Spunti di riflessione per una modifica del sistema sanzionatorio disciplinare

Carlo Stracquadaneo (*)


1. Premessa

Il radicale processo di riforma attuato nell’ultimo decennio dall’attività della Pubblica Amministrazione attraverso interventi legislativi e giurisprudenziali, ha profondamente modificato il quadro di riferimento generale, introducendo regole uniformi e riferibili alla generalità dei provvedimenti e dei procedimenti amministrativi, offrendo al soggetto realistici ed incisivi strumenti di tutela nei suoi rapporti con l’apparato pubblico. Tale nuova impostazione della procedura amministrativa ha assunto una significativa rilevanza anche nel contesto dell’attività dell’Amministrazione Militare, nell’ambito della quale è stata, peraltro, completata una profonda e complessa riforma organizzativo-strutturale(1).

In tale contesto emerge chiaramente come a tali sopravvenienze legislative ed interpretative non abbiano potuto sottrarsi l’azione ed il procedimento disciplinare, ove - tenuto conto della funzione delle sanzioni disciplinari e dei beni in gioco - si avverte in modo particolare l’esigenza di un adeguato raccordo tra l’interesse dell’Amministrazione e quello del singolo soggetto. Con la presente trattazione si cercherà di tracciare un aggiornato quadro dei mutamenti intervenuti ed incidenti sul procedimento disciplinare, con più marcata attenzione al procedimento volto alla irrogazione di sanzioni disciplinari di stato nei confronti degli Ufficiali e dei Sottufficiali delle Forze Armate. Si tenterà di delineare, inoltre, criteri, modalità e procedure che, indirizzando ad una sempre più corretta e consapevole impostazione e gestione del procedimento e del provvedimento disciplinare, contribuiscano alla individuazione di ulteriori mezzi finalizzati ad una convergenza tra l’interesse pubblico e quello privato e, quindi, ad un istituto disciplinare di stato sempre più informato a criteri di garanzia ed equità e di salvaguardia dei fini istituzionali dell’Amministrazione.

Nel contesto, si pongono infine alcune riflessioni sullo stato attuale della procedura sanzionatoria disciplinare di corpo, valutando le essenziali istanze di rinnovamento del vigente Regolamento di disciplina militare, anche in relazione alle esigenze di adeguamento dello strumento disciplinare per la presenza della componente femminile, quale elemento di modernità e di reale integrazione multinazionale delle nostre Forze armate. Si tenterà quindi di analizzare se il processo d’integrazione della Difesa europea (PESD) debba rimanere limitato ai sistemi d’arma e ai criteri di pianificazione ed esecuzione delle operazioni ovvero possa anche mirarsi all’integrazione del sistema posto a presidio dell’etica - appunto la disciplina - per meglio conseguire l’obiettivo di coesione dei valori. A tal fine, saranno affrontati i seguenti argomenti: - l’attuale quadro delle sanzioni e del procedimento disciplinare di stato; - la conclusione del procedimento; - proposte innovative sul procedimento di stato; - riflessioni sul procedimento e sulle sanzioni di corpo; - un sintetico esame della disciplina militare degli Stati alleati; - reclutamento femminile e ipotesi di adattamento del RDM.


2. L’attuale quadro delle sanzioni del procedimento disciplinare di stato

a. nozioni e caratteri
La dottrina tradizionale definisce la sanzione di stato come un provvedimento discrezionale di carattere afflittivo, incidente sullo “status” giuridico-economico del militare, quale deriva dal rapporto di servizio intercorrente con l’Amministrazione della Difesa, adottato a seguito dell’accertata violazione dei doveri costituenti il contenuto della disciplina militare. Descrive invece la sanzione di corpo come un provvedimento correttivo conseguente a comportamenti violativi di doveri della disciplina militare, secondo quanto previsto dall’art. 13, 2° comma della “legge dei principi sulla disciplina militare”.

Le sanzioni disciplinari di stato sono coperte da riserva di legge assoluta; pertanto non possono essere inflitte punizioni disciplinari non espressamente previste dalla legge ordinaria. Un regime analogo è stato fissato anche per le sanzioni di corpo dalla richiamata “legge dei principi”, fatta salva la delega di regolamentazione contenuta nell’art. 13, ultimo comma. Secondo una affermata nozione, il provvedimento sanzionatorio “di stato”, diversamente da quello “di corpo”, produce effetti al di fuori dell’organizzazione militare, potendo condurre ad una sospensione ovvero ad una risoluzione del rapporto d’impiego pubblico. A scopo di esclusiva citazione, si ripercorre di seguito la loro elencazione: - sospensione disciplinare dall’impiego(2); - perdita del grado per rimozione(3); - cessazione dalla ferma volontaria o dalla rafferma per motivi disciplinari(4); - la sospensione disciplinare dalle attribuzioni e dalle funzioni del grado(5).

b. Il procedimento per l’accertamento dell’illecito disciplinare di stato

1) L’efficacia della sentenza penale nel procedimento disciplinare

Di regola i procedimenti sanzionatori di stato seguono ad una sentenza del giudice penale. La sentenza pronunciata dal giudice penale produce sul giudizio disciplinare effetti diversi a seconda della tipologia della decisione. L’art. 653 c.p.p., novellato dalla legge n. 97/2001, prevede l’efficacia di cosa giudicata della sentenza di assoluzione nel giudizio disciplinare quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso. Alla luce di tale disposto: - in presenza di una sentenza penale assolutoria, con la formula “perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”, l’Amministrazione rimane completamente vincolata al giudicato penale, non avendo la possibilità di dar luogo per i medesimi fatti a procedimento disciplinare; - in presenza di una sentenza assolutoria con la formula “perché il fatto non costituisce illecito penale”, l’Amministrazione può, invece, procedere in sede disciplinare per i medesimi fatti se questi assumono rilievo disciplinare(6); - in presenza di una sentenza di proscioglimento con formula di “non doversi procedere”(7) nei confronti dell’imputato (che definisce quindi il giudizio senza scendere al cosiddetto merito della causa), non essendovi stato alcun vaglio o accertamento dei fatti da parte del giudice penale, l’Amministrazione è tenuta a ricostruire i fatti da valutare disciplinarmente, svolgendo un’autonoma e congrua indagine istruttoria (ad es. acquisendo testimonianze, disponendo perizie, ecc…) che si pone, dunque, come momento centrale del procedimento sanzionatorio.

Lo stesso articolo 653 c.p.p. stabilisce, inoltre, l’efficacia di cosa giudicata della sentenza di condanna nel procedimento disciplinare quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. La sentenza irrevocabile di condanna, implicando un’affermazione di colpevolezza e l’applicazione di una pena, segue necessariamente ad un compiuto acclaramento, verifica e valutazione dei fatti addebitati all’imputato. Perciò l’Amministrazione non ha alcun dovere di procedere, in sede istruttoria, ad un’autonoma verifica e ricostruzione dei fatti, penalmente rilevanti, costitutivi dell’illecito da cui trae anche origine il procedimento disciplinare( 8). Da ciò consegue la piena legittimità del provvedimento disciplinare assunto con riguardo a fatti accertati dal giudice penale, sia in ordine alla sussistenza ed alla verità materiale degli stessi sia all’affermazione che l’imputato li ha commessi. In tal caso la condizione da rispettare è che il comportamento del dipendente venga valutato autonomamente dall’Autorità amministrativa ai fini della responsabilità disciplinare, non essendo consentito un acritico recepimento, per l’affermazione della responsabilità suddetta, del contenuto della sentenza penale(9): in buona sostanza la sanzione disciplinare non può essere comminata come mera conseguenza della condanna inflitta dal giudice penale. Del tutto particolare è la problematica riguardante l’efficacia sul procedimento disciplinare della sentenza c.d. “di patteggiamento”(10).

Il problema, che è stato oggetto di un assai vivo dibattito giurisprudenziale, ha riguardato il valore da attribuire a tale sentenza, posto che la stessa non è “stricto sensu” sentenza di condanna. La soluzione è stata data dalle modifiche apportate all’art. 445 c.p.p. dalla L. 97/2001, in virtù delle quali, ai soli fini del giudizio disciplinare, la sentenza c.d. “di patteggiamento” ha ora il valore di sentenza di condanna. Pertanto, l’Amministrazione, titolare del potere disciplinare, non dovrà svolgere, in presenza di tale sentenza, un’attività di accertamento dei fatti di maggiore consistenza rispetto a quando opera utilizzando una sentenza di condanna. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 394 del 22 maggio 2002, ha ritenuto però che alle sentenze pronunciate prima dell’entrata in vigore della legge n. 97/2001 non si applicano le modifiche apportate all’art. 445 c.p.p., nel senso che le stesse non hanno efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare. Quindi, in dipendenza di queste ultime, si dovrà ugualmente procedere ad un’autonoma ed approfondita verifica istruttoria e ricostruzione dei fatti già addebitati in sede penale e non solo ad una loro valutazione ai fini della individuazione di una responsabilità disciplinare in ordine ai fatti medesimi.

2) I termini del procedimento per l’irrogazione di sanzioni di stato

Le disposizioni contenute nelle leggi sullo stato giuridico per il personale militare non prevedevano l’osservanza di termini temporali per l’inizio e lo svolgimento dei procedimenti disciplinari. La sentenza della Corte Costituzionale n. 104/1991 e le LL. n. 19/1990 e n. 97/2001 hanno, però, imposto una sostanziale revisione della problematica, assoggettando a precisi termini l’esercizio della potestà disciplinare nei confronti del personale militare.

