LA LEZIONE DI ZONDERWATER

Un’altra memoria. La storia del campo di concentramento sudafricano in cui furono internati quasi 100mila prigionieri di guerra italiani. Tra loro, c’erano anche dei Carabinieri

064_067_A_immagine-relativa-all_articoloAuschwitz, Polonia, primavera 1942. Leone Efrati, per gli amici Lelletto, è uno che picchia duro. Alla sua carriera da peso medio ha rinunciato nel 1938, quando nel bel mezzo di un tour americano che ne aveva consacrato l’ingresso nel Gotha della boxe mondiale, ha preferito declinare l’ospitalità offertagli dagli Stati Uniti per tornare a Roma e stare vicino alla sua famiglia, minacciata da oscuri presagi. La boxe può aspettare, pensa Lelletto, ora è il momento di proteggere coloro che amo o, se tutto va male, di condividere il loro destino. Non immagina, quel giovane dagli occhi grandi e i bicipiti scolpiti, che di lì a poco una retata della Gestapo metterà fine a ogni sogno di gloria. Né immagina che anche in quell’inferno di neve in cui sarà catapultato dopo un viaggio spaventoso su un treno sferragliante di dolore, i guantoni tornerà a incrociarli, ma solo con pesi rigorosamente più alti del suo, per il divertimento perverso degli annoiati aguzzini di Auschwitz. Lo farà godendo di condizioni relativamente buone, ricevendo in cambio quelle razioni extra di zuppa rancida e pane secco che, per uomini ridotti a niente, possono rappresentare la differenza tra il vivere e il morire. Se tengo duro, si dice Lelletto, forse sarò ancora su questa terra, il giorno in cui i cancelli di Auschwitz si apriranno, vomitando fuori i fantasmi di cui si è nutrita la belva umana; forse allora tutto tornerà come prima, con me a calcare i quadrati mondiali e quel che resterà della mia gente ad acclamare i successi che verranno. Ma Lelletto è pur sempre un uomo, con una dignità e un orgoglio che non possono essere calpestati oltre ogni limite. E un uomo non può sopportare che i kapò picchino a sangue suo fratello senza reagire, senza levare i pugni contro quegli aguzzini che presi singolarmente potrebbe atterrare con un dito, ma che in gruppo finiscono per avere la meglio anche sul beniamino del Portico d’Ottavia. Lo pesteranno a tal punto che, quando avranno finito, di Lelletto resterà solo un mucchio informe di ossa doloranti e lineamenti irriconoscibili. Da Auschwitz il ragazzo cresciuto all’ombra del Campidoglio che aveva conquistato la Chicago di Leo Rodak uscirà sì, ma passando per il camino. È il 16 aprile del 1944.

Zonderwater, Sudafrica, 8 settembre 1943. Nel più grande campo di concentramento alleato riservato ai prigionieri di guerra italiani l’attesa è spasmodica. Almeno quindicimila spettatori, tra internati, custodi, ufficiali e civili sudafricani, sono venuti ad assistere alla sfida che, di lì a poco, porterà sul ring i due indiscussi fuoriclasse del campo, i pesi medi Giovanni Manca e Gino Verdinelli. Già campione in carica dell’Impero italiano, il primo è noto per aver sconfitto, a Mogadiscio, la gran parte degli avversari che siano andati a combattere nelle colonie; all’attivo oltre cento combattimenti sostenuti prima della guerra, Verdinelli può invece vantare vittorie contro rivali del calibro di Umberto Franceschini e dell’ex campione italiano dei pesi welter Michele “Kid” Palermo. Ma c’è di più dell’interesse sportivo, a catalizzare l’attenzione degli spettatori di Zonderwater in questo giorno in cui, a qualche migliaio di chilometri di distanza, il maresciallo Badoglio sta annunciando al mondo l’armistizio. In ballo c’è molto di più che l’affermazione personale di colui che risulterà vincitore al decimo round. Perché quei due pugili che alla fine del match si abbracceranno sul ring, benedetti in quel gesto di fratellanza dallo stesso Comandante del campo, l’illuminato colonnello Henrik Prinsloo, rappresentano le diverse anime in cui si divide la popolazione del campo. Di formazione monarchica, Manca incarna tutti coloro che, formatisi nella cultura del Regime, se ne sono alfine affrancati per diventare antifascisti; Gino Verdinelli, al contrario, è l’eroe dei mussoliniani irriducibili che non si rassegnano alla sconfitta. Tutto il campo sudafricano, si legge del resto nel libro di Carlo Annese I Diavoli di Zonderwater, era uno specchio dell’Italia, con le differenze appunto tra fascisti e antifascisti, meridionali e settentrionali, romanisti e juventini, malviventi di lungo corso e “sbirri” votati alla missione di tutori della legge. C’era persino una cosca di mafiosi capeggiata da un boss di nome Don Pasquale che applicava gli stessi metodi usati in patria per taglieggiare gli altri prigionieri e imporre le proprie regole, fino a quando a sgominarla non ci pensò un altro gruppo di detenuti, formato ovviamente da carabinieri.

