Inauguriamo con questo numero una serie di articoli dedicati alla letteratura del mistero e ai suoi protagonisti, campioni indiscussi di un genere spesso sottovalutato, ma che vanta tuttavia origini assai illustri e antiche
Sono sei milioni gli italiani che leggono libri “gialli, polizieschi o noir”, come emerge dal saggio L’Italia che legge (Laterza ed., 2015) di Giovanni Solimine, ordinario di Biblioteconomia dell’Università “La Sapienza” di Roma. Il quale, a proposito dei cultori di questa specialissima letteratura, aggiunge trattarsi in gran parte di diplomati e laureati.
Secondo i dati Istat elaborati da Solimine, ogni anno escono in Italia non meno di 1.500 titoli di libri gialli.
E a questo punto è d’obbligo spiegare ai non appartenenti a questa grande famiglia di lettori – i cui eroi del cuore vanno da Monsieur Auguste Dupin a Sherlock Holmes, da Hercule Poirot e Miss Marple a Ellery Queen, a Marlow e alla simpatica Key Scarpetta di Patricia Cornwell – che differenza passi fra “gialli”, “noir” e “polizieschi” in generale.
Ebbene, cominciamo con il chiarire che la parola “giallo”, per noi sinonimo di narrativa “poliziesca” (cioè alla cui base sta l’ordito di una indagine investigativa, quali che siano il crimine o il tono e lo stile del racconto), è sconosciuta al di fuori dei nostri confini, è solo italica. L’appellativo “giallo”, presto divenuto sostantivo, lo si deve al titolo dato alla collana “I libri gialli” (dal 1946 “Il Giallo Mondadori”), ideata da Lorenzo Montano e pubblicata in Italia da Arnoldo Mondadori a partire dal 1929: il termine “giallo” proviene dal colore delle copertine, diventate famose grazie alla matita di Carlo Jacono.
Non esiste, dunque, una yellow literature o una littérature jaune. Gli americani e gli inglesi usano parole come thrilling (da to thrill, palpitare, rabbrividire) o mystery (se nel racconto prevale il brivido) o ancora detective story se vi prevale l’inchiesta. Filoni dai quali, poi, sono derivate le numerosissime sottospecie che incontreremo. Gli spagnoli leggono la novela negra o novela policíaca, i francesi il roman policier, i tedeschi il Kriminalroman, che abbreviano in Krimi, i russi cernà knihovna (biblioteca nera).
Il poliziesco e i suoi fratelli. L’uomo comune (anche l’intellettuale lo è quando “si riposa” con un giallo, un libro che non legge per professione) vuole che il suo pensiero “approdi”, che la sua attenzione “chiuda”, che la suspense lo “appaghi”, che la storia “si compia”. Le storie le suggerisce ogni aspetto della vita umana (e persino animale in senso stretto: basti pensare all’energumeno che dà il via a I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe).
Da qui un giallo per ognuno di noi. Il noir, il thriller, il poliziesco “puro” (niente sangue in sovrappiù, niente stregonerie, niente castello tenebroso), il mystery (insolubile fino all’ultima pagina), il legale, il procedurale, l’hard boiled, il medical, l’esotic, lo scientifico o thecno, la spy story, il serial. Tra i più sofisticati: lo storico, il sociologico, lo psicologico (anche se non esiste giallo che si rispetti che non abbia riguardo per i processi psicologici del o dei personaggi, per quanto “scombinati” siano o proprio perché lo sono).
Dal noir al social. Il termine noir, chiaramente, nasce in Francia, coniato dopo la Seconda guerra mondiale dal critico Nino Frank e subito utilizzato dal grande editore Gallimard. Altro termine francese per designare il romanzo poliziesco è la parola polar, nata dalla astrusa contrazione dell’aggettivo policier e del sostantivo littérature. Thriller è invece la parola che gli anglosassoni hanno sempre usato per il libro che riesce, o aspira, a creare nel lettore il massimo di suspense, uno stato d’animo che è un misto di attesa e di paura, capace di catturare al massimo l’attenzione del “consumatore”. Una sensazione che considerano come effetto del romanzo hard boiled, più o meno traducibile in “caldo estremo”.