3) La sospensione dell’azione disciplinare

Il medesimo fatto può costituire al tempo stesso illecito disciplinare e reato per violazione della legge penale. Ricorrendo tale evenienza, l’azione disciplinare non può essere esercitata e, se intrapresa, va sospesa sino alla definizione del procedimento penale(11). La sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del giudizio penale trova giustificazione nella considerazione che se il giudizio dibattimentale penale si conclude con una sentenza pienamente assolutoria, all’Autorità amministrativa è inibito l’esercizio della potestà punitivo-sanzionatoria in ordine agli stessi fatti storici sottoposti alla cognizione del giudice penale. La sospensione del procedimento disciplinare permane sino a quando la sentenza penale diviene irrevocabile. Il procedimento disciplinare deve essere, inoltre, sospeso qualora sopraggiungano comprovate motivazioni da parte dell’inquisito tali da configurare un legittimo impedimento. L’onere della prova di siffatto impedimento è a carico di chi invoca in proprio favore detta circostanza (l’inquisito). Sicché si dovrà produrre una certificazione medica che non si limiti ad attestare la sussistenza di una infermità, ma che precisi in modo chiaro ed espresso che l’infermità comporta l’impossibilità di porre in essere quanto necessario ai fini del procedimento disciplinare (Cons. St., Sez. III, n. 598/2001).

4) L’inchiesta formale

L’inchiesta formale è il complesso degli atti diretti all’accertamento di una infrazione disciplinare in dipendenza della quale al militare possa essere irrogata una sanzione disciplinare di stato, tenuto conto delle modifiche apportate alla precedente normativa dal D.P.R. 556/1999 (Regolamento di attuazione della L. 25/1997) e dal D.Lgs. 165/2001. Essa prende, quindi, impulso dalla decisione di una delle suddette Autorità, assunta mediante l’emanazione di un formale atto di nomina di un Ufficiale Inquirente. L’Ufficiale Inquirente è il responsabile dell’avviato procedimento amministrativo, dovendo organizzare e dirigere l’indagine istruttoria e, quindi, trasmettere i risultati della propria attività all’Organo titolare del potere provvedimentale. Appresa la nomina, l’Ufficiale Inquirente deve contestare all’incolpato, in modo preciso e dettagliato, l’addebito che ha determinato l’avvio dell’inchiesta.

La contestazione degli addebiti assolve nella materia disciplinare a quella stessa funzione partecipativa e difensiva cui è preordinata la comunicazione di avvio del procedimento secondo quanto previsto dalla L. 241/90. Eseguita la formalità della contestazione degli addebiti, l’Inquirente deve procedere al compimento degli atti istruttori che costituiranno i presupposti giustificativi del provvedimento finale. Il principio inquisitorio domina l’attività istruttoria, dovendo l’Inquirente procedere d’ufficio all’accertamento dei fatti contestati all’incolpato. A tale scopo, può avvalersi di ogni mezzo probatorio ritenuto utile: può, perciò, nominare un consulente tecnico, richiedere informazioni, disporre un accertamento tecnico o assumere testimoni. Tali mezzi istruttori possono essere richiesti anche dall’incolpato e, in tal caso, l’Inquirente che non li dispone deve indicarne le ragioni. Portata a compimento la fase istruttoria e redatta una relazione riepilogativa dell’attività svolta, degli atti del procedimento l’incolpato può prendere visione ed estrarre copia e può presentare all’Inquirente memorie scritte e documenti a propria discolpa. L’Inquirente riassume, quindi, in un rapporto finale le proprie conclusioni in ordine alla responsabilità disciplinare del giudicando.

Tale rapporto finale viene trasmesso all’Autorità che ha ordinato l’inchiesta formale. La suddetta Autorità può definire la posizione dell’inquisito senza provvedimenti o rimettendo gli atti al competente Comandante di Corpo per l’eventuale irrogazione di una sanzione di corpo o adottando il provvedimento della sospensione disciplinare o deferendo l’inquisito al giudizio di un Consiglio o di una Commissione di Disciplina (a seconda che si tratti di un Ufficiale o di un Sottufficiale). La definizione del procedimento deve comunque sempre essere sottoposta alle valutazioni della Direzione Generale per il Personale Militare.

5) Il giudizio innanzi al Consiglio e la Commissione di Disciplina

Il deferimento del militare al giudizio del Consiglio o della Commissione di Disciplina avviene in tutti quei casi in cui la competente Autorità ritenga, in base alle risultanze dell’attività istruttoria, che l’incolpato sia passibile di essere rimosso dall’impiego. Compito di tali Organi è quello di esprimere un parere che è obbligatorio ma non vincolante per l’Organo di amministrazione attiva, il quale può disattenderlo a favore o anche a sfavore dell’inquisito(12). Nell’intento di prevenire un esercizio parziale della funzione amministrativa di carattere punitivo, le “leggi di stato” prevedono l’obbligo per coloro che sono stati chiamati a far parte dell’Organo Collegiale, ricorrendo determinate circostanze, di astenersi per incompatibilità funzionale rispetto alla causa disciplinare ed è altresì riconosciuto al giudicando il diritto di ricusazione. Nominato l’Ufficiale difensore (tale figura è prevista solo nel giudizio innanzi alla Commissione di Disciplina), l’Organo Collegiale si riunisce nel luogo indicato dall’Autorità che lo ha formato; il giorno e l’ora della seduta sono invece stabiliti dal presidente dell’Organo.

L’accusato ha facoltà di far pervenire, almeno cinque giorni prima della seduta, eventuali scritti o memorie difensive. Accertato che ogni componente ha diritto a parteciparvi, il presidente apre la seduta. L’incolpato è libero di scegliere se presenziare o meno alla seduta. L’assenza del giudicando non può, comunque, essere di pregiudizio all’esercizio delle attività di difesa, ragion per cui la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 356/1995, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 74 L. 599/54, nella parte in cui non consentiva al difensore di intervenire in caso di assenza dell’accusato. Esaurita la discussione orale, fatto ritirare l’incolpato ed il difensore, ha luogo la votazione sul quesito relativo alla meritevolezza da parte dell’interessato alla conservazione del grado. La votazione è segreta ed è espressa a maggioranza assoluta. Ai fini della determinazione di tale maggioranza vanno computati anche coloro che hanno espresso voti invalidi o schede bianche (Cons.St., Sez. V, n. 672/1994).

c. La conclusione del procedimento

1) Il provvedimento finale

Il provvedimento che conclude il procedimento è assunto dal Direttore Generale per il Personale Militare(13). L’atto terminale deve essere assunto entro i termini all’uopo indicati dal legislatore. Il provvedimento finale adottato, qualunque sia il contenuto, va adeguatamente motivato rappresentando ciò non solo un obbligo derivante da una specifica norma di legge (L. 241/90), ma anche un principio di civiltà giuridica che il nostro ordinamento ha assunto come fondamentale e che, quindi, deve essere applicato anche agli ordinamenti speciali qual’è quello militare. L’Amministrazione, inoltre, pur non essendo tenuta ad una puntuale ed analitica confutazione delle giustificazioni addotte dall’inquisito, deve tuttavia rendere noto l’iter logico valutativo seguito per ritenerle influenti o meno ai fini dell’irrogazione della sanzione disciplinare.

2) La comunicazione del provvedimento

L’atto che conclude il procedimento disciplinare va portato a conoscenza dell’interessato mediante comunicazione individuale che, di regola, viene effettuata con la consegna manuale di una copia di esso e conseguente sottoscrizione per presa visione dell’originale o tramite notificazione, cioè mediante consegna di una copia con relata di consegna sull’altra copia. I vizi attinenti alla comunicazione del provvedimento disciplinare non incidono sulla sua validità, ma determinano conseguenze sulla produzione degli effetti giuridici e, quindi, sulla decorrenza dei termini di impugnazione. Le “leggi di stato” non prevedono, però, alcun termine entro il quale comunicare all’interessato il provvedimento adottato. La comunicazione, secondo i principi generali, deve essere effettuata con immediatezza.

3) La tutela amministrativa e giurisdizionale nei confronti delle sanzioni di stato

Il provvedimento amministrativo che irroga la sanzione disciplinare è impugnabile in sede amministrativa(14) per soli motivi di legittimità mediante ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, da proporre entro il termine perentorio di 120 giorni decorrenti dalla comunicazione della sanzione o, alternativamente, in sede giurisdizionale davanti al T.A.R. competente entro il termine decadenziale di 60 giorni sempre decorrenti dalla suddetta comunicazione. Avverso la pronuncia resa dal competente T.A.R. si può proporre appello innanzi al Consiglio di Stato.


3. Proposte innovative sul procedimento di stato

La sanzione disciplinare rappresenta la reazione che l’ordinamento particolare appresta contro i comportamenti antigiuridici dei soggetti che di esso fanno parte, concretandosi in un danno, nei confronti dei colpevoli, che può andare in progressiva graduazione fino al più grave fatto espulsivo. Si intende, quindi, come la particolarità stessa della materia, nella quale hanno luogo giudizi su un comportamento e dove si irrogano sanzioni fortemente pregiudizievoli per la carriera e per l’esistenza stessa di un soggetto, imponga un rigoroso accertamento dei fatti oggetto di contestazione, nella più assoluta imparzialità di indagine e con la possibilità per l’incolpato di provare l’inesistenza dell’addebito e, comunque, di difendersi adeguatamente.

La “procedimentalizzazione” degli atti con i quali si sanziona un determinato comportamento antigiuridico nasce dalla necessità di garantire, da un lato, l’acquisizione di ogni possibile elemento di giudizio per l’Amministrazione e, dall’altro, la possibilità di discolpa per l’inquisito. Evidente appare, quindi, l’esigenza di una normativa e, conseguentemente, di regole procedurali informate a quelli che sono i principi costituzionali in materia. I recenti interventi legislativi e giurisprudenziali hanno indubbiamente contribuito ad una evoluzione in tal senso. La consapevolezza è, però, quella di un’opera ancora incompiuta. Di seguito si riportano gli istituti sui quali si ritiene che si possa ulteriormente intervenire: - nell’ambito del diritto disciplinare militare non trova ancora applicazione il principio nominalistico del “nullum crimen sine lege”.

