Il falso d’arte. Natura, sviluppo e legislazione
Massimiliano Croce

 

Massimiliano Croce
Appuntato dei Carabinieri, laureato in Lettere, indirizzo storico-artistico, presso l'Università degli Studi della Calabria, in servizio alla Compagnia Carabinieri di Rogliano (CS).
  

1. Introduzione

La falsificazione dell’arte rappresenta uno dei molteplici campi d’azione di una più generale tendenza-esigenza a falsificare un qualsivoglia oggetto, elemento naturale, comportamento, ecc.
La tendenza, più in particolare, è artefice di un meccanismo perénto incline a voler contrapporre al vero un falso vero. Le motivazioni riconducibili a tale atteggiamento possono essere molteplici: si passa da una pedissequa inclinazione alla imitatio ad una più proficua propensione alla emulatio; l’attitudine a voler far “splendida mostra di sé” avverso ad uno screening tendente alla perfezione personale attraverso modelli graditi alle masse.
L’elemento scatenante rimane tuttavia l’appagamento di una richiesta commerciale. Si è dunque nel comparto dell’esigenza che nello specifico scaturisce da una richiesta di mercato; essa è riconducibile ad una banale legge economica secondo la quale quanto più è crescente la domanda di un bene tanto più vi è la necessità di rispondere con una offerta soddisfacente.
Ora, a questa domanda commerciale, per ciò che concerne il mondo dell’arte, si può dare risposta con tre dissimili atteggiamenti: nel primo si cerca di proporre un prodotto che si avvicini quanto più possibile allo stile dell’ideatore di un’opera; nel secondo caso si riproducono opere famose (che andranno ad “abbellire” salotti rendendone familiare l’aspetto dei divisori), delle quali se ne dichiara, da parte dell’artista “copiatore”, la non autenticità. Infine, la forzosa volontà di immettere nel circuito artistico-commerciale un’opera inducente a credere che si tratti di un originale; il frutto dell’ingegno di un grande nome. Quest’ultimo, rappresenta il caso antonomastico del “falso d’arte”.
Tutti gli atteggiamenti sopra enunciati orbitano attorno alla storia del fenomeno “falso artistico” il quale, pur caratterizzandosi sin dal principio di uno spirito “ingannatore”, ha conosciuto fasi e tendenze cangianti; una propria evoluzione, dunque, dipanatasi in contiguità ai mutamenti culturali e che, pur volgendo, attraverso un processo senza dubbio digradante, ad un accezione meramente negativa, lascia affiorare una non sottovalutabile componente culturale: la tendenza del “gusto”.
La disquisizione sull’argomento non è quindi tendente al riecheggiamento di questo o di quell’altro falsario, ma si è voluto guardare al fenomeno, dal punto di vista della sua, se pur complessa, natura, facendo anche emergere, senza alcuna pretesa di inoppugnabilità, qualche personale considerazione mettendone a confronto altre.
Gli episodi citati, legati ai falsi d’arte, hanno dunque essenzialmente la funzione di carpirne, riguardo al fenomeno, lo sviluppo e non quello di approntare digressioni su note opere false e vademecum sui rispettivi autori, (pur avendone, la storia dell’arte, conosciuto di veramente famosi, primo tra tutti Michelangelo).
Emerge tuttavia un tratto netto e cioè che i veri falsari, sono artisti la cui fama è prettamente legata alla loro attività “gabbatrice”; affermatisi soprattutto nel corso del XIX e XX secolo, autori di opere presenti nei più importanti musei del mondo, delle quali ancora se ne paventa una non originalità; capaci di innescare lunghi e accesi dibattiti tra gli addetti ai lavori, che spesso giungono all’unico risultato di amplificare la popolarità del falsario “presunto autore”: quando è il caso di dire “divide et impera”.

Il falso, in ogni senso, è la conseguenza di una possibilità di speculazione. è perfettamente inutile falsificare qualcosa se questa operazione non ci concede alcun lucro. Finché esistono i miti esisteranno sempre anche i falsi.
(Vincenzo Accade, La pratica del falso, 1995)

2. La natura del falso d’arte

a. Definizione

Consultando il dizionario della lingua italiana Treccani, alla voce “falso” si legge: “in genere si definisce falso tutto ciò che è sostanzialmente non vero, ma è creduto o si vuol far passare per vero”(1). Per stringere ancora di più il campo si andrà poi all’indicazione semantica del termine “falsificazione” per la quale lo stesso dizionario recita: “l’atto e l’effetto del falsificare; contraffazione, imitazione dolosa di documenti, scritti, opere d’arte e biglietti di banca”(2).
In riferimento alla produzione artistica e nel significato attuale il falso è dunque da intendersi come un oggetto realizzato con la precisa intenzione di ingannare circa l’autore e l’epoca della sua esecuzione; per lo più tale intendimento è confermato dal collocamento dell’opera sul mercato(3).
Si potrà ancora aggiungere che, false, sono tutte quelle opere d’arte che vengono dipinte eseguite ad imitazione dello stile di un determinato artista, per essere immesse sul mercato come opere autografe.
Per poter definire un’opera d’arte come falsa occorre, (anche sotto il profilo giuridico), l’evidenza del dolo; ma proprio sotto questo aspetto risulta evidente la difficoltà della dichiarazione di falso che va fatta risalire alla complessa problematica inerente al fenomeno.
Il concetto di falso, come frode legalmente perseguibile, è relativamente moderno, risale infatti alla fine del secolo scorso ed è strettamente connesso, da una parte, con il pieno riconoscimento del diritto d’autore (diritto sancito per la prima volta in Inghilterra nel 1735) mentre, dall’altra, con l’espletamento di norme giuridicamente ben definite(4).
Il falso, inoltre, è concordemente riconosciuto quale elemento di rilevante interesse per la definizione degli orientamenti di gusto e delle preferenze di una certa epoca; sotto questo aspetto assume un valore che può definirsi storico-critico, individuandosi in esso il modo con il quale, in momenti diversi, ci si è accostati alla lettura e all’interpretazione dell’arte di altre epoche. A tal proposito, interessante è la definizione di Virginia Woolf: “I capolavori non sono nascite singole e solitarie, ma il risultato di molti anni di pensiero della gente tutta, di modo che, dietro alla singola voce vi è l’esperienza di una massa”(5).
Si tratta dunque anche di un’esperienza culturale in quanto nasce sempre da un preciso contesto culturale ed è prodotto per soddisfare esigenze di cultura. Non si può falsificare Caravaggio senza conoscerlo e, dato che conoscerlo vuol dire leggerlo, interpretarlo, secondo un’angolatura critica che varia nel tempo col variare dei condizionamenti storici e culturali, ecco che un falso Caravaggio sarà anche, di necessità, un’interpretazione critica ed un eloquente documento di cultura.
Lo stesso Giorgio Vasari sembra non disdegnare i falsi, dando importanza più alla perfezione tecnica con cui è stata eseguita l’opera che al nome di chi l’abbia realizzata. A tal proposito si ricordi l’episodio, forse più celebre della contraffazione rinascimentale, del marmoreo: il Cupido dormiente eseguito da Michelangelo giovanissimo (1495)(6).
Tale imitazione dall’antico non ci è pervenuta, ma la vicenda ha un valore esemplare; anche in ordine all’evoluzione intercorsa fra gli anni in cui il Cupido fu spacciato per antico e quelli a cui risalgono le testimonianze relative. Sotterrato e acconciato in modo da sembrare antico l’opera fu venduta a Roma da Raffaello Riario, cardinale di San Giorgio, il quale, venuto a conoscenza della falsificazione, rifiutò la scultura che fu acquistata successivamente da Isabella d’Este di Mantova; significativo è che Giorgio Vasari giudichi inopportuno il biasimo del cardinale Riario, “il quale non conoscendo virtù dell’opera, che consiste nella perfezione, che tanto son buone quanto le antiche pur che siano eccellenti, essendo più vanità quella di coloro che van dietro più al nome che a’ fatti”(7).
Negli anni in cui è ambientata, la dichiarazione vasariana indica una precisa quanto avvertita articolazione geografica negli atteggiamenti colti di fronte all’arte antica.
Va notato, dunque, come nel sec. XVI, la falsificazione di dipinti contemporanei e quella di sculture classiche erano giudicate in maniera diversa. Un Raffaello falsificato con successo, se veniva scoperto, era considerato come una comune frode; la falsificazione di una scultura classica era invece pregiata, raggiungimento supremo ed invidiabile(8).