Ma come si era costruita, in quell’altipiano a cinquanta chilometri da Pretoria circondato da cespugli spinosi e immense fattorie, quella “Italia in miniatura” che, come il suo modello originario, amava sopra ogni cosa la politica, la musica e lo sport?

È una storia poco nota, quella del lager che, tra il 1941 e il 1947, ospitò 94mila prigionieri italiani provenienti da Cheren e Culqualber, Tobruk ed Al Alamein. Per lo più giovani sottufficiali, istruiti al minimo e inesperti quanto basta della vita e di una guerra che avevano combattuto con più entusiasmo che equipaggiamenti, i Prisoners of War (Pows) arrivavano dopo aver compiuto viaggi sfiancanti lungo le pericolose rotte del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano. Scampati ai marosi e alla dissenteria, sopravvissuti alle gabbie allestite per loro in Egitto, erano quindi giunti nella florida Durban senza sapere nulla del futuro che li attendeva. Alcuni non ebbero nemmeno il tempo di scoprirlo. È il caso di molti tra i 1.200 passeggeri imbarcati sulla Nova Scotia (769 militari italiani ma anche civili evacuati dall’Etiopia, centinaia di boeri feriti ad El Alamein oltre ai membri dell’equipaggio) che morirono nel naufragio della nave, silurata da un sommergibile tedesco: a salvarsi furono solo 199 dei nostri connazionali e 64 tra sudafricani e inglesi. O come i 1.800 Pows italiani che si trovarono a bordo del Laconia quando un altro siluro nazista colpì il transatlantico inglese nei pressi dell’isola dell’Ascensione: a loro i sorveglianti polacchi negarono a colpi di baionetta ogni accesso alle scialuppe di salvataggio, e in molti colarono a picco insieme a quella nave che portava nel proprio nome un destino ineluttabile di silenzio e oblio.

Arrivare a Zonderwater, a confronto di tante sciagure, fu dunque una fortuna per le migliaia di soldati italiani che vi giunsero da prigionieri degli Alleati per uscirne, settantuno anni fa, da cobelligeranti. Certo le difficoltà non mancavano, in quelle tende a forma di cono esposte al vento, al sole e soprattutto agli implacabili fulmini sudafricani che provocarono almeno 12 morti prima che, nel 1943, le tende venissero sostituite dalle più sicure baracche in miniatura. Il vitto, poi, lasciava decisamente a desiderare, se si considera che ogni prigioniero aveva a disposizione un menù composto da due fette e mezzo di pane, mezzo litro di latte, acqua e caffè, un pugno di granone intero o macinato, poca carne e, in alternativa, una decina di grammi di pesce in polvere. E poi c’erano lo sconforto di una prigionia durata molto più del previsto, le difficoltà di sopravvivere alle angherie dei prepotenti, l’imbarazzo di essere prigionieri di un nemico che presto si sarebbe trasformato in un amico, senza che ciò sollevasse gli internati dalla loro condizione. E non mancarono i caduti, come dimostrano le oltre 400 croci che li ricordano nel cimitero annesso al campo di Zonderwater, luogo di memoria ogni anno visitato da migliaia di persone incapaci di dimenticarne il sacrificio. Caduti per inedia o malattia, per un tentativo di fuga malriuscito o per un incidente in uno dei tanti cantieri in cui i detenuti di Zonderwater contribuirono a costruire un Sudafrica più efficiente e moderno.