Nella normativa vigente non si riscontra, infatti, quella stretta e necessaria corrispondenza tra fattispecie legale ed evenienza concreta, ma, al contrario, la fattispecie identificativa dell’illecito disciplinare è spesso molto ampia e generica. Quanto sopra è avvalorato dalla circostanza che la “legge dei principi” a tutt’oggi non fornisce la definizione di “disciplina militare”(15), inoltre, ancora oggi, né la richiamata Legge 382/78 e nemmeno il Regolamento di Disciplina Militare (RDM) riescono a coprire tutta l’area di influenza in materia di disciplina, che per aspetti non secondari, trova taluni presupposti nel codice penale militare di pace, attualmente vigente(16). Pertanto, prendendo atto della esigenza di coordinamento e complementarietà delle due diverse tipologie di sanzioni disciplinari, i tempi sembrano maturi affinché il legislatore provveda a tipicizzare, mediante elencazione, le varie fattispecie di illecito disciplinare cui sussumere quei comportamenti che, essendo contrari ai compiti istituzionali, possono determinare la irrogazione di una sanzione di stato.

Tale determinazione legislativa implicherebbe una riduzione della discrezionalità dell’Autorità Militare, talvolta forse troppo ampia, in ordine all’esercizio della potestà disciplinare di stato, quando non in contrasto con la tipicizzazione espressa nell’allegato “C” al RDM. Una tipicità dei comportamenti più gravi - sanzionabili appunto con provvedimenti di stato - renderebbe contestualmente meno difficoltoso e più individuabile il compito dell’Autorità militare competente, posto che l’esistenza di una ipotesi normativa molto ampia rende anche più ardua la motivazione del provvedimento con il quale eventualmente si irroga la sanzione. Un coordinamento tra sanzioni di stato e di corpo, renderebbe inoltre concretamente agibile la possibilità di un concorso di entrambe le sanzioni, così come ammesso dall’art. 57 RDM.

È da rilevare infatti che tale metodologia non viene mai adottata proprio a causa della mancata indicazione di comportamenti che presuppongano l’applicazione dei due diversi generi di sanzioni; - come si è visto, vi sono poi dei termini da rispettare perché il procedimento disciplinare si possa considerare legittimamente condotto. Ora, però, questi termini non possono essere per la maggior parte rispettati nell’evenienza in cui è previsto il termine di 90 giorni per concludere il procedimento disciplinare, con particolare riferimento ai termini individuati dalla L.19/90. Si tratta di una eccessiva brevità che appare ancor più evidente se si considerano questi due elementi: a. lo stesso termine di 90 giorni è previsto nel D.P.R. n. 3/1957 come intervallo fra due atti per procedimenti disciplinari conseguenti a sentenze di assoluzione perché il fatto non costituisce illecito penale o di amnistia o di prescrizione ed a decreti di archiviazione del procedimento penale; b. il termine di 90 giorni per concludere il procedimento, che è articolato in una serie di atti, appare ingiustificato rispetto a quello di 180 giorni concesso all’Amministrazione solo per prendere la decisione se attivare o meno il procedimento disciplinare.

Una dilatazione del suddetto termine, magari adeguandolo ai 180 giorni già previsti per altre fattispecie, porterebbe ad una valutazione più attenta delle infrazioni e ad eliminare il rischio di eccessive leggerezze o, peggio ancora, di volontà estintive del procedimento disciplinare; c. si è anche visto come il procedimento disciplinare si componga di più fasi tese dapprima a contestare l’addebito, successivamente ad indagare sullo stesso e, infine, a provvedere sul medesimo. Le norme vigenti prevedono due distinti procedimenti disciplinari: - uno, più semplice, predisposto per l’irrogazione della sospensione disciplinare; - un altro, più complesso ed articolato, per la irrogazione della sanzione di stato massima, consistente nella perdita del grado per rimozione. Il primo dei suddetti procedimenti prevede, tra le varie figure, quella dell’Ufficiale Inquirente, il secondo quelle dei componenti il Consiglio o la Commissione di Disciplina.

Atteso che tali figure sono destinate a valutare il comportamento dell’inquisito, dando luogo ad un giudizio di rispondenza o meno del comportamento a norme prestabilite, graduando altresì la eventuale non rispondenza con la proposta di una sanzione e considerato che la nomina ad Ufficiale Inquirente o a Presidente/membro del Consiglio/Commissione di Disciplina non è attualmente sempre ispirata ad esigenze tecniche (potendo interessare anche Ufficiali che per professionalità e tradizione culturale mal si adattano a svolgere tali compiti), si ritiene che si debba ovviare al problema di tale carenza di professionalità, trasformando i suddetti organi in organi tecnici. Tale problema potrebbe essere affrontato: a. con effetto immediato, avviando la qualificazione del personale attraverso la frequenza di corsi specifici anche presso strutture esterne a quella militare; b. a medio termine, inserendo nei programmi degli istituti di formazione un “master” per la qualificazione degli Ufficiali effettivi riconosciuti più idonei ad affrontare problematiche disciplinari; c. in prospettiva di medio termine, valutando attentamente la possibilità di istituire uno specifico ruolo di Ufficiali da destinare alla trattazione di tali problematiche.

Sempre a proposito di Ufficiale Inquirente, sarebbe inoltre auspicabile intervenire affinché, sulla base dei principi generali che informano il procedimento a carattere contenzioso, venga formalmente riconosciuta al giudicando (come già previsto in relazione ai componenti del Consiglio/Commissione di Disciplina) la facoltà di ricusare tale funzionario istruttore quando sussista anche solo il dubbio che motivi personali o circostanze oggettive possano influire sulla imparzialità di questi. Altri aspetti interessanti riguardano, nell’ambito del procedimento disciplinare innanzi al Consiglio di Disciplina, la nomina del difensore: - la L. 113/54 non contempla per gli Ufficiali, diversamente da quanto previsto per i Sottufficiali dalla L. 599/54, il diritto di nominare un difensore. Ovvia la necessità di procedere alla eliminazione di tale discriminazione, la quale, non perseguendo alcuna apprezzabile finalità, rappresenta una vera e propria ingiustificata disparità di trattamento che si appalesa, inoltre, incostituzionale per violazione degli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione; - la L. 599/54 (e quindi, a maggior ragione, la L. 113/54) non prevede che l’incolpato possa farsi assistere da un difensore “esterno”, cioè da un soggetto che non sia un militare.

La proposta è quella di riconoscere la possibilità di avvalersi di un difensore tecnicamente qualificato, qual’è un avvocato, al fine di non pregiudicare le “chances” difensive dell’inquisito, il quale è chiamato a contrastare la potenziale irrogazione di una sanzione incidente sul mantenimento del rapporto di lavoro. Quanto sopra potrebbe assumere ancora maggior valenza se interfacciato con la precedente proposta di organi inquirenti formati da personale tecnico. Non può, infine, non rilevarsi come il noto modo di procedere per accumulazione successiva, che ha caratterizzato prevalentemente la produzione normativa del nostro Paese, abbia in un certo modo frantumato anche il sistema disciplinare che attualmente si presenta abbastanza disarticolato e quindi di difficile applicazione nel concreto. In altri termini, la effettiva regolamentazione della materia disciplinare è assicurata da una molteplicità di disposizioni che, indipendentemente dalle loro “sedes materiae”, in una situazione di contiguità, talvolta di giustapposizione o addirittura di contraddizione, concorrono a fornire la norma. Parti della produzione legislativa, inoltre, sono venute meno per effetto di abrogazioni tacite, senza adeguati interventi di coordinamento.

Non si può, pertanto, fare a meno di auspicare la predisposizione di un testo unico che consenta una ricomposizione unitaria e precettiva della materia e che possa essere riferibile a tutte le categorie di militari che rivestono un grado della gerarchia.


4. Riflessioni sul procedimento e sulle sanzioni di corpo

La tradizionale concezione scolastica considera le sanzioni disciplinari di corpo come provvedimenti che producono effetti prevalentemente interni. Tuttavia tale concezione appare criticabile a seguito di un radicabile cambiamento di genere subito dalle sanzioni disciplinari di corpo. La necessità di una previsione legale delle specie di sanzioni disciplinari militari è stata affermata solo in tempi relativamente recenti(17) essendosi precedentemente ritenuto che le sanzioni disciplinari fossero meri interna corporis delle istituzioni militari e che esse potessero essere regolate mediante regolamenti autonomi dell’ordinamento militare, così com’è avvenuto fino al regolamento di disciplina del 1964. L’odierna previsione tassativa e legislativa delle specie di sanzioni da irrogare ai militari pone già da sè un limite alla tradizionale concezione di mera rilevanza interna della sanzione di corpo.

