
- Grotte di Lascaux, Francia sud-occidentale
Se improvvisamente l’arbitro, nel mezzo di una accesa partita di calcio estraesse un cartellino color indaco, tutti, in campo e sugli spalti, si guarderebbero perplessi; se il semaforo d’un incrocio pericoloso lampeggiasse d’una luce blu cobalto gli automobilisti resterebbero incerti sul da farsi. E chi, se appena giunto al pronto soccorso gli fosse assegnato un codice pervinca, non ne sarebbe turbato? Basta però sostituire i colori rispettivamente con rosso, verde e giallo e tutto apparirà chiaro: le tinte sono codici, costruzioni culturali, linguaggi.
Vi farebbe piacere se vi definissero una persona incolore? C’è da dubitarne, perché vi stanno dando dello scialbo, del banale, del nullo. Quello sgradito appellativo mette però in luce un’equazione semantico-lessicale che connette il mondo cromatico con quello dei significati, la galassia dei colori con quella delle idee, l’universo dei pigmenti con quello dei pensieri. E non c’è solo il piano concettuale, c’è anche il palcoscenico morale su cui il colore recita spesso la parte del villain: “combinarne di tutti i colori” è giudizio biasimevole riferito a sregolatezza comportamentale, come di contro l’assenza cromatica è spesso sinonimo di morigeratezza: mangiare “in bianco”, oppure il rigoroso vestire “di nero” adottato dalla cromoclastia protestante, dalla quale ci siamo solo parzialmente affrancati aggiungendo il colore blu agli abiti da cerimonia. La storia dell’arte è segnata, attraversata, e squassata, da approcci, indagini, dibattiti e prassi più o meno radicali sull’argomento. Da Michelangelo che, a proposito del principe dei coloristi, Tiziano Vecellio, osservò sarcasticamente che era un peccato che i veneziani non avessero imparato a disegnare meglio, allo sprezzo moderno di Le Corbusier (era architetto, sia detto a sua discolpa): “Lasciamo ai tintori la gioia sensoriale del colore in tubetto… è l’ora di bandire una crociata a favore del bianco calce…”.
A fianco della dimensione culturale, c’è però quella materica di Cromolandia, giacché la natura è stata per lunghissimo tempo la fornitrice diretta della tavolozza dei pittori, arricchendola attraverso i suoi tre regni, minerale, vegetale e animale: dal primo si macinavano, dal secondo si estraevano, dal terzo si spremevano. Era uno scambio au pair, un baratto arte-natura, con quest’ultima che garantiva gli ingredienti e l’altra che le regalava in cambio dei bei ritratti.
I pigmenti più antichi sono quelli d’origine minerale, le cosiddette terre, cioè materiali che ci si procacciava scavando: terra di Siena, terra d’ombra, ocra, bruno van Dyck, ecc. Con le terre rosse sono colorati ad esempio i bisonti dell’arte rupestre delle grotte francesi di Lascaux, di cui Pablo Picasso disse: “Dopo Lascaux non c’è più nulla da inventare”. Il mondo vegetale ha regalato agli artisti l’indaco (dal gualdo), il giallo (da zafferano, curcuma, camomilla ecc.), e il rosso (dalla robbia), prima che il regno animale procurasse una nuova fonte di rosso: una recente mostra in Messico ha ricordato quanto certe intensità cromatiche di Rubens e di Caravaggio siano merito della cocciniglia che, scoperta durante le spedizioni nel Nuovo Mondo di Hernán Cortés, divenne da allora insetto sacrificale dell’arte per ottenere un rosso intenso e saturo.
È, quello dei colori, un universo affascinante, enigmatico e sconfinato, che abbraccia macrocosmo e microcosmo, mondo fisico e mondo spirituale, interseca discipline diverse, dall’ottica alla geografia, dalla chimica alla religione. “
Why grass is green, or why our blood is red, are mysteries which none have reach’d unto” (Perché l'erba sia verde, o il nostro sangue rosso, sono misteri che nessuno ha sondato). I versi scritti da John Donne secoli fa hanno tuttora un sapore contemporaneo.

- Pieter Paul Rubens, Pan and Syrinx, 1617