Molto vicini per significato sono i generi del procedural e del legal, ma la caratteristica del primo è che a investigare è una squadra, con accentuazione, quindi, più che dell’acume del singolo investigatore, delle “tecniche standard” delle polizie ufficiali. Quelle procedure, appunto, che secondo Auguste Dupin (Poe) o Hercule Poirot (Agatha Christie) non portano da nessuna parte per il semplice fatto che i poliziotti, chiamiamoli così, in divisa, si baserebbero sul “solito”, quando il vero problema del delitto apparentemente insolubile sta proprio ne “l’insolito”. Il legal, infine, è il paradiso dell’investigatore avvocato o procuratore o giudice (per capirci, del genere televisivo Perry Mason, personaggio dovuto alla penna di Erle Stanley Gardner e certamente più noto di tanti suoi colleghi “letterari”).
Molto diffuso è il genere medical, nel quale rifulge la penna di Kathleen (Kathy) Reichs, “mamma” dell’investigatrice-antropologa Temperance Brennan detta Tempe (Bones, in tv), come nel giallo psicologico si è distinta Patricia Highsmith, con il suo Tom Ripley, una sorta di nipotino di Freud. Gli altri generi e sottogeneri si rivelano facilmente dal loro stesso nome (per esempio, spy story).
Sempre più si va affermando il giallo “metropolitano”, che ha come palcoscenico la città, soprattutto la metropoli (in contrasto con il giallo inglese classico, molto country, con il cupo fondale del bigotto villaggio inglese, popolato di zitelle, di religiosi e di psicopatici). Nella letteratura “gialla” americana la città star è New York, un concentrato di umanità in cui tutto è possibile e tutto avviene e al quale ha dato un’anima lo scrittore Ed McBain, nome d’arte di Evan Hunter, alias Salvatore Albert Lombino, oriundo lucano (Il seme della violenza, Gli uccelli, quest’ultimo nato come sceneggiatura dell’omonimo film di Alfred Hitchcock). Ma anche Los Angeles ha il suo mentore in noir: James Ellroy (James Lee Earle Ellroy, classe 1948), autore della cosiddetta, famosa, “tetralogia di Los Angeles” (Dalia nera, Il grande nulla, L.A. Confidential e White Jazz).
Nell’ambito del “metropolitano”, noi italiani abbiamo ritagliato il giallo “mediterraneo”, spesso con una variante social (con una marcata attenzione, cioè, per i disagi della società che genera, e nello stesso tempo subisce, il crimine). Ebbene, il “giallo mediterraneo” si caratterizza per il fatto che in esso (social o meno) la bellezza dell’ambiente, oltre a esprimere il profondo senso di appartenenza dell’autore (napoletano, romano, milanese, barese) fa da contrasto allo squallore della violenza. Senza voler fare torto a nessuno, il lettore ci suggerirebbe, per esempio, i nomi di Maurizio De Giovanni, di Antonio Manzini, di Dario Crapanzano, di Gianrico Carofiglio.
Dal gotico al vittoriano: All’origine delle origini. Accesa è sempre stata la disputa sulle origini della narrativa poliziesca, della quale ancora oggi in senso stretto siamo fruitori. Ma con certezza il sangue (e non metaforico) che scorre in essa affonda le radici nella letteratura “gotica” del XVIII secolo. Mario Praz, il grande studioso della letteratura inglese, alludeva a questo proposito ad Ann Radcliffe (A Sicilian Romance) e a Matthew Gregory Lewis (creatore del Monaco, The Monk), con i loro castelli, abbazie, fantasmi e, soprattutto, violenze, stupri, incesti, presenze demoniache. Un genere che prolificherà nell’età che chiamiamo vittoriana, e non solo in Inghilterra. Mentre nel Continente proietta i propri canoni il Romanticismo, anch’esso con una certa predisposizione al recupero di fantasmi medioevali.
Gli anni del regno della Regina Vittoria, che vanno dal 1837 alla fine del secolo XIX, anni della rivoluzione industriale (euforia e miserie), delle scoperte scientifiche e tecnologiche e dell’espansione coloniale inglese, sono quelli in cui il romanzo in genere – che ora attinge anche ad un’atmosfera pregna di culto delle scienze naturali, di caos urbano creatore di disadattati – si afferma, da una parte, grazie allo sviluppo della stampa e della distribuzione e, dall’altra, per la moltiplicazione di scrittori, molti dei quali donne desiderose di affermarsi come persone e come genere. Con il favore di un pubblico frastornato dalle contraddizioni della società industriale e desideroso di “evadere” dalla vita quotidiana con emozioni forti, quelle emozioni che venivano offerte quasi sempre nei giornali, in interminabili serie di puntate, prima di diventare libri.
