Eutanasia tra diritto e morale

Luigi Cortellessa (*)

1. Premessa

Il secolo che è trascorso ha consegnato in eredità ai protagonisti del nuovo millennio il compito di elaborare i nuovi diritti, che si sono affacciati alla attenzione degli ordinamenti come conseguenza delle moderne frontiere segnate dal progresso tecnologico. L’allungamento della vita media, con il miglioramento delle sue stesse qualità generali, le scoperte tecnologiche, la velocità mediatica hanno centrato l’attenzione su tematiche fino a tempi recenti completamente sconosciute o comunque scarsamente considerate: si pensi all’ampio dibattito sviluppatosi attorno alla bioetica, alla capacità della scienza di portare il suo contributo col trapianto di organi e nella fecondazione assistita.

Il tramonto delle ideologie ha visto affacciarsi un impetuoso galoppo di scienza ed applicazioni tecnologiche, tale da far intravedere novità grandissime in quella che viene definita la qualità totale della vita. Non si tratta, tuttavia, di una deliberata e soggettiva volontà di creazione del nuovo, ma di un oggettivo corso delle cose, pur se fortemente caratterizzato dall’intervento, talvolta originale, di giuristi e scienziati.

Ciò che prima era considerato un dato acquisito, nelle sue dimensioni formali e sostanziali, oggi non è più tale per l’incidenza inevitabile di una pluralità di istanze, non più ristrette nell’angustia dei confini nazionali, ma modellate da un intreccio di comunicazioni molto più rapidi che nel passato (1). In un contesto del genere, si affaccia il problema della conciliazione tra norma, o interventi normativi, e pluralismo sociale, inteso questo come compendio di istanze nuove o rinnovate. La controversa problematica dell’eutanasia si insinua in questo contesto, riproponendosi, ancora drammaticamente, per l’interrogativo forte che rivolge alle coscienze, indipendentemente dalla aree ideologiche e culturali.


2. Sul concetto di eutanasia

Il dilemma sulla liceità o meno della eutanasia si trascina da secoli ed i tentativi di aggirarlo non fanno altro che rinnovare la lacerazione delle coscienze. Della parola si fa largo uso in ogni sede. In senso letterale essa indica una “morte serena e indolore”; essa trae origine dal greco, eu e thanatos, quindi morte buona, senza dolore. Il termine fu usato per la prima volta da Francesco Bacone proprio nel senso di “Morte dolce e calma”.

Attualmente sta a indicare anche la “dottrina medico- giuridica, secondo cui è lecito dare una morte tranquilla, per mezzo di narcotici, agli infermi atrocemente sofferenti e inguaribili, inammissibile dal punto di vista del diritto positivo e della morale cristiana” (2). Secondo altri si tratta della uccisione di un essere umano inguaribile o deforme per evitare dolori o sofferenze). Nella accezione comune si intende comunque il provocare la morte di chi sia affetto da malattia inguaribile e dolorosa e sia prossimo alla fine, allo scopo di abbreviarne le sofferenze(3).

Ciò che la sottende sarebbe, quindi, un movente ispirato al sentimento altruistico di compassione e di umana solidarietà. In questa direzione sono da escludersi altre forme di eutanasia, che non trovano origine in un sentimento “benevolo”, quali la eutanasia eugenica, economica, sperimentale, criminale, politica, etc. Per questo, spesso, il rifiuto aprioristico che talune ideologiche oppongono all’eutanasia deriva dal considerare omogenei fenomeni che non lo sono affatto, operandosi una confusa generalizzazione: cose diverse tra loro sono, difatti, l’omicidio per pietà (punito nel nostro ordinamento come omicidio doloso con l’aggravante della premeditazione), l’omicidio per pietà con il consenso dell’avente diritto, l’aiuto al suicidio, il rifiuto del trattamento medico, o l’interruzione di terapie di sostegno vitale.

Nella ormai copiosa letteratura sull’argomento, si conviene su delle comuni distinzioni e cioè, più generalmente, eutanasia volontaria e involontaria, eutanasia attiva e passiva. In definitiva, si potrebbe pervenire ad una generica definizione di eutanasia, quale uccisione indolore o mancata prevenzione della morte da cause naturali in presenza di malattie terminali, che non lasciano alcuna prospettiva di guarigione, con grave sofferenza per il paziente: il che corrisponde, in sostanza, ai concetti di eutanasia commissiva o positiva o attiva e rispettivamente di eutanasia omissiva o negativa o passiva (4).

