SICUREZZA AGROALIMENTARE
IL BRANDY PARLA ITALIANO
15/02/2021
di Luigi Abate

Dopo un periodo di declino, qualche anno fa ha ricevuto la tutela dell’Indicazione Geografica e così grandi distillerie e piccoli produttori hanno cominciato a lavorare sulla qualità, anche se manca ancora un legame stretto con il territorio

FOTO A

A dispetto del sostantivo inglese e delle famigerate versioni d’oltralpe, Cognac e Armagnac, quella di produrre Brandy è una tradizione che va avanti da secoli anche in Italia, sebbene la sua diffusione non abbia mai raggiunto numeri da capogiro.

Ma occorre innanzitutto fare un po’ di chiarezza. Per Brandy si intende il prodotto ottenuto dalla distillazione del vino, successivamente invecchiato in botti di legno. Fa parte dunque della grande famiglia delle acquaviti così come tutte quelle bevande frutto della distillazione di un fermentato, quasi sempre di origine vegetale. Molto spesso si tratta di frutta, come ad esempio le mele per il Calvados o le prugne e le susine per lo Slivovitz. Altre volte la materia prima a essere fermentata e poi distillata è un cereale, come nel caso del Whisky, la canna da zucchero per il Rum, o ancora l’agave per la Tequila e il Mezcal, e così via. Dall’uva nella sua interezza, ammostata e fermentata, si produce l’Acquavite d’uva, mentre i suoi derivati, le vinacce e il vino, sono alla base rispettivamente della Grappa e per l’appunto del Brandy. La Grappa quindi, prodotto iconico del Bel Paese, è un distillato di vinacce, ovvero di ciò che rimane, bucce e vinaccioli, dopo che l’uva è stata pigiata. Mentre sono in tutto e per tutto dei Brandy sia il Cognac sia l’Armagnac, prodotti secondo i rispettivi disciplinari in delimitate aree della Francia.

FOTO BL’INDICAZIONE GEOGRAFICA

Anche il Brandy Italiano è protetto da una indicazione geografica e la denominazione Brandy Italiano IG è riservata all’acquavite ottenuta in Italia dalla distillazione di vino proveniente da uve coltivate e vinificate nel territorio nazionale, invecchiata in recipienti di legno di quercia per almeno un anno, o per almeno sei mesi se la capacità delle botti è inferiore a 1.000 litri. Il fatto che la IG riguardi il Paese nella sua interezza, e non delle zone specifiche, ha ovviamente delle motivazioni storiche. La pratica della distillazione del vino si è infatti diffusa lungo la Penisola piuttosto a macchia di leopardo. La parola Brandy è un’abbreviazione del termine inglese brandywine a sua volta tradotto dall'olandese brandewijn, ovvero vino bruciato. Erano difatti gli olandesi, con una lunga tradizione mercantile alle spalle, a esportare in Nord Europa, già nel XVII secolo, vini e spiriti prodotti in Francia e Portogallo. I primi distillati di vino in Italia si ebbero molto probabilmente in Sicilia, nella seconda metà del 1700, quando gli inglesi decisero di fortificare l’apprezzato Marsala con appunto l’acquavite di vino. Con l’intento di ottenere un Brandy da consumare in purezza, la pratica della distillazione del vino fu perfezionata nel secolo successivo. La produzione prese piede nella stessa isola siciliana e al contempo nel Nord dello Stivale, a partire da Bologna e Milano, dove, in diversi casi, fu inizialmente portata avanti da mastri distillatori di origine transalpina o da italiani reduci da esperienze oltralpe. La produzione su scala industriale si affermò sul finire del 1800, quando la fillossera, un parassita di origine americana che in breve tempo devastò la viticoltura europea, mise in crisi le aziende di Cognac, spingendo così le distillerie italiane ad aumentare i quantitativi di Brandy da immettere sul mercato, per sopperire alla mancanza di prodotti francesi. Nel XX secolo il consumo di Brandy in Italia crebbe costantemente nel corso degli anni, con una decisa impennata nei decenni successivi al secondo dopoguerra. Come per gli altri distillati, il declino iniziò a partire dagli anni Ottanta a fronte, però, di una migliore qualità produttiva. Un miglioramento che col tempo ha riguardato sia le storiche realtà industriali sia le piccole entità artigianali.

FOTO CIL PROCEDIMENTO

La materia prima di partenza è di importanza vitale al fine di ottenere un Brandy di qualità. Sebbene per la sua produzione possano essere utilizzate uve sia a bacca bianca che nera, le prime sono quelle più usate. La varietà più apprezzata è in particolar modo il trebbiano, solitamente capace di donare vini leggeri e con una elevata acidità, ideali per la distillazione, tecnica per la quale è indispensabile l’alambicco. Ce ne sono di diverse tipologie, così come diverse sono le pratiche messe in atto dai mastri distillatori per ottenere un’acquavite. Nel caso del Brandy, così come del Whisky o del Calvados, altro passaggio obbligato, capace di caratterizzare ulteriormente il prodotto finito, è l’invecchiamento. Durata e luogo del riposo, dimensione della botte, tipologia e provenienza del legno sono solo alcuni dei fattori che influenzano il gusto dell’acquavite. È durante questa quiescenza che evapora la cosiddetta “parte degli angeli”, ovvero quella piccola percentuale di acquavite che si disperde in vapore attraverso i pori delle doghe. Lo step successivo è l’imbottigliamento che avviene il più delle volte assemblando Brandy provenienti da botti e annate differenti, secondo stile e volere del singolo produttore.