A sovvertire la presunzione di esclusiva rilevanza interna delle suddette sanzioni sovvengono oggi altri caratteri, quali la trascrizione del provvedimento nel carteggio personale, la restrizione nel proprio domicilio con conseguente coinvolgimento della sfera personale del punito e gli effetti sulla carriera, spesso determinanti ai fini dell’avanzamento o dell’accessibilità a incarichi, concorsi, Nos e persino ricompense. Pertanto non è azzardato dire che dalle sanzioni di corpo, in una qual misura, non scaturiscono solo provvedimenti correttivi ma anche afflittivi, nella misura in cui essi comportano effetti durevoli e talvolta irreparabili anche a seguito della prevista cancellazione del provvedimento, in applicazione dell’art. 75 RDM. Appare evidente come l’intero settore, indirizzato prevalentemente a un sistema basato sulla leva, si preoccupi di assicurare al militare le garanzie che gli competono quale cittadino(18), senza predisporre adeguate tutele per i risvolti a carico del personale in servizio permanente. Preso atto di tale assunto, è ben comprensibile quale sia il grado di attenzione da conferire all’attuale Regolamento di Disciplina Militare in vista della completa professionalizzazione dello strumento militare.

a. Avvio del procedimento

Il procedimento di corpo si avvia con la contestazione dell’illecito da parte dell’autorità competente. Tale condizione presuppone quindi un rapporto gerarchico completato da potestà disciplinare. Al riguardo del procedimento per l’irrogazione della sanzione massima, bisogna sottolineare la posizione anomala del comandante di corpo che assomma in sé la funzione dell’accusa (contestazione degli addebiti) e quella del giudice (direzione del processo). Si rileva inoltre che la discrezionalità su cui è impostato il procedimento disciplinare, associata alla mancanza di canoni fissi di riferimento, lascia esporre il fianco a pregiudizi su ipotesi di iniquità, che sfociano in atteggiamenti psicologici di risentimento accompagnati spesso da ricorsi contro la sanzione subita dall’incolpato e indubbiamente tali iniziative di rimedio si traducono poi in atteggiamenti psicologici contro la gerarchia. Questa autodifesa pone come conseguenza non solo un contenzioso interno, ma soprattutto una ridiscussione dei valori cui l’RDM stesso è posto a presidio.

La circostanza è di non poco conto se posta in relazione ad un sistema professionale che è chiamato a gestire militari in servizio permanente. A parere personale, l’attuale sistema impostato dal RDM sembra più idoneo per corpi militari in guarnigione e non per Reparti in operazioni. L’impostazione attuale, mancando di un ufficiale o sottufficiale anziano di grado apicale, posto in funzione di “pubblica accusa militare”, espone eccessivamente il comandante dell’unità, sottraendogli la posizione di terzietà e le prerogative di controllo disciplinare, che invece è necessario che vengano custodite affinché sia mantenuto un corretto ed efficace governo del personale. In altri termini: il superiore gerarchico che rileva l’infrazione o l’ufficiale responsabile del servizio presso cui si è verificato l’illecito, sosterranno le ragioni dell’accusa nei confronti del comandante sovraordinato e della commissione consultiva. Nei casi rilevati direttamente dalla più elevata autorità in comando, questi potrà delegare un comandante subordinato a rilevare gli addebiti e condurre l’accusa.

b. Scansione temporale e incarichi

L’intero procedimento, pur essendo diviso in specifiche fasi, non è scandito da termini per ognuna di esse, rimanendo assoggettato ad un unico termine entro il quale esso deve concludersi; tuttavia i tempi appaiono ormai congrui per meglio specificare il principio di tempestività dell’instaurazione del procedimento disciplinare, di cui all’art. 58 RDM. Le regolamentazioni per l’irrogazione della sanzione disciplinare di Corpo hanno ormai ottenuto una specifica innovazione attraverso le norme introdotte nella tempistica dei procedimenti amministrativi ai sensi della legge 7 agosto 1990, n. 241, attraverso la cui regolamentazione è stato previsto il termine (non perentorio) di 90 giorni per la conclusione del procedimento e l’emissione della susseguente sanzione. Pertanto sarebbe opportuno novellare il Regolamento con una esplicitazione del dies a quo di tale termine, secondo la metodologia reperibile in procedura penale (esempio: a decorrere dalla conoscenza dei fatti ovvero dal verificarsi delle circostanze per la sua punibilità, quali l’effettivo accertamento dell’identità dell’autore; il rientro al Corpo, dopo aspettativa, del militare cui contestare preventivamente gli addebiti).

In tale contesto, quindi, il dovere di procedere senza ritardo (circostanza che talvolta induce a procedimenti quasi sommari) deve essere inteso nel senso che le varie fasi del procedimento siano eseguite senza pause ingiustificate. Pur essendo previste due disposizioni diverse inerenti al procedimento, a seconda che questo sia instaurato per l’inflizione della consegna di rigore (l’art. 66 RDM) o per l’inflizione di una diversa punizione (art. 59 RDM), sostanzialmente le fasi sono le medesime, con la differenza che nel procedimento per la consegna di rigore è previsto l’intervento di un difensore del militare assoggettato a procedimento, nonché il parere obbligatorio, ma non vincolante di una commissione. Per quanto riguarda la scansione temporale della procedura per irrogazione di consegna di rigore, si denota la totale mancanza di una regolamentazione circa i tempi di inizio del “dibattimento”.

L’unico limite consiste nella circostanza che tra il giorno dell’invito a nominare un difensore e quello dell’ udienza devono intercorrere ventiquattro ore (art. 68 RDM) e verosimilmente tale tempo può rivelarsi insostenibile per una corretta presa di conoscenza degli atti a difesa e per l’eventuale escussione di testimoni e sopralluoghi. Per quanto riguarda la commissione, si rileva che nulla è sancito circa i suoi compiti e funzioni, mentre il RDM si limita a stabilire il tempo massimo entro cui essa deve deliberare (due ore) e l’obbligo di riserbo, previsto a carico di ciascun membro nei riguardi del proprio parere (ma non a carico di quello altrui). Si noti infine l’anomalia della mancanza di una “camera di consiglio” tra il comandante e la commissione stessa. A parere personale, appare indispensabile che anche in questo punto il RDM venga novellato con una previsione che fissi i compiti, le funzioni e la possibilità di ricusazione dei membri di questo vero e proprio organo consultivo che è la commissione e che partecipa al procedimento decisionale attraverso un verbale in cui sono annotate le relative determinazioni. La composizione della commissione, infine, dovrebbe essere non di tipo occasionale, ma composta attraverso membri cooptati a tale incarico per un periodo calendariale e possibilmente provenienti, in toto o in parte, da Reparti viciniori, onde garantire una piena indipendenza rispetto all’autorità giudicante e all’accusa. In particolare, la circostanza della estraneità dovrebbe essere osservata nel caso in cui la rilevazione della mancanza sia stata effettuata direttamente dal comandante di corpo.


5. Un sintetico esame della disciplina militare degli Stati alleati

Il contesto multinazionale di forze “Joint and Combined “ in cui operano le nostre Forze armate e lo sviluppo di operazioni “fuori area” contraddistinte da condizioni operative estremamente diversificate, può essere l’occasione per una rinnovazione di alcuni elementi di riferimento attinenti alla disciplina militare. Inoltre, l’inquadramento non solo della componente militare, ma dell’intero sistema Paese all’interno di una “Politica europea di sicurezza e difesa” (PESD), deve essere alimentato attraverso sistemi valoriali di condivisione. In altri termini, la PESD non può rimanere confinata nella condivisione di sistemi d’arma, addestramenti e metodi di combattimento, ma è necessario prendere in considerazione la proiezione di una visuale su tutti i valori condivisibili che riguardano le realtà politiche, sociali, economiche e culturali dei Paesi interessati.

Tra questi valori, i riferimenti a etica e disciplina simili, se non comuni, rappresentano certamente elementi primari di condivisione tra gli appartenenti alle rispettive compagini militari delle nazioni partner. Appare quindi necessario approfondire conoscenza e scambio in questi settori che costituiscono un denominatore comune di tutte le Forze armate appartenenti a culture omogenee. Lo scopo attiene l’accrescimento della reciproca comprensione e, a mio parere, vale lo sforzo di fare un tentativo. In questo campo nella cultura occidentale si registra l’esistenza di due macro-aree, che corrispondono essenzialmente alle due grandi partizioni del mondo giuridico europeo: quello di origine neo-latina e quello anglo-sassone. Nel primo si annoverano i regolamenti militari italiano, tedesco e francese che rispondono alla regola della “supremazia speciale”, sorta in Germania nella seconda metà dell’800 e che oggi è incardinata nei sistemi costituzionali attraverso il ben noto principio della deroga con riserva di legge.

La seconda concezione trae origine dai principi di Common Law, tuttavia dopo un richiamo del tutto minimo alle consuetudini e interpretazioni, che normalmente formano una delle categorie principali nel diritto comune, le norme inerenti la regolamentazione e la salvaguardia della disciplina militare presso le forze armate britanniche (Disciplinary Provisions) che per brevità saranno denominate “DP” e quelle delle forze armate statunitensi (Disciplinary Issues) cui farò riferimento con la sigla “DI”, si dipanano attraverso una particolareggiatissima regolamentazione dei diritti e dei doveri, lasciando spazi minimi alle interpretazioni e alla discrezionalità. La materia appare degna di approfondimenti per la particolare forza che oggi assume il sistema di Common Law nel diritto militare a seguito della sua generale applicazione nel diritto pubblico internazionale e nel diritto delle organizzazioni internazionali, quale base comune per la regolamentazione tra Stati sovrani dei rapporti inerenti i transiti, la permanenza di unità e contingenti militari su un territorio e la reciproca cooperazione dei contingenti in occasione di operazioni militari o di esercitazioni, attraverso l’adozione di Status of Forces Agreement (SOFA) o di Memorandum of Understanding (MOU), di carattere temporaneo o permanente a seconda dei rapporti di alleanze militari precostituiti tra gli Stati cui appartengono i contingenti interessati.