Più specificamente, va sottolineato che per eutanasia passiva, od omissiva, si intende la soppressione dell’ammalato, o la accelerazione della morte dell’ammalato, ormai ritenuta inevitabile ed imminente (fase terminale), in base alle indicazioni di una vasta casistica, attraverso l’omissione o l’interruzione di interventi terapeutici atti al prolungamento della vita. Il concetto di eutanasia attiva implica, invece, un atto consapevolmente teso ad abbreviare o mettere fine alla vita del malato destinato a morire, o che si trovi in particolari ed insopportabili condizioni di sofferenza psichica e fisica. La prima è una pratica ormai diffusa, ed i sostenitori della sua attuabilità poggiano prevalentemente la loro opinione sul fatto che una sua regolamentazione la sottrarrebbe all’arbitrio del medico o dei parenti del malato (5).


3. Brevi note di filosofia, etica e religione

Naturalmente, attorno alla delicata questione si è sviluppato un dibattito diversamente articolato, dovuto in primis al carattere di sacralità che viene attribuito alla vita umana dalle religioni e dagli ordinamenti. L’aiutare a morire, o il lasciar morire, comportamenti per altro assai diversi anche sul piano etico, aprono la strada, inevitabilmente, ad una serie di interrogativi che coinvolgono il diritto naturale, l’etica, la filosofia: un dibattito comunque controverso e non certo privo di fascino, attorno a quella che Platone indicava come la “eterna permanenza dell’ essere vivente” (6).

A favore della pratica dell’eutanasia si pronunciarono per lo più i filosofi, quali Tommaso Moro e Francesco Bacone. Di diverso segno, invece, le scuole mediche, a cominciare da Ippocrate di Cos, che affermava nel suo giuramento: “Non darò a nessuno alcun farmaco mortale neppure se richiestone, nè mai proporrò un tal consiglio”; questo impegno a favore della vita e contro la morte è ribadito anche nel Codice di Deontologia Medica del 1995, dove, all’art. 35, si legge: “il medico, anche se richiesto dal paziente, non deve effettuare trattamenti diretti a menomarne la integrità psichica e fisica e ad abbreviarne la vita o provocarne la morte” (7).

Anche secondo la morale Cristiana, non è dato all’ individuo di disporre della sua stessa vita, poiché essa è un bene elargito da Dio, da lui affidato all’uomo, e quindi l’individuo non può interferirvi con la propria volontà: in pratica, viene negato il diritto di morire (8). Questo concetto ha dato origine all’indirizzo noto come “vitalismo”, che considera la vita umana come un valore assoluto di per se stesso, con la conseguenza che anche il suicidio e la istigazione al suicidio costituiscono un atto illecito secondo la morale e la maggior parte degli ordinamenti. Secondo la Chiesa Cattolica, appunto, la vita umana è il fondamento di tutti i beni, la sorgente e la condizione necessaria di ogni attività umana e di ogni convivenza sociale.

In un documento variamente articolato, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha posto l’attenzione sul problema dell’eutanasia, senza alcuna concessione ad una sua pur limitata applicazione. Si sostiene infatti che “è necessario ribadire con tutta fermezza che niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato, incurabile o agonizzante”. Pur tuttavia, l’attenzione deve essere spostata su un diverso piano, cioè sulla necessità o meno di tenere in vita un essere umano in situazione di grave sofferenza fisica e psichica, senza peraltro che egli abbia delle prospettive di guarigione.

Ed inoltre, se l’individuo, indipendentemente da ragioni etiche di diverso segno, abbia o meno la facoltà di decidere da solo ed in libertà se porre fine alle sue sofferenze. Si tratta, quindi, di separare il caso di chi chiede di poter morire da quello di chi è oggetto di una decisione altrui. Da qui l’articolazione dell’attuale dibattito, incentrato su due diverse tematiche, pur tra loro intimamente connesse:

  • se sia moralmente lecita l’eutanasia volontaria, attiva e passiva, sul soggetto agonizzante;

  • se possa configurarsi una distinzione di natura morale tra l’uccisione pietosa e il lasciar morire.