b. Falso, copia e replica

La questione dei falsi in arte collima con quella delle copie e delle repliche. Ma né le copie né le repliche hanno finalità fraudolente. Il falso, come si è potuto osservare, rappresenta una ripetizione dell’originale con intendo di frode.
La copia, come intesa dagli schemi antichi, è volta ad imitare la natura che riflette, secondo Marsilio Ficino e la Poetica di Aristotele, un pensiero divino poiché le bellezze della creazione manifestano il volto del divino stesso(9).
La copia successivamente non entra più in gioco come ripetizione e trasmissione dei “modelli”, ma viene utilizzata come mezzo per far circolare opere originali apprezzate dal pubblico. Nelle botteghe del XV sec., gli allievi, qualche volta, erano tenuti ad imitare la maniera del maestro anche per poter realizzare copie delle sue opere, che egli potesse firmare e riconoscere, come se le avesse eseguite di sua mano. Una copia, così intesa, non può essere puramente meccanica e l’artista deve anzitutto sentire il proprio soggetto come l’avrebbe sentito il maestro che egli studia. Ora, se un pittore ritiene di essere giunto ad assimilare tale visione, è fondato sostenere che egli non c’entra affatto nel risultato finale, e c’entra invece totalmente il maestro; di conseguenza, l’opera realizzata è di tale maestro: che egli la firmi col nome del suo ispiratore non ne fa dunque un falso nel senso moderno del termine(10).
Alla fine del XV sec., cominciò a manifestarsi la coscienza dell’individualità artistica. Leonardo avrebbe affermato che “Nessuno deve imitare la maniera di un altro, perché egli non sarebbe che il nipote e non il figlio della natura, quanto all’arte”(11).
Le copie di opere famose, tuttavia, per soddisfare la domanda di mercato, continuavano ad essere praticate(12) e, ovviamente, a pagarne le spese furono proprio gli artisti più importanti, Leonardo in primis(13).
Nel XVI e XVII sec. gli originali venivano considerati temi sui quali si potevano apportare varianti; l’imitazione e la copia erano soprattutto mezzo di studio,(14) un genere praticato dai maggiori maestri, che la consideravano un esercizio di stile, come omaggio reso ad altri maestri o come promemoria.
Non si dimentichi che le copie di altri artisti da celebri originali, costituiscono vere e proprie reinterpretazioni: si pensi a Rubens, Rembrandt, Velazquez, Golzius, i Carracci, Degas, (copista stupefacente), che furono celebri copisti di opere di Tiziano, Raffaelo, Polidoro da Caravaggio, Manet da Delacroix ecc.(15).
Nei secoli XVII e XVIII al posto dei falsari subentrarono i restauratori. Le falsificazioni che essi eseguivano erano più oneste, in quanto contenevano almeno qualche frammento antico, intorno al quale il restauratore costruiva un nuovo insieme.
è sempre difficile stabilire la linea di demarcazione tra falsificazione e restauro ma molto di quello che oggi ci appare al di là di quella linea sembra esser stato considerato dai contemporanei come una pratica lecita.
In questo particolare momento culturale in tutti i campi dell’arte, basta pensare all’architettura, si “restaura”, dunque, non per riportare l’opera allo stato originale ma per riportarlo allo stato immaginario.
Nel XIX sec. la copia venne utilizzata per salvaguardare il ricordo di pitture murali del medioevo in via di deterioramento(16).
Dopo la fine dell’Ottocento, il fenomeno non ha più la stessa voga di una volta nelle scuole di pittura: ha cessato di essere letterale per divenire interpretativa(17).
Infine abbiamo la replica che va intesa invece come una ripetizione del maestro o autore, di un’opera che rappresenta un modello o prototipo. I motivi per replicare un dipinto o una scultura possono essere diversi. L’artista ripete un tema di successo per il desiderio di un committente collezionista, o per migliorare il modello-prototipo apportandovi eventualmente delle varianti, o per il difetto del materiale adoperato. Quest’ultimo caso si è verificato, per esempio, a proposito del busto-ritratto del cardinal Scipione Borghese, scolpito due volte dal Bernini perché il marmo del prototipo presentò ad un certo momento un difetto della venatura: il così detto “pelo”.
È raro peraltro che una replica si presenti perfettamente identica all’originale, ritrovandosi di solito nella successiva o nelle successive esecuzioni varianti più o meno consistenti, anche per il possibile intervento di collaboratori. Il valore delle repliche è d’altronde assai vario ed è sempre in rapporto con la qualità e anche con le ragioni che hanno motivato la loro esecuzione. Può accadere che la replica autografa nasca da un approfondimento, da un rinnovamento o da una decantazione dell’ispirazione, e assuma allora valore di originale o, malgrado l’identità esteriore, di nuova opera d’arte distinta dalla prima; inversamente può accadere che una replica autografa o molto prossima all’originale decada, per il meccanismo del processo al livello di copia(18).

c. Riflessioni sulla natura del falso d’arte

Eric Hebborn(19) nel suo Il manuale del falsario, propone una piccola riflessione sull’imitazione dell’arte; secondo la filosofia aristotelica ogni arte è imitazione, per cui Hebborn aggiunge: “alcuni artisti imitano la natura, altri imitano l’arte, ma tutti sono imitatori”. Il problema ora è cercare di capire cosa s’intende per imitatori(20).
Un tentativo di inquadramento, più che di risoluzione del problema, si può cercare attraverso l’archetipo del mito sull’origine della pittura, ovvero quello proposto da Plinio, nel trentacinquesimo libro della sua Naturalis historia e quello di Leon Battista Alberti contemplato nel De pictura.
Secondo Plinio(21), (23/24 - 79 d.c.), il primo pittore compie un’operazione fondamentale: traccia, con delle linee, il contorno dell’ombra umana proiettata su una superficie da una fonte di luce(22). Il pittore, dunque (ciò avviene in modo analogo anche per la scultura(23)), non riproduce il corpo guardando il corpo ma la proiezione di esso; rappresentazione di una rappresentazione che è l’ombra.
Ma passiamo adesso alla teoria di Leon Battista Alberti. Nel 1435, nel suo De pictura propone un cambiamento di immagine sul mito dell’origine della pittura: Però usai di dire tra i miei amici, secondo la sentenza de’ poeti, quel Narciso convertito in fiore essere della pittura stato inventore; ché già ove sia la pittura fiore d’ogni arte, ivi tutta la storia di Narciso viene a proposito. Che dirai tu essere dipingere altra cosa che simile abbracciare con arte quella ivi superficie del fonte? Diceva Quintiliano ch’e’ pittori antichi soleano circoscrivere l’ombre al sole, e così indi poi si trovò questa arte cresciuta(24).
Alberti interpone il motivo dell’ombra, ricorrente in Plinio, con il mito di Narciso che contempla la sua immagine in una fonte(25).
Come osserva Giuseppe Barbieri, Narciso e il pittore si misurano con i “riverberi” e lo sforzo di Narciso di prendere con le mani la sua immagine e quello dell’artista di stringere una realtà sfuggente fanno dell’impossibile “abbraccio” l’essenza stessa di chi lavora con le ombre(26).
Questa nuova concezione si diffonde rapidamente tra gli artisti e la “cultura” del tempo, tanto da far coniare, nell’aria umanistica toscana, la massima “ogni dipintore dipinge sé”(27).
Anche Leonardo da Vinci, tra il 1492 e il 1510, darà alla questione una sua interpretazione, filo-albertiana, seppur strettamente “somatica”: Quel pittore che avrà goffe le mani, le farà simili nelle sue opere, e così gl’interverrà in qualunque membro, se il lungo studio non glielo vieta. A dunque tu, pittore, guarda bene quella parte che hai più brutta nella tua persona, ed a quella col tuo studio fa’ buon riparo; imperocché se sarai bestiale, le tue figure parranno il simile, e senza ingegno, e similmente ogni parte di buono e di tristo che hai in te si dimostrerà in parte nelle tue figure(28).
È giusto sottolineare però che a proposito del motto “ogni dipintore dipinge sé” è difficile stabilire se Alberti fosse stato influenzato dagli artisti rinascimentali toscani oppure al contrario fossero stati questi ultimi(29) a tener presente ed in gran conto le teorie di Alberti. Molto probabilmente questa innovativa concezione artistica non è da attribuire a questo o a quell’autore poiché la palingenesi è intrinseca alla storia dell’arte e cioè va esaminata alla luce dei grandi cambiamenti culturali che ogni epoca ha registrato. Plinio ed Alberti in sostanza non si sarebbero inventati nulla, ma è il contesto artistico-culturale che ha dato vita alle loro “intuizioni”.
Entrando nello specifico, vediamo dunque che il mito sull’origine della pittura di Plinio è aderente alla concezione dell’artista in quell’epoca, al quale si chiedeva esclusivamente un’imitazione quanto più possibile similare ed oggettiva della natura; l’artista era considerato un artigiano avente esimia capacità tecnica.
Con il rinascimento però, e siamo a Leon Battista Alberti, lo status sociale dell’artista cambia: non è più un artigiano, uno dotato di sola abilità manuale, ma è un intellettuale. E la sua valentia tecnica non è più ritenuta frutto dell’esperienza pratica di un’arte meccanica, ma frutto della vocazione personale. Il Rinascimento dà così all’artista una sorta di indipendenza spirituale: il maestro fa corrispondere ad una rappresentazione artistica la propria visione delle immagini e il suo modo di offrirne la raffigurazione interpretativa.
Sugli aspetti e i cambiamenti storici e culturali che hanno influito sull’estetica e sulla concezione di questa si potrebbe altercare proficuamente, ma un approfondimento eccessivo, in tal senso, ci porterebbe fuori dal nostro tema, per cui sembra giunto il momento di riportare il discorso al punto di partenza.
Riassumendo si può desumere che, mentre per Plinio contornare l’ombra significa circoscrivere la proiezione dell’altro senza che il proprio ego apporti cambiamenti, in Alberti, riprodurre l’ombra significa riprodurre l’immagine della propria ombra: ciò che traspare dall’opera non è il modello sterile della natura ma l’immagine rimodellata dal proprio sentire ed esprimere la natura. Nel primo caso il pittore e il modello sono due persone diverse (Plinio), nel secondo caso, invece, soggetto e oggetto della riproduzione coincidono nella figura dell’artista (Alberti).
Riguardo al mito descritto da Plinio si è parlato di una rappresentazione della rappresentazione che è l’ombra. La pittura, in questo caso, è copia di una copia, perché copia di un’ombra e l’ombra è copia di un corpo reale.
È evidente che un’arte così concepita si riduce ad imitazione passiva di un modello, per cui potrebbe rientrare nell’osservazione di Hebborn secondo cui non c’è differenza tra chi imita la natura e chi invece imita questa imitazione.
Potrebbe sembrare un gioco di parole, ma se si analizza bene la questione ci si accorge che, dal momento in cui Hebborn pone colui che realizza una copia sullo stesso piano di chi ha dato vita al modello originale, vorrà dire che quest’ultimo, durante la realizzazione della sua opera, non avrà fatto altro che riprodurre passivamente un qualsivoglia elemento della natura.
Ora sta a ciascuno decidere in quale delle due “visioni” collocare la “natura del falso d’arte”, tenendo presente, ovviamente, che qui si è cercato di guardare al fenomeno da una delle tanti angolazioni speculative possibili.

