
Da quelle che col loro starnazzare avvertirono i Romani dell’approssimarsi dei Galli al Campidoglio, a quella di nome Martina che – preso l’imprinting da pulcina – pedinava il padre dell’etologia Konrad Lorenz: ecco le oche italiane, nome che nello standard avicolo assimila le “romane” o “romagnole”, compresa la simpatica variante col ciuffo. Dopo una fase di stallo, complici volpi golose e concorrenza d’Oltralpe, l’oca italiana sta conoscendo un revival. In parte lo si deve al boom di consumo di carni avicole registrato negli ultimi anni, del cui traino si giova anche l’oca italiana che però, pur prelibata, nello Stivale copre segmenti di mercato contenuti, secondo dati Ismea, attorno al mezzo punto percentuale. In compenso il suo piumino è reputato tra i migliori, e la sua produzione ovicola è impareggiabile: circa il doppio rispetto alle colleghe di altre razze, con almeno 110 uova l’anno del peso minimo di un etto e mezzo.
In realtà, però, la riscoperta dell’oca italiana, quella bianca col becco giallo, passa per impieghi meno convenzionali. In versione “da pascolo”, ad esempio, è un eccellente tosaerba in grado di effettuare la manutenzione perfetta dei prati o dei terreni a coltura. Nei vigneti di Montefalco, in Umbria, un’indaffaratissima falange di circa 400 oche pasciute e felici tiene a posto il suolo mangiando l’erba, ma senza rovinarne il manto col calpestio. La gioia di chi opera nel biologico o biodinamico va da sé, e il reddito indiretto si ottiene col risparmio su carburanti, prodotti chimici, diserbanti e forza lavoro.
Che dire poi del talento da animale da guardia soprattutto dei maschi?
In provincia di Venezia, a Mirano, gli abitanti ne hanno fatto un must contro i ladri: non servono più antifurti, bastano baccano e dolorose beccate a proteggere l’abitato. Insomma, il reddito da oca italiana è differente. Ma proprio le vocazioni multitasking stanno facendo recuperare terreno a questa linea di allevamento che l’alba del Terzo Millennio aveva trovato un po’ intorpidita.