Su quest’ultimo aspetto è doveroso sottolineare una distinzione sostanziale tra le due pratiche. L’uccisione pietosa consiste nel comportamento attivo del medico che si adopera, per acta concludentia, affinché la vita del paziente cessi.
Il lasciar morire consiste, al contrario, in un altro tipo di comportamento volontario, ma di natura omissiva, cioè nella cessazione della somministrazione dei farmaci o dei trattamenti che mantengono in vita il paziente.

In tale contesto si inserisce un’altra problematica, quello cioè di stabilire quando una persona possa definirsi clinicamente morta; ciò allo scopo anche di meglio qualificare quegli interventi medici che consistono nel far cessare il mantenimento in vita a mezzo di macchinari di una persona che non gode più delle funzioni spontanee e che non può far affidamento ormai su alcuna prospettiva di guarigione, anche in connessione ad un eventuale espianto e successivo trapianto di organi.

Difatti, è possibile oggi affermare che il concetto diagnostico di fase terminale sia diventato molto più complesso ed incerto di quanto non lo fosse vent’anni fa: le nuove terapie di prolungamento della vita, i progressi della farmacologia applicata per lenire il dolore, le tecniche di rianimazione e di trapianto pongono oggi su un piano del tutto nuovo la questione dell’eutanasia ed in genere il rapporto fra scienza medica e malato terminale.


4. Eutanasia, accanimento terapeutico e consenso del paziente

In un’epoca in cui la dimensione dei diritti tende a sfondare il suo quadro tradizionale, si assiste ad un intreccio tra grandi libertà e microdiritti. L’eutanasia, che per anni ha simbolizzato un baluardo da aggirare, ripropone oggi un rapporto stretto tra vita e strumenti giuridici, tra momento pubblico e privato, che invade terreni finora presidiati da nozioni come libertà e dignità: non a caso si assiste a proposte, formulate in ogni sede, di rendere, ad esempio, liberamente negoziabili sul mercato del parti del proprio corpo o le informazioni che riguardano pure gli aspetti più intimi della vita privata.

Ecco allora che, dopo anni di restrizioni formali, il dibattito sulle libertà conduce ad un altro dilemma radicale, cioè se vivere o morire, o comunque avere o meno il diritto di scegliere al cospetto di una sofferenza che si vuole evitare. In una ipotesi di tal genere entra in gioco la rilevanza della volontà del soggetto, largamente considerato nelle pronunce giurisdizionali di vari paesi. Sostanzialmente, il riferimento alla vita, come valore fondamentale, non può essere disgiunto dall’attenzione rivolta all’altro valore in questa materia, quello della dignità umana: messi insieme, essi modellano il diritto di morire con dignità, peraltro fortemente sottolineato dalla Raccomandazione 779 del Consiglio d’Europa.

Ciò ha portato, in sedi autorevoli, a chiedere, in definitiva, se il diritto ad una vita dignitosa, ormai ampiamente riconosciuto e tutelato dagli ordinamenti, non implichi anche il diritto ad una morte egualmente dignitosa. Anche la Chiesa, con una attenuazione della sua intransigenza sul tema, sostiene che “… nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi” (9).

Si intravede, quindi, a fronte di un netto rifiuto dell’eutanasia, la tendenza, consolidata ed accettata, verso il non accanimento terapeutico in casi di morte inevitabile e di ineludibile prospettiva di dolore; non si tratta, quindi, di eutanasia, ma di pietosa interruzione di un accanimento che non porterebbe ad alcun risultato, se non l’aumento della sofferenza del malato. È ormai comunemente accettato, anche a mezzo di sentenze giurisdizionali, che l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso, si configura la rinuncia all’accanimento terapeutico.

Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire (10). Ma a questo punto si pone un altro importante dilemma, che è quello della individuazione del momento in cui ciò può avvenire e quello del consenso della persona ammalata.
Può avvenire, difatti, che l’individuo, con atto negoziale, manifesti la intenzione di far cessare sulla sua persona il trattamento terapeutico che lo tiene in vita, senza la speranza risolutiva, in epoca antecedente ad un eventuale manifestarsi di malattia incurabile o di lesioni irreversibili; è chiaro che in questo caso non possono nemmeno accantonarsi le regole sull’attività terapeutica in favore esclusivamente della volontà soggettiva.