d. Come riconoscere un falso

Dice Friedrich Winkler: “Per affinare la propria capacità di distinguere ciò che è autentico, il migliore esercizio è riconoscere ciò che è falso”(30). Eric Hebborn rispondendo a quest’affermazione aggiunge: “E chi meglio di un falsario consumato può riconoscere ciò che è falso? Un tempo non soltanto gli artisti si formavano eseguendo copie e imitazioni, ma anche gli studiosi e tutti coloro che volevano diventare esperti. Sono dell’avviso che quella pratica dovrebbe essere ripristinata: integrando gli studi normali con l’apprendimento diretto delle tecniche di maestri antichi si otterrebbe una conoscenza dell’arte ben più profonda di quella data da un approccio puramente accademico”(31).
Gli specialisti dell’arte, così come gli antiquari e i collezionisti di oggi non sembrano però essere dello stesso avviso di Hebborn, fatto è che il loro problema, in materia di falsi, è costantemente proprio quello di accertare l’esistenza di metodi scientifici per stabilire l’autenticità (o la falsità) di un’opera d’arte.
Di falsi d’autore è piena la storia. Tra il XVI e il XVII sec. il commercio di opere false divenne talmente abusato che il Mancini, nelle sue Considerazioni sulla pittura, dedicò alla questione un intero capitolo al fine di tracciare un metodo utile al loro smascheramento: metodo assai interessante per gli sviluppi successivi del mestiere del conoscitore e poi dello storico dell’arte, perché poneva l’accento sulla necessità di osservare e riconoscere le peculiarità stilistiche dei singoli autori, il modo, sempre differente in ciascun artista, di usare il colore e di dare la pennellata, fino ai caratteri più nascosti perché in qualche modo meccanici quali si possono riscontrare nel modo di fare i capelli, la barba, gli occhi. Viene così definito un primo codice metodologico per il moderno conoscitore(32).
Fino a metà dell’800 scoprire un falso, dunque è stata ardua impresa. Le indagini, alla “Sherlok Holmes”, erano affidate ad un esperto d’arte il quale con il proprio giudizio critico, che si basa sull’esperienza, sui confronti e sulla valutazione-relazione tra le qualità artistiche del dipinto in questione ed il suo ipotetico corrispettivo “autentico”, decretava la falsità o l’autenticità dell’opera in questione, la cosiddetta expertise(33).
Oggi le tecniche per smascherare un quadro non autentico sono diventate sempre più raffinate e precise con l’ausilio della tecnologia e della scienza: ci si avvale di sofisticati software, di tecnologie computeristiche, di scambi di immagini e d’informazioni serratissimi via web. E così fioriscono i siti che sono in pratica dei marketplace per i falsi, i siti che aiutano a scoprirli, i siti che guidano nel dipingerli. Tutto un demi-monde che trova su Internet la sua massima esaltazione.
A differenza di ieri è ovviamente molto più facile smascherare l’inganno di una tela falsa. Naturalmente ci sono varie scuole e tantissimi strumenti per arrivare a scoprire se un quadro è falso o meno.
La scienza e la tecnologia hanno fatto passi da giganti nel settore. Se quindi nel passato le uniche strumentazioni per smascherare un falso erano le ricostruzioni stilistiche o i particolari più piccoli, per mezzo dei quali si giungeva a decretare la cosiddetta attribuzione, oggi la tecnologia ha assunto un ruolo sempre più prevalente nel coadiuvare le indagini.
Fino a qualche tempo fa, inoltre, non si conoscevano tecnologie non distruttive (quelle che prevedono comunque un raschiamento della tela). Oggi è possibile fare investigazioni non distruttive.
Storici dell’arte, restauratori e scienziati sono dunque, ormai da anni, alleati nel cercare di smascherare ogni forma di falsificazione nell’arte.
Ogni opera verosimilmente falsa verrà così indagata esteticamente, da parte di storici e critici, alla ricerca di errori ed anacronismi stilistici, il restauratore indagherà su tutti i requisiti tecnici che l’opera dovrebbe avere, dal supporto allo strato pittorico, mentre tutti i possibili metodi scientifici, di esame sopra e sotto la superficie visibile, saranno utilizzati alla scoperta di nuove prove inconfutabili e di elementi che possano contribuire al giudizio delle prime due categorie di studiosi(34).
I metodi scientifici tuttavia non riescono sempre a provare la falsità o a garantire l’autenticità di un dipinto; lo strumento primario rimane dunque il giudizio estetico anche se tratto col sussidio di alcune scienze tecniche.
Alcune indagini come la radiografia ai raggi X sono, ad esempio, in grado di rivelare la materia originale celata sotto le ridipinture, ma non sarà certo una valutazione quantitativa a determinare se l’opera sia stata ricostruita in maniera determinante e il valore artistico possa considerarsi annullato.
Molte opere false sono state smascherate attraverso l’analisi chimica del colore, cioè identificando pigmenti ancora sconosciuti al tempo in cui il dipinto avrebbe dovuto essere stato realmente prodotto. Né il bianco di titanio né il bianco di zinco possono, ad esempio, essere stati utilizzati da un pittore del Settecento, in quanto i due pigmenti sono stati disponibili dal 1920, il primo, e dalla fine dell’Ottocento il secondo. Naturalmente non vi dovranno essere dubbi sulla rappresentatività dei campioni analizzati che dovranno provenire da zone prive di ritocchi e non contaminate da altri materiali(35).
Recentemente la letteratura artistica si è arricchita di approfonditi studi sulle tavolozze utilizzate dai grandi artisti del passato, naturalmente però i falsari sono stati fra i primi ad interessarsi alle nuove ricerche. L’indagine per stabilire l’autenticità dei dipinti conduce perciò da un lato alla scoperta di sempre nuove caratteristiche tecnico-stilistiche e dall’altro stimola la realizzazione di falsi sempre più raffinati.
Anche la preparazione spesso contiene pigmenti bianchi o di altro colore che possono aiutare a smascherare un falso; inoltre il gesso utilizzato come inerte nelle preparazioni del nord Europa, prima del 1850 era disponibile soltanto nella sua forma naturale: l’esame al microscopio elettronico permetterà quindi di distinguerlo dal più recente prodotto artificiale.
I supporti in tela sono più difficili da valutare cronologicamente di quanto comunemente si pensi. Infatti, anche se è teoricamente possibile datare una tela dalla sua specifica tessitura, in pratica mancano riferimenti sicuri e rimane la sola certezza per le tele pre-trattate, in uso solo dalla fine del Settecento. Molta attenzione dovrà essere attribuita all’inchiodatura perimetrale ed al telaio originale nei rari casi in cui si siano mantenuti. I segni lasciati da questi lungo i margini della tela non devono però essere sottovalutati in quanto sono difficilmente riproducibili(36).
Per i supporti in legno di quercia utilizzati dagli antichi maestri fiamminghi, esiste un interessante esame che permette di datare con precisione l’anno di abbattimento della pianta che generalmente corrisponde, pur con un piccolo scarto, all’anno di esecuzione del dipinto. L’esame si basa sullo studio comparato della forma degli anelli di accrescimento annuali della pianta e prende il nome di dendrocronologia. è necessario essere sempre molto cauti prima di esprimere giudizi sull’autenticità di un’opera non limitandosi ai risultati di un singolo esame: in questo caso è necessario, ad esempio, valutare la possibilità che il dipinto abbia subito una sostituzione del supporto originale per un intervento di trasporto e ci si trovi, perciò, di fronte ad un’opera antica con un supporto recente, così come può avvenire che il falsario abbia riutilizzato un vecchio supporto e ci si trovi nella condizione opposta(37).
 Fori e gallerie di tarlo in superficie, otturati durante la stesura della preparazione, possono essere rivelate dalla radiografia ai raggi X. L’estrema attenzione che gli antichi maestri mettevano nel preparare le loro opere permette di escludere la possibilità che utilizzassero supporti in legno tarlati. Spesso però i falsari non si sono limitati a utilizzare vecchie tavole ma hanno dipinto le loro opere al di sopra di antichi dipinti di scarso valore. La rimozione della pittura originale non è sempre completa, sia per la difficoltà dell’operazione sia per i rischi di rovinare il prezioso supporto, cosicché alcuni esami come la radiografia possono rivelare la presenza di composizioni sottostanti di epoca posteriore rispetto a quella cui si presumeva appartenesse il dipinto. è inoltre da notare che in radiografia i falsi, come tutte le copie, spesso risultano piuttosto trasparenti ed uniformi, essendovi unicamente la preoccupazione di imitare la superficie visibile del dipinto, lavorando con cautela, senza spontaneità e col pennello poco carico di colore(38).
Lo studio delle caratteristiche pittoriche nella profondità della struttura del dipinto si avvale inoltre, da alcuni anni,della tecnica della riflettografia infrarossa che, rendendo spesso possibile l’osservazione del disegno preparatorio, contribuisce non poco a chiarire i dubbi sulla natura dell’oggetto(39).
 Non di rado può accadere di documentare con la macrofotografia aspetti di sicuro carattere fraudolento, come nel caso di craquelure di invecchiamento interrotte in corrispondenza della pittura con cui è stata eseguita la firma, o altre anomalie della craquelure, elemento tipico di ogni antico dipinto che il falsario non dovrà mai trascurare. Così come mai dovrà dimenticare, se vorrà far passare la sua opera per antica, “la prova dell’alcool” e “la prova dell’unghia o dello spillo”, cercando di assicurare alla superficie pittorica una sufficiente resistenza ai solventi e alla pressione(40).
Poco rilevante, al fine di giudicare l’antichità di un dipinto è invece l’esame in fluorescenza ultravioletta. è vero che la pittura osservata alla “lampada di Wood” acquista, col passare degli anni, luminosità, e che i colori perdono le componenti bluastre assumendo una intonazione giallastra, ma il fenomeno -oltre ad essere difficilmente quantificabile- è influenzato dal materiale utilizzato in origine, dagli strati sovrapposti nel tempo e dalle condizioni di conservazione(41).
Le firme e le date dovranno, comunque, essere osservate attentamente in fluorescenza UV poiché, se sono state alterate, possono mostrare contrasti di luminosità anomali(42).
 Esistono infine tecniche estremamente complesse e sofisticate che consentono di stabilire l’età dei materiali come la spettrometria di massa. Per la determinazione dell’età di un dipinto ad olio si studia il livello di radioattività del piombo contenuto in alcuni pigmenti utilizzati in pittura. Le reazioni di decadimento generano differenti isotopi il cui rapporto può variare in funzione del tempo e dell’origine geografica. La complessità dell’analisi e l’alto costo delle apparecchiature limitano comunque notevolmente l’impiego della spettrometria di massa nel campo dell’arte(43).
A tutti questi strumenti di indagine i falsari opporranno una tecnica sempre più astuta impiegando materiali antichi, servendosi di trucchi sempre meno evidenti all’occhio fisico e a quello chimico, onde la storia della falsificazione e della scoperta dei falsi si può dire accompagni e solleciti quella delle scoperte di nuovi mezzi di indagine fisica, chimica e storico artistica.