Per fortuna, però, c’era lo sport, che permetteva a quanti fossero dotati di una pur minima qualità atletica di combattere quella “malattia del reticolato”contro la quale esisteva un unico rimedio: tenere allenato il corpo e accesa la mente. Ne era convinto il colonnello Prinsloo, appassionato di musica e pugilato. Fu lui a favorire all’interno del campo il proliferare delle arti e dello sport, dopo avervi allestito due ospedali con tremila posti letto. Per non parlare delle 15 scuole in cui 9mila prigionieri impararono a leggere e scrivere, dei 16 campi di calcio e dei 6 da tennis, delle sale da scherma, delle palestre e dei quadrati da boxe, e ancora dei campi di pallavolo e pallacanestro, degli orti, dei laboratori artistici e artigianali, delle ricchissime biblioteche e dei 22 teatri. E tra una partita e una rappresentazione del Primarosa, operetta scritta da un prigioniero e interpretata, nel ruolo della smorfiosa Fufli, da un virilissimo caporale; tra una mostra di oggetti di artigianato realizzati dai detenuti alla quale accorsero visitatori di ogni parte del Transvaal e una sfida a calcio tra i Diavoli neri e i Diavoli rossi di Zonderwater, il tempo e la fame, la solitudine e la nostalgia divennero nemici più facili da sconfiggere. Anche nelle lunghissime e stellate notti africane, quando qualcuno imbracciava un mandolino e qualcun altro, dal suo scomodo pagliericcio, cantava con voce appassionata.

Lo faceva Gregorio Fiasconaro, ufficiale dell’Aeronautica italiana ma anche baritono di gran timbro che a Zonderwater era arrivato dopo essere stato abbattuto in Sudan e che nel campo ebbe modo, grazie ai buoni uffici del colonnello Prinsloo, di dedicarsi alla sua passione per il Belcanto. E quando i cancelli di Zonderwater furono spalancati sul futuro, Gregorio scelse di rimanere in Sudafrica, assumendo la direzione del Teatro dell’opera dell’Università di Cape Town e avviandosi a una carriera densa di successi. Non dimenticherà mai, però, la lezione del campo in cui aveva imparato come nessuno può perdere la propria dignità finché gli viene offerta la possibilità di coltivare i suoi talenti. Il figlio Marcello, negli anni Settanta, sarebbe diventato una stella del rugby e dell’atletica leggera.              

 

Sette croci, un’unica fiamma

064_067_immagine-relativa-all_articoloRappresentano soprattutto l’Italia del centro-sud, come la gran parte dei detenuti di Zonderwater, i sette carabinieri le cui croci si levano nel cimitero di Zonderwater, uno dei più curati tra i tanti sacrari dedicati alle vittime della Seconda guerra mondiale. Ai Caduti con la divisa dell’Arma – il Maresciallo Capo Vincenzo Luini e il Maresciallo Ordinario Angelo Dragotti, il Brigadiere Marino Del Gamba e i Carabinieri Michele Perna, Vincenzo Scinicarello, Ferdinando Sepe e Biagio Solitro – è andato, lo scorso novembre, il pensiero dei componenti la delegazione dell’Arma capeggiata dal Generale C.A. Sabino Cavaliere, giunta in terra sudafricana (vedi Il Carabiniere, Dicembre 2017) per prendere parte alla cerimonia con la quale si è voluto celebrare il 70° anniversario della chiusura del campo, cui seguì il rimpatrio degli ultimi 3.500 prigionieri italiani. A onorare il ricordo di chi non vide mai il giorno della libertà ritrovata, c’erano anche numerosi familiari di quei «Centomila Ragazzi» che in quella terra lontana «dettero prova», come ha ricordato nel suo discorso Emilio Coccia, Presidente della Zonderwater Block Prisoners of War Association, «che il prodotto di tremila anni di civiltà non poteva essere obliterato da una guerra perduta».


di Maria Mataluno