La scelta dovrebbe, quindi, essere modellata su una linea di compromesso, segnata dalla salvaguardia della dignità, tra il dovere di cura e la volontà dell’interessato. Si tenga presente, in tal senso, che il diritto alla salute, sancito dalla Costituzione, non sottintende, come conseguenza diretta, un obbligo di cura: in tale contesto devono quindi ritenersi egualmente ammissibili sia la volontà di consentire che quella di rifiutare la cura. Ecco quindi che viene confermato, come limite generale all’accanimento terapeutico, il diritto di morire con dignità, già peraltro rinvenibile in un documento vaticano del 1970, ove si affermava che “… il dovere del medico consiste piuttosto nell’adoperarsi a calmare la sofferenza, invece di prolungare più a lungo possibile, con qualunque mezzo e a qualunque condizione, una vita che va naturalmente verso la sua conclusione”. In un documento successivo viene poi richiamato “l’uso proporzionato dei mezzi terapeutici”.

Rimane tuttavia aperto il problema riguardante soggetti non in grado di esprimere la loro volontà, cioè quella fascia debole, costituita da minori, handicappati, persone malate terminali che non abbiano, in precedenza, espresso un intendimento in piena facoltà. In questi casi è necessario distinguere i casi in cui l’intervento medico si svolge in assenza più o meno assoluta della possibilità del paziente di esprimere la sua volontà o della mancanza di ogni contraria manifestazione in tempi precedenti: in queste ipotesi spetta ordinariamente al medico decidere quale sia la terapia o l’intervento appropriato (11).

Si perviene, quindi, ad una linea di tendenza, comunemente accettata dalla pratica, che individua la soluzione nei “trattamenti appropriati”, per una tutela complessiva della salute delle persone, questa intesa globalmente come “benessere psichico e fisico”, ma comunque ben lontana dalla pratica della eutanasia in senso stretto. Non si tratta di interventi intesi ad abbreviare la vita del malato, ma di una presa d’atto della inutilità di interventi che allungherebbero una “vita artificiale”, segnata solamente da sofferenza inaccettabile per ogni morale. Ciò è stato confermato dall’Ordine dei medici dei Paesi Comunitari che hanno elaborato la “Guida Europea di Etica Medica”, ove è affermato che “…in nessun caso il medico, anche quando ciò fosse richiesto dal paziente o dai suoi famigliari, deve attuare mezzi atti ad abbreviare la vita del malato”.


5. Gli aspetti giuridico-penali dell'eutanasia

Sia in termini di diritto naturale, sia in termini di diritto positivo, l’argomento della tutela della vita ha trovato sempre fra gli studiosi attenzione e rispetto. Il diritto alla vita va incluso, infatti, tra quei diritti inalienabili ed inviolabili che l’art. 2 della nostra Costituzione, facendo proprie le impostazioni giusnaturalistiche, assicura ai cittadini, agli stranieri, agli apolidi.

Nel nostro ordinamento, l’eutanasia attiva trova un netto e sostanziale rifiuto alla sua pratica nella legislazione penale, che la punisce sulla base del concetto di sacralità ed inviolabilità assoluta della vita umana. L’art. 50 C.P. enuncia il principio secondo cui non vi è reato se taluno esprime una condotta col consenso validamente espresso dall’avente diritto. Tuttavia, sussistono diritti che il legislatore considera indisponibili: nel caso di lesione degli stessi, il consenso non ha effetto scriminante, per cui sono sanzionate le condotte che offendono l’interesse dello Stato, della famiglia, della vita.

Quest’ultimo, in particolare, è ritenuto e tutelato come un diritto indisponibile, perché la persona non è riconosciuta dominus menbrorum suorum; l’integrità fisica è essenziale affinché l’individuo possa adempiere i suoi doveri verso la famiglia e la collettività. In tale direzione, l’art. 5 c.c. vieta qualsiasi tipo di menomazione che comprometta l’integrità fisica. Pertanto, il consenso comunque validamente manifestato non scrimina l’omicidio, anche se, nella ipotesi di specie, esso trova nel legislatore una diversa considerazione.

Dal punto di vista della legge penale, entra in considerazione il comportamento di chi causa la morte di una persona che, pur non avendo manifestato il suo consenso, si trova ad essere in una situazione di sofferenza grave, talché la sua morte costituirebbe rimedio ad altre ulteriori sofferenze, in assenza di ogni prospettiva di guarigione. In entrambi i casi il nostro legislatore ha espresso con chiarezza il suo orientamento. Difatti si leggeva nella Relazione al Re sul Codice penale che: “…quanto all’eutanasia non v’è motivo di distinguere.