3. Origine e sviluppo del falso artistico

a. Nascita del fenomeno

La ricerca archeologica ha contribuito enormemente nel portare alla luce componenti artistiche di epoche sempre più primitive.
Storicamente il fenomeno del falso artistico nasce nelle regioni dell’Oriente ellenistico e della Magna Grecia, tra il sec. I a.C. e il I d.C., quale risposta alle richieste del ricco mercato romano che ricercava prodotti di provenienza greca, di quell’area culturale cioè considerata esemplare e alla quale si cercava di attingere con la ricerca di copie o di originali (spesso appunto falsificati) atti a soddisfare le richieste di una consistente clientela.
Stando alle fonti letterarie ed anche a numerosi reperti, le prime contraffazioni artistiche risalgono, dunque, alla Roma della tarda età repubblicana e proseguirono per tutta l’età imperiale. Fedro, Marziale, Cicerone, Plinio e Luciano hanno fornito ampie testimonianze sulla diffusione del fenomeno soprattutto per quanto riguarda la contraffazione di originali greci(44).
Nel Medioevo, non è difficile trovare notizie di gemme contraffatte: appunto quanto poteva costituire l’oggetto di raccolta di simbolismo e credenze culturali, d’immobilizzazione patrimoniale(45).
Il Medioevo conobbe largamente la falsificazione documentaria. E le reliquie pervenute nelle chiese d’Occidente dopo le crociate possono apparire come uno dei più imponenti fenomeni di deroga dall’autenticità che si siano mai dati(46).
b. Dalla copia artistica al falso d’arte

Una storia del falso, tuttavia (testimoniante e, per quanto possibile coerente), non può essere sganciata da quella del collezionismo, dai suoi significati di conoscenza d’immaginazione simbolica, di struttura e consapevole effige di cultura. Pertanto una vera storia del falso figurativo non potrà prendere avvio che dalla nascita del collezionismo umanistico(47).
Il mondo dell’arte classica continua a suscitare interesse anche in epoche successive, fino a raggiungere l’apice con l’avvento del rinascimento. Fu proprio la passione umanista per la cultura greca e latina ad incrementare l’attività dei falsari; il mercato offriva gran quantità di falsi codici, di vasi o di sculture che riproducevano (in maniera frammentaria per accrescere la verosimiglianza) i busti degli antichi filosofi o degli uomini illustri(48).
è proprio in età rinascimentale, dunque, segnatamente in Italia, che l’arte della falsificazione di prodotti artistici assume quel carattere tipico che conserverà sino agli inizi del sec. XX. Nel clima di un rinnovato, profondo interesse per il mondo della classicità, si affermò una singolare produzione intesa non a falsificare l’oggetto d’arte nel senso attuale ma a gareggiare con gli antichi e a emularne i risultati(49).
Nel Quattrocento, più che Firenze e Roma, questo classicismo collezionistico sembra caratterizzare le aree dove maggiore è la densità e la disponibilità commerciale di oggetti antichi: la zona di massima circolazione di reperti classici (anche greci) è costituita da Venezia, dal suo entroterra, da quella sua area di commerci che scorreva lungo la costa adriatica. Quel clima classicistico diffuso a Venezia alla fine del Quattrocento e catalizzato dalla bottega degli scultori Lombardo, si contraddistingueva nella convergenza di due linee culturali che non avevano avuto avvio sincrono: una remota collezionistica verso l’antico e una proiezione classicistica libera da polemiche antigotiche, da marcate caratterizzazioni “civili”(50).
In questo quadro di classicismo, integrale e attualizzante, diventa abbastanza improprio separare con assoluta nettezza quanto è effettivamente antico da quanto intende assimilarsi ad esso. Certo, niente assicura che il proposito fosse rigorosamente falsario, ma il colto compiacimento per questa estrema connotazione antichizzante si spingeva a un livello ancora più elitario(51).
A Padova, anche più facilmente che a Venezia, le occasioni erano favorevoli alla produzione di oggetti all’antica. All’inizio del Cinquecento, possono esprimere questa lunga sedimentazione di passioni, un po’ romanzesche, per l’antico, due crateri appartenuti a Marco Mantova Benavides, imitazioni di vasi italioti; anche il tipo di oggetto, un po’ defilato dal quadro delle frequenze collezionistiche del classicismo umanistico, emblematizza una situazione che non trova riscontri così radicali fuori da Padova(52).
La situazione padovana suggerisce già come quel tipo di produzione “all’antica” che andava verso il polo dell’intenzionalità falsaria trovasse riferimento in un collezionismo appoggiato più sul commercio degli oggetti che sulla committenza diretta; si tratta in genere di cose minute, facilmente contenibili e ricomponibili in serie significanti, iconograficamente pregnanti, come medaglie, monete, gemme, bronzetti, placchette, piccoli marmi(53).
Fu la raggiunta consapevolezza che quel contraffare e imitare era legittimamente paragonabile all’antico a indirizzare la pratica cinquecentesca del restauro ricompositivo. Sciolto il nodo della superiorità degli antichi, la cultura classicizzante cominciava a incanalarsi nel solco del restauro integrativo, del risarcimento d’interni complessi e di una specializzazione di mestiere (“gli imitatori”).
Queste circostanze fanno dunque del falso il momento più critico di una particolare forma di collegamento fra pratica figurativa (la più “alta”) e l’immagine su essa riflessa di un elitario sfondo culturale e sociale. Si tratta di quel collegamento fra prassi dell’arte e costume nobiliare, fra “professori” e “dilettanti”, in cui matureranno le occasioni concrete, i parametri di giudizio, il linguaggio stesso del “conoscitore” d’arte.
Il primato originario dell’esperienza creatrice rispetto a quella non professionale declina, dopo l’apice barocco, man mano che ci si avvicina all’età di Luigi Lanzi(54).
Anche in età barocca troviamo ancora grandi nomi dell’arte, che dipingono imitando i grandi del passato, con l’intenzione assolutamente non commerciale ma soltanto virtuosistica. L’occasionalità della dimostrazione imitativa, il pieno inganno degli intenditori, costituiscono già quello schema di falsificazioni che vedrà ad assoluto protagonista, in questo periodo, Luca Giordano. Le sue operazioni di sostituzione stilistica si svolgeranno un po’ in tutte le direzioni: Raffaello, i veneziani del Cinquecento, Durer, i contemporanei bolognesi, genovesi, spagnoli(55).
Luca Giordano non copia e non assembla motivi; il suo scopo non è commerciale, ma è il rispecchiamento conoscitivo del suo virtuosismo, del far presto, dell’estro inesauribile dell’artista. Con le opere di Luca Giordano non si potrà parlare più di allusione raffinata nel senso degli oggetti pseudoantichi del Rinascimento. La persona del contraffattore svetta ormai troppo nettamente; ed è una personale attitudine espressiva, una “maniera” in particolare, ad essere fatta oggetto della contraffazione; come del resto lo era nei programmi e nelle richieste del nuovo collezionismo(56).
L’entusiasmo archeologico che si diffonde in tutta Europa, nella seconda metà del Settecento acuisce ulteriormente il mercato dei falsi: d’altra parte la sempre maggiore esperienza dei conoscitori e il progresso della filologia rendevano il lavoro dei falsari sempre più sofisticato e qualitativamente ineccepibile, pena l’immediata identificazione della frode. A Napoli uno dei centri prediletti del grand tour, prosperava la produzione di opere antiche ad opera di artisti di notevoli capacità tecniche: va ricordata la bottega di Giuseppe Guerra (allievo di Solimena) esperto falsificatore di pittura pompeiana(57).
A Roma, dove si falsificavano prevalentemente gemme, cammei, pietre intagliate e scultura, fu invece clamoroso l’inganno (anche qui siamo in una situazione di falsificazione come sfida e non per lucro) perpetrato da R. Mengs nei confronti di Winckelmann con il dipinto ad encausto del Giove che bacia Ganimede (seppellito anche questo e fatto ritrovare ad arte): l’entusiasmo di Winckelmann fu tale che ne fece fare una incisione per la Storia delle arti del disegno presso gli antichi, convinto dell’autenticità del reperto. I caratteri “raffaelleschi” del falso di Mengs rendevano certamente ancor più familiare e quindi accettabile l’opera a Winckelmann(58).
Nell’arco del XVIII sec. si assiste ad una sempre maggiore attenzione del mercato e degli studi verso la pittura cosiddetta primitiva (italiana ed europea): Beato Angelico, Pollaiolo e Desiderio da Settignano assursero ad una popolarità che da secoli era stata loro negata. Il mercato della falsificazione si adeguò immediatamente ai nuovi gusti con una intraprendenza non riscontrabile nei secoli precedenti(59).
Nella seconda metà del secolo, il gusto borghese e una domanda di mercato ancora più ampia e più attenta all’utilizzo delle opere come semplici oggetti di arredo, incentivarono la produzione di falsi dai soggetti fino ad allora meno consueti quali paesaggi idilliaci, alla maniera di Zais e Zuccarelli, o scene boschive (J.B.C. Corot fu il pittore più falsificato di tutto l’Ottocento: circa trentamila dipinti hanno portato il suo nome e gli acquirenti più entusiasti furono gli americani)(60).
è tuttavia nel sec. XIX che il fenomeno acquista le dimensioni e le connotazioni che tuttora lo caratterizzano; si imitano, ma ormai è il caso di dire si falsificano intenzionalmente, in particolare i grandi maestri del Rinascimento, e i cosiddetti “primitivi”, per la sollecitazione di mercanti disonesti pronti a soddisfare le richieste di una sempre più vasta clientela di collezionisti(61).
Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento si affermano le personalità di alcuni famosi falsificatori: Giovanni Bastianini, Alceo Dossena, Pietro Fantini, Icilio Federico Joni(62).
Il campo cui essi si dedicarono va dalla scultura greca (Dossena) a quella trecentesca e rinascimentale (Dossena, Bastianini, Fantini), alla pittura senese quattrocentesca (Joni).
L’interesse della storiografia artistica per questo fenomeno ha sollecitato la ricostruzione di “cataloghi delle opere” di alcuni artisti e l’individuazione di gruppi di opere attribuibili a un falsificatore in base a comuni caratteristiche stilistiche, come ad esempio nel caso del cosiddetto “Falsario in calcinaccio”, ricostruito da Federico Zeri (Il falsario in calcinaccio, in Diari di lavoro, 1971).
Più sofisticato e selettivo il mercato falsario di quest’ultimo secolo: un discorso a sé merita il pittore olandese Hans van Meegeren (1889-1947), che con i suoi falsi Vermeer riuscì a trarre in inganno insigni studiosi e collezionisti: nel 1937 una Cena in Emmaus da lui dipinta fu acquistata ad altissimo prezzo quale un autentico Vermeer dal Museum Boymans di Rotterdam; per liberarsi dall’accusa di aver collaborato con i nazisti durante l’occupazione tedesca dell’Olanda, avendo tra l’altro favorito la vendita a Goering di un dipinto di Vermeer (Maddalena che lava i piedi di Cristo) si auto accusò al processo di essere l’autore dell’opera e di altri dipinti ritenuti sino ad allora opere autentiche di Vermeer, Frans Hals e Pietre de Hooch; messo alla prova dipinse in carcere un Gesù nel tempio nello stile di Vermeer, che peraltro non ultimò. La critica dopo un minuzioso esame delle opere in questione giunse alla conclusione che si trattava effettivamente di falsi(63).
Se i riferimenti sinora forniti hanno riguardato quasi esclusivamente opere pittoriche e scultoree, occorre precisare che, per le incalzanti richieste di mercato, non vi è settore della produzione artistica che non sia stato oggetto di falsificazioni.
V’è da rilevare come, negli anni a noi più vicini, la tradizionale attività del falsario, così come si è esplicata dall’età rinascimentale sino ai primi decenni del Novecento, sia entrata in una crisi forse irreversibile; e ciò perché il vero erede del falsario di un tempo è oggi forse il “ladro d’arte”; se nell’attività del falsario poteva individuarsi - come si è detto - un fenomeno di appropriazione culturale, nella organizzazione di spoliazione del patrimonio artistico è da vedersi piuttosto una espropriazione culturale, rivolta esclusivamente ai fini di lucro. Nel dopoguerra, con il boom economico coincidente con gli anni ’60/70, in Italia si è assistito ad una vera e propria mercificazione dell’arte; questa, per i “nuovi ricchi”, non rientrava come in passato nella categoria dell’appagamento estetico dello spirito, ma diveniva forma d’investimento per combattere l’inflazione e assumere a status symbol, per dimostrare tangibilmente a tutti la raggiunta posizione sociale. L’enorme domanda di tali beni favoriva, oltre al pernicioso fenomeno dei furti, il proliferare della circolazione di opere false. L’alternarsi delle mode e del gusto nel campo dell’arte ha contribuito a sollecitare la fantasia e la creatività dei falsari, facendo sì che in ambito artistico qualsiasi oggetto venisse riprodotto e commercializzato come autentico ai non esperti(64).
Da notare inoltre come, a partire dalla metà del XX secolo, l’attività dei falsari si sia indirizzata anche verso opere di arte contemporanea; se questa può sembrare operazione più facile rispetto alla falsificazione di opere d’arte del passato, a un’osservazione più attenta è da rilevarsi come il falso di un’opera contemporanea sia da considerare meno perfetto in quanto la reale comprensione della qualità artistica di ciò che si vuole falsificare necessita di una certa prospettiva storica.
Ciò costituisce una conferma della sostanziale natura critica propria del processo di falsificazione.
Il caso della false sculture di Modigliani (cfr: nota n. 43), considerate all’atto del loro ritrovamento da illustri critici d’arte come eccezionali originali del maestro, poi rivelatesi maldestre falsificazioni, ci indica come sarebbe grave errore sbarazzarsi del problema del falso attraverso giudizi generici e affrettati, conseguenti alla mancata presa di coscienza delle varie motivazioni e delle implicazioni (storiche, critiche, economiche, psicologiche, ecc.) a esso inerenti(65).

