. In conclusione esistono degli interessi fondamentali che attengono alla sopravvivenza stessa dello Stato e delle sue istituzioni la cui esistenza è la giustificazione della segretezza delle attività svolte per la loro tutela.

Infine, dobbiamo evidenziare come il complesso di interessi che giustificano la segretezza delle attività svolte per la loro tutela costituisce un sistema a cerchi concentrici nel quale ad un nucleo, costituito dagli interessi relativi alla sopravvivenza dello Stato e delle sue istituzioni, aventi natura squisitamente politica, fanno da corollario tutta una serie di interessi a carattere meramente strumentale e funzionale ai primi, la cui tutela non può giustificare la segretezza delle attività svolte ma legittima sicuramente la divulgazione controllata e limitata delle informazioni a loro attinenti. Indubbiamente, mentre gli interessi fondamentali sono individuabili nei principi stessi dell’ordinamento e, perciò, sono stabili, quelli a carattere strumentale sottintendono gli obiettivi che, di volta in volta, l’esecutivo fissa per la tutela della sicurezza nazionale(12).

4. Alcuni aspetti di carattere costituzionale

Abbiamo sottolineato l’eccezionalità del segreto all’interno di un sistema tendenzialmente ispirato al principio della trasparenza; il segreto, quindi, costituisce il più preciso limite alla libertà di informazione che rappresenta, invece, il cardine del carattere democratico dello Stato, tanto che può affermarsi con tranquillità che è possibile individuare un principio generale di diritto costituzionale che indirizza lo sviluppo dell’ordinamento nel senso della massima apertura delle fonti di informazione ai cittadini, ciò allo scopo di realizzare la trasparenza del potere pubblico. Tale esigenza di pubblicità, comunque, confligge da una parte con l’esigenza del privato di tutelare la propria privacy, che è un principio costituzionalmente garantito, dall’altra con la necessità dello Stato di tutelare i suoi interessi fondamentali con l’istituto del segreto.

La libertà di informazione, perciò, è una libertà fondamentale perché in un sistema liberaldemocratico possa formarsi una pubblica opinione che sia frutto di una libera discussione e del libero convincimento di liberi individui che interagiscono fra loro confrontando idee ed opinioni(13). Il problema, perciò, è di comprendere quando, dovendo soddisfare e bilanciare interessi diversi, determinati valori possano o debbano prevalere su quelli riconducibili alla libertà di informazione. Prima di procedere oltre, è opportuno soffermarci a chiarire quale sia il significato di questa formula che sintetizza esigenze diverse e non un concetto unitario. Volendo rifarci ad una autorevole dottrina(14) possiamo affermare che in essa confluiscono le seguenti libertà:

  1. libertà di informare, intesa come la libertà di diffondere e comunicare le informazioni, tutelata direttamente dall’art. 21 della Costituzione. In tale accezione questa libertà coincide con quella di espressione del pensiero(15);

  2. b) libertà di essere informati, da intendersi sia quale riflesso passivo della libertà di informare, sia come diritto ad ottenere l’informazione(16);

  3. c) libertà di informarsi, intesa come la libertà di agire per procurarsi le notizie accedendo alle fonti più disparate(17), siano esse pubbliche o private.

Considerando la portata del limite alla libertà di informazione costituito dal segreto, dobbiamo evidenziare come dal punto di vista oggettivo si manifesti consentendo di individuare le materie alle quali attengono le informazioni non acquisibili dalla generalità degli individui e le fonti detentrici di tali informazioni, mentre dal punto di vista soggettivo permetta di individuare i soggetti che vi possano accedere(18).

Seguendo la giurisprudenza costituzionale, il segreto dovrebbe trovare il proprio fondamento nella necessità di tutelare beni diversi dalla libertà di informazione ma altrettanto garantiti dalla Costituzione. In tal modo l’assenza di un legame strumentale fra l’interesse ed il segreto comporta l’illegittimità di quest’ultimo.

È appena il caso di ricordare, quindi, che la disciplina normativa del segreto, atteso il suo carattere di eccezionalità, deve essere strutturata in modo tale che sia sempre evidente il rapporto strumentale con l’interesse protetto e che il sacrificio imposto ad altri valori sia quello strettamente e ragionevolmente necessario a tutelare e realizzare il primo principio.

5. Conclusioni

Da quanto abbiamo detto risulta evidente che il segreto è una modalità particolare ed eccezionale di tutela di particolari interessi che lo Stato considera come fondamentali. Ma se può risultare chiaro il rapporto con la tutela degli interessi fondamentali riconducibili alla sicurezza nazionale, risulta più evanescente la ricerca di interessi che debbano essere tutelati in quanto riconducibili al mero buon andamento della Pubblica Amministrazione che è il bene giuridico tutelato dal primo comma dell’art. 326 c.p.

Sul piano delle norme di diritto internazionale di tipo pattizio recepite dall’ordinamento italiano, dobbiamo ricordare che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950(19), all’art. 10, dopo aver stabilito che “ogni persona ha diritto alla libera espressione”, precisa che “... l’esercizio di queste libertà può essere subordinato a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni, previste dalla legge, che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza pubblica, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei delitti, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti di altri, per impedire la diffusione di notizie riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.