Non può nemmeno disconoscersi, infine, la preponderanza del sistema di Common Law nelle istituzioni e negli istituti che operano secondo il diritto internazionale penale e il diritto internazionale dei conflitti armati e che costituiscono oggi base comune dei rapporti tra militari anche nei casi di contatti occasionali o dell’assoluta mancanza di regole(19) o in tutte le circostanze in cui le Forze armate di una nazione operano, come “caschi blu”, sotto l’autorità delle Nazioni Unite, secondo le regole sancite dal Bollettino del Segretario Generale delle Nazioni Unite del 12 Agosto 1999. Cercherò pertanto di sintetizzare alcuni punti salienti della disciplina militare anglosassone, premettendo l’esistenza di forti somiglianze di massima tra la regolamentazione britannica e quella USA, entrambe poste a indirizzo e salvaguardia dei “military life core values” (il nocciolo duro dei valori dell’etica militare).

a. Il sistema della disciplina nelle Forze armate britanniche e statunitensi

Nella loro introduzione, sia le “Disciplinary Provisions” (DP) che le “Disciplinary Issues” (DI) premettono che nei casi non previsti al loro interno il comandante dovrà decidere seguendo un metodo predeterminato: secondo le consuetudini del servizio, con riferimento ai principi di tradizione militare, per analogia e, quando in mancanza di analogie, d’iniziativa; tuttavia è vietato adottare sanzioni diverse da quelle già previste nelle norme. Le Disciplinary Provisions sono una raccolta articolatissima e dettagliatissima di regole di comportamento che riguardano sia il servizio come la vita privata e vertono sulle relazioni interpersonali, l’etica, il tratto e scendono fino ai minimi particolari circa l’uso dell’uniforme o di abiti civili per la partecipazione a manifestazioni politiche, distinguendole tra comizi e cortei.

Tramite esse vengono stabilite, tra l’altro, norme di comportamento e divieti e forme di intervento dell’Amministrazione in merito al personale dedito a gioco d’azzardo, a chi abbia contratto debiti, a chi sia incorso in fallimento e come viene regolata la partecipazione attiva e passiva (e i divieti) alla vita politica e persino come vengono impartite le regole per il fumo in servizio. Nella lettura delle Disciplinay Issues, inoltre, si osserva un costante richiamo alla storia delle tradizioni militari statunitensi (dette appunto “core values”), con una attenta esplicitazione delle motivazioni che, nel tempo, hanno portato all’adozione della linea di condotta voluta dal regolamento. Tale forma dettagliata di descrizioni morali e divieti, che tenta di non lasciare spazio al caso e alla libera interpretazione, tende a prevenire quelle trasgressioni disciplinari (che costituiscono la più larga parte) che nascono da comportamenti colposi o dalla non perfetta conoscenza di tutte quelle norme afferenti il servizio che non possono essere ricompresse nel principio di discolpa dell’ignoranza inevitabile. Per quanto riguarda la complementarietà delle sanzioni disciplinari rispetto a condanne o procedimenti dinnanzi all’autorità giudiziaria ordinaria, il sistema delle DP e delle DI agisce nei confronti del personale che sia sottoposto a qualsiasi forma di giustizia: infatti vi si reperiscono norme per azioni non solo a carico di chi è sottoposto a Tribunali penali o Corti marziali, ma anche per chi è sotto la giurisdizione di tribunali civili.

Inoltre, per i minori alle armi che fossero incorsi in fatti a rilevanza giudiziaria di limitata gravità, è previsto un istituto di salvaguardia dal rito penale, simile alla richiesta di procedimento di cui all’art. 260, c. 2 c.p.m.p., con competenza del comandante. Appare interessante notare come i reati di assenza nel sistema anglosassone non siano soggetti alla giurisdizione penale se l’elemento materiale dell’assenza non è associato alla volontà di abbandonare le armi o di rifuggire all’autorità militare. In estrema sintesi, se il militare non si presenta in servizio ma non manifesta una volontà di fuga o di dissociazione dalla compagine militare, il suo comportamento sarà assoggettato alla disciplina militare. Particolare autorità e responsabilità viene riconosciuta al comandante. Tuttavia, nel fare riferimento a tale qualifica, non viene inteso un generico titolo di comando, ma entrambi i regolamenti, sia quello britannico sia quello statunitense, fanno riferimento a un comandante di unità organica complessa con il grado di Colonnello, cui sono devoluti poteri di delega e controllo, in cui si riscontrano forti analogie con l’attuale criterio di autonomia e responsabilità dirigenziale adottato con il Decreto legislativo n. 29/1993.

Le sanzioni disciplinari previste nelle Disciplinary Provisions, pur impostate su criteri di discrezionalità del comandante, sono sottoposte a uno stretto criterio di controllo binario; il primo sistema di controllo è impostato sulle dettagliate regole fissate per la loro irrogazione e il secondo metodo di controllo è impostato sul sistema gerarchico. Il comandante (inteso come un ufficiale superiore del grado di colonnello posto al comando di un’unità organica complessa) può esercitare l’azione disciplinare attraverso la delega, di volta in volta, a un comandante subordinato (un ufficiale superiore, comandante di gruppo), il quale indagherà e relazionerà. Tale incarico su questioni di competenza del comandante non può essere oggetto di delega per più di quattro volte sul medesimo comandante in subordine.

b. Gradualità e tipologia delle sanzioni

Per quanto riguarda la ripartizione e la gradualità delle sanzioni disciplinari di corpo, esse appaiono molteplici e differenziate tra gradi e categorie del personale, mentre l’unica sanzione di stato comune a tutti i gradi è la rimozione, che viene applicata con procedimento simile a quello conosciuto nel nostro ordinamento. Inoltre, nel sistema gerarchico britannico si riscontra una sostanziale differenziazione tra due categorie di militari e tutti gli altri gradi; queste particolari categorie differenziali sono costituite dai “Commanders” (Colonnelli o gradi superiori, al comando di unità organiche complesse con qualifiche dirigenziali) e “Senior Warrant Officers” speciale categoria di sottufficiali dotati di qualifiche e anzianità particolari in seno ai Reparti e che fungono da elemento di congiunzione tra i sottufficiali e la gerarchia superiore. Per dette speciali categorie, che si differenziano da tutte le altre, sono previste sanzioni disciplinari “di corpo” diverse da quelle riservate agli altri gradi che vanno dalla truppa, agli aspiranti ai sottufficiali e ufficiali fino al grado di Tenente Colonnello.

Inoltre per Commanders e Senior Warrant Officers è riservata un’esclusiva sanzione di stato, che consiste nella “perdita di anzianità”. Le sanzioni di corpo per il personale dal grado di tenente colonnello fino alla truppa, consistono in “Summary and minor punishment”, e in particolare esse sono così distinte: - Ammonition, praticamente simile al nostro richiamo; - Ordinary detention (OD), una limitazione della libertà personale, simile alla consegna, applicabile per non oltre 28 giorni. Per i comportamenti di assenza in cui non sia manifesta la determinazione ad abbandonare il servizio, la OD è commisurata ai giorni di allontanamento (7 giorni = 7 di OD); - Extended detention (ED) consiste in una misura di estensione della sanzione di OD per un massimo di 60 giorni. Se l’incolpato è un ufficiale superiore può essere apportata una riduzione previo parere legale (legal advice) e autorizzazione dell’Alto Comando (AC).

Comunque, ogni detenzione superiore ai 28 giorni deve essere convalidata dall’AC entro il 21° giorno. In caso contrario, vale il principio del “silenzio diniego” pertanto la sanzione cesserà entro il termine massimo del 28° giorno, prestabilito per le OD; - Ammenda di tipo “A” (“Fine A”)consiste in una trattenuta pari a un giorno di paga e può essere applicata per non oltre 28 giorni per ogni singolo provvedimento; - Trattenute (“Stoppages”) vengono applicate in caso di danni, perdite o spese sostenute a causa dell’illecito; - Minor punishment (MP) consistono in 14 giorni di detenzione nel massimo o turni di servizio di guardia/picchetto per un massimo di 3 a sanzione, da espletarsi secondo le regole per i rispettivi servizi. Le suddette sanzioni di corpo sono eseguite sulla base di dettagliatissime regole dettate dalle Disciplinary Previsions. I puniti devono essere impiegati, al proprio lavoro o ad altri lavori, con modalità prestabilite; tuttavia laddove la punizione non venga espressamente sanzionata mediante servizi di picchetto/guardia, i puniti non possono essere preposti a tali compiti. Inoltre le DP sanciscono che ogni comandante ha il compito di determinare particolari “Rules of Defaulters” per il proprio Reparto, con cui vengono stabiliti orari e impegni dei puniti. Nelle DP, infine, è contenuto un sistema di rimedi basati sul ricorso gerarchico e sulle relazioni coi superiori, molto simile al metodo applicato nel nostro ordinamento amministrativo - disciplinare.


6. Reclutamento femminile e ipotesi di adattamento del RDM

Con il riconoscimento alla donna, secondo il principio delle pari opportunità, della possibilità di svolgere la professione militare in servizio permanente, la legge 380 del 20 ottobre 1999 ha conferito alle Forze Armate un’immagine più moderna e al passo con quella degli altri Paesi. Al benefico effetto della presenza femminile si giustappongono alcuni potenziali rischi, tra cui spicca quello del coinvolgimento del comparto militare in un settore della giurisprudenza che, sino a ieri, gli era del tutto estraneo: la molestia sessuale. I dati che emergono dalle ricerche effettuate nelle Forze Armate statunitensi e nei settori civili del mondo del lavoro, lasciano trasparire una dimensione piuttosto ampia del problema e soprattutto conducono a un risultato: le molestie sessuali si sviluppano in particolare nel contesto di una sbilanciata posizione di potere.

Non dunque una forma di approccio finalizzato a un rapporto sessuale, quanto un’espressione di forza, un abuso di potere strettamente legato alla radicale posizione di vantaggio dell’uomo rispetto alla donna nella società e in particolare nel lavoro. Affrontare un tema così delicato richiederebbe una trattazione a parte, atteso che la materia, tuttora, non ha ancora trovato soluzione nella legge italiana. Corre l’obbligo, quindi, di ricercare strumenti preventivi, oltre che repressivi, capaci da un lato di salvaguardare l’immagine delle Forze Armate e dall’altro di tutelare quei soggetti che si trovassero al centro di attenzioni non desiderate. Per acquisire una nozione della molestia sessuale, il criterio di riferimento è quello fissato all’art. 1 della raccomandazione della Commissione C.E. del 27 novembre 1991: “qualsiasi comportamento a connotazione sessuale o altro tipo di comportamento basato sul sesso, che offenda la dignità delle donne e degli uomini sul lavoro, ivi inclusi atteggiamenti male accetti di tipo fisico, verbale o non verbale, che siano indesiderati, sconvenienti od offensivi per la persona che li subisce”(20).