4. La legislazione in materia di falsi d’arte

Evoluzione giuridica e stato attuale della legge concernente la contraffazione di opera d’arte

Il 1735 è una data importante per il mercato dei beni artistici e per chi vi investe: in quell’anno l’Inghilterra promulgò la prima legge sul diritto d’autore, la quale, oltre a proteggere l’autore di “un’opera dell’ingegno”, nonché il consumatore-fruitore, creò lo spartiacque tra ciò che era vero e aveva un valore, e ciò che non lo era e quindi ne era privo.
Con questo atto si iniziò a parlare di falsificazione, distinguendola quindi dall’imitazione, e i falsari divennero soggetti a una pena effettiva, mentre fino ad allora rischiavano soltanto una condanna morale(66).
In Italia, le varie ipotesi delittuose in tema di contraffazione di opera d’arte erano tutte già configurate dalla legge n. 1062/1971(67), i cui articoli da 3 a 7 sono stati raccolti nell’art. 127 del testo unico del 1999; norma i cui contenuti vengono oggi integralmente riproposti dall’art. 178 del codice dei beni culturali e del paesaggio e la cui applicabilità, dopo un iniziale contrasto giurisprudenziale(68) e l’intervento chiarificatore della Consulta, va riferita a tutte le contraffazioni di opere d’arte (ivi incluse le opere di autore vivente ed aventi meno di cinquant’anni) e non solo quelle che riproducano beni culturali propriamente detti(69).
Con la prima ipotesi (lettera a) la legge punisce tutti coloro che, al fine di trarne profitto, controffacciano, alterino o riproducano “un’opera di pittura, scultura o grafica, ovvero un oggetto di antichità o di interesse storico od archeologico”.
Trattasi quindi di reato comune, potendo essere perpetrato da “chiunque”, ma che, affinché si configuri, necessita dell’elemento soggettivo del dolo specifico.
Quanto all’elemento materiale, non viene effettuata alcuna distinzione in ordine alla tipologia dell’opera (scultorea, pittorica, grafica, etc.) o alla tecnica adoperata per la sua realizzazione; indifferente al pari del numero delle copie che se ne facciano e si mettano in circolazione, quantità che potrà tuttavia essere valutata per apprezzare l’unicità del disegno criminoso e l’applicazione della continuazione(70).
Ciò che emerge è la non appartenenza dell’originale artistico all’esecutore della contraffazione. Va infatti segnalato come sia stata reiteratamente esclusa dalla Suprema Corte l’antigiuridicità della condotta al fine della contestazione di questa figura delittuosa laddove il soggetto abbia realizzato e messo in circolazione una o più copie di opera legittimamente posseduta, essendo stata prospettato in tale eventualità solo un problema di tipo civilistico, correlato alla tutela del diritto di autore(71).
La normativa punisce (lettera b) non solo chi falsifica un’opera d’arte, ma anche chi pone in commercio o detiene per farne commercio o introduce nel territorio dello Stato come autentiche, opere contraffatte, alterate o riprodotte; pur trattandosi di tre tipologie diverse, esse determinano gli stessi effetti sul piano penale(72), purché il soggetto agente sia consapevole della non autenticità del bene alienato, agendo così con dolo. Si tratta di reato comune, poiché non è richiesta la professionalità del venditore, e di figura criminosa che assume carattere permanente nel caso della detenzione preordinata alla vendita; rispetto ad esso è stato inoltre configurato, dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, il concorso formale con i reati di truffa e ricettazione(73).
In base all’art. 64 comma 1 del t.u. dei beni culturali e del paesaggio coloro che esercitano il commercio di opere d’arte, oltre a dover denunciare l’attività commerciale all’autorità di pubblica sicurezza e annotare giornalmente, su apposito registro, le operazioni commerciali, hanno l’obbligo di fornire all’acquirente “la documentazione attestante l’autenticità o almeno la probabile attribuzione e la provenienza; ovvero, in mancanza, di rilasciare, con le modalità previste dalle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, una dichiarazione recante tutte le informazioni disponibili sull’autenticità o la probabile attribuzione e la provenienza”.
Relativamente a queste disposizioni siamo in grado di meglio lumeggiare sui contenuti delle ultime fattispecie contemplate dall’art. 178 lettere e) e d) ove viene perseguito “chiunque, conoscendone la falsità, autentica opere od oggetti, indicati alle lettere a) e b), contraffatti, alterati o riprodotti”; “chiunque mediante altre dichiarazioni, perizie, pubblicazioni, apposizione di timbri od etichette o con qualsiasi altro mezzo accredita o contribuisce ad accreditare, conoscendone la falsità, come autentici opere od oggetti indicati alle lettere a) e b) contraffatti, alterati o riprodotti”. Siamo in presenza di reati in cui l’elemento psicologico è il dolo generico; la condotta tenuta dal venditore assume rilievo anche ai fini civilistici, come causa di risoluzione del contratto(74).
Il secondo comma dell’art. 178 fa emergere un’“aggravante del reato” con la conseguente “interdizione a norma dell’art. 30 del codice penale(75)”, nel momento in cui “i fatti sono commessi nell’esercizio di un’attività commerciale”, (analogamente a quanto è previsto dal quarto comma dell’art. 174); tale sanzione pare dunque supponibile nel caso in cui detta attività venga svolta non solo saltuariamente o abitualmente ma a livello professionale.
L’ultimo comma dell’art. 178 determina inoltre “la confisca degli esemplari contraffatti, alterati o riprodotti delle opere o degli oggetti indicati nel comma 1”, salvo che “si tratti di cose appartenenti a persone estranee al reato”.
Poiché ci troviamo di fronte ad un’ipotesi di confisca obbligatoria, la Suprema Corte l’ha ritenuta ammissibile anche nel caso di morte dell’imputato e di conseguente improcedibilità dell’azione penale, specificando inoltre che tra le “persone estranee” non possono ricomprendersi gli eredi dell’imputato, essendosi in presenza di beni incommerciabili e che pertanto non possono entrare a far parte dell’asse ereditario. La Cassazione ha infine giustificato il divieto di vendita all’asta delle cose confiscate (espressamente sancito dal medesimo quarto comma), anche come opere dichiaratamente non autentiche, “trattandosi di falsi d’arte e non di “copie” di sculture, pitture e opere grafiche”(76).
Questa dicitura ci richiama all’art. 179(77), in cui si menziona la legittimità, quindi la non punibilità, di chi riproduce o pone in vendita opere che siano espressamente dichiarate non autentiche; la norma ripropone le stesse disposizioni contenute nell’art. 8 della legge n. 1062/1971, (successivamente riconfermate nell’art. 128 del t.u. del 1999), escludendo la punibilità della produzione, riproduzione e vendita dei beni in questione, nel caso che il soggetto espressamente dichiari la non autenticità dell’opera “all’atto della esposizione o della vendita”.
L’attestazione deve rispondere a “specifici requisiti di forma”, affinché sia operante la correlata causa di non punibilità(78), dovendo essere effettuata o “mediante annotazione scritta sull’opera o sull’oggetto o, quando ciò non sia possibile per la natura o le dimensioni della copia o dell’imitazione, mediante dichiarazione rilasciata all’atto della esposizione o della vendita”.
Il quarto e ultimo comma esclude infine anche la punibilità nel caso di “restauri artistici che non abbiano ricostruito in modo determinante l’opera originale” e che non abbiano quindi la possibilità di porre in essere una contraffazione attendibile dell’originale, tale da procurare “turbativa al mercato” e, ovviamente, da indurre in errore gli eventuali acquirenti.