Per la verità la lunga e pedante casistica della norma finisce con il consentire l’imposizione di limiti e restrizioni in ogni settore, limiti peraltro coincidenti con interessi e principi costituzionalmente garantiti, talché la previsione assume una connotazione tanto elastica da adattarsi ad ordinamenti di tipo diverso ed a differente intensità di liberalità. Per converso, però, consente di individuare gli ambiti concreti nei quali la legge può predisporre strumenti di tutela eccezionali come l’istituto del segreto. È chiaro che la previsione non rappresenta un’indicazione definitiva e rigida, atteso che la Convenzione rileva nell’ordinamento italiano in forza del corrispondente strumento di ratifica che si colloca sullo stesso piano delle leggi ordinarie, con la conseguenza che il legislatore con leggi ordinarie posteriori alla ratifica o speciali può intervenire ad individuare nuovi interessi meritevoli di particolare tutela. In definitiva, comunque, risulta evidente che la nozione di segreto cui fa riferimento l’art. 326, comma 1, c.p., debba trovare un’integrazione ad opera di altre norme che prevedano l’obbligo del segreto da parte del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Occorre, cioè, che l’obbligo del segreto non sia genericamente collegato ad ogni notizia d’ufficio, ma sia esplicitamente previsto da norme primarie volte a tutelare un interesse specifico ben individuabile che l’ordinamento ritiene meritevole della particolare tutela.

Si pensi ad esempio al segreto imposto dall’art. 21 della legge 22 maggio 1978, n.194 in tema di maternità ed infanzia, dall’art. 9 del d.l. 31 luglio 1988, n.320, in materia di informatica giudiziaria, dall’art. 6 della legge 18 maggio 1988, n. 172, relativa alle commissioni parlamentari d’inchiesta.

Particolarmente rilevanti, poi, risultano i doveri di riservatezza imposti dall’art. 24 della legge 7 agosto 1990, n.241 in materia di accesso alla documentazione amministrativa, nonché dalla legge 31 dicembre 1996, n.675, in materia di tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali. Giova ricordare come la Corte di Cassazione(20) ha recentemente ritenuto integrare la fattispecie di reato di comunicazione, da parte di un membro della commissione esaminatrice di un pubblico concorso, di elementi diretti a far conoscere anticipatamente ad uno o più concorrenti, con esclusione di tutti gli altri, l’oggetto della prova scritta d’esame trattandosi di notizia d’ufficio destinata a rimanere segreta. Ovviamente tale necessità deve essere vista in funzione della imparzialità e correttezza della Pubblica Amministrazione.

In tal modo è possibile delimitare secondo un criterio di ragionevolezza l’ambito di applicazione della fattispecie di reato contenuta nel primo comma dell’art. 326 c.p., separando contestualmente quei comportamenti che possono rilevare nel mero ambito disciplinare.


(*) - Colonnello dei Carabinieri, Capo di Stato Maggiore della Divisione Unità Specializzate dei Carabinieri.
(1) - Cass. Pen., Sez. VI, 6 giugno - 26 agosto 1994, n.9306.
(2) - Il problema risulta particolarmente evidente nell’ordinamento militare ove si consideri il concetto di riserbo che viene considerato dal regolamento di disciplina. In proposito v. Libertini, Il diritto di manifestazione del pensiero da parte dei militari, in Riv. di Pol., VIII - IX, 1995.
(3) - In proposito v. Arena, Il Segreto Amministrativo, Profili Teorici, Padova, 1984, pag. 8, Pitruzzella, voce Segreto, in Enc. Giur., vol. XXVIII, Roma, 1992, pag. 1; Orestano, Sulla problematica del segreto nel mondo romano, in AA.VV, il Segreto nella realtà giuridica italiana, Padova, 1983, pagg. 95 ss.
(4) - Arena, op.cit., pag. 49; Pitruzzella, op.cit., pag. 1.
(5) - Barile, Democrazia e segreto, in Quaderni cost., 1987, pagg. 29 ss.
(6) - Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, 1984, pag. 76.
(7) - Cera, Terrorismo: il problema della definizione giuridica del diritto interno e nel diritto internazionale, in Riv. Trim. della Scuola di Perf. delle FF.PP., n.1/2, gennaio-giugno 1994, pag. 15, nota 5.
(8) - Rodotà, La categoria governo, in Laboratorio politico, 1981, n.1, pag. 77.
(9) - Bobbio, op. cit., pag. 26.
(10) - Pitruzzella, op. cit., pag. 1.
(11) - Casavola, Principi Costituzionali supremi, revisione costituzionale, assemblea costituente, in Riv. Trim. della Scuola di Perf. per le FF.PP., n.1/2, 1995, Roma, pag. 61.
(12) - Amplius Libertini, Una glossa a margine del segreto di stato, in Riv. di pol., VI, 1996.
(13) - In proposito Libertini, Il diritto di manifestazione del pensiero da parte dei militari, cit.
(14) - Barile e Grassi, voce Informazione (Libertà di), in Nov.Dig.It., Appendice, IV, Torino, 1983, pagg. 197 e ss.
(15) - Analogamente Crisafulli, Problematica della libertà di informazione, in Il Pol., 1964, pagg. 285 e ss.
(16) - Lipari, Libertà di informare o diritto di essere informati?, in Dir. radiodiff., 1978, pagg. 1 e ss.
(17) - Loiodice, voce Informazione (diritto alla), in Enc.Dir., XXI, Milano, 1971, pagg. 472 e ss.
(18) - In proposito, Loiodice, Situazioni costituzionali e diritto all’informazione, in Trattato di diritto amministrativo diretto da Santaniello, XV, Padova, 1990.
(19) - Ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, in Gazz. Uff. n.221, del 24 settembre 1955.
(20) - Cass., Sez. VI, 22 marzo 2000, n. 3669, imp. Maggiore.