È in questo “brodo di cultura” che si afferma nel mondo anglosassone il romanzo poliziesco, che di esso si impregna, sicché i migliori romanzi dell’epoca saranno dei preziosi spaccati del loro tempo. E i poli tra i quali correrà la sua affermazione, al di qua e al di là dell’Atlantico, saranno due geni letterari senza aggettivi, che conferiscono al poliziesco dignità d’Arte.
Il polo inglese porta nientemeno che il fortissimo marchio di Charles Dickens. Ma è al polo americano, a Edgar Allan Poe, che si assegna, sul piano strettamente cronologico, la primogenitura del genere poliziesco. I delitti de la Rue Morgue di Poe fu pubblicato per la prima volta nell’aprile del 1841 sulla rivista The Graham’s Lady’s and Gentleman’s Magazine di Filadelfia, mentre Charles Dickens farà comparire il suo Ispettore Bucket de La Casa desolata solo nel 1853. In quanto a un’altra antesignana, la ragazza, poliziotto “malgré lui”, Marian Halcombe, creatura di un grande amico di Dickens, Wilkie Collins (il vero primo scrittore inglese “esclusivo” del genere) apparirà solo nel 1859 con un tortuoso romanzo che risente delle letture balzachiane dell’autore, La dama bianca (il grande poeta Thomas Eliot lo giudicò “un capolavoro in assoluto”), importante anche per la innovativa tecnica del racconto a più voci, che Collins sfrutterà nel suo capolavoro, La pietra di luna.
La “eticità” del poliziesco. Resta inteso che il poliziesco puro, quale oggi i critici più rigorosi lo intendono, fonda la propria identità su un elemento infungibile, la figura del detective, segnatamente del detective privato, in una vasta misura di casi disinteressato. In questo genere il protagonista non sarà mai l’autore del crimine (vedi il Rocambole di Pierre Ponson du Terrail, o il Raffles di Ernest Hornung o l’Arsène Lupin di Maurice Leblanc), il che fa del poliziesco, per quanto “evasione”, una letteratura, alla fine, sostanzialmente “etica”, edificante.
Se non si accettasse questo assioma, allora la primogenitura del giallo moderno non andrebbe né agli inglesi né agli americani, ma a un grande prussiano, Ernst Hoffmann (1776-1822), scrittore, pittore, giurista e compositore, che incarna in pieno lo spirito del Romanticismo, anche nella sua radice onirica e nel suo scavare nei penetrali più indecifrabili della psiche. Hoffmann pubblica nel 1821 la “Kriminalgeschichte” Das Fräulein von Scudéry (La Signorina Scuderi), ambientato nel tardo XVII secolo e ispirato ad un’avventuriera criminale realmente vissuta. Ma si tratta di una storia nella quale manca, appunto, l’investigatore professionale, meglio se non professionista, che sarà il vero elemento catalizzatore di tutta la successiva letteratura “gialla”.
Un “giallista” di nome leopardi. Alla ricerca non solo delle origini temporali, ma soprattutto di sicuri quarti di nobiltà per gli eroi del proprio cuore “giallo”, c’è chi trova i perfetti ingredienti del poliziesco (quando non del noir) nell’Edipo Re di Sofocle, V secolo a.C., con le sue morti strane, i suoi omicidi rimasti a lungo senza una soluzione, le indagini, il “cattivo” che pagherà il suo misfatto. Nel mondo anglosassone, il riferimento più frequente è al sacro Shakespeare, con il suo Otello e compagnia cantante.
E in Italia pochi lo sanno, ma tra gli autori di giallo noir può senza sforzi iscriversi Giacomo Leopardi, che tenne chiuse nel cassetto le sue due Odi “gialle”: “In morte di una donna inferma di una malattia unica e incurabile, ecc.”, in cui l’assassino, o l’arma del delitto “naturale” è la malattia, e “Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato [insieme, cioè al bambino di cui era incinta, n.d.a.] dal seduttore, per mano ed arte di un chirurgo”. L’investigatore è questa volta il poeta, che, se nella prima ode indaga sul fragile destino dell’uomo, nella seconda, investigatore istintivo, sa quello che la giustizia umana maschilista dell’epoca non vuol sapere, e si fa anche, con ogni probabilità, promotore di giustizia.
Per tempi più vicini a noi si pensi a Carlo Emilio Gadda (Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana), come a Leonardo Sciascia (Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il contesto, Todo modo). Sciascia, ingegno multiforme, al poliziesco attinse e al poliziesco deve gran parte della propria fama, anche se il suo intento non fu mai, verso il lettore, quello dell’“evasione”, ma quello del coinvolgimento politico-pedagogico.