5. Conclusioni

Questo breve excursus canalizzato nei meandri di un fenomeno di non facile “esplorazione”, dal quale non possono non emergere lati oscuri riguardo alla sequenzialità di certi avvenimenti e alla effettiva attuazione di altri, ha ambito ad una modesta resa cognitiva circa le intrinseche ragioni, volitive o apatiche che siano, di ricorso all’attività di falsificare beni artistici.
Si è visto come ogni epoca abbia fatto registrare il ricorso all’espediente della falsificazione per rispondere ad esigenze diverse che vanno dal bisogno di gareggiare con i “modelli di successo”, all’auto imposizione riguardante il raggiungimento di tecniche di “artisti superiori”, fino al profilarsi di un atteggiamento tendente ad una impudente finalità lucrativa.
è emerso, inoltre, un diverso modo di guardare al fenomeno: quello di coloro che praticano l’attività di falsario i quali, sostanzialmente, vogliono assurgere alla sfera dell’artista a tutti gli effetti, mettendo in primo piano la valentia tecnica nell’eseguire le opere “copiate”, di contro a quelli che valutano una realizzazione artistica ponendo in risalto l’ingegno scaturente dall’estro artistico del creatore-esecutore. Su questo fronte si potrebbe disputare profusamente anche se ciò conduce inevitabilmente a disquisire su di un archetipo d’eccezione: la “concezione dell’ars”.

Infine, le incalzandi richieste di mercato di opere famose e la conseguente sollecitazione alla produzione di falsi d’arte, hanno evidenziato una corrispondente attività di contrasto al fenomeno con tecniche sempre più sofisticate per smascherare falsari attenti ad affinare l’arte della contraffazione.
Si è parlato di estro artistico dell’ideatore di un’opera ma anche di arte della contraffazione. La tecnica è una componente imprescindibile nella realizzazione di un’opera, al pari l’ingegno è elemento indispensabile per il costituirsi dell’arte; da qui opera d’arte. Si direbbe allora che la copia, nella sua natura originaria, è da collocarsi nella sfera dell’esecutività artistica, il ché non è un dato da sottovalutare visto che non si potrebbe realizzare la copia di un Caravaggio se non si acquisisse la tecnica per farlo.
Sarebbe auspicabile dunque che il falso d’arte, compiendo un viaggio a ritroso, possa ridivenire copia d’arte, scrollandosi di dosso quella accezione negativa di “attività fraudolenta” per tornare ad essere elemento rilevante di crescita e di confronto per ogni artista.