Se il giudice ritiene che l’infermità che affliggeva il sofferente non ha determinato in lui una deficienza psichica tale da doversi ritenere invalido il suo consenso, all’uccisore sarà applicabile, nel concorso delle altre condizioni, la norma speciale sull’omicidio del consenziente; altrimenti l’uccisore dovrà punirsi come omicida comune. Gli eventuali motivi di pietà, da accertarsi sempre con la massima circospezione e da valutarsi con una intelligente diffidenza, potranno essere apprezzati all’effetto dell’applicazione dell’attenuante generale di cui all’art. 62, n. 1”.

Nel primo caso viene contemplata la ipotesi di cui all’art. 579 C.P., che prevede la punibilità per il fatto di cagionare la morte di un uomo con il consenso di lui (12). Secondo una autorevole dottrina, il fatto è identico a quello che costituisce l’omicidio comune, mentre la differenza consiste soltanto nel consenso del soggetto passivo. Il dolo, comunque necessario per l’imputabilità del delitto previsto nell’art. 579, è quello stesso dell’omicidio comune, differenziato soltanto dalla consapevolezza di agire col consenso del soggetto passivo: è proprio questa consapevolezza che incide sul requisito della volontà cosciente e conferisce al dolo quell’elemento specifico, che caratterizza tale titolo delittuoso.

Inoltre la scriminante dello stato di necessità, di cui all’art. 54 C.P., può trovare luogo in quanto risulti applicabile indipendentemente dal consenso del soggetto passivo, il quale è giuridicamente irrilevante allorché l’omicidio risulti necessitato. Nel caso dell’eutanasia, se l’uccisore del consenziente agisce per un motivo di compassione, potrebbe giovarsi della attenuante stabilita nell’art. 62, n. 1, ma non mai andare impunito(13).

Tale attenuante, l’aver agito, cioè, per motivi di particolare valore morale e sociale, non trova però, in tema di eutanasia, un particolare apprezzamento, nella ipotesi in cui l’uccisione avviene senza il consenso: la Cassazione, difatti, si è espressa asserendo che l’attenuante de quo “… non può essere concessa in tema di eutanasia mancando ancora nei confronti di questa quel generale apprezzamento positivo dal punto di vista etico - morale da parte della società attuale” ed ancora che “l’azione deve essere ispirata a motivi altruistici e non a motivi personali, neppure concorrenti” (14).

Si è poi sostanzialmente ritenuto che anche in tema di omicidio del consenziente, avente le caratteristiche dell’eutanasia, il riconoscimento dell’attenuante non potrebbe avvenire in quanto le discussioni tuttora esistenti in proposito denotano la mancanza di un generale suo attuale apprezzamento positivo, risultando anzi larghe fasce di contrasto nella società italiana contemporanea. Secondo altra autorevole dottrina, sarebbe opportuno introdurre una norma speciale che contempli le ipotesi di eutanasia, fissando una pena non elevata con un minimo basso attraverso la quale “…verrebbe riaffermato il principio che la vita umana è sacra, ma si eviterebbe al giudice di trovarsi nell’angoscioso bivio di infliggere una pena che la coscienza sociale considera esorbitante ed iniqua, oppure di pervenire, come a volte è accaduto, ad assoluzioni che non possono in alcun modo giustificarsi”(15).

Solo l’Olanda, dal 1° giugno 1994, è l’unico paese al mondo nel quale esiste il fondamento giuridico ad effettuare l’eutanasia. Essa è stata introdotta in maniera piuttosto artificiosa: difatti si è passati attraverso una modifica dell’art.10 del Regolamento di Polizia Mortuaria, stabilendosi la non punibilità per i medici che abbiano aiutato a morire i propri pazienti e che siano in grado di dimostrare di aver rispettato talune condizioni.
L’atto eutanasico deve essere infatti documentato da una relazione scritta, da cui risulti che il paziente sia stato affetto da malattia inguaribile, che vi siano state sofferenze insopportabili e che il malato l’abbia richiesto reiteratamente; tali condizioni devono poi esser confermate da un collega del medico dichiarante. Il documento deve inoltre recare la storia clinica del paziente e i mezzi utilizzati per l’eutanasia. La relazione viene notificata dal medico a un pubblico ufficiale con funzioni giudiziarie.