Fortunatamente, a tutt’oggi, anche grazie ad una serie di fattori preventivi(21) non esistono casi conclamati di molestie sessuali nell’ambiente militare, ma nulla esclude che non sia potenzialmente “aggredibile” dal fenomeno.

a. Analisi storica e dati emersi dalle ricerche

Le uniche ricerche ufficiali in materia sono quelle condotte dalle Forze Armate statunitensi, di cui è stata pubblicata una dettagliata ricerca ad opera del Department of Defence. Tale ricerca è il frutto di due sondaggi proposti a distanza di sette anni (1988 e 1995) in cui fu rilevata una chiara tendenza alla diminuzione del fenomeno( 22). Tuttavia, la mancanza di dati più recenti confermata dall’Osservatorio Donne e Difesa costituito presso l’Archivio Disarmo, non permette di valutare con maggior compiutezza l’efficacia della policy “zero tollerance for sexual harassment” fortemente propagandata dal Governo americano. Resta pur vero, a dispetto di qualsiasi statistica e ricerca, che la questione appare tutt’altro che in via di definizione se “…i vertici del Pentagono hanno dovuto ammettere, per la prima volta, durante un’audizione in Senato, che 112 donne soldato hanno subito, in meno di diciotto mesi, violenze e molestie sessuali dai commilitoni del Comando Centrale mobilitati nel Golfo(23).

Altri dati, riferibili alle Forze Armate danesi(24), belghe(25) e francesi(26) non essendo tratti da fonti ufficiali, non possono essere considerati attendibili per i fini che qui interessano. Spostando l’analisi sulle risultanze delle indagini effettuate a livello internazionale nel campo civile (promananti da un’autorevole fonte come il Rapporto della Commissione della Comunità Europea(27)) si evince in modo inequivocabile come la molestia sessuale nei luoghi di lavoro non possa essere considerata un fenomeno episodico e non è determinato dall’avvenenza fisica delle vittime: sono infatti le donne più vulnerabili, non quelle più attraenti a divenire bersaglio dei molestatori. b. Le conseguenze delle molestie sessuali Un aspetto rilevante è quello determinato dal quadro delle conseguenze che si producono non solo a carico delle vittime, ma anche delle organizzazioni in cui il fenomeno ha avuto luogo. Si possono ipotizzare almeno tre conseguenze dirette connesse con episodi di molestia: - un calo d’impegno e di tensione dei soggetti passivi, che rapportato ad attività in cui concentrazione e carica emotiva costituiscono elementi basilari, può sfociare in accadimenti anche drammatici (immaginiamo una situazione di disagio prima di andare in volo); - conseguenze di ordine finanziario, ripercuotibili sui bilanci, nei casi denunciati e delibati con sentenze di condanna a carico del pubblico dipendente, che potrebbero far gravare sullo Stato l’obbligo dei danni a favore delle vittime e di pagamento delle spese giudiziarie, giusta la previsione dell’art. 28 Cost; - spreco di tempo, che in ipotesi di presentazioni di reclami formali ai superiori, comporta lo svolgimento di inchieste interne. Appare chiara, quindi, la necessità di compiere ogni sforzo tendente alla prevenzione del fenomeno.

c. Le molestie sessuali e l’ordinamento giuridico italiano

Nel nostro ordinamento non vi è traccia della nozione di molestia sessuale; i molteplici sforzi si sono sempre tradotti in esiti generalmente insoddisfacenti sebbene si tratti di atti che possono determinare l’offesa di una pluralità di beni giuridici e contravvenire a un insieme di regole di diversa natura(28) anche se con intensità di volta in volta variabile. Logica conseguenza della plurioffensività degli atti sessualmente molesti risulta essere la loro sanzionabilità a diverso titolo, che può venire invocata in forma cumulativa ovvero anche in forma alternativa e disgiunta per ogni singolo diritto leso, senza intaccare il principio del ne bis in idem, data la presenza di distinti fondamenti giuridici(29). Tuttavia le tradizionali sanzioni miranti alla riparazione del pregiudizio arrecato alla vittima e alla contestuale punizione del responsabile non appaiono soddisfacenti a fronte di un fenomeno così straordinariamente complesso.

È questo, del resto, il prezzo da pagare per l’assenza nel nostro ordinamento di norme direttamente modellate sulla realtà delle molestie sessuali(30), ritagliate su misura per simili condotte. Sono di volta in volta, le modalità di realizzazione della fattispecie, il suo profilo soggettivo, il livello di gravità raggiunto, a suggerire l’opportunità di lamentare gli episodi che si verificano alla luce di un certo inquadramento giuridico suscettibile di essere chiamato in causa. A dimostrazione della flessibilità del giudizio è sintomatica la sentenza del 26 febbraio 2004, della Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Torino, che assolve la FIAT Auto, citata da un’operaia che lamentava la presenza, in almeno due occasioni, di riviste pornografiche all’interno del proprio armadietto e di calendari dallo stile analogo appesi un po’ ovunque in officina(31).

d. Applicazione della legge penale e penale militare

Nonostante i limiti riconosciuti per una tutela di impostazione squisitamente penalistica, contro gli atti di molestia sessuale è tuttavia possibile, in alcuni casi, invocare l’applicazione della legge penale. Nel codice Rocco, le figure di reato con riguardo alle quali può eventualmente essere formulata l’accusa nei confronti del molestatore sono quella di “molestia o disturbo alle persone”, (art. 660 c.p. inserito nelle contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico), “atti di libidine violenta” (art. 521 c.p.), “atti osceni” (art. 527 c.p.), “violenza carnale tentata (art. 519 e 56 c.p.), ingiuria lesiva dell’onore e decoro personali” (art. 594 c.p.). Il Codice Penale Militare di Pace (CPMP) sanziona molteplici atteggiamenti che, fatte le dovute considerazioni già esplicitate per il Codice Penale (CP), possono essere riconducibili alla molestia(32).

Nello specifico: - l’art. 43 nel definire la nozione di violenza, prevede che in tali fattispecie siano comprese, tra l’altro, le lesioni personali; - l’art. 223 in tema di reati contro la persona, persegue il militare che cagiona ad altro militare una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente; - l’art. 224 stabilisce la pena da applicare in caso di lesione personale, commessa dal militare a danno di altro militare; - l’art. 226 prevede che il militare che offende, l’onore o il decoro di altro militare, anche mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni diretti alla persona offesa, è punito con la reclusione. Si tratta di un insieme di ipotesi delittuose aventi come presupposti applicativi elementi di fatto non sempre presenti in occasione dei comportamenti sessualmente molesti(33).

Può mancare, a seconda dei casi, il carattere di luogo pubblico o aperto al pubblico del posto ove si sono realizzati i fatti in contestazione, come invece voluto dall’art. 660 c.p., la componente violenta oppure la connotazione ingiuriosa degli stessi (artt. 521 e 529 c.p.) o, ancora, la lesione personale (art. 224 c.p.m.p.): dal punto di vista degli effetti, ciò non comporta alcuna differenza, risultando comunque priva di tutela giuridica la domanda di giustizia avanzata dalla vittima(34). Le norme suddette, in materia di molestie, offesa al decoro della persona, minaccia, violenza, non solo sono viziate all’origine da un’ispirazione di fondo che pone al centro della tutela beni (come la moralità pubblica) assai diversi dalla libertà sessuale della persona, ma finiscono per dire troppo, o troppo poco, riguardo alla dimensione normativa delle molestie nei luoghi di lavoro. Quand’anche non sorgano ostacoli alla praticabilità della via penale, valide ragioni possono, ad ogni modo, sconsigliare il ricorso a sanzioni afflittive che, quasi per certo, determinano un aggravamento della situazione sul piano del rapporto interpersonale tra vittima e molestatore.

La tipicità dell’illecito penale, la natura individuale della tutela, il carattere intrusivo - per la persona della vittima - del processo di accertamento dei reati menzionati, la natura meramente afflittiva dei rimedi predisposti dall’ordinamento, costituiscono altrettanti motivi per auspicare, in via prioritaria, che la puntuale e minuziosa attività di prevenzione possa condurre ad evitare l’insorgere dei fenomeni in parola e che, solo laddove ciò non abbia condotto a risultati apprezzabili, si debba fare ricorso alla tutela penalistica.

e. Le molestie sessuali come illecito disciplinare

Le fonti della disciplina militare, ancorché in maniera astratta e seguendo una ratio che non teneva evidentemente conto della fattispecie di cui si dice, permettono comunque di tracciare il comportamento “ideal-tipico” del militare: “…improntare il proprio contegno al rispetto delle norme che regolano la civile convivenza”, astenendosi “dal compiere e dal pronunciare imprecazioni, parole e discorsi non confacenti alla dignità e al decoro”(35), per la cui inosservanza si configura un illecito disciplinare. Tuttavia, pur volendo interpretare in maniera estensiva quanto disposto dal citato art. 36 R.D.M., l’assenza di un’esplicita codificazione delle condotte sessualmente moleste, rende particolarmente delicato e complesso il problema della loro rilevanza disciplinare. Si tratta, infatti, di conciliare la contestualizzazione delle molestie sessuali con le garanzie costituite a favore del militare nei procedimenti disciplinari, in particolare con il principio della motivazione(36) e dell’assimilabilità del comportamento passibile di sanzione, ad ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina indicati dalla legge, dai regolamenti militari o conseguenti all’emanazione di un ordine(37).