Approfondimenti
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(1) - Falso in Vocabolario della lingua italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, fondata da Giovanni Treccani, 1987.
(2) - Ibidem, alla voce falsificazione.
(3) - L. Grassi, M. Pepe, Falso in Dizionario della critica d’arte, Torino, UTET, 1978.
(4) - E. Castelnuovo, B. Toscano, Falso in Dizionario della pittura e dei pittori, Torino, Larousse Einaudi, 1989, pag. 256.
(5) - Falso, in Enciclopedia l’Arte, Torino, UTET, 2002, pag. 463.
(6) - Una ricca rassegna di testimonianze sul Cupido e sulle sue vicende collezionistiche è data da P. Barocchi, nel commento a G.Vasari, La vita di Michelangelo, Milano-Napoli 1962.
(7) - Vasari, Le vite, cit., VII.
(8) - M. Jones, Sembra non essere. Storia dei falsi dell’arte, a cura di M. Spagnol, Milano, Longagenesi, 1993, citato in M. Ferretti, Falsi e tradizione artistica, in Storia dell’arte italiana, Torino, Einaudi, 1994.
(9) - G. Dorfles, Artificio e natura, Torino, Einaudi, 1968.
(10) - E. Castelnuovo, B. Toscano, Ibidem, pag. 732.
(11) - A. Vermiglione, Leonardo da Vinci, Milano, Spirali/Vel, 1993.
(12) - Ottaviano de’ Medici fece fare da Andrea del Sarto una copia del Ritratto di Leone X, dipinto da Raffaello, e la inviò a Federico II duca di Mantova, al posto dell’originale. (Ibidem).
(13) - Si contano attualmente oltre sessanta copie antiche della Gioconda e più di quaranta della Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci. Claude Lorrain fu imitato tanto spesso che conservò in un libro di duecento fogli (Liber Veritatis) disegni e note sulle dimensioni esatte di ciascuno dei suoi quadri. (Ibidem).
(14) - Ai pensionanti di un’accademia veniva richiesto di eseguire la copia di un’opera originale. Federico Barocchi si “fece la mano” copiando Correggio, Michelangelo e Tiziano. (Ibidem).
(15) - L. Nanni, Per una semiologia dell’arte, Milano, Garzanti, 1980.
(16) - Prosper Mérimép fece rilevare all’acquerello tali pitture, facendone conservare le copie al Musée national des monuments francais (circa duemila documenti di formato “grande aquila”). E. Castelnuovo, B. Toscano, Ibidem, pag. 733.
(17) - Le interpretazioni di Millet da parte di Van Gogh, di Delacroix da parte di Renoir, di Cézanne da parte di J. Gris, di D. de Heem da parte di Ricasso, di Velàzquez e Van Gogh da parte di F. Bacon, di In gres da parte di certi artisti della Pop’Art, sono, più che copie, variazioni plastiche in omaggio ad artisti ammirati. (Ibidem).
(18) - L. Grassi, M. Pepe, Dizionario di arte. Termini, movimenti e stili dall’antichità a oggi, Torino, UTET, 2003.
(19) - Eric Hebborn viene qui indicato a titolo rappresentativo nel senso di voler citare un nome tra i tanti (falsari e non) che condividono il suo stesso principio.
(20) - Presso i greci il tema della relazione tra la mimesi e le opere d’arte, prima di Senofonte e di Platone, è stato rintracciato nei frammenti pervenuti di Eschilo, di Pindaro, Erodoto, Euripide, Democrito e Aristofane. Non risulta ancora chiaro se il gruppo delle parole concernenti il verbo “imitare” venga inteso nel senso del copiare, rappresentare o esprimere. Platone svaluta il grado della imitazione che, in quanto riproduzione o copia, si allontana da quella “verità” che solamente risiede nei prototipi immutabili, cioè nelle idee. Aristotele non limita l’imitazione all’agire umano, ma la estende ai caratteri (éthos) e alle passioni (pàthos). Cicerone, nell’Orator (II, 8), interpreta originalmente il pensiero platonico, sostenendo che l’artista possiede in sé il prototipo di bellezza. Per Leon Battista Alberti (1436) si tratta innanzitutto, per l’artefice, di ritrarre dal “naturale”, ma oltre alla “similitudine” delle cose è necessario “aggiungervi bellezza”, scegliendo dalla natura le cose più belle secondo un’“idea”. Leonardo esalta la figura del pittore che imita la natura, non semplicemente, ma con la sua “mente” scientifica. Gian Lorenzo Bernini scrive: “nell’imitazione c’è tutto il diletto de’ sensi nostri a darne per esempio il gran gusto, che apporta il veder ben dipinta una rancida e schifosa vecchia, che viva e vera ci apporterebbe nausea e ci offenderebbe”. Nel gusto razionalista e neoclassicista, Francesco Milizia (1797) svolge ampiamente la voce imitazione, distinguento la imitazione naturale da quella dei maestri. Si avverte ormai la crisi del concetto di imitazione, come definizione dell’arte. Garzanti Grandi Opere, Imitazione in l’Arte, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 2002.
(21) - Plinio il Vecchio (Caius Plinius Secundus), erudito e storico latino (Como 23/24-Stabia 79), ufficiale della cavalleria romana in Germania ed in seguito procuratore nella Gallia Narbonese e nelle province d’Africa, di Spagna e della Gallia Bellica. Il suo nome è legato alla Naturalis Historia, in 36 libri curata nel 79 da Plinio il giovane, nipote dell’autore, il quale vi aggiunse un libro, contenente il sommario generale dell’opera e l’elenco delle fonti consultate. Per lo storico dell’arte utili sono i libri dal XXXIII al XXXVII che contengono preziose notizie su molte sculture e pitture esistenti a Roma al suo tempo. L’opera di Plinio, diffusa fin dal II sec., venne trasmessa attraverso ca. 200 manoscritti: la principale edizione risale al 1469. F. Della Corte, Enciclopedisti latini, Genova, Tilgher, 1990.
(22) - Il pittore Bartolomé Estaban Murillo traduce ciò che Plinio aveva teorizzato con la sua opera L’origine della pittura, in cui si vede un uomo intento a delineare l’ombra di un modello proiettata sul muro. Plinio nella Naturalis historia ci parla anche della scultura la quale nasce anch’essa dal contornimento di un’ombra.
(23) - Boutade Siconio, vasaio, per primo trovò l’arte di foggiare ritratti in argilla, e questo a Corinto, per merito della figlia che, presa d’amore per un giovane, dovendo quello andare via, tratteggiò i contorni della sua ombra, proiettata sulla parete dal lume di una lanterna; su queste linee il padre impresse l’argilla riproducendone il volto: Gaio Plinio Secondo, Storia naturale. V. Mineralogia e storia dell’arte (Libri 33-37), cit., (xxxv, 43, 151).
(24) - Leon Battista Alberti, De picture, in Opere volgari, vol. III, a cura di C. Grayson, Roma-Bari, Laterza, 1973.
(25) - Leon Battista Alberti, malgrado questa nuova interpretazione del mito, al corrente delle dottrine aristoteliche, invita l’artista a studiare assiduamente la natura, anziché affidarsi scioccamente al proprio “ingenio”, per raggiungere l’idea di bellezza.
(26) - G. Barbieri, L’inventore della pittura. Leon Battista Alberti e il mito della pittura, Vicenza, Terra Ferma, 2000.
(27) - La massima è attribuita a Cosimo de’ Medici da Angelo Poliziano nei suoi Detti piacevoli (Diceva Cosimo che “si dimenticano prima cento benefici che una iniura, e chi iniura non perdona mai; e che ogni dipintore dipinge sé”). A. Poliziano, Detti piacevoli, a cura di T. Zanato, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Treccani, 1983. Il motto inoltre è stato fatto suo da Matteo Franco il quale in un sonetto polemico indirizzato a Luigi Pulci scrive: “O zucca mia sanese/i’ ti mando un cappuccio da Fuligno,/scambio d’alloro: che ne se’ più digno. Sa’ tu di quel ch’io ghigno?/Ch’ogni piyyor sempre dipigne sé: peto petuzzo, or su, dividiam te”. L. Pulci e M. Franco, Il libro dei Sonetti, a cura di G. Dolci, Milano, Società Anonima Editrice Dante Alighieri, 1933. Citiamo ancora Girolamo Savonarola che nella sua Predica sopra Ezechiel (1497) scrive: “è si dice che ogni dipintore dipinge se medesimo. Non dipinge già sé in quanto uomo, perché fa delle immagini di leoni, cavalli, uomini e donne che non sono sé, ma dipinge sé in quanto dipintore, idest secondo il suo concetto, e benché siano diverse fantasie e figure de’ dipintori che dipingono, tamen sono tutte secondo il concetto suo”. G. Savonarola, Prediche sopra Ezechiel, a cura di R. Ridolfi, Roma, Angelo Belardetti, 1955.
(28) - L. da Vinci, Trattato della pittura, prefazione di M. Tabarrini, Roma, Unione Cooperativa Editrice, 1980.
(29) - Altre testimonianze sul motto “ogni dipintore dipinge sé” sono riscontrabili in Michelangelo, Anton Francesco Doni, Niccolò da Correggio, Giovanni Maria Cecchi, Lodovico Domeniche, Filippo Baldinucci, Giulio Mancini.
(30) - Citato da S. Schuller in Forgers, Dealers and Experts, London 1960, pag. XV.
(31) - E. Hebborn, Ibidem.
(32) - L. Salerno, Vita e opere di Giulio Mancini, in G. Mancini, Considerazioni sulla pittura, a cura di A. Marucchi e L. Salerno, Roma 1957.
(33) - Expertise è una parola francese che corrisponde in italiano all’espressione “autentica”, peraltro poco usata, entrata nell’uso nel sec. XIX per indicare il giudizio di autenticità di un’opera d’arte o la sua attribuzione a un determinato artista o ad una scuola, espressi di solito per iscritto da uno studioso o esperto, su richiesta di un privato collezionista o di un antiquario; spesso l’acquirente richiede, come garanzia una expertise, cioè il giudizio firmato e datato di un esperto di chiara fama, che si usa scrivere sul rovescio della fotografia dell’opera. Di fatto le expertises riguardano sempre opere di proprietà privata, cui si tende a conferire particolare valore attraverso l’opinione e la certificazione di studiosi altamente qualificati. S’intende che talune expertises, motivate e sostenute da documenti storici, citazioni di fonti, analisi stilistica e tecnica dell’opera in esame, possono divenire vere e proprie indagini scientifiche, acquistando un valore critico rilevante, mentre altre si riducono a generiche e immotivate dichiarazioni di autenticità e di attribuzione, prive di qualsiasi consistente validità. Diversa è la perizia, relazione redatta da un consulente tecnico nominato dal giudice, o di parte, in rapporto ad un procedimento giudiziario.
(34) - A. Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, Bompianti, Milano 1973.
(35) - C. Giannini, Lessico del restauro. Storia, tecniche, strumenti, Bompianti, Fiesole, 1992.
(36) - W. Benjamin, L’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1976.
(37) - M. Mattini, A. Moles, La chimica del restauro, Nardini, Firenze, 2002.
(38) - P. Cremonesi, L’uso dei solventi organici nella pulitura di opere policrome, I Talenti, Il Prato casa editrice, Padova 2004.
(39) - Ibidem.
(40) - S. Volpin, L. Appolonia, Le analisi di laboratorio applicate ai beni artistici policromi, I Talenti, Il Prato casa editrice, Padova 1998.
(41) - Ibidem.
(42) - M. Mattini, A. Moles, Ibidem.
(43) - Ibidem.
(44) - I falsi, in epoca romana, non riguardarono soltanto le opere d’arte ma spesso anche opere letterarie, attribuite, successivamente, a famosi autori latini. è il caso di Plauto: la sua fama diede origine a numerose falsificazioni; alla sua morte circolavano 130 commedie sotto il suo nome, certamente non tutte sue. Elio Stilone, in seguito, riconobbe come genuine soltanto 25 commedie. Ma fu il suo scolaro, Marrone Reatino, a risolvere in modo definitivo la questione. Nel De comoediis Plautinis egli divise le commedie in tre gruppi: ventun commedie sicuramente plautine (le cosiddette “varroniane”: quelle che a noi sono pervenute); diciannove di autenticità dubbia e, infine, novanta spurie. Molti ritengono che sia un falso anche uno dei più antichi documenti della lingua latina pervenutoci, ovvero la fibula, detta Praenestina, arrecante la scritta, in caratteri greci: Manios med fhefhaked Numasioi (Manio mi ha fatto per Numerio). C. Salemme, Letteratura latina, Napoli, Loffrdo Editore, 1999.
(45) - La falsificazione di gemme, inoltre, consentirebbe di seguire un’ininterrotta linea di svolgimento dalle rinascenze medievali al collezionismo umanistico, ad esempio all’ambiente di papa Paolo II. In questo senso è significativo che quanto era stato prodotto o destinato alla corte di Federico II, con un programmatico sforzo in direzione classicistica e laica, finisse nella raccolta di Lorenzo il Magnifico accanto a cose veramente classiche. I. Baltrusaitis, Il Medioevo fantastico, Milano, 1972.
(46) - F. Lanzoni, Genesi svolgimento e tramonto delle leggende storiche, Roma, 1925.__________________
(47) - A. Paolucci, Falsi, copie e riproduzioni, in Enciclopedia Feltrinelli Fischer, Arte/2, Milano, 1991.
(48) - J. Von Schlosser, Raccolte d’arte e meraviglie del Rinascimento, Firenze, 1974.
(49) - L. Lanzi, Storia pittorica della Italia (edizione definitiva Bassano 1809), a cura di M. Cappucci, Firenze 1978.
(50) - L. Polacco, Venezia e l’arte antica, in Atti dell’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, classe di scienze morali, CXXXI, 1972-73.
(51) - Ibidem.
(52) - B. Candida, I calchi rinascimentali nella Collezione Mantova Benavides nel museo del Liviano di Padova, Padova, 1959.
(53) - L. Planiscing, Piccoli bronzi italiani del Rinascimento, Milano 1930, citato in M. Ferretti, Ibidem.__________________
(54) - F. Haskell, Mecenati e pittori, Firenze 1986.
(55) - Quest’attività e tutt’altro che marginale o insignificante: dalla pratica della pittura “alla maniera di” usciva una specie di Museo immaginario sui fatti più notevoli e che maggiormente lo interessavano della pittura italiana, in un rapporto non dottrinale ma evocativo. A. Griseri, Luca Giordano alla maniera di…, in Arte antica e moderna, IV, 1961.
(56) - B. De Donnici, Vita del Cavaliere Luca Giordano, Pittore Napoletano, aggiunta a G.P. Bollori, Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni, 2° edizione, Roma, 1728, pag. 380.
(57) - F. Bologna, Le scoperte di Ercolano e Pompei nella cultura artistica del XVIII secolo, in La parola del passato, 1989.__________________