Vi è ancora un altro caso di legalizzazione dell’eutanasia, e riguarda il territorio del Nord della Federazione Australiana, dove è entrata in vigore la “Legge sui diritti del malato terminale”. In tal caso, rispetto anche al precedente, è affermato a chiare lettere un “diritto alla morte”: la legge infatti legittima la possibilità per il paziente cosciente e maggiorenne di richiedere l’ eutanasia nell’ipotesi in cui questi sia affetto da una malattia incurabile e le sofferenze siano talmente forti che nessuna terapia sia in grado di alleviarle.


6. Conclusioni

Le cronache recenti, talune pronunce di Corti Americane, una più critica e vigile attenzione dell’opinione pubblica, il desiderio degli individui di attenuare o abolire del tutto le situazioni di sofferenza, tengono aperto il dibattito sulla eutanasia. Se è vero che il diritto è la espressione e la risposta ad esigenze morali di una data società in un preciso momento storico, è chiaro che il legislatore dovrà, prima o poi, regolarizzare ed indirizzare questo dibattito verso una soluzione organica.

Dare una risposta è pur tuttavia oggi estremamente complesso e delicato, proprio perché preziosi sono i beni presidiati dalla morale comune, e cioè la vita e la dignità. L’eutanasia, proponendosi come rimedio irreversibile, impone, per ciò stesso, una seria ed approfondita analisi di tutta la materia e richiama il dovere dell’ordinamento giuridico positivo di individuare, per proteggerle, le situazioni di debolezza che ogni diversa normativa, emessa sull’onda dell’emotività, potrebbe esasperare. E in più, vi è il serio rischio che, come taluni affermano, “offrire l’opzione di morire può significare dare alla gente nuove ragioni per morire” (17).

La sfida aperta su questo terreno è drammatica e non consente errori, ed è per questo che, quale che sia la scelta che si andrà ad operare, essa dovrà necessariamente formarsi sul più ampio consenso: proprio perché la ricerca della verità assoluta passa attraverso il dramma delle coscienze.


(*) Maggiore dei Carabinieri, Comandante del reparto Comando del Comando Unità Mobili e Spacializzate Carabinieri "Palidoro".
(1) S. RODOTA', Repertorio di fine secolo, Editoria Laterza, 1999, pagg. 109-110.
(2) DEVOTO-OLI, Dizionario della lingua italiana - Le Monnier - Firenze 1990, pag. 701.
(3) Enciclopedia legale di Selezione, Milano 1987.
(4) C. GIUSTI L'eutanasia, in Trattato di Críminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria Forense a cura di F. FERRACURTI, VOI. VII, - Criminologia dei reati omicidiari e del suicidio - Milano, Giuffrè, 1988, pagg. 229-230.
(5) EURISPES, I1 Paradiso può attendere? Gli atteggiamenti di fondo e i giudizi circostanziati degli Itallani su: http//www.Eurispes.com.
(6) PLATONE, Opere complete, vol. VIII, Editori Laterza, 1993, pag. 75.
(7) L. CANTONI, L'eutanasia, in DIZIONARIO DEL PENSIERO FORTE, http://web.TiscaliNet.It pag. 5.
(8) C.S.H. JAYEWARDENE e T.J. JULIANI, Il diritto di morire, in Trattato di Criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria Forense, cit. pagg. 211-212.
(9) Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sulla Eutanasia, Ed. Paoline, 1991.
(10) Conferenza Episcopale Italiana, Catechismo della Chiesa Cattolica del Vaticano, 1992, pagg. 560-561.
(11) Vedi, tra gli altri: G. IADECOLA, L'interruzíone delle cure nel trattamento dei morenti: sulla liceità giuridica dell'eutanasia passiva, in questa RASSEGNA, n. 2/19 94; ID . Il diritto di morire nel rapporto medico-paziente, in questa RASSEGNA n. 4/1995.
(12) Vedi, tra gli altri: D.RIPONTI, Profili vittimologici della fattispecie dell'omicidio del consenziente.
(13) V.MANZINI, Trattato di Diritto Penale Italiano, Utet, Torino 1985, pag. 98 e seg.
(14) Cass. Pen. Sez. I, 07 aprile 1989, in Giust.Pen. II, 459.
(15) F.ANTOLISEI, Manuale di diritto Penale, Giuffrè 1982, pag. 57.
(16) L.CANTONI, G.FRAVOLINI, Thanatos ed eutanasia su CRISTIANITA, N.249, 1996.
(17) Vedi, tra gli altri: D.RIPONTI, Profili vittimologici della fattispecie dell'omicidio del consenziente.