
Due immagini nette e contrapposte: Xi Jinping nel suo discorso al Congresso del PCC ha parlato di una Cina da «fare bella» e di uno «sviluppo verde a protezione dell’ambiente e in armonia con la natura». La parola “Inquinamento” è stata una delle più citate nelle oltre tre ore e mezza di intervento.
A ridosso delle festività natalizie Donald Trump, mentre un’ondata di gelo con temperature polari stava colpendo il Paese, sul suo social preferito ha ironizzato sul riscaldamento globale, da lui considerato un’“invenzione” di Pechino, con un tweet del seguente tenore: «Sulla costa Est potrebbe essere la vigilia dell’anno più freddo mai registrato. Potremmo usare un po’ del buon, vecchio, riscaldamento globale». È vero che - per certi versi - quello del climate change è diventato una declinazione del “politicamente corretto” e come tale uno dei pilastri del pensiero globalista. Allo stesso modo, la trasformazione della questione ambientale in uno status symbol, e quindi in un oggetto di consumo, rischia di distorcere tutto il rapporto, assai complesso, tra politiche di sviluppo e riscaldamento planetario. Nonostante ciò, non si possono relativizzare la mole di dati scientifici, i deleteri effetti dell’attuale modello di sviluppo, il fatto che i danni arrecati dall’uomo all’ambiente non rispettano le frontiere e che i problemi dell’inquinamento vanno affrontati come una sfida planetaria. Le azioni condotte a livello globale si sono già rivelate efficaci nella riduzione del ritmo di degrado, e in qualche caso hanno prodotto - in tempi rapidi - incoraggianti segnali di un’inversione di tendenza. Basti pensare al Protocollo di Montreal che nel 2017 ha compiuto trent’anni: in virtù del fatto di essere un accordo veramente globale - è stato firmato e applicato da tutti i Paesi del mondo - ha rappresentato il migliore successo mai raggiunto nella lotta contro il cambiamento climatico, dato che il buco dell’ozono, che il protocollo si riprometteva di contrastare, non solo ha smesso di crescere, ma si è fortemente ridotto.

CLIMA E GUERRE CIVILI
C’è poi un ulteriore aspetto da tener presente: “Il riscaldamento globale del Pianeta può esercitare una pressione crescente su acque dolci e cibo per il prossimo secolo, provocando disordine sociale, migrazioni di massa e conflitti violenti”. Questa la tesi del giornalista e storico militare Gwynne Dyer nel suo libro del 2008 Climate wars. Ma c’è una prova reale del legame tra cambiamento climatico e guerre civili? Anche in questo ambito il dibattito è aperto. Per Halvard Buhaug, ricercatore del Peace Research Institute di Oslo, no. In un articolo pubblicato sulla prestigiosa Proceedings of the National Academy of Sciences egli ha cercato una relazione tra la temperatura, la variabilità delle precipitazioni e la frequenza dei conflitti nel corso degli ultimi 50 anni nell’Africa sub-sahariana, probabilmente la parte del mondo socialmente ed ecologicamente più vulnerabile ai cambiamenti climatici. La sua risposta è stata che “le cause di una guerra civile sono politiche, non ambientali”. Questo studio sfida un’altra analisi pubblicata sulla stessa rivista alcuni anni prima, che giungeva a conclusioni diametralmente opposte. Marshall Burke aveva infatti affermato che: “Sfortunatamente il nostro lavoro ha trovato un aumento del rischio di guerre civili in Africa del 50 per cento nel 2030 rispetto al 1990, con costi umani potenzialmente enormi”. Commentando questi risultati, Edward Miguel, economista a Berkeley, ha affermato: “Noi stessi siamo rimasti sorpresi dalla forza del legame fra temperature e conflitti. Ma il risultato ha senso. La maggior parte dei Paesi africani dipende dall’agricoltura per la propria sopravvivenza, e le messi sono molto sensibili anche a piccoli cambiamenti di temperatura. Quando la temperatura sale, la probabilità che molti in Africa ne risentano è notevole, e la probabilità che qualcuno decida di prendere le armi anche”. I due gruppi di ricercatori contrapposti stanno ora contestando la validità delle rispettive conclusioni.
Ma la cosa interessante è che per la prima volta è stato messo in discussione un nesso (quello tra guerra e cambiamenti climatici) che sembrava ormai assodato. Già durante la Guerra Fredda, Robert McNamara tentò di ridefinire il significato di sicurezza internazionale. Nel 1968, in The Essence of Security, espresse un concetto di “sicurezza globale”, secondo cui quella dei Paesi industrializzati è direttamente legata alle condizioni di quelli in via di sviluppo.

Gli anni Ottanta hanno visto il fiorire delle tematiche ambientali in ambito internazionale, a partire dallo studio Redefining Security di Richard Ullman, che inserisce le componenti ambientali come variabile determinante per generare conflitti. Nel 1994 il giornalista ed esperto di strategia Robert Kaplan ha scritto un articolo dal titolo La futura anarchia: come scarsità, crimine, sovrappopolazione e malattie stanno rapidamente distruggendo il tessuto sociale del nostro pianeta (Atlantic Monthly), che pone le basi del concetto di environmental security. Nello stesso periodo Thomas Homer-Dixon, ritenuto il maggior pioniere del settore, ha portato a termine un’ampia ricerca che costituisce ancor oggi il metro di paragone degli studi in materia. Comunque, al di là del dibattito accademico, è il buon senso a dirci che il tema ambientale deve restare centrale anche nel contrasto alla criminalità organizzata e nella predisposizione di articolate politiche di sicurezza.