(58) - A questo proposito va ricordata una frase di Friedlander secondo cui “per molti amatori, un falso Memling è il primo Memling piacevole” perché, possedendo quei caratteri che più si attagliano al gusto moderno, rende l’opera più consona alla sensibilità del pubblico. Lo stesso vale per i tanti Cranach che uscirono in Germania all’inizio dell’Ottocento: quei falsi corrispondevano perfettamente all’idea decisamente letteraria che la cultura romantica si era fatta di Cranach. B. Cavaceppi, Viaggio in Germania, introduzione alla Raccolta d’antiche statue…, II, Roma 1769, riprodotto in J.J. Winckelmann, Lettere italiane, Milano 1961.
(59) - I nuovi falsari costruivano opere “originali”, arrivando a dar vita a “maestri” senza nome, per le quali utilizzavano la conoscenza dei caratteri stilistici delle singole scuole senza mai arrivare ad imitare un solo artista. Anche per quanto riguarda i soggetti, si dava vita ad inedite iconografie per le quali questi intraprendenti falsari utilizzavano quella diffusa cultura libraria e operistica cara ad un vasto pubblico appassionato di storie collocate in un mitico medioevo ricco di virtù e di barbarie: venivano dipinti soggetti inusitati come brani di vita militare collocati in una improbabile Germania quattrocentesca o scene di vita cortese che somigliavano alle scenografie teatrali più che a dipinti antichi. Ibidem.
(60) - F. Arnau, Arte della falsificazione. Falsificazione dell’arte, Milano, 1961.__________________
(61) - Ibidem.
(62) - La specialità di Joni era quella di riprodurre quadri antichi con la stessa tecnica usata dai primitivi italiani del tre-quattrocento. E tale era la sua bravura, che le sue tele erano richiestissime. In realtà proprio a Siena si sviluppò una vera e propria scuola, oggi giudicata dagli studiosi come «fenomeno della falsificazione d’arte antica che attraversò l’Europa tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo». Joni scrisse anche una sua biografia che venne da molti osteggiata in quanto «contribuì ad accrescere i sospetti che dietro ad ogni quadro proveniente da Siena si nascondesse la mano di Joni. Il suo nome divenne ricettacolo attributivo di ogni antica tavola a tempera su fondo oro sospetta e finì per diventare simbolo di falso». E a furia di parlarne alcuni falsari come Joni o come Umberto Giunti (1886-1970), pittore che è riuscito a vendere le sue tele spacciandole per Botticelli, si sono costruiti un pubblico di collezionisti. Mentre i falsi d’autore che vengono venduti nelle gallerie hanno costi che si aggirano intorno ai 1500 euro, i “maestri” della scuola senese hanno raggiunto quotazioni che vanno dai 30 ai 40 mila euro. G. Mazzoni, Falsi d’autore, Icilio Federico Joni e la cultura del falso tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Siena, 18 giugno 2004-3 ottobre 2004), Protagon Editori Toscani, Firenze, 2004.__________________
(63) - F. Haskell, Ibidem.
(64) - A. Marabottini, Falsificazioni e disconoscimenti nell’arte contemporanea, in Dove va l’arte (“Ulisse”, XXVI, XII, 1973, n. 76).__________________
(65) - Ibidem.
(66) - N. Coco, Profili criminologici dei falsi d’arte, in Arch. Pen., 1959.__________________
(67) - La legge 20 novembre 1971, n. 1062, reca infatti “Norme penali sulla contraffazione od alterazione di opere d’arte”.
(68) - Il reato di contraffazione di opere d’arte, attualmente previsto dall’art. 178 t.u. sui beni culturali e ambientali, approvato con d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, non è più configurabile quando si tratti di opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquant’anni, atteso che tali opere, ai sensi dell’art. 10, 5° comma, del medesimo t.u., sono espressamente escluse dal novero dei beni di interesse culturale, cui si riferisce il precedente 1° comma e 3° comma, lett. a) ed e) dello stesso articolo, cfr. Cass. pen., III Sez, 18 settembre 2001, in Cass. pen., 2002, 2460, con nota di Cipolla, in Giust. Pen., 2002, II, 579, in Riv. pen., 2002, 33 ed in Rivista Ambiente, 2002, 453. è rilevante e non manifestamente infondata, in relazione all’art. 76 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, 6° comma, d.leg. 29 ottobre 1999 n. 490 con riferimento all’art. 1 L. 8 ottobre 1997 n. 352 e all’art. 127, le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni, eccede i limiti imposti al legislatore delegato dalla legge delega, cfr. Trib. Piacenza, 14 maggio 2001, in indice pen., 2001, 887. Citato in D. Antonucci, Commento al Codice dei beni culturali e del paesaggio, Esselibri - Simone, Napoli, 2005.
(69) - La contraffazione delle opere d’arte prevista dall’art. 178 D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, si applica anche alle opere di autori viventi o la cui esecuzione risalga a meno di cinquant’anni, dovendosi ritenere che la clausola di esclusione di cui all’art. 2, 6° comma, stesso d.leg. si riferisca solo ai beni culturali di interesse pubblico, già soggetti alla L. n. 1089/1939, e non anche alla disciplina della contraffazione delle opere d’arte contemporanea, per la cui repressione penale - in conformità con la legge delega - il D.Leg. n. 490/1999 sostanzialmente riproduce le disposizioni già previste dalla L. 20 novembre 1971, n. 1062, cfr: Cass. Pen. III Sez., 12 febbraio 2003, in Ced Cass., rv. 225318. Ibidem. __________________
(70) - La unicità del disegno criminoso necessaria per la configurabilità del reato continuato e per l’applicazione della continuazione in fase esecutiva non può identificarsi con la generale tendenza a porre in essere determinati reati o comunque da una scelta di vita che implica la reiterazione di determinate condotte criminose, ma le singole violazioni devono costituire parte integrante di un unico programma deliberato nelle linee essenziali per conseguire un determinato fine, cfr.: Cass. pen., I Sez., 13 dicembre 1995, in Ced Cass., rv. 203690. Ibidem.
(71) - La riproduzione e la messa in circolazione di più esemplari di un’opera scultorea tratta da un calco legittimamente posseduto non costituisce violazione dell’art. 3, 1° e 2° comma, L. 20 novembre 1971, n. 1062 e perciò la ipotizzabilità di una simile condotta non legittima l’emissione di un provvedimento di sequestro perché, anche quando fosse provata, sarebbe inidonea a configurare il reato; la mancata sottoscrizione e riconoscimento delle opere da parte dell’artista non assume peraltro nessun rilievo penale e il contrasto tra l’autore ed il legittimo possessore dei calchi deve essere risolto in sede civilistica con l’applicazione della normativa sulla tutela del diritto d’autore, cfr.: Cass. pen., III Sez., 10 gennaio 1995, in Riv. pen. economia, 1997, 248 ed i Ced Cass., rv. 204572.; idem, III Sez., 10 gennaio 1996, in Cass. pen., 1997, 2550, con nota di Svariati ed in Riv. dir. Ind., 1997, II, 318, con nota di Girali. Ibidem.
(72) - La contraffazione, consiste nell’imitare pedissequamente un’opera per venderla come originale: è questo il reato classico di falso; l’alterazione, consiste nel modificare l’essenza di un’opera originale intervenendo su di essa; a questa fattispecie appartengono i dipinti sezionati, quelli cui sono stati aggiunti o tolti particolari o quelli che attraverso determinate modifiche si tenta di attribuirli ad un determinato pittore mentre, in realtà, sono stati eseguiti da un altro; la riproduzione, consiste invece nella moltiplicazione meccanica delle copie di un’opera originale che poi si tenta di vendere per autentica; è questo il caso delle litografie, acqueforti, xilografie, serigrafie, ecc. Discorso a parte meritano i multipli, che sono copie riprodotte da una matrice originale. L’attività di moltiplicazione diventa reato soltanto quando la tiratura delle copie non è autorizzata e firmata dall’autore, ma reca la firma apocrifa.
(73) - Fra la condotta corrispondente al delitto di ricettazione previsto dall’art. 648 c.p. e quella prevista dal delitto di commercio di prodotti con segni falsi di cui all’art. 474 c.p., non si configura un concorso apparente di norme incriminatici, mancando il requisito della “stessa materia”di cui all’art. 15 c.p.; le due condotte infatti sono ontologicamente e strutturalmente diverse, sia perché la prima consiste nell’acquisto e più in generale nella ricezione di cose provenienti da reato, mentre la seconda nella detenzione per vendita o comunque nella messa in circolazione di beni o marchi con segni contraffatti - in tal modo non contemplando il momento dell’acquisto - sia perché le due azioni non sono contestuali, dal momento che l’azione raffigurata nella prima norma è istantanea, mentre la detenzione a fini di vendita è permanente ed interviene successivamente; ne consegue che la ricettazione è configurabile con riguardo a condotta che abbia ad oggetto beni con segni o marchi contraffatti e che il reato previsto dall’art. 648 c.p. può concorrere con il reato di commercio di prodotti con segni falsi, cfr.: Cass. pen. SS.UU., 9 maggio 2001, in Foro it., con nota di Leineri ed in Riv., pen., 2002, 57, con nota di Camaldo. Ibidem. Nell’ipotesi di vendita di un dipinto d’autore con falsa firma, il delitto di ricettazione concorre con quello di messa in commercio di opere d’arte contraffatte, di cui all’art. 3 L. 20 novembre 1971, n. 1062; infatti la ricettazione ha quale interesse giuridico tutelato quello di impedire la circolazione di cose provenienti da delitto, mentre il delitto previsto dall’art. 3 L. n. 1062/71 protegge l’interesse alla regolarità ed onestà degli scambi nel mercato artistico e dell’antiquariato: la diversità di beni giuridici rende dunque sicuramente ipotizzabile il concorso tra i reati. Nella vendita di un dipinto d’autore a firma apocrifa mediante induzione in errore dell’acquirente circa l’autenticità dell’opera si rinvengono gli estremi del delitto di truffa e di quello previsto dall’art. 3 L. 20 novembre 1971, n. 1062, tra loro concorrenti, in quanto presentano distinti beni giuridici, il patrimonio individuale il primo, l’interesse alla regolarità ed onestà degli scambi nel mercato artistico e dell’antiquariato il secondo, cfr.: Pret. Roma, 6 luglio 1999, in Cass. pen., 2000, 2810. Ibidem.__________________
(74) - La consegna al compratore di un’opera d’arte, degli attestati di qualità in possesso del venditore, essendo un atto dovuto, ai sensi dell’art. 2 L. n. 1062 del 1971, non può costituire, di per sé, comportamento valutabile, ai sensi dell’art. 1362, comma 2° comma c.c., per l’accertamento della volontà negoziale di individuare l’oggetto del contratto (o una essenziale qualità di tale oggetto) attraverso la specificazione dell’autore dell’opera. La buona fede del venditore di un’opera d’arte erroneamente attribuita ad un determinato autore non ne esclude, di per sé, la colpa, e la conseguente responsabilità per l’inadempimento, se non sia in concreto provato, ai sensi dell’art. 1218 c.c., che l’errore avrebbe potuto essere evitato con l’ordinaria diligenza (art. 1176 c.c.), cfr.: Cass. II Sez., 3 luglio 1993, n. 7299, in Giur., 1994, I, 1, 410, con nota di Carbone, in Giust. Civ., 1994, I, 1925, con nota di Costanzo ed in Dir. Autore, 1994, 424. Ibidem.
(75) - Il condannato viene temporaneamente privato della “capacità di esercitare, durante l’interdizione, una professione, arte, industria, o un commercio o mestiere, per cui è richiesto uno speciale permesso o una speciale abilitazione, autorizzazione o licenza dell’Autorità, e importa la decadenza dal permesso o dall’abilitazione, o licenza anzidetti”.__________________
(76) - In tema di opere d’arte contraffatte, la confisca dall’art. 127, ultimo comma, d.leg. 29 ottobre 1999 n. 490 permane anche nel caso di proscioglimento per improcedibilità dell’azione penale per morte dell’imputato, trattandosi di confisca obbligatoria la cui applicabilità prescinde da una sentenza di condanna (art. 240, 2° comma, n. 2) c.p., salvo che si tratti di opere appartenenti a persone estranee al reato. La clausola di esclusione relativa alle “cose appartenenti a persone estranee al reato” non copre però i diritti dell’erede dell’imputato, poiché tali beni, incommerciabili, non possono essere entrati nell’asse ereditario, mentre tale previsione, in conformità alla disposizione generale di cui all’art. 240 c.p., tutela solo l’affidamento del terzo che abbia acquistato le opere in buona fede. Né è possibile procedere alla vendita nelle aste dei corpi di reati come “opere non autentiche”, ai sensi dell’art. 128 cit. d.leg., trattandosi di falsi d’arte e non di “copie” si sculture, pitture e opere grafiche”, cfr.: Cass. pen. III Sez.. 12 febbraio 2003, in Ced Cass., rv 225320. Ibidem.
(77) - Art. 179, Codice dei bb. cc. e del paesaggio: 1. Le disposizioni dell’articolo 178 non si applicano a chi riproduce, detiene, pone in vendita o altrimenti diffonde copie di opere di pittura, di scultura o di grafica, ovvero copie od imitazione di oggetti di antichità o di interesse storico od archeologico, dichiarate espressamente non autentiche all’atto della esposizione o della vendita, mediante annotazione scritta sull’opera o sull’oggetto o, quando ciò non sia possibile per la natura o le dimensioni della copia o dell’imitazione, mediante dichiarazione rilasciata all’atto della esposizione o della vendita. Non si applicano del pari ai restauri artistici che non abbiano ricostruito in modo determinante l’opera originale.__________________
(78) - La causa di non punibilità prevista dall’art. 8 L. 20 novembre 1971, n. 1062 sulla contraffazione od alterazione di opere d’arte per chi le produce o commercia, è operante solo in presenza di una specifica dichiarazione di falsità dell’opera, rispondente a precisi requisiti di forma”, cfr.: Cass. per., III sez., 16 maggio 1984, in Riv. pen., 1985, 572. Citato in D. Antonucci, Ibidem.

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