Va considerato anche che il carattere di fattispecie aperta delle molestie rischia di legittimare un esercizio arbitrario del potere disciplinare da parte dell’Autorità competente a comminare sanzioni. È questo un problema che la Commissione Europea - naturalmente disponendo per la generalità dei luoghi di lavoro - ha preso in esame, stabilendo che: “... ogni violazione della politica interna a tutela della dignità del dipendente sul posto di lavoro, venga trattata come un illecito disciplinare e le norme disciplinari specifichino esattamente cosa si intenda per comportamento inopportuno sul posto di lavoro”. Tale dichiarazione, oltre a sancire l’illiceità e l’inammissibilità delle molestie sessuali nel luogo di lavoro, dovrebbe mettere in luce l’impegno positivo di ogni Comandante di attuare una politica adeguata a combattere tali fenomeni, attraverso l’adozione di tutti i necessari provvedimenti correttivi. Pertanto si auspica che una compiuta revisione normativa conduca all’aggiornamento del R.D.M., codificando la fattispecie in rassegna e ricomprendendola nel citato Regolamento.


7. Conclusioni

Gli anni novanta hanno fatto registrare significative tappe nella riforma della Pubblica Amministrazione in generale e di quella Militare in particolare, interessata anche da un processo di riforma strutturale. In tali anni è stata, infatti, emanata tutta una serie di norme che hanno intaccato profondamente il previgente “modus operandi” dell’Amministrazione, stabilendo principi uniformi e regole chiare riferibili alla generalità dei procedimenti e dei provvedimenti amministrativi. I più importanti principi contenuti in tali norme possono essere così riassunti: - trasparenza dell’azione amministrativa; - individuazione di termini massimi per l’emanazione di provvedimenti; - obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi; - partecipazione ai procedimenti da parte dei soggetti sui quali il conseguente provvedimento è destinato ad incidere; - accesso ai documenti amministrativi.

L’Amministrazione Militare ha mostrato nell’attuazione delle nuove previsioni una qualche riottosità ed una certa negligenza probabilmente riconducibili, oltre che alla natura della propria organizzazione ed alla peculiarità dei compiti assolti, ad una buona dose di scetticismo nei confronti delle stesse. Il vasto contenzioso sviluppatosi ha, però, dimostrato la necessità di abbandonare schemi obsoleti, di superare forme di vischiosità con il passato e di operare raccordi con precedenti normative. A tale quadro non potevano sottrarsi l’attività ed il procedimento disciplinare, nel cui contesto, data la delicatezza della materia, viva è l’esigenza di una giusta contemperazione tra l’interesse pubblico e quello privato. Se, da un lato, è vero che l’esame di tali procedimenti porta, in linea generale, ad affermare che le principali garanzie che assistono oggi i destinatari di un provvedimento amministrativo possano trovare una certa corrispondenza nelle disposizioni che già regolamentavano i procedimenti disciplinari, è pur vero, dall’altro, che i principi oggi recepiti nelle nuove normative hanno una tale portata che i riflessi non possono non estendersi anche ad essi.

Il bisogno di attenzione per la tematica disciplinare risulta, inoltre, determinato dalla considerazione che, in tal caso, il quadro degli avvenuti mutamenti è complicato da un quasi storico disinteresse nei confronti della particolare materia, la quale non trova ancora oggi una propria dignità. Il campo di indagine prefissato ha dato modo di rilevare il superamento di carenze normative e di problemi interpretativi attraverso la predisposizione di un chiaro ed accurato complesso di regole che hanno, da un lato, meglio fissato l’azione disciplinare e, dall’altro, riequilibrato alcuni sbilanciati rapporti tra l’Amministrazione ed il singolo. I più rilevanti principi introdotti nel campo disciplinare possono essere così schematizzati: - esatta individuazione dell’attività che l’Amministrazione è chiamata a svolgere in sede disciplinare in dipendenza degli esiti di procedimenti penali; di tutta evidenza, a tale riguardo, la soluzione del problema circa il valore da attribuire alla sentenza c.d. di “patteggiamento”, oggi equiparata, ai fini del procedimento disciplinare ad una sentenza di condanna; - regolamentazione diacronica dei procedimenti disciplinari: la mancanza di tale previsione nelle “leggi di stato” determinava una disparità di trattamento tra altri pubblici impiegati ed appartenenti alle Forze Armate, nei confronti dei quali il procedimento disciplinare avrebbe potuto iniziare anche dopo un lungo periodo dall’insorgere dell’infrazione e perdurare senza l’argine di alcun termine acceleratorio o dilatorio; - individuazione precisa della funzione della contestazione degli addebiti che, puntuale e circostanziata, delimita l’oggetto del giudizio ed è diretta ad assicurare l’attuazione del principio del contraddittorio e di difesa dell’incolpato, assolvendo, quindi, a quella funzione partecipativa e difensiva cui è preordinata la comunicazione di avvio del procedimento; - assoluta irrazionalità, in tema di giudizio innanzi alla Commissione di Disciplina, del previsto divieto di esplicare il mandato difensivo in assenza dell’incolpato e, quindi, necessaria effettività dell’attività difensiva; - obbligo, nel provvedimento sanzionatorio, di una congrua motivazione, idonea a far capire le ragioni in forza delle quali l’Amministrazione si sia determinata in un certo modo. Il disegno riformatore non è però ancora completo.

Atteso, infatti, che il vero raggiungimento dell’interesse pubblico dovrebbe realizzarsi nel punto di coincidenza fra l’interesse dell’Amministrazione a perseguire i propri fini e gli interessi dei soggetti che con essa si pongono in relazione, ulteriori passi potrebbero essere mossi nel senso di: - tipicizzare gli illeciti disciplinari: si ridurrebbe, in tal modo, una discrezionalità nella potestà disciplinare in alcuni casi forse ancora troppo ampia e si contribuirebbe, nel contempo, ad eliminare numerose incertezze interpretative; - dilatare i termini, ove sono previsti 90 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare, al fine di una compiuta valutazione delle infrazioni disciplinari; - “professionalizzare” gli organi chiamati ad intervenire nel procedimento disciplinare; - riconoscere formalmente al giudicando, in sede di inchiesta, di ricusare il funzionario istruttore, al fine di assicurare la maggiore imparzialità possibile nel procedimento; - riconoscere formalmente al personale appartenente alla categoria degli Ufficiali, in sede di giudizio innanzi al Consiglio di Disciplina, il diritto di nominare un difensore ed estendere, magari, la previsione fino a ricomprendervi la possibilità per tutto il personale di avvalersi di un difensore “tecnico”. Non si può, infine, dimenticare la necessità di predisporre un testo unico attraverso il quale ricomporre un quadro normativo che si presenta al momento abbastanza disarticolato e, quindi, di difficile applicazione.

Tale quadro di situazione richiede oggi un aggiornamento del Regolamento di Disciplina Militare che, a quattro anni dall’ingresso delle donne nelle Forze Armate, non contiene ancora adeguate sanzioni per la prevenzione e punizione di eventuali fattori tipici di rischio. È attraverso tali criteri che si può ulteriormente realizzare un punto di equilibrio tra i delicati interessi in gioco, contribuendo così a limitare potenziali contenziosi e, quindi, a migliorare l’efficienza e la credibilità interna ed esterna dell’Amministrazione Militare.