E la chiamavano “minore”. La narrativa poliziesca è stata ristretta (per usare una parola da commissariato di polizia) in definizioni come “paraletteratura”, “triviallitteratur”, “narrativa di consumo”, “letteratura commerciale”, letteratura di serie B, se non addirittura di serie C. Un destino al quale Benedetto Croce condannò ogni opera letteraria che per sua sfortuna non fosse “disinteressata”, cioè si definisse accompagnata da un aggettivo (“politica”, “religiosa”, “edificante”, “poliziesca”).
La narrativa poliziesca è sbrigativamente chiamata anche, nelle sue numerosissime varianti, “letteratura d’evasione”. Alberto Moravia, lui più che “impegnato”, la sdegnò come “qualunquista”. La assolve, invece, un autorevole scrittore di gialli, nostro contemporaneo, Massimo Siviero, a una condizione: che l’autore di libri gialli si proponga non di “evadere”, di “offrire evasione”, ma di “invadere” il lettore, di coinvolgerlo nella traumaticità della trama e nell’ansia della soluzione, quindi “nella lettura”, madre della cultura.
Si può generalizzare fino al punto di chiamare “minore” una narrativa alla quale contribuiscono autori appartenenti tout court all’empireo letterario, come quelli che abbiamo incontrato, autori che non hanno disdegnato almeno una volta di offrire la penna alla musa poliziesca? Abbiamo già ricordato Hoffmann, Dickens, Poe. Ma il quadro sarebbe gravemente incompleto se non contenesse l’effigie di Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), creatore del sornione personaggio di Padre Brown e considerato uno dei più grandi narratori statunitensi dell’Ottocento. Di Chesterton, tra l’altro, risulta avviata la causa di beatificazione, legata alla sua costante attenzione per il ruolo etico, per la missione spirituale della letteratura.
Per non parlare di chi il seggio fra i grandi della letteratura, senza se e senza ma, lo ha raggiunto esclusivamente attraverso i propri romanzi d’investigazione. Ad esempio, sir Arthur Conan Doyle, creato baronetto nel 1903 da Edoardo VII (e il cui nome è legato a Sherlock Holmes, senza pari il personaggio più famoso e amato della letteratura poliziesca, nonostante non sia un fulmine di simpatia), o Agatha Christie (la creatrice di Hercule Poirot e di Miss Marple) o Georges Simenon (che prestò la propria pipa al Commissario Maigret).
Come ricorda il critico letterario Giuseppe Petronio nel suo documentato quanto godibile saggio Il punto su: Il romanzo poliziesco (Laterza, 1985) – che, dato il prestigio dell’autore, costituisce di per sé un vero atto riparatorio, di giustizia – vi sono, in tutti i generi, «romanzi intelligenti e romanzi stupidi, interessanti o noiosi, originali o ripetitivi; e quindi il discorso va fatto libro per libro, caso per caso».
Antonio Gramsci, con la sua lente di politico, dal carcere scrisse nel 1930, nei suoi Quaderni, parole non trascurabili sul giallo, «letteratura popolare»: «Il romanzo poliziesco è nato ai margini della letteratura delle “Cause celebri” [una famosa collezione “giudiziaria” raccolta dal lionese Francesco Gayot de Pitaval, 1673-1743 – n.d.a.], che a sua volta è collegata ai romanzi tipo Conte di Montecristo: non si tratta, infatti, anche qui, di “cause celebri” tipiche, che riassumono, cioè, l’ideologia popolare intorno all’amministrazione della giustizia…? [...] In questa letteratura vi è un aspetto “meccanico” e uno “artistico” e in Poe e Chesterton [prevale] l’artistico» (Quaderno 3, XX, Miscellanea). A Gramsci, homo politicus, non sfugge la carica educativa che poteva possedere una letteratura comunque “popolare”: «Occorrerebbe compilare una lista di questi editori popolari».
Bertolt Brecht, che fu molto incuriosito dalla letteratura gialla, ne scrisse tra l’altro: «Il romanzo poliziesco […] appaga le esigenze degli uomini che vivono in un’epoca scientifica più di quanto non facciano le opere dell’avanguardia...».
Jorge Luis Borges arriva a sostenere che il romanzo poliziesco ha creato un particolare tipo di lettore, trasformatosi, dopo la lettura di un allucinante racconto di Edgar Allan Poe, in un ulteriore personaggio di Poe (l’affermazione è contenuta in J.L. Borges, Ora I, Roma, Editori Riuniti, 1981). Insomma, una kafkiana metamorfosi. Un paradosso, certo, da assumere con cautela.