(*) - Tenente Colonnello A.M., Capo Sezione trattamento economico - Stato Maggiore Difesa. (1) - Ci si riferisce in particolare alla complessiva riorganizzazione del framework militare italiano, denominato “Nuovo modello di difesa” e che dal 1997 al 2001 ha interessato tutte le articolazioni militari del Ministero della Difesa, dai vertici alle Aree tecnico-amministrativa e tecnico-operativa, all’Arma del Carabinieri, alla coscrizione obbligatoria e perfino ai compiti istituzionali delle Forze armate. In tale contesto sono stati oggetto di particolare attenzione i procedimenti amministrativi, a cui sono stati conferiti, rispetto al passato, differenti livelli decisionali in relazione all’adeguamento dei livelli gerarchici, alla rilevanza delle funzioni di comando e alle connesse responsabilità dirigenziali, contemperando - come in qualsiasi altra Pubblica Amministrazione - l’aderenza ai tre canonici momenti dell’iniziativa, dell’istruttoria e del provvedimento finale, a cui debbono necessariamente uniformarsi le generali regole dell’ordinamento. (2) - Prevista, per gli Ufficiali dagli artt. 28, 30, 32 e 73 della L. n. 113/1954 e per i Sottufficiali delle Forze Armate, dagli artt. 19, 21, 23 e 63 della L. n. 599/1954; consiste nell’allontanamento temporaneo dall’ufficio ed il venir meno dell’obbligo di disimpegnare la prestazione lavorativa. Essa determina una modificazione del rapporto di servizio, del trattamento giuridico ed economico. La punizione è inflitta per fatti di notevole gravità previa inchiesta formale e valutazione delle motivazioni a discolpa dell’interessato. La sanzione viene irrogata mediante decreto dirigenziale e deve contenere l’indicazione dei motivi che l’hanno determinata nonché la durata della stessa che non può essere inferiore a due mesi né superiore a dodici. Durante il periodo di sospensione dal servizio, lo stipendio e gli altri assegni di carattere fisso e continuativo vengono corrisposti nella misura ridotta alla metà del trattamento economico come anche per metà è computato, agli effetti pensionistici, il tempo trascorso. (3) - La rimozione dall’impiego, alla quale consegue la perdita del grado, è prevista, per gli Ufficiali, dagli artt. 70 e 73 della L. n. 113/1954 e per i Sottufficiali dagli artt. 60 e 63 della L. n. 599/1954. Spetta all’Amministrazione Militare valutare discrezionalmente se la condotta del soggetto sia stata di gravità tale da imporre la sanzione espulsiva. Invero, non ogni comportamento tenuto in violazione dei moltissimi doveri attinenti al giuramento può dar luogo alla perdita del grado per rimozione. Una ipotesi generale di applicazione della sanzione è quella in cui il militare violi, nell’assolvimento dei compiti istituzionali attribuiti alle Forze Armate, i doveri di fedeltà alle istituzioni repubblicane, attinenti al giuramento. Tali doveri sono principalmente quelli di fedeltà, dipendenza gerarchica, iniziativa, senso di responsabilità e tutela del segreto. La perdita del grado per rimozione è disposta con decreto dirigenziale. Per gli Ufficiali è necessario il previo giudizio del Consiglio di Disciplina e per i Sottufficiali della Commissione di Disciplina. Tali organi collegiali sono chiamati ad intervenire nei casi in cui il militare, in seguito alle risultanze dell’inchiesta formale, venga ritenuto responsabile di atti riconducibili ad una delle ipotesi indicate in precedenza, determinando ipotesi di incompatibilità con il proprio stato. La sanzione irrogata produce effetti giuridici ed economici dalla data del decreto ed è comminabile sia al militare in servizio attuale alle armi che a quello in congedo. (4) - Effetto immediato conseguente alla irrogazione della misura punitiva è l’anticipata risoluzione del rapporto di servizio rispetto alla naturale scadenza del termine ed il collocamento in congedo illimitato con il grado rivestito, fatta salva l’ipotesi in cui il fatto avente rilievo disciplinare sia di gravità tale da comportare il deferimento al giudizio della Commissione di Disciplina per l’eventuale perdita del grado. Trattasi di punizione avente natura espulsiva giacché determina l’estinzione del rapporto di servizio. Ulteriore conseguenza è la perdita del premio di congedamento. A seguito dell’intervento della Corte Costituzionale (sentenza 18 gennaio 1991 n. 17), richiede la previa inchiesta formale e l’eventuale deferimento al giudizio della Commissione di Disciplina: questa procedura infatti, originariamente non era prevista per legge. (5) - Questa sanzione è regolata, quanto alla durata ed agli effetti, dalle stesse disposizioni dettate per la sospensione dall’impiego, ove applicabili. La punizione consiste nella sospensione dalle attribuzioni del grado per motivi disciplinari per Ufficiali e Sottufficiali in congedo. Pertanto colui che trovandosi nella posizione di congedo, viene sospeso dalle attribuzioni/funzioni del grado, non può essere richiamato in servizio per tutta la durata della misura inflitta, né può vestire l’uniforme ed esercitare prerogative del grado nelle circostanze in cui gli sarebbe normalmente consentito. (6) - Cons.St., sez.IV, 30 ottobre 2001 n. 5888. (7) - Il giudice adotta tale formula quando manca una delle condizioni di procedibilità di cui all’art. 529 c.p.p. (es. querela, richiesta di procedimento ovvero in presenza di una causa estintiva del reato, es. amnistia). (8) - Così: Cons.St., sez. VI, 31 marzo 2000 n. 1836; sez. IV, 13 dicembre 1999 n. 1875; sez. IV, 16 aprile 1998 n. 641; sez. VI, 7 maggio 1996 n. 670; (9) - Cons.St., sez. IV 20 dicembre 2000 n. 6851; sez. IV, 2 giugno 2000 n.3156. (10) - È noto che l’applicazione della pena su richiesta delle parti è un rito alternativo al dibattimento, di natura premiale, mediante il quale imputato e pubblico ministero concordano la pena da irrogare. (11) - La sospensione del procedimento disciplinare, quando per gli stessi fatti penda procedimento penale, favorisce la coerenza dell’azione amministrativa evitando che la conclusione del procedimento penale, intervenuta successivamente a quella del procedimento disciplinare, possa provocare la revisione di situazioni già esaminate sotto quest’ultimo aspetto. (Cons.St.Sez.VI 15 aprile 1996 n. 559). 12) - Il Ministro della Difesa (rectius il Direttore Generale in virtù del D.Lgs. 29/93) che non intende seguire l‘avviso del Consiglio o della Commissione di Disciplina deve fornire, a pena di invalidità del provvedimento assunto, congrua motivazione sulle diverse conclusioni raggiunte (Cons.St.Sez.VI n.872/1992). (13) - Giova ricordare che il D.Lgs. 29/93 menziona, tra i poteri attribuiti ai dirigenti generali, quello relativo alla gestione del personale. Solo per motivi di necessità ed urgenza il Ministro può avocare a sé i poteri gestionali del dirigente. Quindi, a seguito della riforma del 1993, il Ministro, quale organo di direzione politica, esercita un’attività di indirizzo mentre ai dirigenti è riservata l’attività di gestione tecnica. (14) - Ogni atto amministrativo produttivo di effetti pregiudizievoli va notificato al ricorrente e deve contenere l’indicazione del termine e dell’Autorità cui è possibile ricorrere. (15) - La nozione di “disciplina militare” nel quadro normativo italiano non è riportata dalla legge, ma sebbene non costituisca materia di espressa delega, è reperibile solo all’art. 2, comma 1 del DPR 565/1986 (RDM). (16) - Il nuovo ordinamento disciplinare delle Forze armate, pag. 28; “Introduzione ai principi della disciplina militare” - commento di A. INTELISANO. (17) - A. INTELISANO, I diritti dell’uomo e le Forze armate in materia di sanzioni disciplinari - Atti del congresso di Fiuggi Terme - 1976, p. 68. (18) - Si pensi, tra le altre, alla previsione di soggezione al RDM sancita dall’art. 5 della L. 382/1978. (19) - Si pensi agli Statuti dei Tribunali internazionali, ai Protocolli Aggiuntivi del 1977 alle Convenzioni di Ginevra, all’art. 3 comune alle quatto Convenzioni di Ginevra del 1949, alla Carta dei diritti dell’uomo nonché alla vasta produzione di diritto internazionale umanitario che, in varie forme, regolamenta i rapporti tra parti - non necessariamente avversarie - in occasione di mancanza di strumenti giuridico-operativi di carattere speciale. (20) - G.U.C.E. n. L.49/03 del 24 febbraio 1992, I. (21) - Tra i fattori di prevenzione si annoverano: 1) una forte campagna di prevenzione, posta in essere dallo Stato Maggiore della Difesa che ha messo in guardia il personale, rispetto ai rischi di incorrere in sanzioni; 2) l’effetto novità, che come tale implica dei periodi di studio, prima di essere acquisito e normalizzato; 3) la naturale diffidenza di un mondo storicamente maschile nei confronti di un soggetto nuovo, non si sa quanto voluto e accettato; 4) la mancanza, a oggi, di una capillare assegnazione di donne di truppa nei Reparti periferici e in posizioni d’impiego più a rischio (leggasi ad esempio: turni di notte; posizioni isolate). (22) - Nel 1988 il 64% delle donne e il 17% degli uomini ha dichiarato di aver subito una qualche forma di molestia sessuale, mentre nel 1995 le percentuali scendono rispettivamente al 55% e 13%. (23) - La Repubblica, 27 febbraio 2004. (24) - “Una soldatessa su tre in servizio nelle Forze Armate danesi è stata oggetto, almeno una volta negli ultimi due anni, di approcci sessuali non graditi, una su cinque ha subito vere e proprie aggressioni e spesso non le ha denunciate”, Corriere della Sera, 15 maggio 2003. (25) - Secondo un sondaggio realizzato dal servizio del personale dello Stato Maggiore belga, nove donne soldato su dieci, avrebbero subito almeno una volta approcci verbali a sfondo sessuale dai colleghi maschi. Le allusioni sarebbero, per il 92,5% delle donne soldato belghe, “all’ordine del giorno”. Il 36% di loro ha subito molestie sessuali e una su cento è stata violentata. L’ingresso delle donne nell’Esercito belga risale al 1975 (fonte: http://www.aduc.it/leva/news/archivio- news/2000-10-13.htm). (26) - “…plus au moin le 20% des filles, membres de la communauté militaire, sont victimes d’harcélement sexuel au harcelement moral…”, Le Monde, 12 gennaio 2001. (27) - “Rapporto Rubeinstein”, 1987. (28) - Le molestie sessuali violano al tempo stesso il diritto al rispetto della dignità della persona e della libertà individuale, in particolare in campo sessuale; il diritto a non subire discriminazioni in ragione del sesso; il diritto a non venire danneggiati a causa di un ingiusto comportamento altrui; il diritto di ogni lavoratore (cui corrisponde un preciso obbligo di tutela da parte del datore di lavoro) a svolgere le prestazioni per cui è retribuito, in condizioni che non nuocciano in alcun modo alla sua salute fisica e psichica. (29) - M.CACCIARI, La ricerca sulla diffusione delle molestie sessuali sul lavoro, Adelphi - Milano 1996, p. 15. (30) - L’ordinamento francese prevede gli artt. 222-33 (molestia sessuale) e 222-33-2 (molestia morale) del codice penale e i corrispondenti artt. 122-46 e 122-49 del codice del lavoro. In entrambi i codici questi reati sono puniti con un anno di reclusione,15.000 euro di ammenda e sono addirittura esclusi dal novero delle condanne per le quali il Presidente della repubblica può, ogni 14 luglio, concedere la grazia. (31) - La Repubblica, 27 febbraio 2004. (32) - Direttiva SMA ORD 007: “Le relazioni interpersonali tra uomo e donna nell’Aeronautica Militare”. (33) - L. HOESCH, Le vittime di molestie sessuali nei luoghi di lavoro, in RIV. IT. DIR. LAV., 1995, 603. (34) - T. LAGOSTENA BASSI, L’avvocato delle donne, Mondatori, Milano, 1991, 45. (35) - REGOLAMENTO DI DISCIPLINA MILITARE, art. 36, comma 2 e 3. (36) - REGOLAMENTO DI DISCIPLINA MILITARE, art. 59, comma 4. (37) - REGOLAMENTO DI DISCIPLINA MILITARE, art. 57, comma 1.